Vincoli. Esiste una teoria spinoziana della razionalità politica?
Francesco Piro
In buona parte, devo questa revisione a un’osservazione critica
a Ulisse e le sirene mossa da un amico e da un maestro,
lo storico norvegese ormai scomparso Jeans Arup Seip:
«In politica le persone non cercano mai di legare se stesse;
il loro obiettivo è legare le altre».
È un’affermazione eccessivamente drastica, ma
la ritengo più vicina alla verità della tesi secondo cui
l’essenza del potere costituentesarebbe
il vincolare se stessi (Jon Elster, Ulisse liberato)
Il Trattato politico spinoziano si apre con una dichiarazione di riconoscenza nei riguardi dei «Politici», contrapposti ai «Filosofi». Sono stati i primi, non i secondi, a studiare quelle «arti» con le quali viene prevenuta l’umana «malizia», arti che gli uomini hanno appreso ad usare «guidati dalla paura più che dalla ragione» (TP, I, 2). Il Trattato politico spinoziano si propone di sistematizzare teoricamente queste conoscenze tecniche che i«Politici» ci hanno fornito o, come dice Spinoza stesso poco più avanti, di «dimostrare con ragionamento certo ed esente da dubbi» nonché «dedurre dalla stessa condizione della natura umana» quelle cose che «meglio si accordano con la pratica» (1).
Come intendere queste affermazioni di continuità con la tradizione empirico-tecnica dei «Politici», una categoria che include senza dubbio Machiavelli – con il quale però Spinoza ha un rapporto ben più complesso, che certamente non si riduce a questa logica – ma che include anche buona parte di quella che convenzionalmente si chiama la teoria della «Ragion di Stato»? Dobbiamo considerare il TP come un’opera che si incrive, almeno in alcune delle sue linee portanti, in questo lungo filone del pensiero politico moderno e, per dir così, ne segna un momento interno di transizione? O dobbiamo sottolineare invece il ruolo critico svolto dalla distinzione tra «paura» e «ragione» e il rovesciamento teorico ed epistemologico implicito nello sforzo di «dedurre dalla stessa condizione della natura umana» quello che negli scritti dei Politici è dettato dall’esperienza e dal bisogno di stabilire accorgimenti contro il conflitto e l’instabilità?
Che la seconda risposta sia la più attendibile può apparire addirittura ovvio alla luce di una tradizione di studi che ci ha abituato a guardare al TP come prosecuzione sul terreno della politica dell’ontologia rivoluzionaria dell’Etica, come pionieristico esperimento di pensiero «moltitudinario» e dunque come alternativa radicale alle dottrine dello Stato come potere costituito. Nondimeno, la domanda ha un senso se teniamo conto di quan- to facilmente, naturalmente, il TP potrebbe essere letto nell’ottica di una generalizzazione dei dati già acquisiti della scienza del governo proto- moderna, addirittura come una sorta di sistematizzazione del paradigma di razionalità che vi soggiace: una razionalità che non cerca di definire l’optimum assoluto, ma piuttosto le soluzioni accessibili dati i limiti della razionalità stessa. Enumeriamo i passi nei quali Spinoza sembra facilmente leggibile in quest’ottica:
Definizione del problema: la politica come rimedio ai limiti (antropologici) della razionalità. È il tema che definisce il primo capitolo dell’opera con la contrapposizione tra Filosofi e Politici, la denuncia dell’utopia, la puntualizzazione della debolezza della ragione (TP, I, 5) la finale enunciazione programmatica che occorre impedire comportamenti politicamente nefasti anche a chi sia guidato dai soli affetti – quasi un’anticipazione del modello kantiano dello «Stato dei diavoli»: «occorre che i pubblici affari siano organizzati in modo tale che gli amministratori, non importa se guidati dalla ragione o dagli affetti, non possano essere indotti a comportamenti infidi o disonesti. E per la sicurezza dello stato non ha rilevanza con quale animo gli uomini siano indotti ad amministrare correttamente, purchè lo facciano…» (TP, I, 6: Cristofolini, p. 33).
Costruzione di tutta la teoria degli obblighi politici come vincoli.
Il capitolo 2 del TP ricostruisce la nozione di obbligo partendo dalla situazione del tenere in proprio potere (sub potestate) un altro uomo: «Ha un altro in proprio potere chi lo tiene legato o gli ha tolto le armi e i mezzi per difendersi o scappare o gli ha messo paura o lo ha talmente vincolato a sé con un beneficio (sibi beneficio ita devinxit) che questi vorrà comportarsi in modo conforme a lui….» (TP, II, 10: Cristofolini, pp. 33-35). Anche quando gli uomini si uniscano (convenire) per la comune utilità, la possi- bilità sempre latente della trasgressione impone che a nessuno sia consen- tito di vivere ex suo ingenio e tutti debbano vivere ex civitatis instituto (TP, III, 3). Poiché i singoli perseguono sempre il proprio utile, per diritto di natura, e non possono cessare di farlo, gli obblighi stabiliti dalla collettività saranno rispettati soltanto se si daranno condizionamenti concreti che li rendano efficaci.
Il caso dell’autovincolo. La summa potestas non può essere vincolata da leggi (legibus adstricta), dunque l’unico limite che essa incontra è l’impossi- bilità fisica di compiere atti irrazionali o dispotici, mantenendo allo stesso tempo il rispetto e l’obbedienza dei cittadini. Ciò non vuol dire che la summa potestas non possa vincolare se stessa a evitare quei comportamenti che susciterebbero la ribellione dei sudditi. A tale scopo Spinoza introduce una distinzione tra i «decreti eterni» della summa potestas (di valore costituzionale, diremmo noi) e i decreti del momento. E qui Spinoza analizza lo stratagemma di Ulisse che si lascia legare per non ascoltare le sirene, poi considerato da Jon Elster (indipendentemente da Spinoza) come il caso esemplare di una teoria della razionalità sociale fondata sul modello dell’autovincolo (2):
Lo possiamo chiaramente spiegare con l’esempio di Ulisse. I compagni di Ulisse eseguivano i suoi ordini quando, mentre era legato all’albero della nave e rapito dal canto delle sirene, rifiutarono di slegarlo malgrado egli, con varie minacce, comandasse di farlo; e si riconosce che fu saggio, per avere poi ringraziato i compagni che avevano rispettato la sua prima intenzione. Anche i re seguono abitual- mente l’esempio di Ulisse quando raccomandano ai giudici di amministrare la giustizia senza riguardo ad alcuno, nemmeno al re, se in qualche singolo caso questi desse ordini contrari al diritto notoriamente stabilito. I re non sono dei ma uomini e spesso si lasciano rapire dal canto delle sirene. Se dunque tutto dipendesse dall’incostante volontà di uno solo, non ci sarebbe niente di stabile. E dunque perché lo stato monarchico sia saldo occorre stabilire che ogni cosa si fa unicamente per decreto regio, ovvero che ogni legge è esplicita volontà del re; ma non che ogni volontà del re sia legge… (TP, VII, 1: Cristofolini, p. 112-113).
