Teoria del valore, crisi generale e capitale monopolistico

Napoleoni in dialogo con Sweezy*

di Riccardo Bellofiore

Finally, if  an  old  man may presume to  give advice to  a young one, let me  recommend (1)
that  you  stop quoting Marx every second sentence,(2)
that  you  develop your own style and  formulations more freely, and  (3)
that you  engage your contemporaries in  more vigorous critical polemics. They badly need it.

PM. Sweezy aM. Lebowitz, 17  agosto 1982

1. Introduzione

Nelle  pagine che seguono si tomera ad alcuni  momenti tra i più rilevanti -in parte lar­gamente conosciuti, in parte  invece poco noti- di un incontro/dibattito intellettuale a di­stanza, quello che Claudio Napoleoni ha intrattenuto con Paul M. Sweezy. Gli anni di cui si parlera sono quelli tra il 1970 e il 1974. Le questioni che trattero sono quelle  cruciali per l’uno e per l’altro autore, all’intemo di una prospettiva che e per entrambi quella marxia­na: la teoria  del valore  e del plusvalore, la teoria  della  crisi, il capitalismo monopolistico.

I testi  di  Napoleoni a cui  faro  riferimento sono  pochi, editi rna  anche e soprattutto inediti. Quelli editi  sono  essenzialmente l’introduzione alia  ristampa (parziale) della Teoria  della  sviluppo capitalistico di Sweezy (1) e la voce  «Capitale» dell’Enciclopedia Europea di  Napoleoni. Quelli inediti sono  i corsi di  Politica economica e  finanzia­ ria  che  Napoleoni tenne  alia  Facolta di Scienze Politiche dell’Universita di Torino nel 1971-1972 e nel  1972-1973, dedicati nella  gran  parte  alla questione della  teoria dellacrisi nel  marxismo e a un  confronto critico con  il keynesismo (3)   Secondo la  catalogazione dell’archivio del Fondo Claudio Napoleoni (che  raccoglie le carte  edite  e inedite dell’economista italiano) le Lezioni del corso del1972-73 sono  state  sbobinate e datti­loscritte – integralmente per quel  che riguarda la teoria marxiana della  crisi – da alcuni studenti frequentanti. Delio  stesso corso sono  presenti dei quademi di appunti a mano meno completi, rna  alquanto dettagliati, sull’intero arco  delle  Lezioni. All’intemo di questi cicli  di lezioni ve ne e anche una serie  dedicata a commentare il Capitale mono­ polistico di Baran e Sweezy (4) : presteremo particolare attenzione a quella dedicata ad una lettura della  tendenza all’aumento del  sovrappiu sostenuta dai  due  economisti ameri­ cani  che  superi le obiezioni rivolte dai critici marxisti, e che ne mostri la compatibilita con  la teoria del (plus)valore.

Pur nell’arco di cosi pochi anni, si vedra che, certo all’intemo di continuita interpretati­ ve chiaramente discernibili, il giudizio di Napoleoni su snodi centrali  della teoria marxiana mutera  in maniera radicale, e talora  quasi  di 180°.  Si passa  da una posizione definibile in qualche modo come «ricardiana» ad una piu strettamente «marxiana», non esente da impli­ cite (e forse  non coscienti) suggestioni «schumpeteriane»: dove lo strettamente allude  alla rivendicazione del valore-lavoro astratto come categoria ineludibile del discorso economi­co (5). Un tentativo che impegno Napoleoni dalla meta del 1971 sino almeno  a tutto il1974. Va da se che sullo sfondo del discorso che si fara vi sono anche alcune altre opere-chiave di Napoleoni cui si accennera soltanto di sfuggita: l’introduzione a Ilfuturo del capitalismo: crollo  o sviluppo?(6) , e le due edizioni di Smith, Ricardo, Marx(7 )  E gli echi delle  posizioni che verranno ricordate si faranno sentire  nello stesso Valore di pochi anni successivo (8) , che di fatto  apre la crisi del «ritomo a Marx»  della  prima  meta  degli  anni  ’70;  una crisi  che, come  e noto,  si chiudera con l’intervento di Napoleoni al convegno di Modena nel1978 che segna l’abbandono del tentativo di ripresa  del Marx «economista» (9)

Visto  che la posizione di Napoleoni, almeno nella  versione che  e presente nelle  Le­ zioni  e con  riguardo ai temi  che  tratteremo nella  terza  e nella  quarta  sezione – cioe, rispettivamente, il rapporto tra la teoria  della  crisi e la teoria  del valore, e il rapporto tra Il capitale  monopolistico e la teoria  del valore  – e poco  nota, e anche  potenzialmente controversa, faro un uso piu largo del consueto delle citazioni  dirette.

2. Lavoro  astratto  e teoria  del valore-lavoro: la centralità  del saggio  di plusvalore come saggio di sfruttamento

La ristampa  nel 1970 dellibro fondamentale e forse piu infiuente di Sweezy, la Theory of Capitalist Development del 1942,  si apre con una lunga e impegnata introduzione di Napoleoni che fail punto delle questioni piu dibattute nel marxismo: la teoria del valore­ lavoro  come fondamento della  teoria  dei prezzi  di produzione (di cui si dira  in questa sezione) e la presenza  di piu teorie della crisi, se non addirittura  di piu teorie del crollo, nel marxismo (di cui si dira nella prossima sezione). E,questo, un Napoleoni chiaramente di transizione. Un Napoleoni che si dibatte  inte­riormente tra, da un lato, la ricostruzione di Marx suggerita  negli anni immediatamente precedenti con Franco  Rodano  sulla  «Rivista  Trimestrale» e, dall’altro lato,  l’impatto per lui sconvolgente della nuova lettura  di Marx che viene proposta  da Colletti  alia fine degli  anni  ’60,  una lettura  che ormai  andava  ben oltre  l’ortodossia dellavolpiana10• Ma e questo  anche  un Napoleoni che,  mentre  registra  l’incongruenza tra le proposizioni di Produzione a mezzo di merci di Sraffa (11) e il marxismo «tradizionale» di Dobb (12), Meek (13) e del Sweezy  del 1942, non puo non derivare  dal rapporto con Colletti una spinta verso una piu coerente ripresa del Marx economista politico  critico dentro il valore-lavoro. Si noti che nel seguito,  quando  parleremo di teoria  del valore-lavoro (o di valore-lavoro senza altra  qualificazione) faremo  sempre  riferimento alia  teoria  del  valore-lavoro astratto: che molto  poco  ha ache vedere  con il valore-lavoro di Ricardo, e nulla  con il valore­ lavoro  che Bohm-Bawerk sottomettera a una sferzante  e distruttiva disanima critica (14)

2.1 La critica a Sweezy  e il rapporto  con Colletti  nell’Introduzione alla Teoria dello sviluppo capitalistico del  .manca testo

II giudizio  di Napoleoni sui  valore  del  libro  di Sweezy  e inequivocabile. Si  tratta, scrive,  della migliore  esposizione elementare della teoria marxiana, anche se, avverte, il volume  richiede  una lettura  criticamente avvertita  su alcuni nodi dirimenti. Tratteremo, in prima istanza, della teoria del valore.
II  primo   punto  da  considerare e quello della  distinzione (che  Sweezy riprende da Franz Petry (15) tra aspetto qualitativo e aspetto quantitativa. L’ aspetto qualitativo sareb­be per Napoleoni da identificarsi con la tesi che i valori sono  cristallizzazioni di lavoro quali  che  siano  i  «valori di  scambio» (intesi come  rapporti di  scambio proporzionali aile quantita di lavoro direttamente e indirettamente contenute nelle  merci alienate). Ne consegue che il plusvalore totale  del sistema, che  all’origine e somma di pluslavori non pagati, alia fine deve inevitabilmente essere  pari al profitto totale  come  somma dei termi­ni trasformati. L’aspetto quantitativa avrebbe a che  vedere con la «trasformazione» dei valori di scambio in un secondo, ulteriore sistema di rapporti di scambio dato dai «prezzi di produzione». Dove pen),  si badi,  quei  valori  di scambio si debbono confermare come punto di partenza necessaria e insostituibile di quell’operazione. Si tratta  di quella che  e stata  successivamente definita una visione «dualistica» del prezzo in Marx(16 ) Napoleoni conferma in questo testo un suo giudizio acquisito ormai da alcuni anni. II mo­ dello con sovrappili e con il salario che viene risolto nei mezzi di sussistenza, presente  nelle prime pagine del libro di Sraffa del 1960 (17) , dimostra che in realtà  il riferimento al lavoro come unita di misura  e del tutto inessenziale. Più in generale, il libro di Sraffa conferma che i prezzi  di produzione sarebbero determinabili indipendentemente da un qualsiasi legame funzionale con i valori di scambio e dunque col valore stesso.

Di più: la riduzione dei prezzi in quantita  di lavoro avviene, primo, a partire da prezzi gia determinati senza alcun bisogno di partire dai valori  di scambio e, secondo, risolvendo tali prezzi in quantita di lavoro «da­tate». II che significa, pen), che il riferimento e a quantita di lavoro  differenziate qualitati­vamente per la loro inclusione neUe diverse  industrie: dunque disomogenee, e aggregabili esclusivamente in  quanto  parte  del  capitale. II che  sarebbe nient’altro che  la  inevitabile conseguenza della «sussunzione reale dellavoro al capitale», dove quest’ultimo finisce con il determinare le proprieta del primo in quanto  addizione di lavori  utili e concreti.
La caduta dell’aspetto quantitativa (che, come abbiamo detto, si identifica per Napo­leoni  con la «trasformazione» dei valori  di scambio in prezzi di produzione) trascinereb­be con se l’aspetto qualitativo (che si identifica di fatto, per Napoleoni, con l’origine del plusvalore come pluslavoro). Ricondurre il plusvalore al pluslavoro avrebbe senso  sol­ tanto sulla  base della  possibilita di istituire un confronto tra la quantita di lavoro oggetti­ vata dai lavoratori e la quantita di lavoro che toma loro  come  contenuta nei beni  salario. Ma l’esito della  trasformazione- secondo il quale illavoro comandato sui mercato dal profitto lordo sociale diverge dal pluslavoro di sistema, e illavoro comandato dal monte salari  non  coincide con  il lavoro speso  nella  produzione dei beni  salario – impedirebbe proprio che  tale  operazione possa  essere svolta  in modo rigoroso. II punto  e, chiarisce Napoleoni, che il fenomeno del valore  si svolge interamente all’intemo della  circolarita del capitale. Se le cose stanno cosi, e evidente che la vicenda analitica del problema della trasformazione come  deduzione matematica (il cui termine iniziale potrebbe, sulla  scorta di Sweezy, essere individuato in Bortkiewicz (18) none quella storia  a lieto  fine  che, per esempio, Dobb (altro  gigante del  marxismo tradizionale che  Napoleoni molto ammira, rna altrettanto radicalmente critica) ha disegnato, vedendo in Sraffa la soluzione, e non invece la dissoluzione, della  problematica marxiana (19).
E’ chiaro, peraltro, che in Napoleoni, sulla  scorta  di Colletti, si e ormai solidificata una netta  critica  a quello che  poco  dopo  definira  l’approccio di tipo  «empiristico» a Marx, e di cui tanto  Dobb quanto Sweezy sono  ritenuti i massimi rappresentanti teorico. Un  ap­proccio secondo il quale la teoria  del valore ha inizio con una definizione di astrazione del lavoro che e in sostanza una generalizzazione mentale; si sviluppa poi come  una teoria  dei rapporti di scambio attenta al solo momento dell’equilibrio; e viene infine scandita in due approssimazioni successive, di cui i valori di scambio nel primo libro del Capitate costitui­ scono la prima, e i prezzi di produzione del terzo libro la seconda. Sraffa  puo essere ovvia­ mente  utilizzato come  un implicito suggerimento di critica di questa  impostazione. Salta infatti  in  Produzione di  merci  una  determinazione dualistica dei  rapporti di  scambio di equilibrio. In un primo  modello, i prezzi  capitalistici vengono (manca testo) fissati una volta dati la «configurazione produttiva» e il salario  reale  di «sussistenza». In un secondo modello si ammette un grado  di libertà nella distribuzione e i prezzi  sono determinati una volta definita la spartizione conflittuale del prodotto netto  tra profitti e salari. Napoleoni intuisce già  nell’introduzione a Sweezy che  il Marx  di Colletti distrugge alla radice l’idea delle  approssimazioni successive. Il lavoro e «sostanza comune» delle merci  non in quanto lavoro utile  e concreto rna in quanto lavoro astratto. Tale astrazione none del ricercatore rna esiste  effettivamente nella  realta. IIlavoro astratto e percio esso stesso del tutto  «concreto», nel senso di aderente alla realta storica e sociale determinata.
E’ l’elemento specificante del mercato e della  produzione capitalistici, all’uno e all’altra perfettamente adeguato già  nella  definizione che  ne  viene data  al livello di  analisi del primo libro del Capitate. Il passaggio dai valori di scambio ai prezzi di produzione non puo,  allora, essere visto  come un progressivo avvicinamento alla realtà, e la seconda ap­ prossimazione non puo (non  deve)  modificare in nulla  quella determinazione essenziale. Il che però  sembra non avvenire nel marxismo «tradizionale» nè  in Sraffa.

