Verità dei bisogni e bene umano: una riflessione materialistica

di Claudio Lucchini

La rivoluzione scientifica moderna e le profonde trasformazioni del mondo sociale e culturale in cui essa si inserisce (trasformazioni culminate nella compiuta affermazione del modo capitalistico di produzione) hanno determinato il crollo della vecchia  ontologia religiosa assieme alla dissoluzione delle formazioni economico-sociali di natura feudale. Ne è derivata una fondamentale conseguenza filosofica, con la quale non possono fare a meno di confrontarsi le attuali posizioni etiche, indipendentemente dalle forme particolari (e tra loro antagonistiche) che esse vengono assumendo: la fine della teleologia intesa come categoria cosmologica universale, la credenza nella  quale può sussistere solo come anacronistica sopravvivenza teoretica (seppur utilizzabile in rinnovate costellazioni ideologiche) o come sentimento quotidiano spontaneo e irriflesso (e dunque esso pure ideologicamente strumentalizzabile). È György Lukács  a chiarire con lucidità e precisione magistrali la questione: «Mentre la causalità è un principio di automovimento riposante su se stesso, che mantiene questo suo carattere anche quando una serie causale abbia il  proprio punto di avvio in un atto di coscienza, la teleologia invece è per sua natura una categoria posta: ogni processo teleologico implica una finalità e quindi una coscienza che pone un fine […] Concepire teleologicamente la natura e la storia implica, per conseguenza, non solo che esse hanno un fine, sono dirette a uno scopo, ma anche che la loro esistenza e il loro movimento, come processo complessivo e nei dettagli, devono avere un autore consapevole. Quel che fa nascere tali concezioni del mondo […] è un bisogno umano elementare e primordiale: il bisogno che l’esistenza, il corso del mondo, giù giù fino ai fatti della vita individuale – e questi in primo luogo –, abbiano un senso. Anche dopo che lo sviluppo delle scienze aveva demolito quella ontologia religiosa in cui il principio teleologico poteva in libertà spaziare per tutto il cosmo, questo bisogno primordiale ed elementare ha continuato a vivere nel pensiero e nei sentimenti della vita quotidiana»[1].

Una volta dissoltasi la dimensione cosmologica della teleologia, diventa impossibile pretendere di rintracciare una gerarchia ordinata di valori etici nell’ambito complessivo della realtà universale, deprivata di ogni saldo fondamento razionale da cui scaturisca una trama di fini entro la quale il bene umano si definisca in armonia col bene del tutto (che, invece, non ha scopo alcuno, né un principio né un fine assoluti). Secondo quanto scrive Cesare Luporini, ogni sistema di valori non può più basarsi «su una razionalità in sé del reale», che reintroduca più o meno surrettiziamente una categoria di finalità indipendente dall’uomo, ma deve fondarsi «sul rapporto dell’uomo (attivo, pratico, sperimentante ecc.) col reale stesso. Solo in questo rapporto c’è la finalità (senza di cui niente «ordine e gerarchia di valori»!) e questa  finalità o finalismo è proprio il segno distintivo dell’intelligenza, ossia razionalità, dell’uomo e solo dell’uomo»[2].

La questione merita però di essere ulteriormente chiarita per non rischiare che la riconduzione di ogni umano valore al porre teleologico degli uomini, spogliato di un rigoroso inquadramento ontologico generale, porti alla dissoluzione relativistica di ogni posizione etica e dunque alla sostanziale equiparazione dei valori più diversi. Il pericolo, in altri termini, è che si finisca col teorizzare l’impossibilità di determinare oggettivamente e razionalmente che cosa veramente sia buono e giusto per gli esseri umani, arrivando magari al punto di respingere i concetti stessi di verità e di bene, vedendo nella caduta di tali categorie filosofiche (in tutte le loro forme) una positiva liberazione dall’opprimente rigidezza di una tradizione di pensiero che vuole imporre al corso vitale un ordine totalitario e fittizio «per dominare la pluralità della vita e tenerla sotto il controllo dell’uniformità, soffocando ogni diversità»[3]. Si pensi, a tal proposito, a come Nietzsche, un pensatore centrale per la riflessione sul nichilismo, teorizzi la necessità di una «trasvalutazione» di tutti i valori e di un «oltreuomo» che sappia accettare l’eterno riproporsi di un accadere irriducibilmente finito, aleatorio, senza scopo, facendone il luogo di esplicazione di una volontà di autoaffermazione vitale che non riconosca leggi, regole o ragioni di sorta fuori di sé[4]. «In un celebre frammento intitolato ‘Critica del nichilismo‘, Nietzsche asserisce che il nichilismo subentra di necessità come stato psicologico quando le grandi categorie con le quali si era introdotto nel mondo un principio organizzatore e si era dato un senso al divenire vengono erose dal sospetto che ad alimentarle era semplicemente l’inconscia autoillusione di cui la vita umana si serve per sopravvivere. Queste grandi categorie sono quelle di ‘fine’, ‘unità’ e ‘verità’»[5]. Diventa chiaro, allora, che non esiste alcuna struttura necessaria e immutabile che conferisca ordine e senso al divenire, lo indirizzi ad una qualsiasi meta, lo ancori ad una presunta verità. Ciò non implica, però, soltanto la negazione di una realtà soprasensibile assunta quale vero principio e vera norma del  mondo empirico, in quanto Nietzsche respinge ogni tentativo di fondare oggettivamente una trama di valori e di scopi a partire da un qualsivoglia ordinamento del reale che misconosca l’irriducibilità del moto vitale a qualsiasi legge. Il desiderio, infatti, di porre alla vita delle mete terrene che pretendano di rappresentarne la più autentica verità (una volta vanificatasi la credenza in ogni forma di trascendenza) appare a Nietzsche espressione di quel ‘nichilismo incompleto’, nel quale «rimane […] ancora operante una fede [si pensi, per esempio, al socialismo, al liberalismo, al positivismo], un ideale, un bisogno di verità»[6].

A tutto ciò Nietzsche contrappone la trasvalutazione dei valori di cui è protagonista  l’«oltreuomo» (o «superuomo»). Questi, conscio del carattere ancora metafisico di ogni sostituzione di un valore ideale con un altro, «agisce soltanto con la sua forza affermativa: egli è soltanto in quanto afferma il suo divenire. Non c’è un essere precostituito, una natura come legge, una morale che guida, uno scopo generale, una verità che comanda. Queste sono tutte forme ideologiche della paura originaria di affermare. Il superuomo ne è esente. Egli agisce, e agendo conferma che non esiste altro essere che l’affermazione della vita, la vita come invenzione, apparenza, gioco aggressivo»[7].