Le passioni come meccanismi di regolazione dei comportamenti sociali. Un’altra componente del testo spinoziano è la individuazione dei modi in cui determinate passioni possono favorire la stabilità dei regimi politici. Questo elemento compare già nell’analisi del regime monarchico, quando Spinoza spiega che un’ampia partecipazione della popolazione al Consiglio è richiesta dall’umano desiderio di «gloria» pubblica (TP, VII, 6 e VII, 10). Ma la sua trattazione più intensiva si trova nel capitolo dedicato al controllo che l’aristocrazia deve esercitare sui propri membri per regolamentarne i comportamenti. In questo caso, la terapia giusta non è la concessione paternalistica di onori e trionfi ai virtuosi, che scatenerebbe soltanto l’invidia degli altri nobili, generando forme di competizione per i trionfi che si rivelerebbero dannosi per la stabilità politica. In questo caso, la passione che va incrementata è l’avidità (avaritia) che appunto funge da vincolo inibitorio rispetto ai «vizi» legati alle lunghe paci:
In conclusione quei vizi comunemente legati alla pace dei quali stiamo parlando, non vanno mai inibiti direttamente, ma indirettamente, fondando cioè lo Stato su basi tali per cui si possa ottenere non che i più si impegnino a vivere saggiamente (il che è impossibile), ma che siano guidati da quegli affetti dai quali deriva maggior vantaggio per la repubblica. Occorr dunque fare di tutto perché i ricchi siano, se non parsimoniosi, almeno avidi (avari): è fuor di dubbio che questo affetto dell’avidità (avaritiae affectus) che è universale e costante, sarà incremen- tato dall’ambizione… (TP, X, 6: Cristofolini, p. 226).
Uno Stato (Imperium) la cui prospettiva si limiti a ottenere che gli uomini siano guidati dalla paura sarà piuttosto esente da vizi che provvisto di virtù. Ma gli uomini vanno guidati in modo tale da dar loro l’impressione di non essere guidati, bensì di vivere a modo proprio e secondo proprie libere scelte: così che la loro condotta sia regolata soltanto dall’amore per la libertà, dal desiderio di aumentare le proprie sostanze e dalla speranza di essere innalzati alle cariche dello stato (TP, X, 8: Cristofolini, p. 228).
Sono due passi di estrema nettezza: Spinoza ci dice che l’Imperium (in questo caso quello aristocratico) può riuscire a regolare i comportamenti e a scoraggiare i «vizi» soltanto a condizione di potenziare artificialmente determinati affetti già inerenti alla natura umana (l’avidità lo è, secondo Spinoza). In secondo luogo, egli ci dice anche che questa capacità direttiva sarà tanto più efficace quanto più gli uomini crederanno di vivere ex suo ingenio ovvero che l’efficacia del processo di regolazione è misurata da questa sorta di cancellazione della traccia della regolazione stessa.
Come si vede, da questa veloce ricostruzione sembra emergere un assetto teorico molto preciso. Si parte dall’idea già ovvia – a partire almeno da Hobbes – che gli obblighi giuridici siano essenzialmente vincoli che limitano la possibilità di defezione rispetto alla cooperazione sociale, che è invece da considerare – come dimostra TP, II, 15 – come un bene in sé; si dà poi una spiegazione antropologica della possibilità persistente della defezione: gli affetti dai quali siamo trascinati (TP, II, 14 e passim). Questa diagnosi comporta poi una duplice terapia. Dal momento che l’inibizione degli affectus nocivi basata sulla sola punizione (il «timore») non appare adeguata a stabilizzare effettivamente la cooperazione – o almeno ha dei costi –, si propongono in aggiunta strategie premiali selettive, volte a creare affectus compatibili con l’ordine sociale, dunque a risolvere in modi migliori la tensione tra la propensione del singolo a vivere ex suo ingenio e la subordinazione alla potenza collettiva. Si tratta di assunti teorici che sembrano facilmente inscrivibili (nonostante alcune differenze locali) nella più generale tendenza del pensiero politico proto-moderno a contrapporre l’«interesse» (fattore stabilizzante) alle «passioni» (fattore destabilizzante). Almeno nel caso dell’aristocrazia in declino, le prescrizioni di Spinoza equivalgono visibilmente a quelle ben ricostruite da Hirschman nel suo saggio sul processo di legittimazione settecentesco del capitalismo (3).
In secondo luogo e più decisivamente, dal momento che l’instabilità degli affectus minaccia anche il personale dirigente – si potrebbe dire: lo minaccia maggiormente proprio perché i compiti che ora gli si attribuiscono sono più complessi – si introduce la possibilità dell’autovincolo come strumento di regolazione interna dei meccanismi dell’Imperium. È dato per ovvio che ogni Imperium è appunto un apparato (nemmeno il re della più assoluta delle monarchie assolute governa realmente da solo) e che l’apparato ha bisogno di controllare se stesso se non vuole perdere la reverentia dei sudditi e dunque mettere in discussione la propria stabilità. Dunque, la costituzionalizzazione dell’Imperium è una necessità politica: essa non nasce dal riconoscimento di «diritti imprescrittibili» degli individui, ma da semplici esigenze di funzionalità.
Infine, i due processi sembrano non solo convivere ma essere in certo senso distinguibili solo astrattamente, dal momento che gli obiettivi che vengono forniti per la soddisfazione della cupiditas individuale sono senz’altro anche modi di distribuzione del potere sociale. Dunque l’autovincolo costituzionale e la canalizzazione degli affetti appaiono come due processi intrecciati, i quali non presuppongono in partenza un soggetto unitario (un’intenzione, una volontà) ma che conducono egualmente a un consenso diffuso (concordia) e dunque funzionano come se ci fosse un’intelligenza che organizza la società. Letto a partire da questi passi, dunque, Spinoza sarebbe da considerare essenzialmente come un pensatore che ha sistematizzato una concezione tutta strategica della razionalità politica, all’interno della quale si definisce il ragionamento politico come un calcolo basato: (I) sulla previsione dei possibili obiettivi degli attori politici e delle loro strategie; (II) sulla definizione di dispositivi che intervengano su questi obiettivi (o sui comportamenti per con- seguirli) scoraggiandone alcuni e premiandone altri; (III) sull’estensione di questo modello di calcolo anche ai comportamenti di quegli attori politici che detengono la «somma potestà», così da introdurre il caso dell’autovincolo. Il terzo punto distingue certamente Spinoza da Hobbes e, più in generale, dalla letteratura politica del suo tempo, ma – nella misura in cui esso sembra logi- camente implicato in (I) e (II) – la «novità» di Spinoza sembrerebbe a questo punto abbastanza relativa. Spinoza eleverebbe il modello di razionalità definito dai «Politici» al di là dei suoi limiti storici, ma resterebbe sostanzialmente fedele ad esso e TP, I, 1, con la sua contrapposizione tra «Politici» e «Filosofi», sarebbe da interpretare come una sorta di manifesto teorico della contrapposizione ormai usuale tra razionalità «strategica» e razionalità «parametrica».