2.2 II ritorno di Napoleoni agli aspetti economici della  teoria  marxiana del valore nei primi  anni  ’70

Vi e  qui  da  parte  di  Napoleoni, con  tutta  evidenza, la  base  di  una  «schizofrenia» analitica in cerca di scioglimento, in un senso o nell’altro. Negli  anni successivi l’econo­ mista italiano rivedra molti  anelli di questo schema argomentativo. None  qui  possibile ricostruire i caratteri di quel  programma di ricerca che Napoleoni intraprendera nei primi anni  ’70, e che e rimasto incompiuto: un pro!?ramma di ricerca che si poneva l’obiettivo esplicito di un ritorno a Marx dopo  Marx. Ci limitiamo in questa sede  ad alcune brevi considerazioni: in prima  battuta sui Sweezy successivo alia Theory; in secondo luogo su un paio di aspetti del Napoleoni «marxiano»; infine  su alcune piste di ricerca possibili. Per quel  che riguarda Sweezy, si deve  innanzi tutto  osservare che alla fine  degli anni ’70  lui  stesso chiarl  inequivocabilmente che  la sua  strada, non  soltanto non  si identifi­ cava, rna era  da ritenersi per  molti aspetti alternativa tanto  a quelia di Dobb21  quanta a quelia di  Steedman22 , che  aveva da  poco  pubblicato il suo  Marx  after  Sraffa. Alter­ nativa quindi sia al marxismo tradizionale sia a quelio sraffismo che  rigettava la teoria del  valore-lavoro come ridondante e errata. Possiamo partire dal giudizio di Sweezy su Dobb e i «neoricardiani», e dalia  sua  distinzione tra lo  «sraffismo» e Sraffa: due  punti che si sorreggono l’un l’altro. In una lettera a Michael Lebowitz (23)  ,il 30 dicembre 1973, l’economista americana formula la seguente valutazione:

The trouble  with them is- and the point of view from  which we should  (sympatheti­ cally) criticize  them- that in this day and age it makes no sense to dream of an effective critique  of capitalism which is not Marxist. Those, like Dobb for example, who imagine that Sraffism is really a sort of variant of Marxism  are on the wrong track. Our job is (1) to try to steer them onto the right track, and {2) to keep the young from following them on to the wrong one. In other words effectively to establish Marxism  as what it is, the definitive (although  of course not in the sense of being incapable of indefinite further development) critique  of capitalism with its necessary link to a revolutionary political position.E in una intervista del 1987, pubblicata sulia  «Monthly Review»(24) , si esprime cosi  su Sraffa e Steedman:

Sraffa himself  did not see what he was doing as an alternative  to Marxism, or in any way a negation  of Marxism. From  his point of view, this was a critique  of neoclassical orthodoxy. And  he made  that very  clear. Joan  Robinson was very explicit, saying  that Sraffa  never  abandoned Marxism. He always  was a loyal Marxist, in the sense  of him­ self adhering  to the labor  theory  of value. But he didn’t write about that. Now  that was Sraffa’s peculiarity.  He started  as a critic  of Marshallian economics. You remember his famous article in the 1920s. He was in the Cambridge group. He fought  these ideological struggles  which  had their  center  in Cambridge. He took  a certain  side in  them,  but  he didn’t take it as a Marxist, but he took it as a critic  of the orthodoxy  of the time.  Now that’s  a peculiar  position, but it doesn’t entitle  anybody  to take Sraffa  and counterpose him to Marxism, as Ian Steedman does. To make out of Sraffa a whole alternative theory, in my opinion, is quite wrong and has nothing  whatever  to do with the real intentions of Sraffa, or certainly  nothing  to do with the real purposes  of Marxist  analysis. There  is no dynamic, no development in Steedman that I can see. Thinking  that it is possible  to get along  without  a value  theory  (using  the term in a broad  sense  to include accumulation theory  and so on) seems  to me to be almost  total bankruptcy. It’s  no good  at all. And  I don’t think anything  has come of it. It was good to show the limitations, the fallacies, the internal  inconsistencies of neoclassical theory,  that was fine, that was important. But to think that on that basis  a theory  with anything  like the scope  and purposes of Marxism can be developed is quite wrong.Sulla questione di  una  visione «larga» della teoria del  valore – che  includa al  suo intemo la teoria dell’accumulazione: rna dunque anche la teoria della crisi- tomeremo pili avanti. Come anche riprenderemo molto velocemente la questione di Sraffa (25) Urge piuttosto ora  richiamare un  altro aspetto dell’atteggiamento sul  valore dello Sweezy dopo la Theory. Si tratta  dell’atteggiamento pubblico di dura  critica  del  neoricardismo quando questa corrente attacca la teoria  del valore-lavoro; Ne abbiamo testimonianza dall’intervento pro­ nunciato da Sweezy ad una tavola rotonda che si svolse  a Londra, nel novembre 1978, sulle tesi di Steedman, e a cui mi capita di assistere: il testo  venne  poi pubblicato nel volume collettaneo The  Value Controversy(26 ) ll punto  cruciale non e qui tanto che Sweezy contesta radicalmente l’idea  che  non  vi sia  possibile e corretta transizione tra la dimensione (es­ senziale) del valore  e la dimensione (fenomenica) del prezzo(27) E none neppure, di per se,l’argomento che 1’analisi in termini di valore  non sarebbe smentita in termini di prezzo. La novita  vera e altrove. Lo stesso  Sweezy si fa ora l’obiezione secondo cui, essendo la realtà «SUperficiale» esperita in termini di prezzo, See possibile analizzarla esclusivamente inter­ mini di prezzo, che senso  ha preoccuparsi dei valori  come  «essenze»? Ma subito chiarisce che in realta  non e affatto  vero che sia possibile analizzare la realta capitalistica in termini esclusivamente di prezzo: e vero  piuttosto che, una volta  sviluppata l’analisi in termini di valore, e possibile raggiungere i medesimi risultati con l’analisi in termini di prezzo. None vero, in altri termini, che l’analisi la si sarebbe potuta  o la si potrebbe condurre allo stesso modo, essendo indifferente il punto  di partenza.La ragione stain cio, secondo Sweezy: che il centro di gravita dell’analisi marxiana e il  saggio di  plusvalore come saggio di  sfruttamento in  senso marxiano. E  in  nota specifica:

I did not understand this when I was writing The Theory of Capitalist Development some four decades ago. As a result the fifth and sixth sections of the chapter on the transformation problem (entitled respectively  «The Significance of Price Calculation»  and «Why Not Start with Price Calculation»), while not wrong, do not reach the heart of the matter, which is the crucial role of the rate of surplus-value in the entire Marxian  theory of capitalism(28)

Lo  spunto di  Sweezy rimane privo  di  sostanziale sviluppo. Ma  e interessante che attomo alla  questione del  saggio di  plusvalore come  saggio di  sfruttamento graviti, a ben  vedere, anche  il  discorso di  Napoleoni. Negli  anni  della  «Rivista Trimestrale» e sino  al 1970, nell’introduzione a Sweezy, il Napoleoni «ricardiano» e sl convinto che la teoria  marxiana del valore sia essenziale alla tesi secondo cui il rapporto capitalistico e un rapporto di sfruttamento: reputa pen)  che  le difficolta in cui  essa  incorre non  siano superabili. Nei  primi  anni  ’70  il  Napoleoni «marxiano» nutre  invece la  speranza che quelle  difficolta, comunque reali, possano essere risolte. A una condizione: di mantenere nell’analisi della  formazione del valore, accanto alla dimensione dell’«equilibrio», l’al­ tra dimensione parimenti fondamentale, quella dello  «squilibrio». Uscendo dunque da modelli sostanzialmente di tipo  naturalistico e da deduzioni matematiche del prezzo di produzione: ovvero, da quella formalizzazione che non  consente di rappresentare come illavoro individuale, in quanto immediatamente privato, diviene sociale, in forma gene­ rica o astratta, nello  scambio.Si tratta  semmai, secondo Napoleoni, di procedere ad un approfondimento della  no­ zione  di lavoro «socialmente necessario». La generalizzazione della forma di merce, e il mercato come nesso  sociale indiretto universale, si.affermano, in verita, solo  con  il ca­ pitalismo. Dunque, secondo questo Napoleoni, la contraddizione interna alla merce puo essere riletta come la presenza di due processi: uno, lineare, che va dallavoro (vivo, del salariato) al valore  e plusvalore, e dunque che indaga la costituzione del capitale; 1’altro, circolare, che  va dal capitale al lavoro (come forza-lavoro) ridotto a capitale variabile, e definito dal capitale nelle  sue proprieta di lavoro concreto. La circolarita del capitale, che include illavoro al suo intemo (come nella Introduzione a Sweezy), assolutizzata dal neoricardismo, andrebbe vista  come fondata dal percorso lineare per cui illavoro vivo  e l’origine di tutto  il capitale (l’acquisizione della  rifiessione dei primi  anni  ’70). Anche  in questo caso  siamo in presenza di piste  di ricerca, mai compiutamente con­ dotte  sino  in fondo (rna, si deve  aggiungere, abbondantemente dettagliate negli  appunti di questo periodo raccolti presso il Fondo Napoleoni, che  meriterebbero una  pubblica­ zione sistematica), e poi alla fine rigettate. A me pare pero che, sfruttando in parte  queUe piste  rna in pari  misura criticandone le confusioni – che  talora  derivano dall ‘eredita del Napoleoni «ricardiano»- si possa  proporre una  diversa lettura. Una  lettura che confer­ rna, insieme, sia il giudizio di Sweezy del1980, sia l’intuizione del Napoleoni «marxia­ no»: sia pure  in piena  indipendenza ormai dai ragionamenti dell’uno e dell’altro.

2.3 La teoria marxiana del valore  come  teoria  macro-monetaria della  sfruttamento, e il ruolo  dei valori  di scambio

Si  può,  in breve, ragionare così (29). L’aspetto qualitativo di cui  Napoleoni parla  nella introduzione a Sweezy ha,  con  tutta  evidenza, dentro di  se,  una  inevitabile traduzione quantitativa. Si  tratta  della  derivazione del  plusvalore dal  pluslavoro, il secondo visto come  origine del primo. Ma  quella derivazione ha dietro di se, nel primo libro  del Capitale, l’estrazione di lavoro, di tutto il lavoro, dalla  forza-lavoro come  merce «partico­lare», a partire da  una  analisi di classe (quindi, modemamente, «macroeconomica») soggetti sono, a un polo, il capitale come un  tutto, all’altro polo, la classe dei lavoratori salariati. La particolarità di questa merce sta anche, e soprattutto, nel fatto  chela forza­ lavoro venduta al capitale sui mercato dellavoro, e di cui il lavoratore è il mero  portato­re, e «appiccicata» all’ essere umano in una  particolare determinazione storico-sociale.

(manca testo) che  ci porta  a due  punti  ulteriori. Il primo  punto è che l’estrazione di lavoro vivo  si svolge  dopo la compravendita della forza-lavoro, e non è di per sé garantita in alcun  modo da quest’ultima. ll capitale deve  ottenere davvero tale estrazione, suscitando consenso e superando antagonismo, nel  processo capitalistico di lavoro. Altrimenti, non  soltanto la produzione di  plusvalore, rna neanche quella  di valore  potrebbe darsi. ll secondo punto e che la riproduzione della  forza-lavoro, peril  tramite  della  acquisizione dei valori  d’uso costituenti i beni salario, e condizionata pur sempre da una transazione di mercato. L’estra­ zi.one di plusvalore si compie allora in conseguenza del combinato disposto di due fattori. Da uri·lato, e furtzione della  capaclta del capitale di estrarre lavoro tout  court, che costitu­ isce il neovalore. Cio costituisce un primo aspetto  dello  sfruttamento, che si identifica qui semplicemente con l’uso della forza-lavoro, dunque con l’intera giomata lavorativa, come esito della  «Iotta di classe  nella produzione». Dall’altro lato, e anche funzione della  defini­ zione  quantitativa dellavoro necessaria come  «sussistenza» dei lavoratori, o comunque in conseguenza delle  scelte  della classe  capitalistica sulla composizione della  produzione, di nuovo tenendo conto di un «vincolo sociale» (confl.ittuale). Ne discende il secondo aspetto che definisce lo sfruttamento, indissolubile dal primo, rna derivato: il prolungamento della giomata lavorativa oltre  illavoro necessaria, che  riconduce il plusvalore al pluslavoro. n punto  chiave e, con  tutta  evidenza, la variabilita dell’eccesso dellavoro vivo  sullavoro necessaria. E questa  la ragione di fondo per cui il saggio di sfruttamento e centrale. Cio che il Napoleoni dell’Introduzione a Sweezy  non vede per nulla, e il Napoleoni suc­ cessivo  intravede soltanto  a sprazzi, e che la teoria del valore come teoria dello sfruttamento dipende centralmente da quella vera e propriafondazione della riconduzione del valore alla­ voro che si trova non nel capitolo primo rna nel capitolo quinto, secondo paragrafo, del primo libro del Capitale. Quel paragrafo e dedicato infatti al processo di valorizzazione e alia costi­ tuzione del valore e plusvalore a partire dalia (quasi-)contraddizione intema alia produzione, che oppone il capitale allavoro come altro da se da rendere intemo affinche il valore si possa davvero accrescere su se stesso in una spirale  inesauribile, senza  che mai cio sia possibile integralmente, nel senso di annullare l’alterita fondante del rapporto capitalistico(30)ll capitale e valore che si valorizza, denaro che produce pili denaro. Lavoro morto che si accresce nel tempo. Cio puo avvenire soltanto se nel processo di lavoro capitalistico viene erogato lavoro vivo,  e pili lavoro vivo  dellavoro  necessaria. L’estrazione dellavoro  «in atto»,  o «in divenire», e soggetta alia incertezza del passaggio attraverso gli esseri umani in carne  ed ossa,  alloro comportamento pratico, che può  essere  cooperativo-consensual o conflittuale, o addirittura antagonistico. E solo cosi che si forma  la «gelatina» del valore(comprensivo di un plusvalore). Se questa dimensione svanisce dall’analisi, e ci si colloca allivello dellavoro ormai  «congelato», e chiaro che del valore-lavoro non  c’e pili alcun bisogno. Come infatti  avviene se si fa iniziare l’analisi da un insieme di metodi di produ­ zione  dati,  da una configurazione produttiva gia costituita. E nel processo di formazione di quella  configurazione produttiva che  la  teoria  del  valore-lavoro astratto  alla  Marx si mostra essenziale. Per attivare  illavoro vivo del salariato come lavoro astratto, cioe come lavoro proquttivo in potenza  di ricchezza generica o astratta, come quel «tutto»  che genera il capitale, e parimenti necessaria chela forza-lavoro venga ridotta a «parte»  (variabile) del capitale mediante l’anticipazione del monte  salari in moneta. Sono ovvie le conseguenze in termini quantitativi, nel primo come nel terzo libro del Ca­ pitate, di quanto appena  sostenuto. II primo libro giustifica la riconduzione della  esibizione monetaria del neovalore alla sola oggettivazione di lavoro  vivo. Di fatto,  e quanto Sraffa stesso  a ben  vedere  assume, beninteso del  tutto  implicitamente, in Produzione di merci. Basti  rimandare ai  10 e 12, i quali possono essere  riletti immaginando che l’espressione monetaria del valore sia arbitrariamente posta pari all’unità(31) : il che equivale a presupporre che il sovrappiu esprima nient’altro che illavoro diretto impiegato nell’«anno» nel sistema. Un presupposto, beninteso, che andrebbe marxianamente posto. Che e quello che, appunto, fa Marx – anche  se si puo·.discutere in che rllisura ne sia cosciente sino in fondo. E pen) un rimando implicito rna forte, da parte di Sraffa, ad un ruolo «macro»  del valore-lavoro. A questo punto tutto  vaal suo posto. Nel primo libra del Capitale, quando il rapporto tra capitale e lavoro è analizzato in termi­ni di classe, l’ipotesi di prezzi relativi proporzionali alle quantità di lavoro congelate (i «valori di scambio») consente di dare una analisi preliminare del rapporto  tra tutto il capitale e l‘in­sieme dei lavoratori salariati sui mercato  «iniziale»  dellavoro, e consente di tradurre il valore potenziale prodotto  in una  grandezza di prezzo  sui mercato  «finale»  delle  merci. E’ perciò strumentale, e necessaria, all’indagine che «isola» l’oggetto d’analisi della costituzione del (plus) valore, e dellaformazione della configurazione produttiva. Nel terzo libro, la «trasfor­ mazione» definisce il sistema  di prezzi relativi corrispondenti alla situazione capitalistica di «libera>> concorrenza, disaggregando ilcapitale in diversi rami di produzione e introducendo la competizione intersettoriale tra di essi sulla base di un eguale saggio del profitto. Tali prezzi modificano la valutazione dei beni acquistati dai lavoratori: o, detto  altrimen­ ti, fanno si che illavoro  «esposto» o «esibito» nei (o, se si preferisce, «comandato» dai) prezzi  delle merci che costituiscono la sussistenza storicamente e socialmente determinata diverga dallavoro che e stato  necessaria a produrle. Ma significa  forse  questo che -a li­vello del rapporto di classe  tra capitale totale  e classe  dei lavoratori salariati- il rapporto di scambio non  sia più regolato in termini di «valori  di scambio» alla  Napoleoni? Certo che no. La natura  macroeconomica e monetaria del processo capitalistico significa infatti che, anticipando ilcapitale, la classe capitalistica e in grado di definire con le proprie scelte autonome e dentro un contesto conflittuale il salario reale che viene reso disponibile all’ in­sieme dei lavoratori che erogano loro lavoro vivo –quel salario reale della classe  che Marx assume regolato dalla «sussistenza» storica e sociale. Significa inoltre che la trasformazio­ne non può mutare di per sé né que llavoro vivo ne il lavoro contenuto nei beni-salario, per quanto possa  modificare la loro espressione in valore di tipo «microeconomico». Ne discende inevitabilmente che  il ragionamento in termini di valori di scambio cat­tura  con  precisione il rapporto di classe nel  suo  nucleo fondamentale: da  una  parte, la giornata lavorativa sociale estratta a tutti  i lavoratori; dall’altra, illavoro  necessaria a produrre il salario percepito in  termini reali  dalla  classe  dei  lavoratori. L’una e l’altra grandezza sono  fissate  necessariamente passando per  il  confiitto sociale. Si  giustifica cosi la tesi che i profitti monetari lordi non siano  che una espressione distorta del plusva­ lore  e del pluslavoro – dello  sfruttamento.Quello che i prezzi  fanno, confermando le intuizioni marxiane, al di Ut dei dettagli del calcolo – e confermandole in un modo  che le radicalizza ulteriormente rimanendo fedele allo spirito dell’intera ricostruzione-e questo: che la dimensione «superficiale» del valore di scambio, quando si tramuta in prezzo di produzione, dissimula -ma certo  non cancella, né muta quantitativamente- la relazione fondamentale di classe. A tale dissimulazione cor­risponde nient’altro che un trasferimento di quote  di neovalore tra i diversi rami di produ­zione. Non puo che essere cosi, visto chela fondazione marxiana dell’identita tra neovalore e espressione monetaria dellavoro  vivo  significa che  il «valore  aggiunto» dai  lavoratori nel corso del periodo non  puo che essere posto  come  identico in «valori» e in «prezzi» (32).