La convinzione che il dirompente flusso creativo della vita sia irriducibile a qualsivoglia legge, regola, unità, porta poi Nietzsche a respingere risolutamente la validità dei cosiddetti concetti universali, quello di uomo compreso. La negazione di quest’ultimo è, sul piano etico-politico, particolarmente significativa, perché strettamente legata ad essa è la severa critica nietzscheana rivolta alla pretesa affatto illusoria (e già di per sé segno di decadenza della moderna civiltà occidentale) che tutti gli uomini siano eguali. Esaminando tale aspetto del pensiero di Nietzsche, Domenico Losurdo evidenzia assai bene la correlazione esistente fra la liquidazione dei concetti generali e la ferma ripulsa dell’égalité, «la quale continua a stimolare rovinosi sconvolgimenti»: se «ogni concetto ha il torto di ‘trascurare ciò che vi è di individuale e di reale’, di ‘porre un segno di uguaglianza tra ciò che è diseguale’», del tutto privi di fondamento risulteranno «i diritti dell’uomo della rivoluzione francese proclamati in nome dell’esangue entità astratta ‘uomo’, questa ‘pallida finzione universale’. Come il concetto, anche l’égalité rivendicata dai rivoluzionari dimentica la massima nominalistica che impone: ‘Mai rendere eguale l’ineguale’»[8]. Del tutto fuorvianti appaiono allora le formule socialiste miranti a realizzare una concreta unità del genere umano o a promuovere il libero sviluppo individuale di ciascuno; nella molteplicità di esseri irriducibilmente diversi che compongono effettivamente la cosiddetta ‘umanità’, affatto priva di un «sostrato unico e immutabile nel tempo»[9], solo pochi uomini meritano il titolo di individui, quei «forti» capaci di autoaffermazione senza bisogno di regole morali o sociali sedicenti universali su cui plasmare il proprio agire: «La civiltà e il dominio presuppongono ‘un bisogno di schiavitù’ e ‘dove c’è schiavitù, gli individui non sono che pochi’. Non ha alcun senso voler appiattire in un’unica categoria individui in senso forte e strumenti di trasmissione (gli schiavi)»[10]. Ovviamente anche coloro cui propriamente compete la qualifica di individuo sono essi pure, «in realtà, una pluralità di individui», perché è insensato voler attribuire ad una sostanza comune (la vera umanità) «la grande molteplicità di azioni e comportamenti in cui si esprime una vita»[11]. Lo stesso concetto di individuo, qualora l’individualità venga intesa come dotata di un nucleo stabile e unitario, viene da Nietzsche rifiutato, in quanto l’io e i suoi fenomeni debbono sempre essere considerati come manifestazioni di costellazioni mutevoli di pulsioni, di forze affermanti o neganti la vita, il che mette in discussione la salda certezza in un’immutabile identità personale: «L’io stesso non è una costante o un’entità immobile, non ha l’aspetto statico di una certezza e la sua identificazione è sempre un problema aperto. L’io muta, diviene, si trasforma, non ha stabilità, appare, si maschera: non è mai il ‘centro’ di un pensiero. Alla ideologia della verità Nietzsche contrappone la considerazione dei fenomeni come ‘sintomi’ di forze»[12].

Richiamandosi a tali teorizzazioni nietzscheane e a quelle correnti del pensiero e della letteratura novecentesche che da esse hanno variamente tratto alimento per celebrare la proteiforme ricchezza del reale, stigmatizzando come violento e autoritario ogni ordinamento unitario del moto creativo della vita, Claudio Magris pone acutamente in luce alcuni ineludibili problemi etici che nascono dal ripudio di qualsiasi norma morale la quale voglia assurgere ad una validità universalmente umana[13]. È certamente comodo, osserva Magris, contrapporre «all’universalità, ora progressiva ora tirannica», l’apertura alle molteplici differenze, qualora ciò significhi, per esempio, ritenere «che il cattolico praticante non debba imporre il suo universale a chi non lo condivide», o qualora si identifichino «i diversi con le donne, gli ebrei e gli omosessuali e cioè con diversi che è facile difendere, perché soltanto pregiudizi superati e in via d’estinzione li oppongono all’universale umano»[14]. Ben altro, continua lo studioso triestino, è il problema che sorge quando ad essere prese in considerazione sono le «diversità che si pongono in irriducibile conflitto con il modello di umanità, un conflitto nel quale la soddisfazione dell’esigenza degli uni costituisce necessariamente violenza per gli altri e viceversa. Nel famoso film di Fritz Lang, M, l’assassino di bambine non mente quando illustra tragicamente la sua reale esigenza che lo induce a quegli atti omicidi, e l’altissimo costo che significherebbe per lui la repressione di quegli impulsi, ma d’altra parte anche il diritto di quelle bambine di non essere uccise – ossia il loro diritto di esigere la sua repressione – non è meno reale. Pure il delitto di Raskol’nikov nasce da una passione sofferta e reale; se egli ne venisse impedito, ciò significherebbe il sacrificio di una sua oscura ma autentica esigenza, e d’altronde senza quel sacrificio sono le sue vittime a venir calpestate»[15].

La rivendicazione della diversità e della trasgressione non ha insomma nessuna difficoltà ad essere accolta e ad apparire liberatoria purché si eviti il confronto «con l’autentica trasgressione: la violenza, lo sfruttamento, la prepotenza, la dominanza, la ferocia. Alla trasgressione – termine che di per sé sembra irradiare una suggestione fascinatoria – si chiede un miracoloso riscatto dei conflitti e delle pulsioni aggressive, come se la semplice presenza della sessualità potesse misticamente redimere tutto ciò che tocca, anche l’aggressività e la violenza»[16].

Non sembra, dunque, affatto illegittimo chiedersi se sia possibile concepire una posizione etica che aspiri ad un’oggettiva validità e che si confronti con le caratteristiche ontologiche essenziali della natura umana (la quale, essendo costitutivamente sociale, non può che implicare, nella definizione del problema morale, il problema della natura delle relazioni socialmente determinate entro cui sono modellati gli umani comportamenti). È certo, tuttavia, che la caduta della vecchia ontologia religiosa premoderna rende del tutto impossibile pretendere che gli scopi, le attività e i legami interpersonali caratterizzanti la vita degli esseri umani, possano essere definiti «buoni» o «cattivi» alla luce di categorie di «bene» e di «male» determinate a partire dalla realtà universale e da una presunta finalità che in essa agisca, a partire cioè dal presupposto dell’esistenza di un ordinato complesso di valori che abbia a suo fondamento una qualche assoluta razionalità.

Proprio l’esigenza di non esimersi dal cercare una fondazione oggettiva della morale, considerando al tempo stesso come l’universo non persegua scopo alcuno e sia di per sé privo di ogni attributo di valore (essendo quest’ultimo connesso ad un porre teleologico), rende per molti versi attuale la riflessione dei materialisti francesi del Settecento, pur con gli indubbi limiti teoretici in essa presenti. Nei grandi filosofi dell’Illuminismo materialistico, infatti (soprattutto in autori quali Diderot e d’Holbach), va notato anzitutto che la decisa affermazione dell’inesistenza di un finalismo cosmologico, del carattere affatto chimerico dell’idea di una provvidenza che tutto disponga per il meglio, si accompagna non già al rifiuto di ogni norma morale ontologicamente fondata, ma anzi pone capo alla ferma riproposizione di un sistema etico determinato sulla base delle reali possibilità di vita dell’uomo e degli intrascendibili limiti materiali cui gli esseri umani, integralmente prodotti dai moti necessari e senza scopo della materia, sono sottoposti. È assai significativa, a tal proposito, l’aspra polemica intrapresa da Diderot contro il medico e filosofo La Mettrie, il cui materialismo appare al padre dell’Enciclopedia – in misura invero eccessiva – affetto da inaccettabili conseguenze etiche; come ricorda Andrea Calzolari, Diderot, nella Confutazione di Hemsterhuis (1773-74), sostiene non essere affatto vero «che i materialisti si propongano di ridicolizzare le nozioni di virtù e vizio: i materialisti, rifiutando l’esistenza di Dio, fondano le idee di giusto ed ingiusto sui rapporti eterni dell’uomo con l’uomo […] Se un autore come La Mettrie ha avuto l’impudenza di farsi l’apologeta del vizio, è stato per questo disprezzato sia dai sapienti sia dagli ignoranti; oserei quasi dire, sia dalle persone oneste sia dai malvagi’»[17]. Ciò non significa certo, osserva ancora Calzolari, che Diderot (come d’Holbach o come Helvétius) accetti l’immagine dell’ «ateo virtuoso» proposta da Bayle e rimessa in circolazione, per esempio, da Rousseau tramite il Wolmar della Nouvelle Héloise; tale immagine, infatti, continua ad identificare il concetto di virtù con la virtù cristiana, mentre per i materialisti si tratta di dar vita ad «una morale antiascetica e quindi consapevolmente e coerentemente anticristiana (nonché, se ci si riferisce alla filosofia classica, antistoica)»[18].