Ma è così? Qualunque lettore del testo spinoziano osserverà che, certamente, in Spinoza c’è anche questo, ma non solo questo. Ma rilevare che in un pensatore possono «convivere» linee teoriche diverse o addirittura esservi «con- traddizioni» interne è un’osservazione che, di per se, non risolve nulla. Occorre invece sforzarsi di comprendere a quale titolo il TP faccia questo tipo di ragionamenti e che cosa li renda (per usare un ossimoro) sistematicamente ambivalenti. Tenterò a questo proposito due strade. La prima passa per una lettura «contestuale» del TP – cioè inteso come intervento direttamente politico – e ipotizza che questi passi vadano interpretati alla luce del tentativo spinoziano di parlare un linguaggio accessibile alle classi dirigenti (il che implicherebbe un consapevole uso «ideologico» degli assunti che abbiamo analizzato). La seconda strada passa per l’antropologia di Spinoza che, falsificando l’idea stessa che gli affetti siano cieche forze impulsuali, ci costringe a una ridescrizione dell’intero problema in cui l’elemento portante non è più la contrapposizione tra «razionalità» stabilizzante e «affetti» destabilizzanti, ma piuttosto il fatto che contro la cupiditas degli individui e dei gruppi sociali non si può erigere alcun argine definitivamente «stabile» e che lo spazio di manovra di una politica che non voglia collassare in in un sogno da «Filosofi» (o ancor peggio in una teologia occulta) si costituisce proprio a partire da questo fatto.
Il passaggio al secondo livello di lettura parte da una difficile ma indispensabile domanda: a chi si rivolge Spinoza quando scrive il TP? L’interlocutore, infatti, non sembra essere sempre lo stesso. All’inizio del testo Spinoza, pur rilevando che la ragione non ha forza sufficiente per determinare i comportamenti né della «moltitudine» né dei pubblici amministratori (multitudinem, vel qui publicis negotiis distrahuntur), concentra sintomaticamente la sua attenzione su questi ultimi. Un Imperium stabile ha bisogno di amministratori che, qualunque sia il loro animo, siano costretti a amministrare corretta- mente (TP, I, 5 e I, 6). In questo passo, Spinoza sembra rivolgersi proprio alla «moltitudine» e il problema dei vincoli sembra essere posto nei termini delle garanzie contro l’abuso del potere delegato, un classico problema della teoria politica repubblicana o di parte «popolare» (Althusius, per fare un esempio non remotissimo).
Nei capitoli dedicati alla monarchia e all’aristocrazia, gli interlocutori sembrano essere variabili. L’esempio di Ulisse e delle sirene sembrerebbe rivolto proprio al re – più credibilmente: a partigiani della causa monarchica – per- ché vengano accettate le garanzie costituzionali come vincoli che contribuiscono alla stabilità del regno. Tuttavia, nel seguito, Spinoza spiega anche come i membri delle istituzioni rappresentative (il Consilium) dovranno tutelare le loro prerogative e da quali astuzie del monarca dovranno guardarsi, con una sistematica confutazione di tutti gli argomenti a favore dell’assoluti- smo e degli arcana imperii (in particolare da VII, 25 in poi: si veda soprattutto l’invocazione ai consiglieri a non lasciarsi trattare come pecore). Sembra difficile giustificare queste pagine in semplici termini di rigorosa osservanza delle regole ed è dunque evidente che Spinoza è tornato a rivolgersi ai cittadini-sudditi nel loro interesse.
Nei capitoli sull’aristocrazia, l’interlocutore sembra essere l’aristocrazia stessa e la regola di analizzare un regime soprattutto dal punto di vista dei dispositivi che ne permettono la stabilità sembra qui osservata con particolare rigore. Ma anche qui le prescrizioni spinoziane hanno elementi di ambivalenza. La preferenza per un regime federato di più città rispetto a un regime aristocratico con una sola città capitale è giustificata dal fatto che, in questo regime, la competizione tra le aristocrazie delle singole città forzerà ognuna di esse a portare dalla propria parte la multitudo della propria città e quindi a trattarla meglio (TP, IX, 14). Il che sembra un argomento convincente soprattutto per chi non faccia parte dell’aristocrazia stessa.
Dunque, con una certa frequenza, accade che ciò che Spinoza descrive in termini di meccanismi di stabilizzazione e di regolazione interna di un certo regime venga poi ridescritto in termini di spazi lasciati aperti alla multitudo e alla sua capacità di fare pressione sul potere costituito. L’enfasi sui vantaggi stabilizzanti delle formule costituzionali viene dunque ripercorsa a partire da un’altra ottica, quella che – potremmo dire – pone la questione della pos- sibilità di un’adeguata espressione della potentia multitudinis in situazioni date, anche se a prima vista sfavorevoli. Dobbiamo dunque considerare tutti i casi in cui Spinoza sembra parlare il linguaggio di Ulisse e le sirene come sem- plici travestimenti?
Decidendo di interpretare il TP come un intervento direttamente politico, questa linea di lettura trova elementi di indubbia convalida. Ipotizzando che, dietro un travestimento «costruttivistico», i capitoli sulla monarchia e l’aristocrazia siano proposte di riforma del modello costituzionale della Repubblica delle Province Unite – scritte in un momento in cui la crisi era ancora in corso e queste due soluzioni erano tuttora in gioco – diviene abbastanza ovvio supporre che Spinoza volesse sostanzialmente schizzare gli sche- mi di un compromesso che riuscisse a salvare gli elementi di «anomalia» pre- senti nell’esperienza politica olandese. Così alla monarchia viene delegato un compito di completa defeudalizzazione e, nel contempo, le si affiancano istituzioni rappresentative. Al contrario, nel caso dell’aristocrazia, il suo vantaggio sta proprio nella molteplicità dei centri di potere, che serve a evitare il rischio costantemente paventato da Spinoza, quello dell’«oligarchia». Ma inoltre Spinoza sembra interessato a fare proseguire la tendenza all’imborghesimento del ceto nobiliare e si spiega così l’insistenza sulla necessità che i patrizi siano capaci di provvedere da soli al proprio benessere (TP, VIII, 47; X, 6). Questa è però anche la via maestra per mantenere aperta la possibilità di una progressiva inclusione di quei newcomers o di quei «migranti» – si direbbe oggi – la cui esclusione dal potere civile è il fattore-chiave nella genesi del regime aristocratico stesso (TP, VIII, 12).
Ma, anche posto che queste siano le intenzioni di fondo di Spinoza, in quale modo esse incidono sul tessuto teorico dell’opera? Dobbiamo pensare che Spinoza adotti il modello del «soggetto politico che si autovincola» come puro artificio retorico per parlare un linguaggio accettabile a soggetti politici che – in ultima analisi – restano distanti da lui, proponendo schemi di un compro- messo accettabile per gli interessi popolari?