La «distorsione» in questione è senz’altro rilevante ad altre scale dell’analisi, ma non nello studio del processo «immediato» di produzione del plusvalore, e non  al livello «macro». La  divergenza tra,  da un  lato,  il saggio tra plusvalore e capitale variabile (in  termini di lavoro contenuto) e, dall’altro lato,  il rapporto tra profitti  lordi  e monte  salari  monetario (in termini di lavoro  comandato sui mercato), avviene, e non può che avvenire, all’interno di un neovalore che si deve  supporre identico nella  valutatazione in valori di scambio o in prezzi di produzione  – o, se è per questo, in qualsiasi sistema di prezzi. La categoria chiave del  saggio di sfruttamento come  rapporto di classe, lungi  dal divenire ridondante, viene esaltata nella  sua centralità di perno dell’intera costruzione teorica. Sono queste conclusioni che vengono tutte ribadite anche dal punto di vista  quantita­iva dagli sviluppi del dibattito interno alla  teoria  marxiana negli  ultimi trent’anni. Basti qui  rimandare alla  «nuova interpretazione» di  Foley e Dumeni (33) , e in  Italia ai lavori più recenti di Gattei e di Perri (34)   ll filo di discorso che  si e qui  suggerito, e che  per  mio conto vado sostenendo ormai da  ben più  di  un  ventennio (35), ha di originale solo questi quattro punti, pero fondamentali: (I) l’integrazione dell’ estrazione di valore  e plusvalore nell’economia monetaria della  produzione in modo  più radicale e coerente, dentro una visione endogena e sequenziale dell’offerta di moneta (superando gli aspetti spesso tra­dizionali o inaccettabili delle  teorie  della  moneta sostenuti dai nuovi approcci a Marx); (II)  la  fondazione della  riconduzione del  valore  al lavoro nel  processo di sussunzione reale  dellavoro al capitale quale  si da nel processo immediato di valorizzazione, come lavoro astratto «in  potenza» (mentre quella riconduzione viene  troppo spesso data  per scontata, o assunta come un «postulato», nel nuovo marxismo); (III) la nuova de:finizione allargata di sfruttamento rispetto alia lettera marxiana (un punto  quasi del tutto  assente nella discussione attuale su Marx); (IV) la conseguente conferma della  centralità del sag­gio di plusvalore in valori di scambio, e tutto ciò fuori  da una determinazione dualistica dei prezzi in Marx. Sono a questo punto chiari i limiti dell’analisi di Marx svolta da Napoleoni nell’Intro­duzione a Sweezy, limiti che in qualche misura ipotecano la successiva fase  «marxiana». L’economista italiano degrada a solo  aspetto qualitativo quella che  in realtà  è anche  e indissolubilmente la fondazione quantitativa della  riconduzione del valore  al lavoro. Fa ciò perchè non  vede  (e poi intuirà soltanto, senza  svilupparlo in modo adeguato) che in realtà  tale  riconduzione attiene non  tanto  al valore  rispetto al lavoro oggettivato quanto piuttosto al solo neovalore in rapporto allavoro vivo. Rimane intrappolato in una visione secondo la quale  in Marx si darebbe un doppio sistema di rapporti di scambio. Non  si rende  dunque conto che  la  determinazione capitalistica del  valore, su  cui  giustamente insiste, se non puo mutare la grandezza del neovalore (che rimanda al Htvoro vivo effetti­ vamente estratto), e neanche il salario reale  della  classe dei lavoratori salariati (determi­ nato alia sussistenza de:finita dal conflitto sociale), fa pero si che il capitale costante vada invece computato nei termini del solo lavoro esibito, e dunque comandato, sui mercato, senza  che  si dia  alcun  rapporto di identita con  il lavoro necessaria alia  produzione dei suoi  elementi. Detto altrimenti, nella  determinazione simultanea dei prezzi di produzio­ ne il valore del capitale costante va inteso come gli elementi del capitale costante valutati a quegli stessi prezzi di produzione.D’altra parte, e evidente chela linea  di discorso che si e qui proposta non la si sarebbe neppure potuta iniziare se non a partire dalla  rilettura di Marx  che Napoleoni compie nei primi  anni  ’70.  Come è pure chiaro che il nostro ragionamento finisce  con il confermare tanto il giudizio di Sweezy sulla crucialita inaggirabile del saggio di sfruttamento, quan­ to quello del Napoleoni «marxiano» sulla necessita di mantenere un significato essenzia­ le al saggio di plusvalore valutato in termini di valori di scambio.

3. Crisi  da realizzo e caduta tendenziale del  saggio del  profitto: verso  un approccio unitario dentro la teoria  del valore lavoro astratto

L’Introduzione a Sweezy affronta anche in profondita la discussione della  teoria  mar­xiana  della  crisi, e la sua  traduzione in teoria  del crollo. n percorso di ragionamento e sostanzialmente identico a quello che,  contemporanemente, Napoleoni andava pubblicando nella Introduzione al  Futuro  del  capitalismo. Crolla o sviluppo? Su  questi temi Napoleoni tomera dopo pochissimo tempo nei  suoi corsi di Politica economica e fman­ ziaria  che  inizia a tenere a Torino. Qui  la  sua  posizione si modifica su  punti di rilievo. Vediamo di che  si tratta.

3.1 La complementarieta tra «sottoconsumo» e «sproporzioni» nella  crisi da realizzo, e la critica alta  legge  della  caduta tendenziale del saggio di profitto

Le  due  Introduzioni del  1970 sono caratterizzate da  un  rigetto netto della teoria della caduta tendenziale del  saggio del  profitto e dalla proposta originale di combinare insie­ me, nella crisi da  realizzo, il filone del  sottoconsumo e quello delle sproporzioni. Epa­ lese l’importanza che  ha avuto Sweezy per  Napoleoni su entrambe le questioni. Per  quel che  riguarda in particolare la discussione sulla teoria del crollo il nostro autore si esprime ancora una  volta in  termini estremamente lusinghieri: il capitolo dedicato alia  questione e una  rassegna SVOlta COn «ampiezza e intelligenza», e  «Uno dei  più  interessanti del li­bro», e fa del libro qualcosa di «straordinariamente utile»(36). Nondimeno, Secondo Napoleoni, nella distinzione delle varie teorie delle crisi Sweezy procederebbe a distinzioni «troppo nette» (37)  Sweezy infatti qui articola l’impostazione marxiana nelle tre  impostazioni, a  cui  ci  siamo gia  riferiti: la  caduta tendenziale del saggio di profitto, la crisi da sproporzioni, la crisi da sottoconsumo. Dall’Introduzione al volume di Laterza si ricava che  Napoleoni, in buona sostanza, condivide la posizione di Sweezy, rna anche di Joan Robinson (38) , scettica sulla prima teoria della crisi (un  argomen­ to su cui  tomeremo più avanti). Le cose stanno diversamente nel  caso delle sproporzioni e del  sottoconsumo. Le  due  forme in cui  si articola la  crisi da  realizzo sarebbero, peril nostro autore, da  considerarsi  congiuntamente: esse non sono alternative rna  semmai complementari. A condizione, pen), di rimuovere «alcune ipotesi che  [Sweezy] fa  circa il carattere costante di certi rapporti tra le grandezze implicate nel  problema» (39) , che  inde­ boliscono il discorso dell’economista statunitense.Per  quel  che  riguarda la crisi da sottoconsumo, sulla  scorta di alcuni brani del  terzo  libro del Capitate la si puo brevemente esporre come segue. Il profitto e prevalentemente investito, e il salario integralmente consumato. La  natura sempre pili diseguale della  distribuzione da luogo ad un livello del consumo relativamente sempre pili basso in rapporto al prodotto. La «realizzazione» del plusvalore richiede percio progressivamente quote crescenti di domanda di investimenti. Per  quel che  riguarda la crisi da sproporzioni, essa  e facilmente deducibi­ le  dagli «schemi di  riproduzione» del  secondo libro  del  Capitale. Tanto la  composizione dell’offerta quanto la composizione della  domanda sono legate ai rapporti quantitativi che si stabiliscono nei  vari  rami di produzione. La  struttura dell’offerta delle  diverse industrie dipende dallivello raggiunto dalle  branche produttive nel capitale totale; mentre quella della domanda dipende dalla ripartizione del  capitale costante e del  capitale variabile all’intemo delle industrie. Gli schemi consentono di derivare le condizioni di equilibrio, ovvero i rappor­ti che  garantiscono la compatibilita tra composizione dell’offerta e composizione della  do­ manda a livello di sistema. ll verificarsi effettuale di tali condizioni dipende dall’operare del meccanismo dei prezzi in concorrenza, cioe dal coordinamento ex post tramite il mercato. Cia che Napoleoni contesta a Sweezy e di vedere  nelle sproporzioni e nel sottocon­ sumo  due cause  distinte di crisi. Nell’un caso, la crisi da realizzo deriverebbe dal ge­ neralizzarsi degli  squilibri settoriali a causa  dell’instaurarsi di una reazione a catena di tipo demoltiplicativo. Nell’altro caso, avremmo immediatamente una classica crisi da insufficienza di domanda effettiva. Secondo il nostro  autore, al contrario, abbiamo a  che  fare  con  due  «concause» della  crisi. L’elemento di fondo sta  nella  incapacita del  sistema dei  prezzi  di  rendere compatibili le  scelte  delle  imprese individuali in condizioni di mercato «anarchico». Quando, come  e prima  o poi inevitabile, il «caso» fortunato in cui  le  condizioni di  equilibria dettate dagli  schemi non  si realizzasse, i  movimenti dei  prezzi  sul  mercato dovrebbero correre in  soccorso, orientando gli investimenti delle  imprese (40).   D’altronde, vista  l’insufficienza radicale e costitutiva del  coordinamento ex  post  tramite i prezzi, quell’orientamento puo  essere efficace, secondo questo Napoleoni, soltanto se la quota  dei  consumi non  scende  troppo. In questo senso, allora, sottoconsumo e sproporzioni sono come  le due lame  di un’unica forbice. Il sottoconsumo puo  determinare la crisi  per  i limiti del  coordinamento ex post del mercato tramite i prezzi, mentre l’anarchia della concorrenza e fattore di crisi se il consumo non orienta da vicino  l’investimento. Un aspetto rimanda all’altro, che lo completa. A ben  vedere, prosegue Napoleoni, abbiamo pero  qui  ache fare  con  la formulazione di una  teoria  del  crollo di tipo  «originario» o iniziale. Il capitale puo avere  vita storica soltanto nella  misura  in cui persistono, o si creano ex  novo, forme di lavoro e di consumo improduttivo.

Il discorso che si e qui sommariamente richiamato si basa in sostanza su due punti: la tesi chela teoria della crisi da realizzo, nei suoi due aspetti costituiti dalle sproporzioni e dal sottoconsumo, e indipendente dalla teoria del valore-lavoro; e l’individuazione della causa ultima della crisi nello sganciamento dell’investimento dall’elemento naturale del consumo in condizioni di mercato. Anche le altre due teorie della crisi generale che egli individua nell’antologia con Colletti  non gli paiono  accettabili: ne la teoria della cadut tendenziale del saggio del profitto41  (che, va ricordato, il Napoleoni di questa fase reputa essa stessa sganciata dalla teoria del valore-lavoro) ne l’argomentazione secondo  cui con il macchinismo la produzione di valore  «crollerebbe» in quanto  il prodotto  non dipen­ derebbe pili dalla  quantita  di lavoro  prestato. Tralasceremo, nel seguito, questa  ultima linea di ragionamento, per quanto suggestiva42 , e ci limiteremo a dire della posizione del nostro  autore sulla caduta tendenziale del saggio di profitto nel 1970. Si e gia anticipato che per questo  Napoleoni le critiche  (anche di Sweezy), Secondo le quali non vie ragione  per escludere chela «tendenza» alla riduzione del saggio di profit­ to non sia battuta dalle «controtendenze», sono del tutto condivisibili. Gli argomenti por­ tati da Marx in favore della crisi da caduta tendenziale del saggio del profitto si muovono su due linee che il nostro autore reputa entrambe scorrette. La prima e che il mutamento  dei metodi di produzione darebbe luogo ad un aumento della  composizione organica che eccede percentualmente !’incremento del  saggio di plusvalore. L’aumento del  rapporto tra capitale costante e capitale variabile ha un’infiuenza negativa sul saggio del  profitto, mentre l’aumento del  rapporto tra  plusvalore e capitale variabile, che  anch’esso con­ segue al  progresso tecnico, produce invece un  effetto positivo sul  saggio del  profitto. Visto  che  nel  presupposto marxiano il prima effetto e pili forte  del  secondo, il saggio del profitto non  puo che fiettere lungo il tempo. Napoleoni controbatte che i critici come Sweezy hanna senz’altro ragione nel rilevare che non c’e alcun motivo plausibile per cui le variazioni positive del  saggio di sfruttamento non  potrebbero pili che  compensare la crescita della  composizione organica. Il Secondo argomento di Marx a favore della  legge e quello Secondo cui  il massimo saggio del  profitto – quel  saggio che  e definito da  quella situazione del  tutto  ipotetica in  cui  il capitale variabile e supposto nullo, e corrisponderebbe dunque al rapporto tra neovalore al numeratore e capitale costante al denominatore – tende  inevitabilmente  a cadere nellungo termine. Esiste infatti una sorta  di tetto  naturale alla giomata lavorativa sociale, cioe  alla massa dellavoro vivo che e estraibile da una data  popolazione operaia. Qui.Napoiecmiribatte che se il numeratore ha un limite assoluto, allo stesso titolo ce l’ha il denominatore. Si potrebbe essere in realta pili radicali ancora di Napoleoni. La ridu­ zione della  quantita di lavoro socialmente necessaria a produrre le singole merci- quella riduzione conseguente all’aumento della  forza produttiva dellavoro,  e che  costituisce l’altra faccia dell’aumento della  composizione tecnica del valore- fa si che si determini inevitabilmente una svalorizzazione anche degli  elementi del capitale costante. La com­ posizione in valore  del capitale puo di conseguenza crescere di meno, o non crescere per nulla, o addirittura ridursi (che  e cia  che  conta per  la dinamica del  saggio del  profitto come funzione del saggio di plusvalore). Di pili, la stessa grandezza di valore del capitale costante potrebbe rallentare, o fermarsi, o retrocedere, a seconda della  dinamica settoria­ le degli  aumenti della  forza produttiva del lavoro.