Del tutto diversi da quelli cristiani, del resto, sono i presupposti ontologici da cui prendono le mosse i materialisti francesi, per i quali davvero «la critica della religione è il presupposto di ogni critica», secondo le famose parole del giovane Marx[19]. La negazione dell’esistenza di Dio rappresenta infatti, nel loro pensiero, il drastico rifiuto di ogni fondamento razionale assoluto della natura, la quale sia, in virtù di esso, diretta al bene delle creature e, in particolare, dell’uomo; riferendosi alla credenza in una presunta divina provvidenza, d’Holbach scrive: «Se è lei [ossia la divina provvidenza] che governa il mondo, noi la scorgiamo altrettanto occupata a distruggere quanto a creare, ad annientare quanto a produrre. Non fa perire ad ogni istante, a migliaia, quegli stessi uomini alla conservazione e al benessere dei quali si suppone sia continuamente attenta? Ogni momento essa perde di vista la sua creatura prediletta: ora distrugge la sua casa, ora devasta le sue messi, ora invade con le acque i suoi campi, ora li rende sterili con un’ardente siccità. Arma la natura tutta quanta contro l’uomo, arma l’uomo contro la sua stessa specie, quasi sempre finisce col farlo morire tra le sofferenze […] Se si indagasse senza preconcetti la condotta maligna della Provvidenza verso la specie umana e tutti gli esseri sensibili, si troverebbe che, ben lungi dal somigliare ad una madre tenera e premurosa, essa somiglia piuttosto a quelle madri snaturate che, dimenticando subito i frutti sventurati dei loro lubrici amori, abbandonano i loro figli appena nati, e, credendo che basti averli messi al mondo, li espongono privi di soccorso ai capricci della sorte»[20]. Respinta sdegnosamente una concezione provvidenzialistico-religiosa della realtà, d’Holbach non è certo disposto a considerare maggiormente degna di interesse la razionalizzazione del concetto di Dio operata dai deisti alla Voltaire; anzi, se possibile, la concezione deista del divino gli appare ancora più assurda e inesplicabile (alla luce di una razionalità saggiamente basata sulla materialità concreta dell’esperienza umana) di quelle elaborate dalla tradizione; come spiega Sebastiano Timpanaro, «Voltaire aveva detto e ridetto che il mondo presuppone Dio come l’orologio presuppone l’orologiaio. Ma l’orologiaio lavora con le mani e con strumenti di lavoro materiali, che possono essere guidati dalla sua mente proprio perché anche la mente è materiale»[21]. Ora, è questo riferimento ad una qualunque materialità che i raffinati teologi e filosofi moderni espungono completamente dal concetto di Dio (a differenza delle religioni primitive o antiche, le quali, conservando un qualche rapporto con l’agire concreto di forze naturali, erano paradossalmente più «ragionevoli», nonostante tutte le loro assurdità, del deismo settecentesco)[22], rendendo affatto inintelligibili i modi dell’operare divino: «Il Giove degli antichi, essere materiale, poteva muovere, comporre, distruggere e generare esseri analoghi a se stesso; ma il Dio della teologia moderna è un essere sterile. In conseguenza della natura che gli si attribuisce non può né occupare alcun luogo nello spazio, né muovere la materia, né produrre un mondo visibile, né generare uomini o dei. Il Dio metafisico è un artigiano senza mani; non è adatto che a produrre nebbie, sogni, follie e controversie»[23]. Quanto più si spiritualizza, quanto più si affranca illusoriamente dalla concreta esperienza degli uomini, tanto più quel Dio che dovrebbe essere l’ente supremo e garantire l’ordine della natura e la saldezza delle norme morali universali, diventa del tutto incomprensibile, cosicché la credenza in Lui non può non promuovere atteggiamenti fideistici e intolleranti, la cui perniciosità è un diretto derivato della reale insensatezza di quel principio (Dio) che si vuole difendere e diffondere. Conversando con la Marescialla di ***, nel dialogo omonimo, alla gentildonna che gli chiede come possa dimostrare che il fanatismo e l’intolleranza non sono semplici ‘abusi’ delle religioni, ma conseguenze di cui esse risultano costantemente gravide, Diderot risponde significativamente: «Non è affatto difficile: ditemi, se un misantropo si fosse proposto di rendere infelice il genere umano che cosa avrebbe potuto inventare di meglio della credenza in un essere incomprensibile, sul quale gli uomini non avrebbero mai potuto intendersi e al quale avrebbero attribuito più importanza che alla propria vita? Ora, è possibile separare dalla nozione di divinità l’incomprensibilità più profonda e la più grande importanza?»[24].

Questa radicale messa in scacco del concetto del divino consente ai materialisti francesi di affrontare con lucido disincanto, abbandonato ogni superficiale ottimismo, il grande problema che tormenta invece incessantemente il pensiero del deista Voltaire: il problema del male, della tremenda insensatezza di molte (se non di tutte) delle sofferenze che affliggono gli esseri umani. Per Voltaire si tratta di una questione assai spinosa, in quanto egli (pur con tutte le oscillazioni e le perplessità che la sua  riflessione mostra quando la considera)[25] resta per tutta la vita ostinatamente convinto dell’esistenza di un Dio supremo ordinatore dell’universo. Certamente, lo scrittore illuminista respinge con sferzante ironia (si pensi, per fare solo due esempi, al Candido o al capitolo sulle cause finali del Dizionario filosofico)[26] quel «finalismo ingenuo, che fa dell’uomo il centro e il fine dell’universo e a lui riferisce tutto, come se Dio non si fosse proposto altro, nel creare il mondo, che fare l’utile dell’uomo»[27]. In realtà, per Voltaire, l’intervento ordinatore divino nell’universo si manifesta nell’attribuire alla natura delle leggi immutabili, riflesso degli immutabili attributi di Dio: come osserva acutamente Bronislaw Baczko, «ontologicamente, la natura è [per il filosofo parigino] ciò che deve essere: in essa, Dio ha unificato l’essere e il dover-essere, l’esistenza e la norma. Nel ‘grande tutto’ ogni essere è al suo posto»[28]. L’uomo, in un contesto siffatto, non è per nulla un essere «decaduto, bisognoso di redenzione». Egli, ente finito, non può certo aspirare ad una felicità eterna che lo renderebbe simile a Dio; tuttavia, poiché «l’universalità dell’ordine naturale si manifesta anche nella natura umana», vi è negli uomini, al di là delle loro differenze individuali, «un nucleo comune […] condividiamo tutti la stessa ragione e le stesse passioni». Ora, è proprio usando nel modo più opportuno le facoltà di cui Dio li ha dotati, che gli esseri umani possono, nei limiti della condizione loro assegnata, giungere alla «felicità, [ad] un benessere a misura umana»[29].

La  fiducia voltairiana  in un ordine razionale dell’universo, in cui si rispecchi e di cui sia espressione la ragione dell’uomo, viene però duramente scossa (sebbene mai completamente scardinata, poiché l’autore del Candido, come detto, si terrà sempre lontano da ogni forma di ateismo e non abbandonerà mai, nonostante tutto, il suo cauto deismo) dal dirompente imporsi della sconvolgente realtà del male, dell’atroce insensatezza di molti dolori e molte sofferenze, cosa che pare dissolvere ogni traccia di un supremo architetto della natura. È ancora Baczko a chiarire magistralmente i termini della questione, dopo aver evidenziato l’importanza avuta dal terribile terremoto di Lisbona del 1755 (evento che, l’anno dopo, ispirerà a Voltaire il celebre Poema sul disastro di Lisbona) nello scatenare la crisi filosofica e morale del grande scrittore illuminista: «Giacché non si limita a venir pensato, il male non costituisce solo oggetto di riflessione. Esso è sempre, e in primo luogo, vissuto; ineluttabile, si insedia nella nostra esperienza, appartiene all’ordine dei fatti bruti, resiste alla ragione: al pari di un abisso tenebroso e senza fondo, non vi si può scorgere alcuna razionalità». Non vi è dubbio, per esempio, che la formazione di un sasso nella vescica sia completamente determinata dalle leggi universali attribuite da Dio alla natura, e che altrettanto corrispondenti ad esse siano i processi attraverso i quali il chirurgo, cercando di rimuoverlo, può condurre a morte il paziente: «Tutto questo è conforme ai principi e alle leggi immutabili della natura; forse, senza la formazione di quel calcolo renale, la grande catena delle cause e degli effetti sarebbe spezzata e così l’ordine dell’universo crollerebbe. Sia pure: ma perché, per soprammercato, questa pietra mi fa soffrire terribilmente? A chi, a che cosa giova la mia sofferenza, ogni dolore e sofferenza? La nostra finitezza implica la mortalità, ma perché l’uomo attende la propria fine tra affanni e tormenti? Chi potrebbe trar diletto da questo spettacolo e ricavarne una morale? […] Se il mondo è davvero ordinato razionalmente, allora l’esistenza del male rappresenta uno scandalo morale e intellettuale»[30].