Io credo che si dia un elemento più di fondo che entra in gioco ed è il rapporto che Spinoza cerca di instaurare tra ciò che costituisce il tema centrale del pensiero dei «Politici» – la stabilità del regime, la sua capacità di difen- dersi dai rischi di dissoluzione – e l’intuizione centrale che si dà politica soltanto quando la potentia multitudinis non è strettamente compartimentata e chiusa in una logica omogenea e piramidale di clan. A prima vista, questi due elementi sembrerebbero restare estrinseci l’uno all’altro, così che nel discorso spinoziano sembrerebbero rientrare dalla finestra dei topoi del repubblicanesimo classico che non sono giustificati dal contesto del suo discorso. Così si verifica, per esempio, nel celebre passo nel quale l’immagine tacitiana della «desolazione» (solitudo) chiamata con il nome di «pace» viene utilizzata contro l’assolutismo:
Nessuno stato ha resistito così a lungo senza mutamenti degni di nota, come quello dei Turchi; e di contro, non ve ne sono stati di meno durevoli di quelli popolari o democratici, e dove si manifestassero tanti movimenti sediziosi. Ma se pace si devono chiamare la schiavitù, la barbarie e la desolazione, non vi è per gli uomini maggiore miseria della pace. È vero che scoppiano più numerosi e più aspri litigi tra genitori e figli, che tra padroni e servi: tuttavia non giova all’economia domestica che il diritto paterno si trasformi in dominio padronale, e che i figli siano ridotti a servi. Giova alla causa della schiavitù, non a quella della pace, che tutto il potere sia trasmesso a uno solo: la pace, come abbiamo già detto, non consiste nella mancanza di guerra, ma nell’unione, ossia nella concordia degli animi (TP, VI, 4: Cristofolini, pp. 89-91).
Il passo ha cadenze addirittura aristoteliche: la concordia – la omonoia di Aristotele (4) – come fine intrinseco della politica, la classificazione dei dispotismi orientali (i Turchi) come casi di dominium herile, la definizione della monarchia sulla base della relazione padre-figlio e non su quella padrone- servo. Ma credo che questi passi così classicheggianti non siano un «fuor d’opera» e si leghino organicamente al resto del testo, se si tiene conto dell’enunciazione che guida l’analisi spinoziana della monarchia: nemmeno il più assoluto dei re assoluti governa da solo e, dunque, ogni logica di radicale immunizzazione rispetto alle pressioni popolari ha un prezzo in termini di concessioni palesi o occulte a poteri meno visibili: cortigiani, burocrati, favoriti o favorite (a seconda dei gusti sessuali del monarca), clero, come ci informa TP, VI, 5; VI, 8. Ed è questa esatta percezione dei meccanismi oligarchizzanti che vengono innescati dalla ricerca della stabilità che permette a Spinoza di recuperare nel corso della sua analisi il tema anti-dispotico della tradizione politica classica.
Tuttavia, se le cose stanno così, dobbiamo anche concluderne che – almeno nel caso del regime monarchico – il tema della «costituzionalizzazione» ha una costitutiva ambivalenza. Dal punto di vista del monarca, esso viene pre- sentato nei termini monadologici di una procedura di auto-vincolo che procede sempre da un soggetto posto come il detentore della summa potestas. Ma appena scendiamo nel dettaglio, il re diviene un attore politico che deve sta- bilire una strategia di alleanze con altri soggetti politici già dati o sussistenti almeno allo stato di virtualità, dal momento che nessuno governa effettivamente da solo. Spinoza sembra giocare con quest’ambivalenza senza rimuoverla mai del tutto.
E in effetti, si potrebbe dire, questa ambivalenza rispecchia il tratto più fondamentale dell’ambivalenza del rapporto tra l’Imperium e la potentia multitudinis. Non appena scindiamo i due termini del rapporto cadiamo in un’illusione. Eppure, questa illusione non è semplicemente un’astrazione giuridica. La contrapposizione tra il sovrano e la moltitudine rispecchia la più generale tendenza dei singoli – dei membri della moltitudine stessa – a cogliersi come individui monadici che scelgono o subiscono: scelgono di aderire alla società, ne subiscono le regole come vincoli posti da un soggetto esterno ovvero il «sovrano». Certamente, Spinoza fa molto per sconfiggere quest’illusione. Il linguaggio del «vincolo» è crudamente fisico. I «legami» di Ulisse, ma anche degli schia- vi di TP, II, 10 sono corde o catene nel senso materiale del termine. Il termine usato normalmente da Spinoza per il vincolo legale, la adstrictio, fa pensare a una coartazione o almeno a una pressione fisica diretta.
Ma ovviamente questo linguaggio crudo resta interpretabile, se lo si vuole, nei termini di una teoria hobbesiana, nella quale l’obbligazione razionale alla pace ha bisogno di un medium materiale (il sovrano e i suoi armigeri) per diventare efficace erga omnes. Per fare capire che la tesi che sta sostenendo è diversa, Spinoza deve sottolineare costantemente l’irrazionalità presente nell’approccio di Hobbes e del contrattualismo in genere: se il vincolo è tale da ingabbiare l’individuo e impedirgli ogni passo ulteriore (eccetto, eventualmente, la fuga), allora gli individui sono stati dei folli a lasciarvisi rinchiudere; mentre se esso lascia aperto degli spiragli, allora è del tutto inutile. La prima interpretazione è ovviamente falsa dal punto di vista di Spinoza, dal momento che per lui il «diritto di natura» resta vigente eternamente e che ciascuno può vio- lare qualsiasi patto, quando abbia la potenza per farlo (5). Resta allora da capire perché poi gli individui restino mediamente fedeli ai patti, ovvero perché la potenza che hanno di fatto corrisponda spesso a quella che il diritto civile gli assegna. Forse la socialità è un bene così prezioso e naturale che la «ragione» ci porta sempre a privilegiarla rispetto a qualsiasi altro bene (6)? Spinoza sembra accettare (almeno argomentativamente) la prima delle due tesi, ma nega con forza la seconda: escludendo i pochissimi «saggi», non è la ragione – la ragione in questo senso parametrico, in questo senso forte – a regolare i comportamenti sociali. Dunque non resta che approdare alla conclusione che sono proprio gli affetti, intesi come modalità attraverso le quali le relazioni inter-individuali divengono motivanti per l’agire individuale, a costituire l’elemento «vincolante». Ma allora l’intera descrizione dell’autovincolo come controllo razionale sugli affetti futuri irrazionali è falsante perché, in realtà, ogni scelta di un dato individuo è un conflitto tra i suoi «affetti» e (al tempo stesso, senza che le due cose siano realmente distinguibili) l’elaborazione di uno schema strategico di alleanze e conflitti con altri soggetti. Il conflitto tra la ragione stabilizzante e gli affetti destabilizzanti non è che un’apparenza con la quale descriviamo il conflitto tra determinati affetti (quelli che interioriz- zano l’alleanza con determinati altri attori sociali e ci spingono a mantenere un comportamento prevedibile per essi) e affetti che esprimono altri possibi- li forme di alleanza (7). Dunque, non vi è mai un unico soggetto che «si» lega, ma vi è semplicemente un conflitto tra forze plurali che attraversa un dato corpo/mente e che viene vinto da quell’insieme di forze che è capace di modi- ficare a proprio vantaggio questo stesso corpo/mente, di alterarlo in modi tali da rendere non più ripetibile quello stesso conflitto.