3.2 La riformulazione unitaria della  teoria marxiana della  crisi  nelle  Lezioni di Poli­tica  economica e finanziaria dei primi  anni  ’70

Possiamo a questa punta passare alla considerazione delle  notevoli modifiche che nei primi anni  ’70  Napoleoni porta  alla propria rappresentazione della  teoria marxiana della crisi, e al suo  giudizio su di essa. Possiamo preliminarmente sintetizzarle in questi quat­ tro punti: (I) le tre versioni della  teoria della  crisi  su cui ci siamo concentrati sinora sono tutte  espressione delle contraddizioni su  cui  pone  l’accento la  teoria  del  valore-lavoro astratto; (II) l’integrazione di crisi  da sottoconsumo e crisi  da sproporzioni proposta da Napoleoni cerca ora (rna con difficolta) di sganciarsi dal consumo come elemento «natu­ rale», e dunque come  vincolo sostanzialmente estemo al procedere indisturbato dell’ac­ cumulazione, nel tentativo di riformularsi nei termini di un vincolo interno che il capitale porrebbe a se stesso; (III)  la teoria  della  caduta tendenziale del  saggio di profitto viene reinterpretata, e in tale reinterpretazione viene considerata sostanzialmente corretta; (IV) su questa strada si finisce d’altra parte  con l’unificare i tre discorsi marxiani sulla crisi  in uno  solo, che  sfocia nella  formulazione di una  teoria  sociale della  crisi. Vediamo distintamente i vari  punti. Gia  nel 1970 Napoleoni parte  da una descrizione degli schemi di  riproduzione, e fa  vedere come, a partire da  questi ultimi, si  possano ordinare le posizioni sulla  crisi  all’intemo del  marxismo lungo l’asse di una  dicotomia che  vede  a  un  estremo Tugan Baranovskij («armonicismo») e  all’altro estremo Rosa Luxemburg(«sottoconsumismo»). Una  dicotomia che  riproduce in  larga  misura l’op­ posizione pre-marxiana tra,  da  un lato, Ricardo e Say  (Iegge  degli sbocchi e garanzia dell’equilibrio aggregato) e, dall’altro lato, Malthus e Sismondi (insufficienza iniziale di domanda effettiva in presenza del  risparmio, peril  conseguente divario che  si apre  tra prodotto e consumo). Nei corsi  di Torino del1971-2 e 1972-3 l’impostazione rimane, a prima  vista, sostanzialmente la medesima, salvo forse una pili dettagliata considerazione della  posizione di Lenin nella  sua polemica con il romanticismo economico. A guardar meglio, ci si rende pen)  conto che  ora  Napoleoni sottolinea con  forza al­cuni  aspetti prima assenti nella  sua  riflessione. Certo, e ancora vero  che  gli  elementi che  entrano negli  schemi di riproduzione e definiscono le condizioni di equilibria sono tutti  espressione, ad  un  tempo, dellato della  domanda e dellato dell’offerta. Si  tratta sostanzialmente, dice  ora  Napoleoni, della  raffigurazione di una  situazione di baratto(43)In  quant9 tale,  non  regge la tesi  «armonicista» che  afferma il verificarsi necessaria di una  traiettoria di  equilibria nel  sistema, indipendentemente dai  meccanismi (instabili) che  possono condurre a quella relazione di  scambio. Gli  schemi continuano pero  ad essere visti  come la smentita della  tesi di chi intenda affermare 1’impossibilita astratta del raggiungimento dell’equilibria. La prima  vera  novita delle  Lezioni sta piuttosto nel fatto  che  il nostro autore lega  ormai strettamente gli schemi di riproduzione alia  teoria del valore. Quegli schemi individuano una situazione dove il processo di produzione di (plus)valore ha  perfme la produzione di valore  nella  forma  del valore  di scambio (e qui i valori d’uso sono  semplice supporto del processo di valorizzazione).La riproduzione, su scala semplice o allargata, impone  che si ricostituiscano le condizioni tecniche  del processo  capitalistico di lavoro  neUe varie industrie; e impone inoltre  che cio che il settore produce  in eccesso  sia venduto. ll valore d’uso diviene  un elemento condizio­ nante, e toma in primo piano. Mezzi  di produzione e mezzi di sussistenza vanno specificati come  valori d’uso. Perche  la riproduzione avvenga  gli uni e gli altri devono  essere  presenti in proporzioni  determinate. Le condizioni di equilibria sono ad un tempo e necessariamente condizioni «doppie», in valore e in valore d’uso. «Lo studio della crisi economica», sostiene Napoleoni, e proprio  <<lo studio delle forme in cui in concreto si manifestano le contraddizio­ni che intercorrono trail valore d’uso e il valore di scambio nel capitale» (44) In secondo luogo, gli schemi sono  comprensibili solo all’intemo di un discorso scien­tifico che mostri come la domanda al capitale proviene dal capitale medesimo. In questo  -nella centralita assegnata alia  domanda di mezzi di produzione45  – Tugan non  ha evi­dentemente torto. II mercato per assorbire le merci  prodotte e costituito: dalla  domanda reciproca di mezzi di produzione da parte  dei vari capitali per ricostituire o allargare gli elementi del  capitale costante; e dal  consumo di mezzi di sussistenza che  proviene dai lavoratori gia o nuovamente occupati. In terzo luogo, e connesso al punto precedente, sembra scomparire in Napoleoni I’idea che, posta  l’indipendenza tra investimenti e consumi, si determini una situazione di crol­ lo «originario». Quel  che ci si limita a sostenere ora e che  «1’incremento del mercato in­ temo al capitale e fino ad un certo  punta  indipendente dal consumo individuale; dipende dal consumo produttivo (i mezzi di produzione nell’ambito del  processo produttivo)» 46 • Cio non di meno, Napoleoni mantiene anche in questa fase l’idea secondo cui sarebbe un errore immaginare che  la domanda di beni  capitali (e di mezzi di produzione pin in ge­ nerale), sia «completamente staccata»(47) dal consumo individuale dei lavoratori: «L’indi­ pendenza esiste, rna in fin dei conti  il mercato dipende dal consumo, perche la produzio­ ne di mezzi di produzione e legata al fatto  che deve  poi produrre beni  di consumo» (48) Ma  come dimostrare una tesi del genere? Qui il Napoleoni delle Lezioni sembra mo­ strare  qualche incertezza che  vale  la pena  di seguire, una incertezza che forse  consegue alia sua convinzione che «il problema di come e stata  trattata da Marx e dal marxismo la crisi  economica non e ancora sistemato nella  teoria»(49)Per un verso, il discorso e chiaro  e riporta  in qualche misura ad aspetti  della  sua rifies­ sione precedente.Inquanto produzione <;li ricchezza astratta il capitale e tendenza illimitata alia accumulazione (in questo Tugan  ha r·agione, rna compie I’errore di assolutizzare que­ sto aspetto). In quanto invece legato  al ricambio organico con la natura  esso e limitato dai bisogni:  ragion per cui la spinta  alia accumulazione va analizzata insieme aile forze chela contraddicono, e che comunque conducono la riproduzione allargata a eccedere il consumo pagante. Dice  Napoleoni: «[I]l basso  livello dei consumi fa si che l’impresa capitalistica non  riesce  pin  a determinare la struttura delle  proprie convenienze (capire il senso  degli investimenti): il blocco  percio  degli investimenti provoca la crisi, la caduta della domanda, la recessione. Ci vuole un orientamento di tipo «naturale», secondo questa tesi»(50)Per l’altro verso, si intende bene che una lettura della teoria della crisi di questo  tipo, men­tre non fa problema per ilNapoleoni che ancora non era del tutto uscito dali’esperienza della «Rivista  Trimestrale», come  nell’introduzione del  1970, stride  alquanto con  il Napoleoni successivo che, come si e detto, e alia ricerca di un vincolo  non «naturale» alia riproduzione aliargata del capitale(51 )  ll nostro autore prova  a uscire da questa  di:fficolta sostenendo chela dipendenza del capitale  dal consumo non costituisce un vincolo  estemo rna interno. Quella dipendenza e dovuta:  da un lato, alia natura dialettica della teoria marxiana; dall’altro lato, alia riproduzione della classe dei lavoratori salariati. Vediamo in che senso.Quando Marx parla  di opposizione, osserva Napoleoni, il termine e sempre  da inten­ dersi  rigorosamente, ed  hegelianamente, come contraddizione: opposizione, cioe, «tra termini con  una  doppia caratteristica, separati tra loro, rna dei quali nessuno puo  vivere senza l’altro» (52 ) Dunque,. «tanalisi delcapitalismo fatta  da Marx (e per questo la teoria della  crisi  e difficile) e l’ applicazione della  logica dialettica, che  none della  spirito rna e della  realta»(53 )  La  contraddizione di base  e quella insita nella  merce  tra  valore d ‘uso e valore di scambio, per cui ciascuno e realmente cio che l’altro e idealmente. II denaro autonomizza il valore insito nella merce, e diviene percio cio che, nel mercato  generaliz­ zato, consente lo scambio tra merci diverse (in quanto rappresentante della scambiabilita generalizzata, e quindi  dell’unita tra di loro);  e come  plusdenaro incarna  cio  che,  nel mercato  capitalistico, e lo stesso  scopo  finale  della  produzione. Al tempo  stesso, pero,il denaro  separa la compera  e la vendita,  sicche  e possibile  che alla seconda  non  segua la prima:  di qui la possibilita  astratta della  crisi,  che in condizioni capitalistiche deve essere  ulteriormente specificata. In queste  condizioni sociali,  i1 fatto che la catena  dello scambio si spezzi  significa la non conversione del denaro  in valori d’uso necessari alla riproduzione allargata  come  produzione di profitto,  in un processo  a spirale. Significa,in altri termini, la decisione  di non investire il plusvalore. 11 problema  e capire come  cio avvenga  nella ricostruzione teorica del meccanismo capitalistico. Ci pare che nel discorso  di Napoleoni questo  richiamo alla contraddizione dialettica intema alla merce si incarni in due percorsi argomentativi sulla crisi che, se nelle lezioni non sono mai chiaramente differenziati, pure possono  essere utilmente  distinti. La prima  traduzione di questa tesi in un11 teoria della crisi, in Napoleoni, ci pare quella di vedere  nella  produzione una  duplicita, appunto .inseparabile. In quanto  produzione capitalistica, essa e fondata  sull’erogazione di lavoro  astratto.  In quanto  tale e produ­zione  per  la produzione fine a se stessa. In questo  primo  versante  essa tende  a rendersi indipendente dal consumo individuale. In quanto modo storico di organizzare il ricambio organico tra  see la natura, la produzione ha invece  qualche  cosa di comune  alle altre forme sociali.  Illavoro e sempre una specificazione di attivita finalistica,  condizionata eaiutata  dal materiale naturale:  in quanto  tale e condizione «naturale-eterna». In questo secondo  versante, essa e legata  al consumo: sia perche  il valore  di scambio deve  perforza  prendere i1 corpo di un valore  d’uso per  altri  (e la produzione essere  percio, in ultima istanza, indirizzata al consumo); sia perche illavoratore deve essere in ogni caso riprodotto non soltanto  come  lavoro  salariato (parte  variabile  del capitale, riducibile a piacere)  rna anche riprodotto in quanta essere  umano (dal quale sgorga quellavoro che, in quanto  astratto, da origine a tutto il capitale).