L’ipotesi di una razionalità divina ordinatrice dell’universo è invece completamente rifiutata nell’ambito del pensiero materialistico. Da questo punto di vista, il male, il dolore, la sofferenza, lungi dall’essere uno scandalo, sono risultati necessari del moto della materia non diretto ad alcun fine; essi debbono essere ricondotti, dunque, alla fondamentale determinatezza materiale di tutti gli enti, uomini compresi, prodotti da una natura che esiste di per sé, agisce in virtù della propria essenza, è affatto priva, nella spontaneità delle sue operazioni, di valori e di scopi[31]. Tutto ciò che nell’universo si genera ha pieno diritto d’esistenza in quanto necessario prodotto della totalità materiale, sia che da esso conseguano effetti piacevoli per gli uomini (o per altri enti sensibili), sia che ne derivino effetti dolorosi: «L’universo non è altro che quello che può essere. Tutti gli esseri sensibili vi godono e vi soffrono, cioè subiscono movimenti che talvolta recano loro piacere, talaltra dolore. Questi effetti sono necessari: essi risultano necessariamente da cause che agiscono secondo le loro proprietà. Tali effetti mi piacciono o mi spiacciono necessariamente in conseguenza della mia particolare natura. Questa stessa natura mi costringe a evitare, ad allontanare, a combattere gli uni; a cercare, a desiderare, a procurarmi gli altri. In un mondo in cui tutto è retto dalla necessità, un Dio che non rimedia a nulla, che lascia andare le cose secondo il loro corso inevitabile, che è se non il ‘Destino’, ossia la necessità personificata? È un Dio sordo, che non può apportare alcun mutamento a leggi generali a cui egli medesimo è sottomesso»[32].

Se è dalla necessità universale, dal «Destino», che ogni cosa scaturisce, non si deve però interpretare questa affermazione di d’Holbach come se egli volesse identificare la natura nella sua globalità con una suprema razionalità, facendola coincidere con il bene per eccellenza a cui sia giustamente sacrificata la particolare felicità dei singoli enti. La natura, in altri termini, non viene minimamente ‘divinizzata’ dal materialismo francese settecentesco, e la sua rigorosa necessità, priva com’è della benché minima direzione teleologica unitaria e di qualunque fondamento razionale assoluto, viene a coincidere con la più radicale casualità, se ci riferiamo al complesso di cause ed effetti che compongono la totalità del corso naturale. Esaminando proprio il rapporto sussistente, nell’opera di Diderot, tra necessità e caso (e tale discorso vale integralmente per ogni seria e conseguente riflessione materialistica), Andrea Calzolari scrive acutamente che «se per ‘caso’ si intende una contingenza che potrebbe sfuggire al determinismo universale, non esiste caso, perché non possono esistere eventi che non abbiano una causa (efficiente) determinata. ‘Fortuito’ non è l’evento che potrebbe essere diversamente o non essere affatto, ma solo quello di cui ignoriamo le cause e la connessione con gli altri eventi, e cioè l’evento che sfugge alla nostra conoscenza e alla nostra volontà. Ma il riconoscimento del caso, in quest’ultima, corretta accezione, non è più in contraddizione con l’affermazione del determinismo, perché equivale al riconoscimento dei nostri limiti e al rifiuto di far ricorso, per spiegare ciò che non conosciamo, a una illusoria causa finale, per esempio a quella volontà divina che Spinoza aveva bollato come “asylum ignorantiae”; il caso allora non è che un altro nome del fato, persino, paradossalmente, in ambito naturale […] se [però], in natura, la concatenazione dei rapporti tra causa ed effetto costituisce una serie infinita, senza una causa prima né un fine ultimo, l’intera serie diventa un processo rigorosamente necessario, ma altrettanto rigorosamente casuale»[33].

Nell’ambito di un tale processo (contemporaneamente necessario e casuale), nel quale il rinvio a cause finali (qualora non si tratti del porre teleologico dell’uomo, peraltro sempre materialmente determinato) è solo frutto di crassa ignoranza o di stolta superstizione, non è certo possibile rintracciare una trama immutabile di essenze specifiche, espressione dell’attività creatrice e ordinatrice di una razionalità assoluta, né, di conseguenza, distinguere incontrovertibilmente tra il «normale»e l’«anormale», il «perfetto» e l’«imperfetto», in relazione ai diversi esseri via via prodotti dai moti della natura. Nella realtà, sostiene Diderot, non esistono differenze rigide, linee di demarcazione fisse fra specie e specie (come sarebbe se esse fossero generate da un’immutabile mente divina), ma «tutto è in perpetuo fluire […] Ogni animale è più o meno uomo; ogni minerale è più o meno pianta; ogni pianta è più o meno animale […] Ogni cosa è più o meno una cosa qualsiasi, più o meno terra, più o meno acqua, più o meno aria, più o meno fuoco; più o meno di un regno o dell’altro [… ] dunque non vi è essenza di un essere particolare […] No, senza dubbio, dato che non c’è nessuna qualità di cui ogni essere non sia partecipe […] ed è la proporzione più o meno grande di questa qualità che ce la fa attribuire ad un essere ed escludere da un altro […] E voi parlate di individui, poveri filosofi! […] Non c’è che un solo e grande individuo: il tutto. In questo tutto, come in una macchina, in un animale qualunque, c’è una parte che voi chiamerete così o così; ma quando darete il nome di individuo a questa parte del tutto, sarà in base a un concetto falso, come se, in un uccello, voi chiamaste individuo l’ala o una piuma dell’ala […] E voi parlate di essenze, poveri filosofi! Lasciate stare le vostre essenze»[34].

L’enfasi con cui Diderot pone l’accento su una totalità naturale in incessante movimento, in «perpetuo fluire», oltre a portarlo a negare ogni stabile differenza all’interno della natura (con qualche rischio, secondo studiosi come Timpanaro, di retrocedere ad una sorta di ilozoismo o pampsichismo)[35], ha, nel pensiero del nostro filosofo, un’altra importante conseguenza. È dalla convinzione di una continua trasformazione della natura che ha infatti origine l’intuizione diderottiana di un mutamento, nel corso del tempo, delle diverse specie (o, meglio, di ciò che viene solitamente chiamato così e non implica di per sé il riferimento ad alcuna essenza); si legga, per esempio, questo significativo brano dei Pensieri sull’interpretazione della natura: «se lo stato degli esseri è in perpetuo avvicendamento; se la natura è ancora all’opera […] tutta la nostra scienza naturale diviene altrettanto transitoria quanto le parole. Ciò che prendiamo per storia della natura è solo la storia molto incompleta di un attimo. Chiedo dunque se i metalli sono sempre stati e saranno sempre tali quali sono; se le pietre sono sempre state e sempre saranno tali quali sono; se gli animali sono sempre stati e sempre saranno tali quali sono, ecc.? Dopo aver meditato profondamente su certi fenomeni, un dubbio che forse vi si perdonerà, o scettici, non è se il mondo sia stato creato, ma se sia tale quale è stato e quale sarà»[36].