Ma, per l’appunto, ciò è quanto il singolo o il gruppo omogeneo non vede di se stesso o, per meglio dire, è ciò che può cogliere soltanto attraverso il filtro deformante del resoconto teleologico: ho posto questi vincoli per tutelare le decisioni prese dal mio «vero Sé» (variante meno enfatica: le decisioni ispirate dalla prudenza, le decisioni prese in un momento di calma in cui non ero preda dei miei impulsi belluini) contro eventuali tentazioni. È da questo punto di vista che è istruttivo confrontare le posizioni di Spinoza con quelle di un attuale sostenitore dell’individualismo metodologico nelle scienze sociali come Elster. Per Elster, la teoria dell’autovincolo riesce effettivamente a spiegare molti comportamenti individuali e di gruppo apparentemente irrazionali (cioè irrazionali dal punto di vista del criterio della massimizzazione dell’utilità) ma non può essere attendibilmente applicato per le regole costituzionali, perché ciò comporterebbe la descrizione dell’intera società come un macro-individuo che si autodetermina. Dunque, Elster prende per buona la descrizione usuale dell’individuo umano come il soggetto di stati intrinseca- mente intenzionali (credenze, desideri) e capace di gettare riflessivamente lo sguardo su questi stessi stati intenzionali. Egli cerca di fondare su di essa la fedeltà dei singoli agli obblighi sociali, ma poi nega che questo stesso approccio possa essere trasferito a entità sovra-individuali (cioè a quelle che non sono «individui» nel senso di: detentore di un’autocoscienza) perché da ciò deriverebbe il «funzionalismo», ovvero una concezione teleologica del reale (8). Pertanto, i processi politico-costituzionali non costituiscono dei veri e propri casi di auto-vincolo dal momento che in politica ciascuno cerca di vincolare gli altri e non se stesso e che i padri costituenti non sono certamente «semi-dei che legiferano per bestie» (9). In questo caso, gli equilibri (eventualmente) raggiunti sembrano semmai l’effetto di quella che un tempo si sarebbe chiamata l’«eterogenesi dei fini».
Alla luce di quanto abbiamo detto, Spinoza sembra non ammettere l’esat- tezza del modello dell’autovincolo neppure a un livello micro-sociologico, e dà per scontato che esso sia sempre in ultima analisi un’illusione postuma, come lo sono in genere tutti gli stati coscienziali presi in se stessi. Per contro, è notevole che egli ci assicuri che proprio nei processi di deliberazione colletti- va si manifesta una sorta di razionalità latente che ci porta talora ad appro- dare a soluzioni alle quali «nessuno avrebbe mai pensato prima» (TP, IX, 14: «de quibus nemo antea cogitasset»). Questa possibilità è evidentemente importante nell’economia del TP, ma non è facile interpretarla. Certamente non si tratta dell’operare di una sorta di «mano invisibile» presente nelle con- tingenze storiche, né del processo di costituzione spontaneo di un organismo superiore alle forze che gli hanno dato vita. L’approccio rigorosamente anti- teleologico di Spinoza vieta entrambe queste soluzioni. Se la seconda sembre- rebbe in qualche modo inferibile dal testo a partire dal suo uso della celebre analogia della società come «corpo» – e soprattutto dalla deduzione di una corrispondente «mente» collettiva –, valgono però senz’altro tutte le riserve che Etienne Balibar fa all’inscrizione di Spinoza in una tradizione di pensiero politico «organicista», sottolineando il fatto che la mente collettiva resta costitutivamente in una logica del veluti o del quasi (10).
Eppure le osservazioni di Spinoza sulla razionalità delle decisioni collettive non sono certo riducibili a semplici esempi di «casi felici» e hanno un valore sistematico. L’unica solu- zione appropriata mi sembra essere quella di tener conto dell’importanza dei Discorsi di Machiavelli nell’economia del TP e ipotizzare che Spinoza voglia dire che i conflitti palesi e non occulti, con attori consapevoli e determinati, in certe condizioni producono un’espressione più adeguata della potentia multitudinis di quella che sarebbe pensabile a partire dalle intenzioni dei singoli attori. Dobbiamo pensare insomma che Spinoza tenga conto delle capacità adattative di questi attori e della potenza «comunicativa» che per questo motivo hanno i loro conflitti, ma queste condizioni non basterebbero ancora se non si dessero anche ragioni contingenti per cui agli attori non conviene che la società si dissolva o si scinda (di qui la ripresa dell’analogia società- corpo). Anche qui siamo rinviati al problema di come Spinoza riesca a inserire questi fili machiavelliani in una teoria politica che riprende il grande tema classico della «concordia» o della homonoia, che mi ostino a vedere come il concetto a partire dal quale risulta intelligibile il tema della una veluti mens. Detto ciò, va però notato che si dà effettivamente un caso nel quale il modello dell’autovincolo sembra assumere una maggiore attendibilità teorica – e senza il quale il nostro confronto resterebbe del tutto estrinseco. È il caso del regime aristocratico. Qui il fatto che il gruppo abbia un interesse domi- nante – mantenere il monopolio del potere contro la multitudo – implica l’esistenza di una sorta di coscienza collettiva. Ma, d’altra parte, permangono forti tratti di competizione interna al gruppo stesso. In questo caso, dunque, sembra emergere effettivamente una situazione che rispecchia la logica del- l’autovincolo: tutti stabiliscono delle regole perché nessun membro del gruppo possa definitivamente prevalere sugli altri. Il che giustifica la cura con cui Spinoza, rifacendosi a modelli classici (Roma, Venezia), moltiplica le istituzioni del regime aristocratico, ne distingue i ruoli, ne dosa gli equilibri.
Ovviamente, anche qui il testo spinoziano arriva a conclusioni che eccedono la semplice problematica delle formule di garanzia costituzionale. Il TP intende dimostrare la necessità della cooptazione dei plebei ricchi nell’aristocrazia per evitare il destino «oligarchico» e, forse ancor più fondamentalmente, intende inibire la propensione del ceto nobiliare per la guerra permanente, tanto da arrivare a ipotizzare meccanismi premiali per le decisioni favorevoli alla pace (TP, VIII, 31). Anche qui, dunque, Spinoza pone sul piatto delle scelte politiche le quali, in ultima analisi, implicano un conflitto interno all’aristocrazia e il prevalere di una specifica autodescrizione del ceto nobiliare su altre possibili (e, per Spinoza, meno desiderabili) auto-descrizioni.
Tuttavia, questo caso è sintomatico proprio perché ci impedisce di dare una lettura puramente retorico-pragmatica dei casi in cui Spinoza usa il modello dell’autovincolo. Se egli sceglie di adeguare il suo discorso a questo modello di descrizione degli attori politici è perché vi è un aspetto in cui esso ha un qualche fondamento. Per comprenderne il perché, dobbiamo entrare ancor più all’interno del testo spinoziano. Una più ambiziosa proposta di interpretazione deve partire dalla parola che apre il TP: affectus. La teoria politica di Spinoza parte dal presupposto che gli affectus umani costituiscano il centro della riflessione specificamente politica. Come abbiamo già osservato, gli affetti non sono per Spinoza cieche forze impulsuali, né sono rappresentazioni di oggetti intenzionali che producono (misteriosamente) una modificazione del corpo. Si tratta essenzialmente di modalità relazionali sussistenti tra i singoli corpi/menti le quali divengono causalmente rilevanti rispetto al conatus o all’appetitus di un singolo corpo/mente.