La  riproduzione, osserva  Napoleoni  commentando ancora  brani  di Marx, dipende: (i) dal  grado di sviluppo delle  forze  produttive; (ii) dal  verificarsi della  proporzione di equilibria tra i settori; (iii) dalla  capacita di consumo della  societa, a sua volta funzio­ ne (iii-a)  della  tendenza all’ accumulazione della  classe  capitalistica (che comprime il consumo di lusso)  e (iii-b)  della  quota  dei  salari (che vincola  il consumo  della  classe dei lavoratori salariati). Quando  «il divario  tra produzione e consumo  [e]  modesto, e anche  quindi  la quota  di investimenti occorrenti [a colmare  quel divario]  sia limitata», allora «l’espansione della capacita produttiva trovera facilmente uno sbocco sul mercato, servira abbastanza direttamente a soddisfare una domanda  per consumi: il processo capi­ talistico in questa ipotesi, efortemente orientato dalla  domanda per consumi»(54) Quando invece la forza produttiva  dellavoro aumenta molto di piu del salario, e dunque  «la situa­ zione evolve  verso un aumento  della capacita  produttiva molto maggiore  della capacita di consumo […], e quindi la domanda per consumi lascia una differenza che aumenta nel tempo, si puo immaginare che ci sia un aumento degli investimenti per colmare  il vuoto. Se questo  accade,  illegame tra la produzione di mezzi di produzione e la produzione di beni di consumo diventa  sempre  meno  diretto»(55). A questo punto, Napoleoni ripete in sostanza il discorso del1970 sui limiti del merca­ to come coordinamente decentralizzato ed ex post  nel ristabilire le convenienze dell’in­ vestimento. L’investimento potrebbe avere una dinamica positiva sua  propria in quanto incorporante innovazioni tecniche. Anche in  questo caso, secondo il nostro autore, se viene meno l’orientamento del  consumo, e probabile che  venga meno, prima o poi,  lo stesso investimento innovativo, visto  che  in queste condizioni «non  si puo  piu  valutare il mercato»(56). Cade  a questo punto  l’investimento. Questa e pero  soltanto la causa imme­ diata  e l’occasione della  crisi:  come nel1929- quando anzi, a stretto rigore, l’impulso iniziale alia depressione fu dato  dal crollo in borsa. None pero la causa  difondo, che  va piuttosto vista  nel basso consumo delle masse, anche se quest’ultimo, considerato in se e per se, non  sarebbe fattore di crisi. Chiarisce Napoleoni: «la ragione per cui il sistema cede e che il rapporto tra produzio­ne e consumo e alterato a un punto tale chela giusta proporzione non puo piu essere man­ tenuta, perche gli investimenti non  hanno piu  un orientamento», rna «[l]a  crisi  generata dal  sottoconsumo non  si presenta come caduta d lla domanda per  beni ‘di consumo»(57) .Vista  l’instabilita della  crescita in  equilibria, che  fa  camminare il capitalismo su  una lama di coltello, anche un piccolo squilibrio iniziale innesca uno squilibrio generate. L’argomentazione secondo cui «la crisi, come caratteristica intrinseca del capitale, sa­ rebbe 1’espressione della contraddizione tra la dimensione sociale e la dimensione naturale del capitale, tra storia e natura»(58) , come anche  quella  corrispettiva che vede nel nesso  tra consumo e riproduzione dell’operaio come  essere  umano il vincolo interno al capitale, le si ritrova in questi  medesimi anni, e pressoche negli stessi termini delle Lezioni che stiamo commentando, nella voce «Capitale» della Enciclopedia Europea della GarzantP9 . Basti  la citazione seguente, che a questo punto  del nostro discorso dovrebbe risultare trasparente: il fatto e chela  produzione capitalistica, oltre a essere  un modo di produzione social­ mente determinato nel modo che abbiamo visto, e anche, e inevitabilmente, un modo  per assicurare il «ricambio  organico»  tra l’uomo e la natura;  cio significa  che, se il capitale riproduce l’uomo come operaio, in qualche  modo e misura lo deve riprodurre anche come essere  umano,  altrimenti la stessa  figura  sociale  dell’operaio scomparirebbe. Cosicche un  processo in cui i bisogni  del  capitale tendessero a divenire  il punto  di  riferimento esclusivo per lo sbocco  della  produzione e in realta  impossibile. Quindi, da un lato,  la diminuzione relativa  del consumo richiederebbe una formazione di capitale  addizionalerelativamente sempre  maggiore per ottenere, attraverso la domanda  di mezzi  di produ­ zione, quella domanda  che serve a chiudere il circuito  della produzione capitalistica; rna dall’altro quella  medesima riduzione relativa  del consumo si pone come  un vincolo alia formazione di capitale. A conferma del secondo  lato  di questa  contraddizione, basti  ri­ cordare  che,  storicamente, formazione di capitale  e consumi hanno  sempre  mostrato la tendenza a svilupparsi o a rallentare secondo  andamenti sostanzialmente paralleli. Per un verso,  dunque, la produzione capitalistica, in quanto  subordina  il valore  d’uso al valore di scambio, tende a uno sviluppo della. produzione che provoca  un’eccedenza crescente della produzione rispetto  a quel consumo  che e reso possibile  dalla poverta  delle  masse salariate e dal fatto che il plusvalore e solo in piccola parte destinato al consumo; per l’al­tro verso, la formazione di capitale, che cos!occorrerebbe per avere domanda sufficiente,e regolata proprio  dall’andamento del consumo. Da questa  contraddizione nasce  la crisi come  crisi di realizzazione. In questa  sensa, dunque, si puo dire che il capitale  presenta un vincolo  interna  al proprio  sviluppo(60).Conviene ora passare alla  seconda traduzione del riferimento della  crisi  alla  contrad­ dizione dialettica in  sensa hegeliano. Vedremo che  questa seconda strada non  cancella l’altra, rna la ridefinisce: in quanta ora la proposta diviene quella di integrare sottocon­ sumo e sproporzioni dentro la Iegge  che  afferma una  tendenziale caduta del  saggio del profitto, in  una  nuova formulazione che  sia  immune dalle  critiche consuete. La  tesi  di Napoleoni, in  netto  contrasto con  le due  introduzioni del  1970, e ora  «che la Iegge  sia sostanzialmente esatta» (61) .Non  si deve  guardare la Iegge  come qualcosa che  immediata­ mente esprime una  determinazione quantitativa, rna indagare innanzi tutto  e qualitati­ vamente il saggio del profitto come la risultante di due tendenzcontrastanti. Gli effetti contraddittori vanno cioe  prima  considerati come risultati di tendenze die danno vita ad una particolare configurazione non meccanica rna sociale del rapporto capitalistico. Sol­ tanto  a questa punta sene puo derivare una conclusione sull’andamento dinamico anche quantitativa (che, e ad un tempo, storicamente determinato) di un sistema capitalistico la cui struttura cambia nel tempo. In che sensa?In  breve, si tratta  di cio.  La  motivazione della  caduta del  saggio di  profitto «e  tutta intema al meccanismo di  produzione capitalistica. La  contraddizione e tra  aspetti delcapitale, non  del capitale con  un’altra cosa, la natura»62 Nella  corsa  dell’accumulazio­ ne, il capitale tende  allo sviluppo delle  forze produttive. Peril tramite dell’aumento della composizione organica del capitale, cio  porta  alla  diminuzione relativa del  capitale va­ riabile. Ne consegue una  espulsione diforza-lavoro dal  processo produttivo. Sappiamo pero chela creazione di valore, e dunque anche di plusvalore, non rimanda ad altro che al lavoro vivo impiegato nella  produzione, e dunque all’uso di quellajorza-lavoro «attacca­ ta» ai lavoratori salariati. «II rapporto tra capitale e lavoro salariato e contraddittorio: da un lata, illavoro salariato produce le aggiunte al capitale, dall’altro e cio che  il capitale tende  ad espellere, perche questa e il modo in cui  si aumenta la produttivita dellavoro [in realta: forza produttiva dellavoro], e quindi il profitto»(63). A partire da questa considerazione, si puo ragionare come segue. Vista la svalutazione degli  elementi del  capitale costante e senz’altro vera  che  il  mutamento dei  metodi di produzione comporta un innalzamento della  composizione organica del capitale (64)mino­ re di quello che  si avrebbe se quella svalutazione non  si desse. Come continua ad esser vera  che,  a salario reale  costante, l’aumento della  forza  produttiva dellavoro si traduce in una  compressione relativa del capitale variabile, dando luogo, a pari  lunghezza della giomata lavorativa65 , ad  un aumento del  saggio di plusvalore che  potrebbe persino far crescere quel  saggio del  profitto(66)  Non  si puo  dunque dire  nulla  a priori  su quale forza prevarra. Cosi come non  si puo  dire nulla a priori  sulla tendenza del  saggio del  profitto come funzione della massa del  plusvalore rispetto alia  massa del  capitale costante: Tutti punti, come si vede, che  confermano sin  qui  completamente le conclusioni del1970. II punto cruciale e che  le forze che  agiscono in senso compensativo dell’aumento della composizione organica fanno prendere all’economia capitalistica una  fisionomia partico­ lare:  «[l]’aumento del  saggio del  profitto none un fatto della tecnologia capitalistica, in­ differente, e un aumento della produttivita [meglio: della forza produttiva] dellavoro nella produzione capitalistica, nella forma dell’aumento del rapporto di sfruttamento, del saggio di sjruttamento»(67)   Se  questo succede, l’economia assume sempre di  piu  un  aspetto alia Tugan Baranovskij,rna questo comporta delle possibili conseguenze. Conseguenze, innan­ zi tutto, proprio sul terreno  del processo di riproduzione, nel  senso che  !’incremento del saggio di plusvalore rende sempre  ph’t pressanti le difficolta di realizzazione del plusvalore nella forma, insieme, del sottoconsumo e delle sproporzioni. Tra le possibili conseguenze, peraltro, centrali sono ora  anche e  soprattutto quelle eventuali di  carattere sindacale  e politico, perche «[c]’e un  grado di sopportabilita del  saggio di sfruttamento, la situazione sociale none piu  controllabile oltre un certo limite»(68). L’aumento del  saggio di plusvalore e aumento del saggio di sfruttamento. None soltanto una questione tecnica, e dunque «non pub rimanere senza  effetto sui rapporti di classe, sulfa latta di classe, ed in particolare sul livello del salario»69 Nelle condizioni date, l’aumento del  salario reale in eccesso rispetto alia forza produttiva dellavoro fa cadere il saggio di profitto.In conclusione: «[l]a legge del  saggio del  profitto e dunque per  Marx un  pezzo essen­ ziale  dell’analisi, e il punta  in cui  si raduna tutta  la sua  teoria  del  capitalismo e le  sue conclusioni»(70) ; rna «la caduta del saggio del profitto  none intesa  in modo meccanicisti­ co, vie un costante riferimento a connessioni sociali»(71)

3.3 Teoria  della  crisi: estrazione di plusvalore relativo, crisi  da domanda, e antago­nismo sociale

La ricostruzione della teoria marxiana della crisi da parte di Napoleoni si svolge lungo questo doppio asse: la formulazione di una teoria  unitaria della crisi da insu:fficiente  realizzazione del plusvalore; e l’integrazione della  crisi  da realizzo dentro una lettura non meccanicistica della caduta tendenziale del saggio del profitto. E una ricostruzione che mi pare largamente condivi­sibile. Essa  andrebbe semmai radicalizzata  in alcuni  punti, di cui si dira in sintesi estrema. La  dinamica del  saggio di plusvalore viene in  primo piano in  Napoleoni soprattut­ to  quando si  introduce il  discorso sulla caduta tendenziale del  saggio del  profitto. II saggio di plusvalore e invece, a me  pare, gia  centrale nella spiegazione unitaria della crisi da  realizzo. E la integrazione dei  due filoni (impropriamente definiti) delle «spro­ porzioni» e  del   «sottoconsumo» all’intemo  della crisi da  realizzo la si trova invero presente gia  nella stessa riflessione di Marx. Seguendo questo filo  di ragionamento e possibile evitare le  oscillazioni dell’economista italiano dovute al  ruolo preminente del  consumo finale quale causa ultima della crisi, spostando l’accento sulla domanda di investimenti.
Si  dovrebbe anche  superare la divisione troppo  rigida  e tradizionale che  si da in  Na­ poleoni tra creazione (nella  produzione) e realizzazione (nella  circolazione) del valore. ll valore e presente so!tanto allo stadio  latente  nella produzione, e si attualizza nel momento dello  scambio effettivo sui  mercato finale  delle  merci. Le  imprese pero  producono sulla base  di una  domanda normale al livello  atteso  – Marx  nel terzo  libro  del Capitale parla di «domanda ordinaria». E la domanda normale attesa  che  determina in modo  definitivo il lavoro  socialmente necessaria. Si fa riferimento non  esclusivamente ad una media  tec­nica data dallato dell’offerta, rna anche  alia soddisfazione del bisogno sociale pagante dal lato della  domanda. Potremmo dire cosi,  che nel «breve  periodo» la produzione di valore e trainata dalla  domanda (ordinaria)(72) :E ana  Iuce di questo fatto  che  va riletta  l’analisi della  valorizzazione del primo  libro  del Capitale, una volta che si sia raggiunto nell’espo­sizione sistematica delle categorie lo stadio  del terzo  libro. In forza  di cio, illavoro nella produzione di merci si da davvero «concretamente» come pari allavoro socialmente medio effettivamente erogato nei processi capitalistici. Non, si badi, in forza  di una sorta  di Iegge degli  sbocchi: esattamente per  la ragione opposta. ll vero  limite  (superabile) di  Marx  e semmai l’assenza degli investimenti come  domanda autonoma. Un limite  che e dovuto in larga misura allivello di astrazione a cui si muove Il Capitale. Vediamo di approfondire molto in breve  soltanto il primo punto, quello qui pili crucia­ le, relativo al rapporto tra la crisi da realizzo e la crisi da caduta del saggio del profitto. La rappresentazione da parte  di Napoleoni delle  posizioni di Tugan Baranovskij e di Rosa Luxemburg come, rispettivamente, la prima «armonicista» e la seconda «sottoconsumi­ sta», none in verita  del tutto corretta. Peril primo(73) , come poi ancora pili nettamente per Hilferding(74) , si tratta  dell’insorgere di situazioni di  sovrapproduzione di merci, cioe  di eccesso dell’offerta sulla  domanda, in settori particolari. Anche se compensati da spro­ porzioni in senso opposto in altre  branche di produzione, gli eccessi di offerta si genera­ lizzano, causando uno squilibrio a livello aggregato. Perla seconda, come prima in modo pili scolastico e meno  inventivo anche per  Kautsky(75) , non  si tratta  di sottoconsumo. Si tratta  semmai di  mettere in  questione la  possibilita astratta di  una  domanda crescente di ‘mezzi  di produzione per  la mancanza di un incentivo all’investimento, e questo per la difficolta di immaginarsi un flusso  di profitti continuo e stabile nel  tempo, visto  che quelle macchine, prima o poi,  dovranno sfociare nella  produzione di beni  di consumo. Una  posizione poi non cosi lontana da quella dello stesso NapoleonF 6 . Main verita  questa  tesi,  presente nell’Accumulazione del  capitale del  1913, aveva  la sua origine in un altro punto  della sua riflessione che si ritrova  nelle lezioni di Introduzione all’economia politica  di qualche anno  prima(77). Un  punto  che,  benche con  tutta  evidenza stia alia base della problematica dell’opera pin famosa, non le riusd di integrare nel ragio­ namento cosi  da poter  svolgere una formulazione meno  debole  della  propria  teoria della crisi.  A parita  di salario  reale,  aveva  ricordato la Luxemburg, l’estrazione di plusvalore relativo significa in realta anche la compressione del salario  «relativo»: dunque ancora una volta  «basso consumo delle masse». Cio che avrebbe dovuto aggiungere e che,  una  voltacollocata dentro gli schemi di riproduzione, quella  sistematica spinta verso  l’alto del sag­gio di plusvalore – una spinta  che viene  prodotta dalle ondate di innovazioni indotte dalla doppia pressione del conflitto (verticale) capitale-lavoro e della  concorrenza (orizzontale) tra imprese – da luogo inevitabilmente ad una modificazione continua e sempre  piu rapida dei rapporti di scambio tra rami della produzione. II che non puo non sconvolgere le con­ dizioni di equilibria della riproduzione allargata, e fa scoppiare la crisi da realizzo. A questo punto, di nuovo, tutto  va al suo posto. In questo quadro- quello di una economia ormai comp’iutamente capitalistica, e per­cia  ormai soggetta a quella continua rivoluzione tecnica dei rapporti sociali di produzio­ ne che  e tipica della  fase  della  sussunzione reale  dellavoro al capitale -l’investimento non  puo  non  aver  luogo in condizioni di sempre maggiore incertezza. E per questo che l’incentivo ad investire diviene il vero  problema. Ed e per questo che  e l’investimento e non  il consumo a configurarsi come la variabile chiave che fa esplodere il problema di una  insufficienza di domanda effettiva. Come e altrettanto ovvio che,  data  l’instabilita del sentiero di crescita che cammina su una «lama  di coltello», la caduta dell’investimen­to si deve  tradurre prima o poi in una crisi  generale. Di  tutto  cio  si era  reso  conto lo stesso Marx. I brani  citati  da Napoleoni- contenuti nel terzo  libro  del Capitate, pin precisamente nel cap. XV  della  Terza  Sezione dedicato allo  «sviluppo delle  contraddizioni intrinseche alia  legge» della  caduta tendenziale del saggio di profitto- andrebbero riletti sullo  sfondo di alcune considerazioni che  si trova­ no  nei  Grundrisse e che  vanno nella  direzione che  ho appena suggerito(78).  Si  veda, per esempio, questo brano: a un dato livello dello sviluppo  delle forze produttive – giacche  tale sviluppo determi­ ned il rapporto tra lavoro  necessaria e lavoro  eccedente – si stabilisce  una proporzione fissa in cui il prodotto si divide in materia  prima, macchinario, lavoro necessaria e lavoro eccedente, e infine illavoro eccedente stesso si divide in una parte destinata  al consumo, e in un’altra parte che ridiventa  capitale. Questa  divisione  concettuale intema al capitale si  presenta, nello  scambio, sotto  forma  di proporzioni determinate e limitate – se pur costantemente mutevoli  nel corso  della  produzione – riguardanti lo scambio reciproco tra i capitali  […] Lo  scambio  in  se e per  se conferisce, a questi  momenti concettual­ mente  determinati l’uno rispetto all’altro, un’esistenza indifferente; essi  esistono l’uno indipendentemente dall’altro; la loro necessita  interna  si manifesta  nella  crisi, che pone violentemente fine all’apparenza della loro indifferenza reciproca. Una rivoluzione nelle forze  produttive  inoltre  modifica  questi  rapporti, trasjorma  questi  rapporti stessi  il cui fondamento – dal punto  di vista  del capitale  e percio stesso  anche  della  valorizzazione mediante  lo scambio  rimane  sempre  la proporzione  tra lavoro necessaria e lavoro  ecce­ dente o, se si vuole,  tra i diversi  momenti dellavoro materializzato e illavoro vivo […] Se la produzione procede  non tenendo  conto di questo stato di cose  nello scambio dovra infine risultare. dall’una o dall’altra parte  un meno. una grandezza negativa(79).E chiaro da questa  citazione che  per Marx: (i) 1’equilibria e possibile; (ii) 1’estrazione di plusvalore relativo, e quindi !’incremento nel saggio di sfruttamento, e cio che fa cadere la quota  dei consurni, e che  nello  stesso  tempo sconvolge le proporzioni di equilibria tra settori; (iii) la produzione capitalistica, se comporta nella sua essenza l’estrazione massima  possibile di lavoro eccedente da una popolazione lavorativa data,  non ha invece come sua necessita interna quella  di dar luogo ad una crescita proporzionata; (iv) cio invera la tesi che abbiamo qui ache fare con una conseguenza della contraddizione dialettica che carat­ terizza  prima la merce e poi ilcapitale, peril vincolo (interno) che il valore  d’uso (sociale) pone  alia produzione del valore  (che deve incamarsi nel valore  di scambio).Per  quel  che  riguarda la caduta tendenziale del saggio del  profitto, a quel  che  sostie­ ne  Napoleoni possiamo aggiungere altre  due  considerazioni. La  prima e che  Napoleo­ ni,  almeno in  queste Lezioni, sembra configurare la reazione all’aumento del  saggio di sfruttamento soprattutto come un aumento del  saggio di salario (reale). La  sua  lettura arriva percio pericolosamente vicina ad  una  classica formulazione da  «compressione» distributiva del  saggio di  profitto per  la  via  delle  lotte  salariali. Eventualita possibile,rna che  non  rni  pare  ne teoricamente ne storicamente centrale. :E semmai la possibile resistenza diretta sui terreno della  valorizzazione immediata – cioe  le possibili difficoltà nell’estrarre lavoro vivo  in quantita adeguata aile necessita di un aumento del  saggio di sfruttamento- che rni pare da individuare quale risposta sociale pili significativa nel caso in cui  il capitale riesca a controbattere la tendenza alia caduta tendenziale del  saggio di profitto per la via dell’aumento del saggio di plusvalore, e questo a sua  volta  non  dege­ neri  in crisi  da realizzo in forza di soluzioni in senso lato  «keynesiane». La  seconda considerazione da  aggiungere ha ache vedere, di nuovo, con  uno  spun­ to che  deriva dalla  Luxemburg. Mi  riferisco al modo con  cui  la rivoluzionaria polacca riformula la sua  teoria della  crisi  nell’Anticritica: un modo che  di norma i critici hanno trascurato nella  sua originalita. E mi riferisco anche agli sviluppi delle sue tesi da parte di Michal Kalecki(80). La difficoltà che ha in mente la Luxemburg attiene al fatto che  il capi­talismo e un circuito monetario’ dove la moneta e immessa endogenamente dalla classe capitalistica stessa (oggi  diremmo: peril tramite del sistema bancario, di cui pero la Lu­xemburg fornisce una rappresentazione inaccettabile nei termini del «produttore d’oro»). Non  si vede  allora come sia  possibile realizzare in forma  monetaria il plusvalore. Vero dell’incentivo ad investire ne accresce la capacita produttiva. A questo elenco si possono aggiungere il consumo improduttivo provenienti da aree  di «rendita», la spesa  pubblica «improduttiva», o le forme di spesa caratterizzabili come «spreco».Qui siamo evidentemente vicini  alia tematica che sara poi affrontata da Baran e Swe­ ezy nel Capitate monopolistico, come anche siamo vicini  aile tesi avanzate a pin riprese dallo  stesso Claudio Napoleoni, primae  dopo  (rna  anche in)  queste Lezioni dei  primi anni  ’70. Nella  prossima sezione diro dell’incontro con illibro di Baran e Sweezy da par­te di Napoleoni, quale i corsi di Politica economica dei primi anni  ’70 ce lo testimoniano. Per  l’intanto, mi  limito ad  osservare che  nella  misura.  in  cui  il  problema del  realizzo venga risolto peril tramite di una spesa «improduttiva», e quest’ultima debba essa  stessa crescere nel tempo costituendo una sottrazione al plusvalore potenziale – sottrazione che e pero  essenziale per  permettere la sua  crescita a spirale come plusvalore effettivo – la pressione sui saggio di sfruttamento, e dunque le possibili ragioni di una  crisi  «sociale» dentro la valorizzazione, vengono confermate e intensificate.Qualcosa del genere  sembra in effetti  dare conto  abbastanza bene- insieme ad altri fat­ tori, rna come  causa  centrale della  «crisi»- dell’esaurimento del modo  di regolazione c.d. keynesiano-fordista tra la meta  degli  anni ’60  e la fine degli anni  ’70 (83 ). E qualcosa del ge­ nere conferma, non solo in teoria rna in pratica, la centralita del saggio  di sfruttamento: non soltanto nel rileggere la teoria  marxiana del valore-lavoro astratto, rna anche  nel riunificare e sviluppare, in modo non scolastico rna creativo (e pero fedele  all’ispirazione originaria di Marx), la teoria  marxiana della crisi generate. Che e altra cosa dalla  teoria  del crollo.