Questa concezione della natura, che riporta ogni ente ai moti incessanti di una materia svincolata da qualunque razionalità ordinatrice e, dunque, operante per forza propria al di fuori di un qualsiasi piano precostituito (e non è certo un caso che il deista Voltaire sia un fermo avversario di ogni concezione evoluzionistica)[37], rende assai improbo il compito di stabilire, attraverso un confronto tra le specie diverse e tra i differenti esseri classificati entro ciascuna di esse, quali siano, in termini assoluti, la condizione migliore e la peggiore, l’ «anomalia» e la «normalità». Nel contesto di tali problematiche, si colloca l’importante trattazione diderottiana del tema del «mostro», la quale, se da un lato ribadisce una volta ancora l’inesistenza di una finalità ontologico-naturale e di ogni concetto cosmologico di perfezione, dall’altro pone capo ad una radicale critica dell’antropocentrismo (condivisa non solo, ovviamente, da un materialista del calibro di d’Holbach, ma accettata anche da Voltaire, la cui decisa negazione del ‘finalismo ingenuo’ antropocentrico già abbiamo richiamato in precedenza)[38]. Nel Sogno di d’Alembert, Diderot, avanzando  alcune ipotesi sul processo genetico di costituzione di un organismo vivente e senziente, si trova ad osservare che in natura, «molto più spesso di quanto non si pensi si danno esempi di deformità originarie […] proprio recentemente è morto alla Charité di Parigi, all’età di venticinque anni, per i postumi di una congestione polmonare, un carpentiere di Troyes, di nome Jean Baptiste Macé, che aveva gli organi interni del petto e dell’addome in posizione rovesciata: il cuore a destra […] il fegato a sinistra; lo stomaco, la milza, il pancreas nell’ipocondrio destro; la vena-porta del fegato sul lato sinistro, mentre di solito si trova sul destro; stessa trasposizione del lungo canale degli intestini; le reni, addossate l’una all’altra sulle vertebre lombari, imitavano la figura di un ferro di cavallo. E dopo tutto ciò, ci vengano a parlare di cause finali!»[39].

Un «mostro» è anche il cieco nato di Puiseaux, la cui condizione è dettagliatamente analizzata da Diderot nella Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono. In tutta l’opera, il grande enciclopedista è ben attento a rimarcare quanto la presunta superiorità dei vedenti sui ciechi sia affatto relativa, scaturendo «dalla parzialità di un giudizio che ha dalla sua solo il maggior numero»[40]. Se ogni ente è il prodotto causalmente determinato di una totalità naturale che non persegue scopi, esso avrà pari dignità di qualunque altro essere, e la sua particolare condizione, in sé e per sé considerata, presenterà propri svantaggi e propri vantaggi. Così, ad esempio, in un cieco nato, la privazione della vista è almeno in parte compensata da un affinamento di altri sensi o di altre facoltà, del tutto inconsueto per i vedenti: «La sua memoria dei suoni è sorprendente; e i visi non si presentano a noi con maggior varietà di quella che osserva lui nelle voci, con un’infinità di sfumature che a noi sfuggono per il fatto che non abbiamo il suo stesso interesse ad osservarle […] Il nostro cieco ci dice a questo proposito che egli sarebbe da compiangere molto, privo com’è dei nostri vantaggi, e che sarebbe stato tentato di considerarci intelligenze superiori, se non avesse provato cento volte quanto gli cedessimo per altri aspetti»[41]. Quest’ultima considerazione del cieco di Puiseaux induce Diderot a svolgere una più generale riflessione circa l’insensatezza della pretesa degli esseri umani di godere, nel seno della natura, di un’oggettiva superiorità rispetto a tutti gli altri animali; nuovamente, argomentando ciò, il nostro filosofo vanifica l’idea di una gerarchia di esseri e di qualità caratterizzante ontologicamente il complesso della realtà naturale: «Questo cieco, ci dicemmo, stima se stesso quanto e più forse di noi che ci vediamo; perché dunque, gli animali, che ragionano (non c’è dubbio), valutando i loro vantaggi rispetto all’uomo, che conoscono meglio di quelli che l’uomo ha su di loro, non dovrebbero formulare un giudizio simile? Ha le braccia, si dice forse il  moscerino; ma io ho le ali. Se ha le armi, dice il leone, non abbiamo forse le unghie, noi? L’elefante ci vedrà come insetti; e tutti  gli animali, concedendoci volentieri la ragione che ci dice che avremmo gran bisogno del loro istinto, sosterranno di essere dotati di un istinto che consente loro di fare tranquillamente a meno della nostra ragione. Abbiamo un’inclinazione così violenta a sopravvalutare le nostre qualità e sminuire i nostri difetti, che quasi sembrerebbe che tocchi all’uomo fare il trattato della forza, e all’animale quello della ragione»[42].

La negazione diderottiana di ogni centralità e privilegio degli esseri umani nella natura non si ferma però qui, ma si spinge fino al punto di prospettare, in un ipotetico futuro, una terra resa completamente disabitata (uomini compresi, dunque) dallo spegnersi del sole; nel Dialogo fra d’Alembert e Diderot, facente parte del Sogno di d’Alembert, egli scrive: «Spento il sole, che ne seguirà? Le piante periranno, gli animali periranno, ed ecco la terra solitaria e muta. Riaccendete quell’astro, e all’istante ristabilirete la causa necessaria di una infinità di nuove generazioni, fra cui non oserei assicurare che, dopo secoli e secoli, le nostre piante, i nostri animali di oggi si riprodurranno o non si riprodurranno». Infatti, in un processo materiale necessario, ma anche svincolato da qualsiasi precostituito progetto cosmologico, «chi suppone un nuovo fenomeno o ricostituisce un istante passato [tutto essendo ‘concatenato nella natura’], ricrea un nuovo mondo»[43].

Il tema del «mostro», strettamente connesso, come si è visto, con la negazione di immutabili essenze specifiche, ha alcune rilevanti conseguenze sul piano etico e sociale. Proprio l’evidenza data, infatti, alla relatività di ogni distinzione tra ciò che può essere definito «anomalo» e ciò che invece può ritenersi «normale» all’interno di un insieme di individui simili (per esempio, gli uomini), induce Diderot a sottolineare le inevitabili differenze di organizzazione corporea, fisico-psichica, tra i diversi esseri umani, in conformità, del resto, con la sua tesi, precedentemente esaminata, secondo la quale ciascun singolo ente è il risultato dell’intreccio irripetibile e non preordinato di molteplici sequenze causali, aventi origine nell’ambito della totalità materiale in continuo divenire. È ovvio, allora, come Diderot, pur lungi dal sottovalutare i fattori sociali e culturali operanti nel modellamento delle personalità individuali, non possa accettare un rigido ‘determinismo ambientale’ alla Helvétius, in base al quale, per esempio, ciascun individuo potrebbe raggiungere i più rilevanti traguardi nel campo dello scibile se la sua «capacità di attenzione» fosse adeguatamente stimolata dall’intero processo della vita sociale: si legga, a scopo esemplificativo, il seguente brano, tratto dal capolavoro di Helvétius, Dello spirito: «Il problema della maggiore o minore facilità di attenzione può dunque risolversi senza ricorrere al mistero dell’ineguale perfezione degli organi che la producono. Ma, pur ammettendo a tal riguardo una certa differenza d’organizzazione tra gli uomini, io sostengo che, supponendo in essi un desiderio vivo di istruirsi […] nessuno di loro risulterà privo della capacità d’attenzione necessaria ad eccellere in un’arte. Infatti, se il desiderio della felicità è comune a tutti gli uomini, se ne è anzi il sentimento più vivo, è ovvio che per ottenere quella felicità ognuno farà sempre tutto ciò che è in suo potere di fare […] Egli farà uso di quella capacità d’attenzione allorché, per la legislazione del suo paese, per sua personale propensione o per l’educazione ricevuta, la felicità costituirà per lui il premio dell’attenzione»[44]. Respingendo questa eccessiva fiducia nella natura esclusivamente socio-culturale delle differenze morali ed intellettuali riscontrabili tra gli uomini, Diderot sottolinea invece come la diversità di costituzione fisico-psichica individuale rappresenti un ulteriore, rilevante fattore di differenziazione, ed imputa ad Helvétius l’indebita sottovalutazione di esso: «Egli [cioè Helvétius] dice: Il carattere dipende interamente dalle circostanze. Dite: Credo che lo modifichino. Egli dice: Si può dare all’uomo il temperamento che si vuole; e qualunque sia quello che ha ricevuto dalla natura, non ha per questo più o meno attitudine al genio. Dite: Il temperamento non è sempre un ostacolo invincibile al progresso dello spirito […] Egli dice: Tutti gli uomini comunemente bene organizzati sono egualmente adatti a tutto. Dite: A molte cose […] La buona o cattiva organizzazione costituisce tra gli uomini una differenza che forse niente potrebbe colmare. Gli anatomisti, i medici, i fisiologi ve lo dimostreranno con un numero infinito di fenomeni: aprite le loro opere, e vedrete che questa molla, qualunque essa sia, di tutte le nostre operazioni intellettuali soffre in modo quasi miracoloso della minima alterazione che sopraggiunga nel resto della macchina: vedrete un leggero accesso di febbre dare dello spirito o rendere stupidi […] Voi non pensereste che non nasca quasi nessun uomo senza qualcuno di questi difetti di organizzazione, o che il tempo, il regime, gli esercizi, le pene e i piaceri non tardano ad introdurli in noi; e non persistereste nell’opinione o che la testa non ne sarà affetta, o che questa affezione sarà senza conseguenze per la combinazione delle idee, per l’attenzione, per la ragione e per il giudizio»[45].