Che si tratti di schemi di relazione, ce lo mostra il fatto che – se andiamo al di là di quegli affetti che definiscono semplicemente le varianti tipologiche del rapporto tra il singolo corpo/mente e il suo esterno (cupidità, gioia, tristezza) – tutti gli affetti di cui più specificamente ci parla Spinoza sono relazionali (11). Il fatto che egli ci indichi come «invidia» un affetto di odio che si dà non sol- tanto quando A desidera il bene-x in possesso di B, ma anche quando teme che B gli insidi il bene-x che invece possiede, mostra per esempio che egli sta pensando essenzialmente allo schema relazionale della rivalità, piuttosto che al vissuto soggettivo dell’invidia (12). Analogamente la «gloria» è un desiderio di riconoscimento delle proprie virtù da parte degli altri individui che è sotteso a gran parte delle azioni che compiamo e che ci conduce spesso a auto-narrazioni e auto-elogi che ci rendono «molesti» agli altri (13). Perfino l’avidità, alla quale Spinoza riconosce un ruolo di affetto individuale pre-sociale, non potrebbe diventare un affetto socialmente rilevante senza un contesto che la colleghi alla gloria.
A partire di qui, la logica soggiacente al TP può divenire più chiara, se tenia- mo conto della scarsa rilevanza che in esso giocano affetti che avevano ben altra decisività nel contesto del Trattato teologico-politico, quelli che si potrebbero chiamare gli affetti «verticali»: la reverentia (i traduttori preferiscono in genere «rispetto»), la venerazione, la devozione, l’ossequio. Tutti questi affetti – si noti – hanno una radice comune, la admiratio, che Spinoza non considera come un affetto che stimola il desiderio di conoscere (come invece la «meraviglia» in Aristotele e del Cartesio delle Passions de l’âme), ma piuttosto come un semplice effetto dell’incapacità di conoscere ovvero – meno impietosamente – come la percezione di una data singolarità da parte di chi non è in grado di connetterla con la comune natura umana, così come è da lui compresa (14). Tuttavia, questo stato psichico paradossale (non è una conoscenza, ma non è nemmeno un affetto…) è sicuramente fecondissimo di affetti di importanza centrale per l’antropologia politica: l’ammirazione congiunta con l’apprezzamento per le capacità dell’altro dà luogo alla venerazione e questa, congiunta con l’amore, dà luogo alla devozione. Per contro, la reverentia presuppone la paura e l’ammirazione congiunte (15).
Nel Trattato teologico-politico, sono questi affetti a cementare le comunità politico-religiose. Anche in Etica ci viene ricordato il loro ruolo decisivo in quanto inibitori dell’invidia (Eth II, dem. cor. pr. 55). Per contro, essi hanno un ruolo ormai marginale nel TP. Non che i regimi monarchico e aristocratico possano farne a meno. Se il monarca va a spasso con le prostitute, viene meno la reverentia nei suoi confronti e nasce quella passione pericolosa – si direbbe di contrappasso rispetto alla reverentia – che è la indignatio. Anche i nobili debbono sollecitare la riverenza altrui differenziandosi fin nel vestire dai plebei, mantenendo cioè il pathos della distanza. Ma ciò che colpisce è appunto il carattere laterale di queste prescrizioni, che danno per scontato che simili affetti non sono più l’elemento cruciale per lo stabilirsi della «concordia». Si direbbe che questa scelta sia addirittura implicita nella decisione spinoziana di dedicarsi allo studio delle tre forme «classiche» di regime politico (monarchia, aristocrazia, democrazia), mettendo tra parentesi la scoperta della teocrazia come altra forma di regime politico.
Che questa scelta sia comandata dal fatto banale che l’apparire dei profeti non è prevedibile o dal fatto (meno banale) che il TTP aveva già segnalato i costi della costituzione teocratica in termini di diffusione del terribile affetto dell’odio – e infatti il TP menziona ancora l’odio tra gli affetti politicamente rilevanti, ma non ne discute più organicamente –, questa scelta ha una conse- guenza. Nel TP, non si danno più affetti che inibiscano in modo sistematico la cupiditas dei singoli. Tutti i comportamenti che non sono determinati dal timore delle punizioni mondane, vanno giustificati in termini di speranza di ottenere qualche bene altrettanto mondano. Tutta la problematica della stabi- lità dei regimi politici è dunque definita nei termini dei beni che vengono resi accessibili ai singoli e dei modi della loro distribuzione. Ma poiché il bene che la politica può attribuire non può essere che quello che essa stessa crea – cioè il potere collettivo –, ecco che le regole che vincolano il comportamento degli attori sociali per mantenere la cooperazione vengono a coincidere in modo abbastanza ovvio con le regole che organizzano la competizione tra gli attori sociali stessi per il potere. Il che è particolarmente vero per l’aristocrazia e ciò spiega perché in questo caso la descrizione dell’architettura costituzionale in termini di procedure di auto-vincolo risulti particolarmente efficace.
Ma se le cose stanno così, dobbiamo dare un senso più organico alle osservazioni che Spinoza fa sulla necessità del governo degli affetti. Quando Spinoza dice che occorre che gli uomini credano di stare agendo secondo il proprio «ingegno» anche quando obbediscono a un comando sociale occulto non sta facendo del machiavellismo deteriore. Sta semplicemente enuncian- do una necessità inerente ai regimi che sta ora studiando, cioè una condizione indispensabile per la loro stabilità, e che potremmo chiamare: la possibilità di spostamento della cupidità dei singoli su terreni neutrali o non pericolo- si per la stabilità delle istituzioni. Questo spostamento segue una logica. Esso deve rivolgersi a oggetti che siano ancora credibilmente collegati a quello che è l’oggetto di desiderio per eccellenza, cioè il desiderio di un potere che è ancora connotato «verticalmente», che ha ancora connotazioni intrinsecamente teologiche, anche se non è più «sacro» in senso letterale. Ma, per con- tro, esso deve anche rivolgersi a oggetti che non sono scarsi in assoluto, così che l’esito della competizione sia al tempo stesso una distribuzione abbastanza ampia («equa») di questi beni stessi, in modo da risolvere il problema del consenso.
In Spinoza, il più tipico di questi beni è la gloria. Come abbiamo osservato, la gloria per Spinoza può essere anche conforme alla ragione (Eth IV, pr. 58). Ma, ovviamente, quando egli afferma che le istituzioni politiche debbano tener conto di questo naturale desiderio umano, non sta pensando a questa possibilità. Egli sta semplicemente rovesciando la logica di Hobbes, che vede la nostra propensione alla «vanagloria» come uno dei pericoli più gravi per la pace sociale. Per Spinoza, questa stessa propensione può essere una fonte di saldezza delle istituzioni, se si permette ai singoli di ottenere la notorietà pub- blica attraverso l’accesso alle cariche e la partecipazione alle assemblee rappresentative. Egli sembrerebbe con ciò tornare a quell’ideologia della gloria che era tipica del repubblicanesimo classico: il desiderio di gloria come movente delle grandi azioni compiute per il bene pubblico. Ma non è così, perché il discorso di Spinoza ha un’ambiguità (si potrebbe dire la sua tipica ambiguità rispetto al repubblicanesimo classico). Consigliando al monarca di offrire le istituzioni rappresentative come luogo appropriato perché i sudditi soddisfino il proprio desiderio di gloria, egli sta senz’altro legittimando l’istanza di una partecipazione ampia alle decisioni politiche effettive. Ma, d’altra parte, ipotizzando che le istituzioni politiche possano servire da ribalta pubblica, da medium comunicativo, da terreno appropriato per lo sfogo di una propensione naturale ma non sempre razionale – cioè di un bisogno in ultima istanza pre-politico – egli sta forse iniziando a costruire quella che si potrebbe chiamare una «politica dell’immaginario collettivo» che affianca la politica reale.