4.  Il capitale monopolistico di Baran e Sweezy e la tendenza all’ aumento del surplus:la compatibilita con la teoria marxiana del valore-lavoro astratto

Veniamo alla  ricezione da parte  di Claudio Napoleoni del  Capitate monopolistico di Baran e Sweezy. Cosa  sia il «capitale monopolistico», lo si puo  dire  in breve ricorrendo alla  definizione che  ne fomisce Napoleoni stesso nella  voce  «Capitale». Si  tratta  di «quella fase  della  sviluppo capitalistico, in cui sono  prevalenti le imprese di tipo  mono­ polistico, ossia  quelle imprese che perle lora  dimensioni, hanna la possibilita di influire sui prezzi di cio che vendono e di cio che acquistano» (84) .Si tratta  di una fase che ha inizio a fine  Ottocento per  i fenomeni di concentrazione, fusione e assorbimento determinati dalla  dinamica stessa della  «libera» concorrenza  (una  concorrenza che  passa  in  modo essenziale per  la via della  riduzione dei  prezzi), e che  finiscono con  il rendere centrale il grado di monopolio e la battaglia per  la  «qualita» nell’analisi del  meccanismo della sviluppo. Senza che  cio  significhi la scomparsa della  concorrenza in quanta tale, visto che la concorrenza e implicita nella  natura privatistica del capitale. Siamo in presenza di un mutamento della  forma della  concorrenza, non  certo di una tendenza all’autopianificazione del  capitale. Questa tipo  di  concorrenza, sostiene Na­ poleoni, convergendo in  molti  punti  con  l’analisi dei  due  economisti statunitensi, «si esercita con  tutti quei  mezzi (abbassamento dei costi unitari mediante mutamenti tecnici e organizzativi, pubblicita, ecc.)  che valgono a contrastare la sempre possibile «entrata» nel mercato di altre imprese o a indirizzare la spesa dei consumatori verso  certe  direzioni piuttosto che verso  altre» (85).

4.1  La fase monopolistica del capitalismo e il libro di Baran e Sweezy

II volume di Baran e Sweezy e di fatto  l’oggetto della  penultima sezione della  voce«Capitale» di Napoleoni, che peril resto  e quasi integralmente dedicata ad esporre la te­oria  marxiana (senza mai accennare al problema della  trasformazione); !’ultima sezione e invece rivolta a un esame di alcuni aspetti della  «[t]eoria borghese del capitale»(86). AI Capitale  monopolistico sono  pero  anche destinate alcune lezioni conclusive dei corsi  di Politica economica e finanziaria del1971-72 e del1972-3, il cui argomento era definito come «la realizzazione del plusvalore e la politica economica nelle  economie capitalisti­ che  modeme». In quel  che segue faremo soprattutto riferimento alia  sbobinatura di una lezione che e stata  conservata integralmente, del 12 maggio 1973.Secondo i due  autori statunitensi, il capitale monopolistico accentua le difficolta che il capitale incontra sui  terreno della  realizzazione del  plusvalore di cui  si e detto  nellasezione precedente. Si badi, cio non ha affatto ache vedere con una presunta superiorita del  capitalismo di libera concorrenza sui  capitalismo monopolistico come «macchina»per la crescita. Sweezy e troppo buon  allievo, oltre  che arnica, di Schumpeter per caderein una  visione del ristagno ingenua come questa. II suo  obiettivo, con  Baran, e semmai l’opposto. Primo, mostrare come le potenzialita di crescita vengano incredibilmente svi­luppate  dalla  mutazione monopolistica del  capitalisma. Secondo, far  vedere come cio dia luogo ad un aggravamento dei problemi che il capitale incontra sui terreno della  do­ manda effettiva, ovvero la difficolta di trovare sbocchi adeguati a consentire lo smercio dei prodotti a prezzi tali da coprire i costi e il profitto: far vedere, dunque, come si instau­ ri e aggravi una  tendenza  alla stagnazione. Terzo, chiarire come tale  tendenza, invece di  inverarsi immediatamente, sia  stata  efficacemente rna  perversamente  controbattuta dall’evoluzione concreta  del  capitalismo stesso, senza rimuovere la  deriva verso   una crisi  immanente che  rivelerebbe l’irrazionalita e lo spreco tipici  del capitalismo mono­ polistico, rna per il momento solo  spostandola in avanti. II pemo di questa costruzione teorica e interpretativa e la sostituzione alia caduta tendenziale del saggio di profitto mar­ xiana – letta  meccanicisticamente attraverso i canoni del marxismo ortodosso, e dunque giustamente criticata – di una tendenza all’aumento del surplus, o «sovrappiu». Di  questa articolazione sofisticata del  ragionamento di  Baran e Sweezy Napoleoni si  rende ben  conto. Come si  rende  ben  conto della  critica che  i due  autori rivolgono contro chi,  come Berle  e Means(87) , sostiene l’avvento di un capitalismo «manageriale» che  segnerebbe una  separazione tra  proprieta e  gestione economica delle  imprese. E una  critica che  si svolge prevalentemente sui  terreno della  contestazione al riferimento empirico costituito dalla realta  statunitense, e che pen)  Napoleoni conferma anche per la diversa realta italiana. Secondo Berle e Means l’impresa monopolistica e ormai diretta da  manager indipendenti dai  proprietari (tanto grandi che  piccoli), e non  sarebbe piu orientata alia  massimizzazione del profitto rna alia  riduzione dei costi, all’allargamento delle  vendite, al miglioramento della  qualita, allo  sviluppo dell’impresa. Osserva Napo­ leoni nella  lezione: [Baran  e Sweezy]  concordano nel mostrare  che i «manageD>, cioe  questo  strato  so­ ciale  effettivamente esistente, in realta  appartiene allo  strato  superiore  dei  proprietari. Non  esiste  affatto  il divorzio, la separazione tra gestione  e proprieta, rna se mai esiste una differenziazione all’interno della proprieta: nel senso chela proprieta  delle imprese e, per un lato,  la parte che conta qualitativamente poco (quale  che sia la sua estensione quantitativa) costituita  da puri proprietari (da puri azionisti); per l’altro lato, esiste  sem­ pre, all’interno della proprieta  e non all’esterno di essa, un’altra parte, che Marx avrebbe chiamato dei capitalisti attivi, che sono proprietari essi stessi,  e che oltre ad essere  pro­ prietari  svolgono  questa funzione  di controllo. […] Stabilito questo  punto,  questi  autori deducono da questa circostanza una conseguenza che sembra  ovvia, e cioe che quali che siano  gli scopi particolari  che i manager  si propongono di ottenere  nel dirigere  i capitali che hanno  sotto controllo, una cosa e sicura,  che questi  scopi  particolari  si trovano  tutti all’intemo, come altrettante  specificazioni di casi particolari, di uno scopo che resta uni­ tario  e fondamentale e non diverso  dallo  scopo  che  e sempre  stato  tipico  del  processo capitalistico, cioe la massimizzazione del profitto rispetto, si capisce, al capitale costante. Per cui quelle  stesse  pratiche  che,  a prima  vista,  potrebbero far supporre  che  gli scopi perseguiti non siano quelli della massimizzazione del profitto, quando vengono  analizzati con maggiore attenzione  mostrano  che nel peggiore dei casi si tratta  semplicemente di una massimizzazione del profitto  condotta  semplicemente con riferimento a pili lunghi periodi  di tempo di quelli che sarebbero presi in considerazione se si volesse  massimiz­ zare il profitto  immediato: cioe una massimizzazione del profitto  all’interno di piani di imprese che possono  avere la durata anche di parecchi  anni. Ovviamente, cio non significa che non possa verificarsi invece un con:flitto sulla  poli­ tica dei dividendi: con i proprietari «puri»  che spingono per la massimizzazione del pro­ fitto distribuito, e i manager che vorrebbero renderlo il piu basso  possibile. Un contrasto che  viene quasi sempre vinto  dai secondi, che  hanno in mano il controllo dell’impresa. Ciò  non  esclude che  talora  gli stessi manager potrebbero preferire piu alti dividendi, se  ciò comporta un aumento del valore del capitale che  a sua volta  migliora le opportunita di ottenere finanziamenti estemi. Lo  scopo prima dell’impresa rimane in  ogni  caso  la massimizzazione del profitto.