Non solo gli individui affetti da congenite malformazioni si distinguono, dunque, dal resto degli uomini, ma ogni singolo essere umano si differenzia da ciascun altro in virtù della sua originaria costituzione corporea. Indubbiamente, ognuno è sottoposto ad un processo di plasmazione sociale che lo modifica, ma, come dice assai chiaramente lo stesso Diderot nel brano appena citato, tale processo non è privo di limiti nella sua azione. Una probante testimonianza del condizionamento biologico con il quale deve confrontarsi l’opera educatrice della società (di ogni società) è offerta dal personaggio del nipote di Rameau, protagonista eponimo di uno splendido romanzo filosofico diderottiano; in un passo particolarmente illuminante, il «nipote» afferma la sua totale indifferenza nei confronti delle «bellezze morali», spiegandone la ragione non solo con le sollecitazioni provenienti da un ambiente corrotto, ma anche con la resistenza opposta ad ogni modellamento moralizzante dal suo temperamento naturale poco propenso ad adeguarsi agli obblighi imposti da un comportamento virtuoso: «Evidentemente, per esse [per le ‘bellezze morali’ appunto] vi è un senso che io non possiedo, una fibra rallentata che si ha un bel pizzicare: non vibra; o forse è perché ho sempre vissuto con buoni musicisti e con pessima gente, ragion per cui l’orecchio si è raffinato, mentre il cuore s’è fatto sempre più sordo. E poi, è anche una questione di sangue. Il sangue di mio padre e quello di mio zio sono lo stesso sangue; il mio è quello di mio padre: la molecola paterna era dura e ottusa, e questa maledetta molecola prima si è assimilata tutto il resto»[46].

La messa in rilievo delle differenze fisio-psichiche individuali e il rifiuto (materialisticamente argomentato) di considerare onnipotente l’opera dell’educazione socio-culturale, non comporta però affatto che Diderot respinga ogni determinazione oggettiva (e universale, se tale termine si intende riferita soltanto alla generalità degli esseri umani) della distinzione tra ciò che è «giusto» e ciò che è «ingiusto», tra un comportamento «virtuoso» e uno «vizioso»; al contrario, si è già visto come egli stigmatizzi duramente i materialisti alla La Mettrie, che gli paiono deviare verso un pericoloso amoralismo. Ciò nonostante, sembrerebbe che la drastica negazione di ogni immutabile essenza specifica, evidenziando la pluralità dei temperamenti e delle inclinazioni dei singoli, debba condurre il discorso di Diderot ad una negazione altrettanto recisa di ogni modello normativo di umanità, con conseguenze etiche e sociali assai simili (seppur diversamente argomentate) a quelle, in precedenza accennate, di un Nietzsche. Non è così. In Nietzsche, infatti, la distinzione tra «forti» e «deboli» si radica nel ripudio di una comune sostanza umana, a sua volta inserito in una più generale prospettiva filosofica che respinge qualunque idea di legge, di struttura, di norma, cui il flusso vitale universale debba adeguarsi. La volontà di potenza è una volontà di autoaffermazione che esclude ogni normatività esterna a sé, la quale pretenda di valere come regola del suo esplicarsi.

Ora, in Diderot, l’accentuato rilievo dato alle differenze individuali non esclude per nulla che, all’interno di ogni classe (sia pur non rigidamente definibile) di esseri dotati di una struttura corporea simile (somiglianza che consente a due uomini di essere definiti tali), siano riscontrabili esigenze, necessità, bisogni affini, i quali affondano in ultima analisi le loro radici in una comune materialità: questa rende la gamma dei possibili comportamenti e dei loro effetti racchiusa entro i limiti ontologicamente invalicabili di ciò che quegli esseri possono effettivamente fare e patire in base alle proprietà e alle leggi della materia di cui essi stessi sono un prodotto. Da qui, il necessario connettersi delle azioni umane con le conseguenze che esse hanno sia sull’organismo fisico degli individui, sia sull’ambiente esterno; da qui, posta la costitutiva debolezza degli uomini (di tutti gli uomini, al di là delle loro differenze di singoli) rispetto alla natura in cui sono immersi, la necessità inderogabile del legame sociale e, dunque, l’esigenza di un agire che lo preservi e lo rafforzi, alla luce degli scopi per i quali tale legame è sorto.

È opportuno porre l’attenzione su un’altra notevole conseguenza etica implicita nel rilievo dato da Diderot alle diversità di organizzazione fisio-psichica dei singoli esseri umani: tale convinzione diderottiana, infatti, contribuisce a rendere altamente problematica l’idea di una comunità perfetta di uomini e donne, del tutto priva di conflitti e contrasti. «Il margine di incomprensibilità reciproca»[47] derivante inevitabilmente dalla varietà dei temperamenti individuali, se da un lato non annulla affatto la giusta esigenza di ricercare la miglior forma possibile di società (ricerca avente origine dalla comune fragilità materiale degli esseri umani, dalla loro condizione di enti bisognosi dell’aiuto altrui per soddisfare al meglio la propria costitutiva tendenza al piacere e alla felicità), dall’altro nega a qualunque tipo di formazione sociale l’attributo di un’intangibile perfezione, distrugge la pretesa mitica e irrealistica di realizzare un’integrale comunicazione armoniosa tra tutti i membri del consorzio civile, senza più tensioni o minacce di lacerazioni. Le differenze individuali, in effetti, aventi anche una matrice biologica (da non sopravvalutare, certo, ma neppure da considerare affatto ininfluente), possono, a certi livelli di sviluppo qualitativo e in ogni forma di società, produrre un irriducibile divario tra taluni comportamenti di singoli uomini e ciò che la coscienza morale (socialmente formatasi) della grande maggioranza degli individui definisce «bene». Questo «male» (per esempio, l’omicidio compiuto per pura efferatezza), se non è così qualificabile in base allo spontaneo agire di pulsioni naturali che non conoscono né ammettono categorie morali, può legittimamente essere giudicato tale in relazione a ciò che la similarità di organizzazione corporea degli esseri umani (la quale non è mai, appunto, una perfetta identità), i loro bisogni affini, gli obblighi della vita sociale (indispensabile per soddisfare adeguatamente le necessità degli uomini), consentono di determinare come «bene». A un livello qualitativamente inferiore poi, e nonostante quelle fondamentali somiglianze fisio-psichiche che rendono possibile il rapporto sociale interumano, le differenze tra i singoli agiranno comunque, anche nella più auspicabile delle società, nelle relazioni quotidiane, e ciò comporterà la possibilità costante di screzi, tensioni, conflitti più o meno rilevanti sul piano personale e collettivo. In altri termini, la più ampia e ricca forma possibile di comunicazione tra gli individui (del tutto legittimamente perseguibile) deve essere pensata, alla luce della miglior riflessione materialistica, in una dimensione di radicale finitezza materiale, e dunque non può in alcun modo venir concepita come una sorta di mirabile, intangibile armonia. Essa sarà certamente facilitata, in una società organizzata proprio per renderla praticamente operante, dall’abitudine, dall’educazione e dalle leggi, ma non potrà mai essere garantita una volta per tutte e vivrà solo entro i limiti di ciò che agli esseri umani è effettivamente accessibile.