Meno evidente è questa potenzialità nel discorso che Spinoza fa sull’altro impulso naturale, quello che egli chiama avaritia. Nonostante l’osservazione che il volgo vede nel denaro «il compendio di tutte le cose» (Eth IV, cap. 28), è evidente egli non vede nel benessere economico un credibile sostituto della «gloria». L’avidità può diffondersi in modo soddisfacente soltanto se il dena- ro diviene una conditio sine qua non per l’accesso alla partecipazione politica o, potremmo dire, per il riconoscimento sociale. Altrimenti, gli si preferiranno sempre il consumo improduttivo, la costruzione di reti di clientele, la ricerca dei trionfi, la guerra. Ed è proprio per distogliere il ceto nobiliare da questi sport pericolosi, che bisogna renderli avidi. Ecco perché è proprio in questo caso che Spinoza spiega che si deve inibire ai cittadini di vivere ex proprio ingenio, cioè disciplinarli. Pur appartenendo senza dubbio a un tipo di mentalità irriducibile a quella degli ideologi del doux commerce studiati da Hirschman, egli condivide almeno uno dei loro problemi di fondo – la domesticazione del ceto nobiliare – e ciò spiega le consonanze di fondo.
Vi è dunque un filo sottile ma preciso che lega lo studio delle istituzioni politiche del TP con una problematica di disciplinamento sociale. Nel contesto del TP, la reverentia nei confronti dei dirigenti dell’Imperium non è più un dato scontato. Essa deve essere trasferita sulle istituzioni più che sugli uomini e ciò è possibile soltanto se le istituzioni a loro volta garantiscono l’ambiente opportuno per lo spontaneo dispiegarsi di affetti che con la reverentia non hanno nulla a che fare. Tutto il tema dell’ordine politico si costituisce dunque a partire da questa impossibilità di inibire durevolmente la cupiditas, di metterle dei freni stabili attraverso l’uso intensivo delle passioni di ammirazione o della paura che – usata intensivamente, in forma di terrore – potrebbe produrre soltanto la solitudo, la desolazione sociale.
Eppure queste pagine aprono anche un problema ed è quello della sottile complicità che esiste tra i due poli del problema che Spinoza tratta. La persistenza della reverentia nei confronti dei dominanti o delle istituzioni e la ammissione della cupiditas nella forma della competizione ben regolata (attraverso precisi canali, con le loro regole di «gara») costituiscono semplicemente un compromesso provvisorio? O tra esse può venire a costituirsi una sorta di meccanismo circuitario, una reciproca riproduzione, dunque – in ultima analisi – una sorta di implosione? Come sappiamo bene, dopo Spinoza, un’ampia socializzazione della sfera «comunicativa» può ben coesistere con la separatezza del potere effettivo, per non parlare poi delle possibilità di sovrapposizione tra potere economico e politico. Resta dunque la curiosità insoddisfattibile di come sarebbero mai tornate in gioco simili questioni nel contesto della trattazione della democrazia.
Da un lato, infatti, la democrazia sembrerebbe costituire un polo logicamente opposto a quello costituito dalle passioni «verticali». Già in questo caso il discorso è problematico, dal momento che il TTP ci offre il precedente della teo-democrazia mosaica. Ma facilitiamoci il discorso ipotizzando che nel TP la democrazia sia definita su un piano di assoluta immanenza, come lascia supporre la definizione di essa come omnino absolutum imperium.
Ora, sarebbe assurdo associare sistematicamente questo imperium absolutum con l’optimum imperium di cui ci parlano TP II, 21 e TP V, 5 e dunque immaginarlo come un insieme di saggi che si sanno reciprocamente utili l’uno all’altro e che amano in prevalenza quei beni di natura intrinsecamente pubblica (come lo sviluppo dell’intelletto umano o il benessere della patria) che sono tipicamente amati dai saggi. Per Spinoza, la democrazia resta un tipico regime politico dobbiamo dunque supporre che i suoi cittadini siano mossi dagli affetti più che dalla ragione. Dobbiamo dunque pensare che anch’essa abbia il problema di stornare la cupiditas dei singoli e dobbiamo immaginare che anch’essa abbia il bisogno di costituire aree «neutrali» nelle quali si possa esercitare una competizione non direttamente politica. Ma, d’altro lato, se la democrazia è un regime effettivamente distinguibile dagli altri, deve esserlo perché è in grado di ritradurre ogni questione socialmente rilevante sul terreno che le è proprio, quello di una decisione collettiva che si organizza a partire da conflitti politici espliciti e non mediati in anticipo. Essa dunque dovrebbe strappare l’aura ancora teologica che hanno determinati «fini», ripoliticiz- zando conseguentemente quelle che abbiamo chiamato le aree «neutrali». Ma come si potrebbe evitare allora una logica di pura stasis, di conflitto senza soluzioni possibili?
È difficile stabilire se e come Spinoza avrebbe affrontato questi problemi. E, d’altra parte, esercitarsi a immaginare un testo mai scritto può essere un’operazione divertente, ma scientificamente poco apprezzabile. La questione evi- dentemente travalica di gran lunga le possibilità dell’analisi testuale e, come talora capita quando si legge un testo filosofico, finisce per mettere in questione il lettore stesso.
Note
1 «Sed tantum ea, quae cum praxi optime conveniunt, certa et indubitata ratione demon- strare, aut ex ipsa humanae naturae conditione deducere…» (TP, I, 4). Seguo qui – come in tutti gli altri casi in cui non viene specificato altrimenti – la traduzione offerta da P. Cristofolini in B. Spinoza, Trattato politico, Pisa, ETS, 1999 (p. 29).
2 Vedi J. Elster, Ulysses and the Sirens, Cambridge, Cambridge University Press, 1979 e 1984, tr. it. Ulisse e le sirene, a cura di P. Garbolino, Bologna, Il Mulino, 1983. Nel suc- cessivo Ulysses Unbound [Ulisse liberato. Razionalità e vincoli, a cura di P. Palminiello, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 130n], Elster confessa di avere appreso da Etienne Balibar della presenza già in Spinoza dell’esempio omerico in riferimento ai problemi della razionalità politica.
3 A. O. Hirschman, The Passions and the Interests. Political Arguments for Capitalism before its Triumph, Princeton, Princeton Un. Press, 1977 [Le passioni e gli interessi, a cura di S. Gorresio, Milano, Feltrinelli, 1979].