4.2 La lettura «marxiana» di Baran e Sweezy nel Napoleoni dei primi  anni  ’70

Il  punta che  impegna di pili  Napoleoni nella  sua  lezione e pero, comprensibilmente (date  le tesi presenti sulla  teoria  del valore e della  crisi  di cui si e detto  nelle due  sezio­ ni precedenti) un  altro:  ed  e la  giustificazione da  parte  di Baran e Sweezy della  legge dell’aumento tendenziale del  sovrappil’t  formulata dai due  autori, e la sua  compatibilita o meno  con la teoria  marxiana del valore. Per capire la ragione di cio,  e bene contestua­ lizzare la lezione all’intemo della  discussione sullibro che aveva avuto luogo ovunque, e anche in Italia, negli  anni  immediatamente precedenti. Una  discussione nella  quale  le argomentazioni dei  due  autori statunitensi erano state  interpretate un  po’da tutti  come un rigetto della  teoria  marxiana del valore e della  crisi88 • 11 che  non  poteva non  interes­ sare, rna anche non  poteva non  porre  problemi, al Napoleoni delle Lezioni e della  voce sull’Enciclopedia Garzanti. Cioe  al Napoleoni che con  quel Marx intendeva ora instau­ rare  una  relazione di continuita e ripresa (come soprattutto le Lezioni testimoniano), e che  pero  parimenti si trovava ad incorporare alcuni aspetti della  teoria  del  capitalismo monopolistico di Baran e Sweezy (come soprattutto la voce  conferma).Per capire come quelle interpretazioni potessero essere formulate in un sensa che dava per scontata una discontinuita forte di Baran e Sweezy nei confronti di Marx e sufficiente tomare allo  stile  e a qualche frase di quellibro. Allo  stile, innanzi tutto. Quellibro, la cui  stesura era  iniziata nel  1956, non  intendeva affrontare il problema del  capitale mo­ nopolistico dentro un apparato categoriale troppo esplicitamente legato al marxismo. In alcune parti, anzi, quelle sui monopolio, si comprometteva con strumentazioni analitiche di taglio marginalistico: pili utilmente Baran e Sweezy avrebbero potuto invece giovarsi dei  contributi eterodossi di Kalecki e di Sylos  Labini. Circostanza che  Sweezy stesso, nell’intervista a Savran e Tonak, giustifica con  l’obiettivo di risultare appetibili ad  un pubblico di studenti radical rna non educati dentro la tradizione, appunto, marxiana: «So we did use quite  a lot of Keynesian and neoclassical and monopoly theory concepts like marginal revenue curves, Keynesian ideas  of savings and investment as a way  of analy­ zing  the accumulation process, things  of that sort»(89).Ma spingevano a quelle interpretazioni anche i contenuti dellibro. Perche e indubbio che  nel  Capitate monopolistico il loro  approccio al  surplus e presentato con  frasi  che possono apparire fortemente e volutamente in contrasto con  qualsiasi continuita con  il concetto di valore marxiano: noi preferiamo il concetto di surplus al tradizionale concetto  marxiano di «plusvalo­re», poiché quest’ultimo nella mente di colora  che hanna consuetudine con la teoria mar­ xiana si identifica probabilmente con la somma del profitto, dell’interesse e della rendita.E vera che Marx dimostra-in alcuni passi del Capitate e delle Teorie del plusvalore- che il plusvalore comprende anche  altri elementi  come  le entrate  della  stato  e della  chiesa, le spese  per trasformare le merci in moneta,  e i salari dei lavoratori improduttivi. In generale,  tuttavia, Marx  considerava questi elementi come  fattori  secondari eli escludeva dal suo schema  teorico fondamentale. Noi sosteniamo che nel capitalismo monopolistico questa  impostazione non e piu giustificata  e speriamo che un cambiamento nella termi­nologia  contribuira al necessaria mutamento nella posizione teorica (90). Gioco presumibilmente, come si è detto, oltre  alla chiara volonta di allargare la defi­ nizione cantabile di plusvalore in modo da pater dare  spazio aile spese  statali e «impro­ duttive», anche la volonta di recidere ogni  richiamo tradizionale alia teoria della  caduta tendenziale del saggio del profitto. L’obiettivo era infatti di sottolineare il problema della determinazione del  plusvalore e della  sua  distribuzione dallato  della  domanda, in una situazione in cui le regale che  reggevano il meccanismo capitalistico erano pero  drasti­ camente mutate rispetto al capitalismo di libera concorrenza. Non  solo:  si doveva anche chiarire chela deriva verso un capitalismo pili organizzato non riduceva affatto (secondo la classica interpretazione di Hilferding, e di tutto un filone della  socialdemocrazia tede­ sca)  rna semmai aggravava la tendenza alla crisi  del capitale.Quello chee certo e che Sweezy, a distanza di vent’anni, anche qui, come nel caso della trattazione del rapporto tra valore e prezzo di produzione.nella Theory of Capitalist Development,formula delle considerazioni autocritiche. Dice infatti nell’intervista a Savran e Tonak: Perhaps  that was a mistake. We had originally planned  a couple  of other chapters  for Monopoly Capital  which  would have done more  by way of explaining the relations  be­ tween our conceptual framework and the Marxian  value analysis. These chapters were in very rough  draft,  not publishable in the book or in any other  form  when Baran  died,  so there  was no possibility of including them in the book. And I don’t know  whether  they would have succeeded, or whether  they were worth the attempt(91) .Vista  che  il punta e poco nato, vale la pena  di entrare un po’piu in dettaglio con  un paio  di altre  considerazioni e citazioni. Nell’introduzione alia  seconda stampa dell’edi­ zione greca del Capitate monopolistico Sweezy scrive (92) : Judging  from [the] reviews and from criticisms  appearing  in many books and articles, I am sorry to have to say that there has been a great deal of misunderstanding of what Baran and I intended  to say. This is not the place to attempt  to review  and correct  these misun­ derstandings, but I would like to take the opportunity  to clarify our position on one point. Many of our Marxists  critics have stated, as though it were a self-evident  fact, that Baran and Sweezy  reject the Marxist  theory of value (hence,  also by implication, the theory of surplus value). This is not so.At no .time in our long period of association  and collaboration did it even occur to us to reject the Marxist  theory of value. Our procedure  in Monopoly Capital was to take the labor theory of value as granted and go on from there. I can now see that this was an error. We should have begun our analysis with an exposition  of the theory of value as it is presented in volume I of Capital. We should have then proceeded  to show that in capitalist reality, values as determined  by socially necessary labor time are subject to two kinds of modification: first, values are transformed  into prices of production, as Marx recognized in volume 3; and second, values (or prices  of production) are transformed into monopoly prices  in the monopoly stage  of capitalism, a subject  which Marx  barely  men­ tioned, for the obvious  reason that all of Capital was written  well before the onset of the monopoly  capitalist period. At no time did Baran and I explicitly or implicitly reject the the­ ories of value  and surplus  value but sought only to analyze the modifications which become necessary as the result of the concentration and centralization of capital. If we had pursued this course, I believe many misunderstandings could have been avoided. Sui  punto, molto velocemente, si toma ancora una volta  in una nota  al saggio di Swe­ ezy compreso in The  Value Controversy dove  si sostiene che se i prezzi di monopolio non sono altro  che prezzi di produzione trasformati, cio non di meno  «shifting from value to monopoly price  have important consequences for the accumulation process, which is not true of shifting from value  to price of production»(93).Il  riferimento e qui’ mi pare’ proprio alla  legge dell’aumento tendenziale del  surplus. E però, si deve  dire,  dal libro del  1966 non risulta immediatamente chiaro come si debba intendere la conciliabilita tra teoria del valore-lavoro e tendenza all’aumento del  sovrappiu. Talora  Baran e Sweezy sembrano istituire un confronto tra capitalismo monopolistico e capitalismo concorrenziale, e limi­ tarsi  quindi ad arguire che il surplus nel primo caso  eccederebbe il surplus nel  secondo caso. Altre  volte  invece, pili significativamente, sembrano sostenere che  la  forma mo­ nopolistica del  prezzo consentirebbe un incremento ulteriore del sovrappiu rispetto alia situazione che emerge dalla  dinamica del processo immediato di valorizzazione. Le Lezioni di Napoleoni intervengono soprattutto su questa  seconda, cruciale, questio­ne. Se si prende  la seconda strada, si incontrano delle  difficolta evidenti in un  approccio che  si vorrebbe incentrato sulla  teoria  del valore  alia Marx. La ragione e palese, e Napo­leoni  la espone con riferimento ad un passo  poco  citato  del libro terzo  del Capitale. Qui Marx  sostiene che monopoli naturali o artificiali rendono possibile un prezzo di monopolio superiore al  prezzo  di  produzione e al  valore  delle  merci. Marx  chiarisce subito, pero, che  «i limiti dati dal valore delle  merci  non  sarebbero per questa soppressi» (94). ll modo di determinazione dei prezzi  non  puo  infiuire  sulla  formazione del  valore  e del  plusvalore: incide  soltanto sulla distribuzione del plusvalore tra i vari capitali. 11 prezzo di monopolio consente semplicemente di appropriarsi di una parte del profitto delle altre imprese, invece di spalmarlo uniformemente tra tutte:  «La ripartizione del plusvalore tra le diverse sfere di produzione subirebbe indirettamente una perturbazione locale, che pero  lascerebbe in­variati i limiti  di questa plusvalore stesso»(95). E anche  possibile che la merce  con  prezzo di monopolio entri  nel consumo necessaria dell’operaio: in tal caso,  essa potrebbe falcidiare il salario reale facendolo scivolare al di sotto  del valore  della forza-lavoro, nel caso  in cui quest’ultimo fosse  originariamente al di sopra  dellivello fisico minima di sussistenza. L’extra-profitto del capitale monopolistico deriverebbe allora o da  altri capitali o da una  possibile redistribuzione  dal  salario al  profitto, comunque di  dimensioni ridotte. Commenta Napoleoni: Questa proposizione di Marx e rigorosamente coerente con la teoria del valore lavoro: il valore e il lavoro oggettivato nelle merci, e la forma di mercato entro cui questa oggettivazione avviene non ha nessuna rilevanza rispetto all’entita  di questa oggettivazione. ll plusvalore dipende dal modo in cui illavoro complessivo si ripartisce fra lavoro necessaria e pluslavoro: e in questa ripartizione, salvo questo caso che stiamo considerando, di nuovo la forma di mer­ cato non interviene. Quando e che interviene la forma di mercato? Quando si deve stabilire come questo plusvalore si ripartisce fra i vari capitali, ed eventualmente tra operai e capitalisti se ilsalario e interessato da prezzi di monopolio e nella misura in cui lo sia. Questo non  significa chela tesi di Baran e Sweezy non  possa essere resa  compatibile con l’approccio marxiano, almeno secondo Napoleoni. Se infatti la loro conclusione non puo  implicare che  il capitale monopolistico produce di per  se pili plusvalore di quanto ne  produrrebbe se  la  situazione, tutto  il  resto rimanendo invariato, fosse liberamente concorrenziale, essa  puo  pero  far riferimento ad altri  due  processi. Processi a cui in ef­ fetti, secondo Napoleoni, i due  economisti statimitensi rimandano nelloro libro, sia pur confusamente. n primo processo ha ache vedere  con la dinamica dellaforza produttiva dellavoro nel capitalismo monopolistico. Data  la forza  produttiva dellavoro e in CQrrisporidenza di un determinato salario· reale  si  determina un  particolare livello del  plusvalore indipenden­ temente dalla  forma della  concorrenza. «Se  pero  si potesse affermare che,  nel  caso  del capitale monopolistico, c’e una crescita di produttivita [della  forza  produttiva] dellavoro maggiore di quanto accadrebbe in una  situazione concorrenziale, allora  la tesi di Baran e Sweezy avrebbe un senso  [coerente con  la teoria  del  valore  marxiana e la sua  teoria  del prezzo di produzione e del prezzo di monopolio]» (96) .II capitale monopolistico estenderebbe la base  su cui si produce  plusvalore, ovvero la forza  produttiva dellavoro, attraverso una tecnologia migliore. «Se questa  tesi e giusta, allora  e chiaro che potrebbe essere attribuita al capitalismo monopolistico una tendenza ad aumentare il plusvalore maggiore di quanto altrimenti si avrebbe»(97). E, aggiunge, questa tesi e importante «per non fare delle  critiche romantiche al monopolio, critiche di tipo arretrato: questa tesi che il monopolio comporta l’arretratezza- arretratezza tecnologica, arretratezza nella spinta  allo sviluppo capitalistico-questa è una tesi non pili valida, e Baran e Sweezy la respingono»(98).II secondo processo riguarda  il salario, rna in una situazione un po’diversa da quella con­ siderata da Marx. Nel caso a cui fa riferimento l’autore del Capitale e vero che ilcapitalista che vende  all’operaio un bene salario  al prezzo  di monopolio ottiene  un valore  aggiuntivo. E anche vero, però, che cio potrebbe voler dire che tutti gli altri capitalisti saranno  costretti a pagare  salari pili elevati. Tomeremmo cosi al caso in cui il capitale che gode di condizioni di monopolio ottiene ilsuo extra-profitto attraverso una diminuzione del profitto di altri capitali, senza alcun aumento tendenziale del sovrappili come plusvalore. C’e pero un altro meccani­ smo che potrebbe a questo  punto mettersi  in azione. Si torni ad ipotizzare un aumento della forza produttiva dellavoro; se vi corrispondesse un aumento del saggio di salario reale nella stessa proporzione, e se l’intensita capitalistica si muovesse allo stesso ritmo della forza pro­ duttiva  dellavoro, ilsaggio del profitto rimarrebbe costante. D’altronde, in regime  monopo­listico  i prezzi possono essere controllati dai capitalisti monopolistici, e questo  aumento po­ trebbe addirittura essere «accomodato» dall’autorita monetaria. Cio significa che, anche se il conflitto salariale potrebbe nel tempo dare luogo ad aumenti di salario reale potenziali, questi ultimi vengono di fatto progressivamente erosi dal capitale, in forza appunto  di quell’aumen­to dei prezzi che gli e possibile  praticare  vista la particolare struttura di mercato. In una situazione di libera concorrenza il salario reale  segue  da vicino i movimenti del salario monetario. Cosi none in condizioni di monopolio. «In questo senso dinamico, nel caso  del capitale monopolistico noi abbiamo, a partire dai salari, un trasferimento verso  i profitti del valore  addizionale creato dall’incremento della produttivita [forza produttiva] del  lavoro»(99).  Questa seconda strada all’aumento  tendenziale del  plusvalore, osserva Napoleoni, e tanto  pin rilevante quanto pin, nel capitalismo contemporaneo, il salario di­ pende da un conflitto tra le classi sociali: il che rende  tanto pin significativa la possibilita da parte  del capitale di sfruttare una configurazione monopolistica del mercato. E se questo e vero  si giustifica Ia premessa su cui il libro  e basato, anche se tutto cia [nellibro] e argomentato diversamente: il problema del realizzo di questo  «sovrappiu» si pone in termini gravosi al capitale proprio per la [sua] tendenza ad aumentare. Ancora una volta, occorre notare come ogni  pratica che aumenti il profitto  all’interno del processo di produzione pone  un problema opposto sui terreno della  realizzazione. Questo problema si pone  in termini esasperati nel caso  del capitate monopolistico (100 ).A ben  vedere, questo e esattamente il modo con cui Napoleoni rappresenta il capitale monopolistico nella  voce  Capitale. La  linea  di lettura scelta  e quella che  scioglie nel senso della  continuita con  la  teoria  marxiana del  (plus)valore quelle che  nella  lezione registra come  ambiguita nellibro di Baran e Sweezy. AI tempo stesso, con  tutta  eviden­ za, Napoleoni sovrappone al ragionamento dei due economisti statunitensi propri spunti teorici e interpretativi del capitalismo contemporaneo(101).  Come nella  lezione del maggio 1973, nella  voce  di enciclopedia la tendenza all’aumento del sovrappin («parte del valo­ re il cui assorbimento da parte  del  mercato e condizionato dalla  spesa per consumi non salariali e dalla  spesa  per investimenti») viene  fatta  dipendere da un lato,  dall’accelerazione del processo  di abbassamento dei costi  unitari,  qual  e consentita dall’aumento delle dimensioni d’impresa e percio dalla possibilita di adottare nuove tecnologie e nuovi metodi di organizzazione dellavoro, e, dall’altro lato, dalla pos­ sibilita che le imprese hanno di influire sui prezzi rispetto ai salari monetari, contrastando cos’ila  tendenza, che il salario reale altrimenti avrebbe in virtu della forza sindacale, a so­ pravanzare gli incrementi di produttivita. Se la spesa per investimenti e il consumo diretto dei capitalisti non sono,  insieme, sufficienti  ad assorbire  questo  sovrappiu, si determina un vuoto di domanda, che, se none colmato  per altre vie, rende soltanto  potenziali e non reali i maggiori  profitti insiti nell’accrescimento del sovrappiu (102). La difficolta di realizzo viene a questo punto risolta secondo modi «estemi» o «inter­ ni». Per quelli esterni, Napoleoni ricorre pin all’argomento leninista dell’investimento in aree  sostanzialmente precapitalistiche per  ottenere un saggio del  profitto pin  elevato di  quello che  sarebbe possibile nel  centro (giustificandolo con  la presenza di un  pili  basso costo dellavoro) che a quello luxemburghiano di una  domanda aggiuntiva netta di merci. Tra  quelli interni, seleziona i seguenti: le spese per  pubblicita e simili delle imprese stes­ se; laformazione di ceti  improduttivi ( consumatori rna non  produttori di sovrappiu) come le burocrazie pubbliche e private, l’intermediazione commerciale pletorica, la borghesia finanziario-speculativa, i quali danno tutti vita  a una  domanda per  consumi che ha come sorgente il plusvalore rna  e solo indirettamente spesa della classe capitalistica; la  spesa pubblica, in particolare se  in disavanzo, non  necessariamente utile [meglio: i cui  valori d’uso non  rientrino nel  processo di riproduzione], in particolare la spesa militare: L’esempio di queste  pratiche configura un capitalismo che e aggressivo verso l’esterno, e che ha rilevanti elementi di «improduttivita» all’intemo, dove la «produttivitiD> e determinata secondo i criteri del capitalismo stesso, e dove, d’altra parte, il termine di riferimento e costi­tuito dalle potenzialita implicite nello stesso capitale  monopolistico, e non dai risultati conse­guiti dal capitalismo concorrenziale,-che aveva una dinamica certamente nieno accentuata. ll capitale  monopolistico, che pure ha modificato sostanzialmente ilclassico andamento ciclico del primo  capitalismo, e dunque soggetto ad una particolare instabilita, dovuta  alia compre­senza  della  tendenza  inflazionistica derivante dalla  possibilita  di amministrare i prezzi, e di quella defiazionistica, derivante dalla difficolta  di realizzazione(103) In  questa citazione sono evidenti due   punti dove la  personale rilettura e  curvatura da  parte di  Napoleoni dell’argomentazione di Baran e Sweezy e implicita rna  chiara. II primo e che  l’improduttivita di  questo capitalismo none definita rispetto a un  metro di misura che  sia  diverso da  quello del  sistema reale che  si espone e si critica. II punto di vista e cioe- marxianamente- del  tutto e integralmente immanente. II Secondo e che  il ragionamento di Baran e Sweezy viene ridefinito in  modo da  dar  conto di  quella com­ presenza di stagnazione e in.flazione che  peril nostro autore caratterizza in modo ormai duraturo il capitalismo italiano, e globale, degli anni ’70. II discorso prende una  torsione particolare. Nel  capitalismo monopolistico, viste le sue differenze dal capitalismo di Iibera concorrenza, si ridefinisce il modo con  cui si configura la crisi generale per  difficolta di realizzazione del  plusvalore. Su  questo spunto fornito da Baran e Sweezy Napoleoni innesta pen) la forma in cui nelle  nuove condizioni storico-so­ciali si rende attuale la tendenza alia caduta tendenziale del saggio del profitto, da lui riletta in modo «non meccanicistico>>. La variabile chiave e il possibile aumento del salario reale come reazione all’ «insostenibilita» dell’aumento della sfruttamento. Si tratta di  un  tema che  abbiamo visto essere al centro delle Lezioni di Torino dei primi anni Settanta. E sufficiente tomare indietro di due  colonne nella voce dell’Enciclopedia Europea per vedere chiudersi la logica stringente del  discorso di Napoleoni. II capitalismo sfugge alia crisi da realizzo mediante l’espansione di un’area di «rendita» che, se rende la massa del profitto che  viene appropriato dalle imprese minore di quella potenziale, consente pen) di realizzare quella minore quantita di  profitto. Si  impedisce cosi  al  sistema economico di scivolare nella crisi aperta. Qualora in questa particolare struttura sociale intervengano le lotte salariali, e possibile che  queste ultime, aggiungendosi alia  rendita, comprimano il profitto effettivo senza che  il capitale si decida mai  a sostituire il salario alia  rendita come forma di  domanda(104).  Quando le lotte dei  lavoratori si esprimono in un  salario reale che aumenta pin della  forza  produttiva dellavoro, il capitale in condizioni monopolistiche re­ agisce  con l’aumento dei prezzi. Se l’inflazione come  meccanismo di recupero del profitto si rivela  un’arma spuntata, e cioe incapace di moderare l’aumento delle  retribuzioni reali, il salario come  costo  si aggiunge al prelievo costituito dalla  rendita: la caduta del profitto si conferma, dando origine ad una crisi strutturale del rapporto capitalistico. Oppure l’arma dell’inflazione si rivela  efficace, rna a questa punta  «viene  allo scoperto il potere  sociale e politico dei ceti improduttivi, che,  diventando essi stessi il principale fattore d’inflazione, tolgono quest’ultima al controllo del capitale e danno luogo, di nuovo, a un elemento di crisi» 105•  I due  casi  possono anche  darsi in combinazione tra diIoro – e questa e secondo Napoleoni quanta in realta  avviene in quegli stessi  anni in Italia. Ecco  che [l]a situazione attuale delle societa capitalistiche viene dunque  a configurarsi come una situazione in cui i procedimenti a disposizione del capitale  (sul terreno della struttura so­ ciale e su quello  della politica economica) per alleggerire le sue contraddizioni oggettive sono altrettanti motivi  di rafforzamento dell’efficacia, sul terreno economico, dell’oppo­ sizione  di classe esercitata dal proletariato (106). Chi  ha buona memoria vede  bene  che lungo questa percorso argomentativo prendono corpo e sangue le tesi con cui Napoleoni, nell’introduzione alia seconda edizione di Smith, Ricardo, Marx del1973, definisce un programma di ricerca di ripresa  della teoria  del valo­ re-lavoro astratto come  teoria economica da riprendere sui terreno strettamente analitico, e non soltanto su quello dell’indagine filosofica attorno a alienazione e reificazione (107).Si trat­ta: di ricostruire la teoria  del valore  e quella  della crisi rendendosi conto  che la distinzione tra le due e arbitraria; di ridefinire le ragioni della  crisi da realizzo e da caduta tendenziale del  saggio del profitto, mostrandone i rapporti; e di ricondurre le varie  forme della  crisi alia natura  in senso  proprio contraddittoria del capitale. Una opposizione che ha come suo sbocco inevitabile «l’opposizione, non sporadica rna sistematica e irriducibile, dei produt­ tori al rapporto sociale in cui i produttori stessi sono inclusi. L’opposizione operaia, in altri termini, e nell’ambito del sistema, la disarmonia sistematica pin irriducibile»(108).