Claudio Lucchini


* Viene di seguito pubblicata la parte iniziale di un più ampio scritto concernente il problema della determinazione materialistica del concetto di bene umano, in cui, anzitutto alla luce della filosofia dei maggiori pensatori materialisti francesi del Settecento, si mostra come la radicale negazione di ogni fondamento razionale assoluto della natura e di qualsivoglia categoria cosmologica universale di finalità non ponga necessariamente capo alla relativistica equiparazione di qualunque posizione etica o alla dissoluzione nichilistica del problema morale, ma divenga, negli autori in questione, interrogazione appassionata circa le più alte forme concepibili di realizzazione personale (quelle, cioè, corrispondenti al ‘vero’ piacere e alla ‘vera’ felicità) sulla base delle reali, oggettive possibilità d’essere degli individui umani (indagine che sarà sviluppata e approfondita nell’ambito della più significativa tradizione marxista). Le pagine riportate, oltre a delineare talune problematiche di fondo del saggio, sono dedicate soprattutto ad illustrare lo sfondo ontologico generale a partire dal quale si articola la riflessione etica di d’Holbach e di Diderot.

[1] G. Lukács, Per l’ontologia dell’essere sociale, a cura di A. Scarponi, Roma, Editori Riuniti, 1981, vol. II, p. 20.

[2] C. Luporini, Marxismo, neopositivismo e altre cose, «Il contemporaneo» 2 (1959), p. 12.

[3] C. Magris, L’anello di Clarisse, Torino, Einaudi, 1999, p. 5. Cfr. anche, su tali temi, G. Vattimo, La fine della modernità, Milano, Garzanti, 1998 e La società trasparente, Milano, Garzanti, 1989.

[4] Per questa interpretazione dell’‘eterno ritorno’, cfr. quanto scrive Salvatore Natoli: «L’eterno ritorno è l’identità, è l’identico che torna: detto altrimenti: in ogni accadimento che accade torna appunto l’accadere. La pienezza dell’accadimento, come pienezza dell’attimo, giustifica l’esistenza di ogni attimo nonostante l’aleatorietà che lo consegna alla caduta. La comprensione di ogni determinazione o, come si diceva un tempo, di ogni entità come accadimento equivale appunto alla comprensione che ogni determinazione coincide e non può non coincidere che con la stessa eventualità. Ma comprendere il mondo come eventualità, vale a dire come divenire, significa comprendere ogni evento, e perciò ogni determinazione, come del tutto casuale nel suo venire all’esistenza […] L’eterno che torna non è nulla più che il rinvenire dell’accadere nell’accadimento che accade, qualunque sia l’accadimento. L’eterno ritorno resta indeterminato nel contenuto, ma rende possibile pensare la serie indeterminata e imponderabile degli accadimenti nella forma unica e perciò ritornante dell’accadere» (S. Natoli, I nuovi pagani, Milano, Il Saggiatore, 1995, pp. 78-79).

[5] F. Volpi, Nichilismo, in La filosofia, a cura di P. Rossi, Torino, UTET, 1995, vol. IV, pp. 327-328.

[6] Ivi, p. 329.

[7] F. Papi, Le esperienze filosofiche nella cultura dell’Ottocento e del Novecento, in M. Vegetti, F. Alessio, R. Fabietti, F. Papi, Filosofia e società, Bologna, Zanichelli, 1982, p. 345.

[8] D. Losurdo, Nietzsche e la critica della modernità, Roma, Manifestolibri, 1997, p. 41.

[9] Ivi, p. 43.

[10] Ivi, p. 40.

[11] Ivi, pp. 42-43.

[12] F. Papi, Le esperienze filosofiche nella cultura dell’Ottocento e del Novecento cit., p. 342.

[13] Si legga, tra gli altri, a proposito della negazione di ogni modello normativo di umanità, questo interessante brano dell’ Anello di Clarisse: «Nel suo libro I diversi  Hans Mayer, quasi riecheggiando Stirner, rimprovera all’illuminismo, alla sua ragione progressiva e liberatrice, di aver mirato alla libertà dell’Uomo, di un modello universale obbligatorio per tutti, misconoscendo le diversità degli uomini – le anomalie, le deviazioni e le mostruosità dei singoli individui, il loro diritto a quella mostruosità o, come diceva Nietzsche,  alla loro follia. All’uomo faustiano ed alla tromba del Fidelio, che annuncia una libertà universale per un ideale uomo universale e positivo, si oppone l’individuo di Strindberg, il quale afferma la sua esigenza di negatività abnorme, di trasgressione, dissonanza, perversione e infamia» (C. Magris, L’anello di Clarisse cit., p. 25).

[14] Ivi, p. 26.

[15] Ibidem.

[16] Ivi, p. 27.

[17] A. Calzolari, Introduzione a D. Diderot, Jacques il fatalista, Milano, Mondadori, 1995, p. XX.

[18] Ibidem.

[19] K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in La questione ebraica e altri scritti giovanili, trad. it. di R. Panieri, Roma, Editori Riuniti, 1978, p. 87.

[20] P.T. d’Holbach, Il buon senso, a cura di S. Timpanaro, Milano, Garzanti, 1985, p. 42.

[21] S. Timpanaro, Introduzione a P.T. d’Holbach, Il buon senso cit., p. XLI.

[22] Cfr., per esempio, ivi, capitolo 24.

[23] Ivi, pp. 21-22.

[24] D. Diderot, Conversazione di un filosofo con la Marescialla di ***, in D. Diderot, L’uomo e la morale, a cura di V. Barba, Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 121. Una buona antologia, sul tema dell’origine della religione nel pensiero materialistico settecentesco, è l’opera di A. Minerbi Belgrado, Materialismo e origine della religione nel ‘700, Firenze, Sansoni, 1977.

[25] Cfr. S. Timpanaro Introduzione a P.T. d’Holbach, Il buon senso cit., pp. XLVI-LIV.

[26] Cfr. Voltaire, Candido ovvero l’ottimismo, trad. it. di P. Bianconi, Milano, Rizzoli, 1974 e Dizionario filosofico, a cura di M. Bonfantini, Torino, Einaudi, 1995 (si veda, per esempio, la voce «Fine, cause finali», alle pp. 208-210).

[27] M. Moneti Codignola, Introduzione a Voltaire, Opere filosofiche, Firenze, La Nuova Italia, 1996, p. XXVIII.

[28] B. Baczko, Giobbe amico mio. Promesse di felicità e fatalità del male, trad. it di P. Virno, Roma, Manifestolibri, 1999, p. 30.

[29] Ivi, pp. 30-31. Per quanto riguarda la piena accettazione delle passioni umane da parte di Voltaire e, più in generale, per ciò che attiene al suo rifiuto di considerare la vita terrena dell’uomo come eticamente inconsistente e destinata alla disperazione senza il conforto della religione cristiana, si veda la dura polemica antipascaliana contenuta nelle Lettere filosofiche, in Voltaire, Scritti politici, a cura di R. Fubini, Torino, UTET, 1978, pp. 318-347.