4 Cfr. Ethica Nicomachea, IX, 6 (1167 a 20 – 1167 b 15): per Aristotele, la omonoia è la forma specificamente politica dell’amicizia (politikh filia).
5 TP, II, 12 ci dimostra infatti che qualsiasi vincolo pattizio può essere sciolto ad libitum in termini di «diritto di natura», tesi chiaramente da collegare alla tesi che il diritto di natura continua a valere anche nello stato di società. Sul senso anti-hobbesiano e anti-contrattualista di questi passi, vi è largo accordo tra gli interpreti.
6 È stato da molti notato che la letteratura politica post-hobbesiana (Cumberland, Pufendorf, Locke) coglie effettive difficoltà interne al modello hobbesiano servendosene per restaurare l’idea di una «natura intrinsecamente sociale» dell’uomo (cfr. per esempio T. Magri, Contratto e convenzione. Razionalità, obbligo e imparzialità in Hobbes e Hume, Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 48-71). Ma va aggiunto che i nuovi modelli restano ambivalenti e aporetici proprio perché debbono ipotizzare una differenza tra il modello di socialità che sussisterebbe in interiore hominis e quello effettivamente praticabile e debbono sforzarsi inoltre di giustificarla. Cfr. il mio intervento su questo punto (in riferimento a Leibniz, ma anche a Wolff e a Ch. Thomasius) in M. Fimiani (a cura di), Philia, Napoli, La città del sole, 2001, pp. 105-124.
7 Ovviamente, non intendo dire che, per Spinoza, non si dia la «ragione», in un senso forte e impegnativo, o che essa non abbia influenza sugli affetti. Ma, nella logica del discorso di Spinoza, avere la «ragione» è avere idee adeguate e questo è l’unico senso in cui una mente possa essere «attiva» (Eth III, pr. 1-4). Pertanto avere la ragione significa avere quel potere effettivo che è la conoscenza del reale e il corrispondente aumentato grado di abilità di coordinare il proprio corpo con quelli altrui. È ovvio che chi ha idee adeguate resiste agli affetti che sono «passioni», semplicemente perché ha affetti più espressivi della sua potenza attiva, come la generosità (Eth V, pr. 4-10). Ma tutto ciò significa che chi ha la ragione è adatto alla vita associata, non che le regole che governano la vita associata nascano dalla ragione o che la esprimano o che ne favoriscano lo sviluppo. Il caso della teocrazia ebraica basterebbe già a mostrare che tutte queste ipotesi sono false. La comunicazione e la collaborazione intra-sociali favoriscono sicuramente le potenzialità razionali dell’uomo, ma pro- prio le regole della vita associata possono essere tanto «cerimoniali» da strangolare in fasce questa potenzialità. Spinoza ci mette in guardia contro queste confusioni in TP, II, 21, dove fa entrare in scena l’optimum Imperium, cioè quello che tradizionalmente i «Filosofi» chiamavano la optima Respublica (su cui vedi anche TP, V, 5): ma qui esso serve solo per ricordarci che, sebbene noi abbiamo una propensione (certamente non disprezzabile) a volere un diritto conforme alla ragione, il diritto non è fissato dalla ragione.
8 Va però notato che, nei suoi scritti ispirati al marxismo, Elster aveva sì aderito a una teoria della costruzione dello Stato basata su procedure di autovincolo degli individui, ma specificando di stare pensando piuttosto ai membri di un gruppo omogeneo (i «capitalisti») piuttosto che agli individui ut sic. Questo schema resta (a mio avviso) insoddisfacente, ma è più interessante perché dà una qualche plausibilità al presupposto di un eguale bisogno di cooperare come gruppo e di competere come individui e dunque al processo di «abdicazione» che si verificherebbe nei confronti dello Stato. Cfr. J. Elster, An Introduction to Karl Marx, Cambridge, Cambridge Universiy Press, 1986 (ristampa del 1999: pp. 143-159, 198-199).
9 J. Elster, Ulisse liberato cit., p. 244.
10 Il tema percorre tutto l’ultimo Balibar, ma si veda in particolare il saggio Potentia multitudinis, quae veluti una mente ducitur, «Quaderni materialisti» 3/4 (2004/2005), pp. 303-331.
11 Cfr. le pertinenti osservazioni su questo punto in V. Morfino, Incursioni spinoziste, Milano, Mimesis, 2002, p. 188, che propone di leggere i tre affetti fondamentali (cupidità, gioia, tristezza) come «astrazioni determinate».
12 Propongo così di leggere il plesso di diverse (e apparentemente contrastanti) indicazioni che Spinoza ci dà sull’invidia in Eth III, pr. 23 e 24 (e scolii); Eth III, sc. pr. 32; Eth III, sc. pr. 55 e corollario; Eth IV, sch. pr. 58 e poi in TP, soprattutto in VIII, 12 in cui l’«invidia» appare come la maxima difficultas per evitare la deriva oligarchica di una società in cui siano presenti i newcomers, proprio perché sono gli autoctoni a «invidiarli» (ovviamente non nel senso di desiderare di essere al loro posto!).
13 Anche qui si tratta di un plesso tematico che meriterebbe uno studio a se stante, dal momento che Spinoza sembra differenziare la gloria (che può essere non solo conforme a natura, ma anche a ragione: Eth IV, pr. 58) e l’attività del «gloriarsi» (Eth III, sch. pr. 30; Eth III, sch. pr. 37; Eth III, sch. pr. 55; Eth IV, sch. pr. 52). La questione si lega stretta- mente a quella delle modalità dell’amore di se (philautia o acquiescientia in se ipso), che può essere anch’esso irrazionale o razionale. Cfr. L. Bove, Théorie de l’amour prôpre et de l’orgueil, «Studia Spinozana» VIII (1992), pp. 69-95.
14 Eth II, sch. 1 pr. 52: «Haec Mentis affectio, sive rei singularis imaginatio, quatenus sola in Mente versatur, vocatur Admiratio…»; df. Affectuum IV: «Admiratio est res alicuius ima- ginatio in qua Mens defixa propterea manet, quia haec singularis imaginatio nulla cum reliquis habet connexionem». Nella successiva explicatio, Spinoza nega che l’ammirazione sia un affetto – non ha una causa positiva, come la hanno la cupidità, la gioia e la tristezza – ma, nondimeno, Spinoza deve ammetterne la capacità di influire sulle determinazioni specifiche dei tre affetti primari.
15 Cfr. Eth III, sch. 1 pr. 52 e Eth III, sch. pr. 55. L’analisi più dettagliata degli affetti legati all’ammirazione si trova ovviamente nel TTP, il cui capitolo XIV ci parla della fides come Dei admiratio, della devotio come affetto misto di ammirazione e amore (in Etica: di venerazione e amore), della reverentia come affetto misto di ammirazione e paura (metus: cap. XVII). In Etica Spinoza vi si sofferma meno, ma comunque enumera anche altri affetti di ammirazione (la costernazione, l’orrore), ne deduce il disprezzo e gli affetti che ne derivano come affetti di contrappasso, e sottolinea che l’enumerazione degli affetti che presuppongono causalmente l’ammirazione potrebbe continuare (Eth III, sch. pr. 52).