[30] B. Baczko, Giobbe amico mio  cit., pp. 46-48.

[31] Cfr., per esempio, le limpide formulazioni di P.T. d’Holbach in Il buon senso cit., p. 30, e in Sistema della natura, a cura di A. Negri, Torino, UTET, 1978, pp. 105-106. Sul tema delle differenze qualitative delle diverse parti della materia, cfr. anche l’importante pensiero LVIII in D. Diderot, Pensieri sull’interpretazione della natura,trad. it di P. Quintili, Roma, Armando, 1996, pp. 104-105.

[32] P.T. d’Holbach, Il buon senso cit., pp. 44-45.

[33] A. Calzolari, Introduzione a D. Diderot, Jacques il fatalista cit., pp. XIII-XIV.  Il carattere materialmente determinato dei processi della natura unito alla contemporanea assenza in essi di un progetto unitario e finalizzato, è stato in anni non lontani teorizzato (con riferimento all’evoluzione delle specie) dal grande studioso di genetica Françoise Jacob. Con molta acutezza egli afferma che lo svolgersi dell’evoluzione, pur sottoposto rigorosamente ai «vincoli imposti ad ogni organismo vivente», non può affatto paragonarsi all’agire di un ingegnere, il quale lavora secondo un piano accuratamente predisposto, utilizzando materiali e strumenti appositamente selezionati, ma deve piuttosto essere considerata somigliante alle modalità di comportamento di un bricoleur: «Se si vuol giocare con i paragoni, bisogna dire che la selezione naturale opera non come un ingegnere ma come un bricoleur, il quale non sa esattamente che cosa produrrà, ma che recupera tutto quello che trova in giro, le cose più strane e diverse, pezzi di spago o di legno, vecchi cartoni che potrebbero eventualmente fornirgli del materiale: insomma un bricoleur che utilizza tutto ciò che ha sotto mano per farne qualche oggetto utile. L’ingegnere si mette all’opera solo dopo aver riunito i materiali e gli strumenti che servono esattamente al suo progetto. Il bricoleur, invece, si arrangia con gli scarti. La maggior parte delle volte, gli oggetti che produce non fanno parte di un progetto più generale, ma sono il risultato di una serie di avvenimenti contingenti, il frutto di tutte le occasioni che gli si sono presentate per arricchire la sua raccolta di cianfrusaglie. Come ha sottolineato Claude Lévi-Strauss, gli strumenti del bricoleur, contrariamente a quelli dell’ingegnere, non possono essere progettati in anticipo. I materiali di cui dispone non hanno una destinazione precisa. Ciascuno può essere utilizzato per cose diverse. Questi oggetti hanno in comune soltanto il fatto che ‘potrebbero sempre servire‘. A che cosa? Dipende dalle circostanze» (F. Jacob, Evoluzione e bricolage, trad. it. di D. Garavini, Torino, Einaudi, 1978, pp. 17-18).

[34] D. Diderot, Il sogno di d’Alembert, Palermo, Sellerio, 1994, pp. 48-49.

[35] Si consideri, per esempio, quanto scrive Timpanaro nella già menzionata introduzione al Buon senso, affrontando l’esame della riflessione materialistica settecentesca sull’origine della materia vivente e della sensibilità: o ci si fermava «a un meccanicismo semplicista (a una negazione o sottovalutazione del ‘di più’ che il vivente ha rispetto all’inorganico), o [si ricorreva] a varie forme di vitalismo: le ‘molecole organiche’ esistite da sempre, e gli animali superiori, fino all’uomo, concepiti come ‘colonie’ di animaletti; oppure la materia inorganica, la ‘pietra’, anch’essa dotata di vita, di energia, di sensibilità latente. Per questa strada si finiva col ritornare alla divinizzazione o animazione di tutta la natura (ilozoismo, pampsichismo) […] una visione del mondo certamente ‘empia’ dal punto di vista dell’ortodossia cristiana, ma tuttavia anch’essa religiosa, panteistica. Diderot oscillò continuamente (anche nel corso di una stessa opera, anche in quel Colloquio fra Diderot e d’Alembert seguito dal Sogno di d’Alembert che è per certi aspetti il suo capolavoro in fatto di filosofia della natura, e che, pur rimasto allora inedito, fu letto largamente nella cerchia dei suoi amici) tra simili tentazioni panteistiche e l’idea, anch’essa tuttora troppo schematica ma molto più ricca di futuro, che una crescente complessità di ‘organizzazione’ potesse spiegare il passaggio dall’inorganico al vivente, dal vivente al pensante […] d’Holbach non volle correre questi rischi. Di qui (non dalla ‘rozzezza’ della quale lo si è così facilmente accusato) la sua estrema cautela, e infine la sua rinuncia, a impegnarsi in una delle tante teorie alle quali abbiamo accennato. Queste teorie egli evidentemente le conosce: ma già nel Sistema della natura, dopo aver elencato, in forma interrogativa, varie ipotesi, tutte ben inteso antiteologiche, sull’origine delle specie animali e dell’uomo, conclude che, dal punto di vista materialistico, ‘tutti questi quesiti sono indifferenti per ciò che riguarda la sostanza del problema’ [ossia che, in qualunque caso,] il soggetto della sensibilità e del pensiero umano non può essere inesteso e immateriale» (S. Timpanaro, Introduzione a P.T. d’Holbach, Il buon senso cit., pp. XXXII-XXXIII). Per quanto concerne le diverse ipotesi diderottiane richiamate da Timpanaro, cfr. D. Diderot, Il sogno di d’Alembert cit., pp. 9-11, 21-23, 31-32 e 38.

[36] D. Diderot, Pensieri sull’interpretazione della natura cit., p. 106. Cfr. anche D. Diderot, Il sogno di d’Alembert cit., p. 40. Per quanto riguarda il sorgere, nella scienza del ‘700, dell’idea di una storia della natura e di un’evoluzione delle specie viventi, si vedano le pagine dedicate a Buffon in G. Preti, Storia del pensiero scientifico, Milano, Mondadori, 1975, pp. 254-256.

[37] Cfr. B. Baczko, Giobbe amico mio cit., p. 31.

[38] Si veda la decisa negazione holbachiana dell’antropocentrismo nello splendido «Racconto orientale» contenuto in P.T. d’Holbach, Il buon senso cit., pp. 87-88.

[39] D. Diderot, Il sogno di d’Alembert cit., pp. 59-60.

[40] M. Brini Savorelli, Introduzione a D. Diderot, Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono, Firenze, La Nuova Italia, 1999, p. XXIV.

[41] D. Diderot, Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono cit., p. 11.

[42] Ivi, pp. 11-12.

[43] D. Diderot, Il sogno di d’Alembert cit., p. 16. Sui temi della scomparsa della vita sulla terra, della distruzione del sistema solare o dell’intero universo, si possono ricordare, nell’ambito del pensiero materialistico ottocentesco, le celebri pagine di G. Leopardi Operette morali, Torino, Loescher, 1981 e di F. Engels, Dialettica della natura, Roma, Editori Riuniti, 1978. I brani engelsiani sono acutamente commentati da S. Timpanaro, Sul materialismo, Pisa, Nistri-Lischi, 1975 (cfr. soprattutto le bellissime pp. 83-85, che sottolineano la presenza, in Engels, di influenze lucreziane e stoiche).

[44] C.A. Helvétius, Dello spirito, a cura di A. Postigliola, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 99.

[45] D. Diderot, Confutazione del libro “Sull’uomo” di Helvétius, brano antologizzato in W. Bernardi, Educazione e società in Francia dall’Illuminismo alla Rivoluzione, Torino, Loescher, 1978, pp. 116-117.

[46] D. Diderot, Il nipote di Rameau, trad. it di L. Herling Croce, Milano, Rizzoli, 1981, p. 141.

[47] M. Brini Savorelli, Introduzione a D. Diderot, Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono cit., p. XXV.