4.3 Una  teoria del crollo  «sociale», e Ia reazione del capitate aile  lotte  operaie

Il lettore che  mi ha seguito sin qui capisce da se che  l’accordo tra chi scrive e questa prospettiva teorico-politica e ampio rna non  completo. In estrema sintesi, e scegliendo solo  alcuni punti tra i molti che si potrebbero sollevare, due cose  possono esser dette. La prima riprende quanto gia si e sostenuto nella  sezione 3 sulla  teoria  della  crisi. Una volta  giunto a definire le ragioni della  crisi  «sociale» del rapporto capitalistico Napoleoni tende, forse come eredita mai  superata della  fase  «ricardiana», a tradurla nei termini di un aumento salariale invece che – anche, rna soprattutto – nei termini di un antagoni­ smo potenziale sul terreno stesso della  valorizzazione immediata, per quel che riguarda i modi e i tempi dell’erogazione dellavoro vivo  in quanto tale. Ma questo rimanda anche ai limiti della  ripresa da parte  di Napoleoni della  stessa teoria  del valore marxiana, prima ancora di iniziare il discorso sulla  crisi, come si e visto  nella  sezione 2. La  seconda cosa  da dire,  e su cui non  credo  valga  la pena  di spendere molte  parole, e che – certo  contro le intenzioni: rna chiarissimamente – 1’applicazione al capitale mono­ polistico della  teoria  marxiana della crisi nella rilettura dei primi  anni  ’70- come le stesse considerazioni contenute nella voce «Capitale» e nella seconda edizione di Smith, Ricardo, Marx chiariscono oltre ogni dubbio-fa degenerare la posizione diNapoleoni in una nuova teoria  del crollo  «sociale». Senza dubbio originale e interessante. Ma fallace. ·E chiaro che  qui le posizioni di Napoleoni e Sweezy si rispecchiano come una  foto­grafia  sviluppata fa con  il suo  negativo. Negli anni  ’60 e ’70  Sweezy e il gruppo della Monthly Review sono  convinti di una sostanziale integrazione della  classe operaia «cen­ trale», e ripongono le loro  speranze nelle  dinamiche e nei  movimenti alla  «periferia». Napoleoni e al contrario convinto che negli  anni  ’60 e primi ’70  abbia  luogo una acutiz­ zazione del conflitto di classe nel «centro» del capitalismo. Gioca qui,  come e chiaro, il diverso punta  di vista  da cui i due  autori guardano in questi anni  a cio che succede. La posizione di Sweezy potrebbe a prima vista essere paragonata a quella espressa da Kale­cki in un articolo sulla <<riforma fondamentale» del capitalismo scritto con Tadeusz Kowalik, e pubblicato in italiano nel1970 su Politica ed economia, la rivista diretta daAntonio Pesenti (109).Quella  di Napoleoni  potrebbe  invece sembrare  in continuita  con il Kalecki  del 1943-44, che nega la possibilita di un capitalismo di piena occupazione e alti salari come situazione  perma­ nente, per le conseguenze che questo avrebbe di destabilizzazione del dispotismo capitalistico nei luoghi di produzione(110) I due scritti di Kalecki potrebbero a loro voita apparire in contrad­ dizione tra di loro. fu un caso il capitalismo  keynesiano e giudicato impossibile, se visto come regime stabile. Nell’altro caso la tesi e all’opposto quella di una ormai compiuta stabilizzazione del capitalismo postbellico, grazie appunto aile politiche economiche keynesiane. Le cose stanno un po’diversamente. Nelloro articolo del1970, i due economisti polac­ chi alludono ad una «riforma cruciale» che avrebbe «relativamente stabilizzato» il capita­ lismo. Ma l’espressione individua soltanto una  limitata e temporanea stabilizzazione del capitalismo rispetto all’instabilita drammatica, politica ed economica, che si da nell’inter­ ludio  tra le due  grandi guerre  mondiali. Nulla  di meno, rna nulla  di pili: e anche  qualchecosa  di largamente condivisibile. Il che  non  toglie  (come Kowalik oggi  riconosce(111)che Kalecki, come anche Sweezy, sottostimassero le contraddizioni del capitalismo «centrale» di quegli  anni. Su questo  all’epoca lo sguardo di Napoleoni era piu Iucido. C’e pero un «rna». Quello sguardo era oscurato dalla mancata percezione che alla situazione di crisi «sociale» del capitale di allora si sarebbe inevitabilmente opposta una fase di lunga ristrutturazione dell’economia e della societa  capitalistiche. Napoleoni percepisce il mutamento del rapporto di classe  favorevole allavoro come  sostanzialmente permanente, per cui la sua lucidita iniziale presto  si traduce in una sostanziale cecita nei confronti delle metamorfosi dell’universo capitalistico che  si andava  preparando. Assieme all’abbando­ no del marxismo da parte  di Colletti, che  gli aveva  fornito la gamba  filosofica su cui far camminare la propria rilettura di Marx, l’incapacita di vedere  dietro  l’apparente stallo  nei rapporti di classe il procedere di una rivoluzione «passiva» capitalistica- nella forma della svolta  neoliberista, e in  quella  della  trasformazione radicale dei  processi capitalistici di lavoro- spiega  il rapido  esaurirsi di questa  fase «marxiana» di Napoleoni.Da questa punto di vista, si deve  dire, «regge» meglio il seguito dell’elaborazione di weezy. E indubbio che lo Sweezy degli  anni  ’70  e in grado di procedere creativamente nella sua analisi del capitalismo monopolistico, apportandovi un arricchimento essenzia­le. Ci riferiamo al ruolo cruciale del  debito, e in particolare dellajinanza, negli articoli e nei libri  che  scrive con  Harry Magdoff. Una  strada lungo la quale l’economista statu­ nitense anticipa sulla  Monthly Review e in alcuni saggi  molte  delle  tesi  sull’instabilita finanziaria, nel suo ruolo tanto  patologico quanta al tempo stessofunzionale all’accumu­ lazione, che  poi saranno ribadite (e, certo, approfondite) nel mondo postkeynesiano so­ prattutto da Minsky, e che in parte  tracimeranno nella  stessa economia mainstream per il tramite di Stiglitz 112 • Per rimandare ad un testo gia citato, 1’intervento a Londra del 1978, basti ricordare come Sweezy li chiarisca che l’esplosione del debito, pubblico e privata, introduce meccanismi qualitativamente nuovi, e segna  una  discontinuita di  rilievo. Se vogliamo cercare le basi di una lettura adeguata dei caratteri finanziari del «nuovo capi­ talismo» come economia del debito, non  separata dal destino dellavoro nel processo di valorizzazione, e a quell’eredita che dobbiamo almena in parte  rifarci (assieme ad altre: dentro e fuori il marxismo) (113). E parimenti indubbio che nell’intervista a Savran e Tonak Sweezy caratterizza la situa­zione sociale del «centro» capitalistico con considerazioni che – dopo la contro-rivoluzio­ ne di Volcker,  Reagan e Thatcher; e dopo  gli effetti  devastanti delle  modificazioni nella morfologia dellavoro che stiamo  sperimentando -nulla hanno  perso della loro attualità:

I think the traditional Marxist  theory  was overoptimistic in its outlook.  I think  it un­ derestimated, not only the integration of the working  class into  the system, but also the fragmentation of the working  class,  the breaking  up of its component parts,  which don’t really relate to each other in the way that Marxists  used to think of as normal. They used to think the capitalist  process  itself  tended to homogenize the working  class,  bring  toge­ ther workers and give them certain common  ways of looking at the world, a common psychology, a common  class consciousness. It doesn’t seem to be happening anywhere. In those places like France and Italy where it seemed maybe that the traditional model had more relevance, there  the fragmentation is taking  place too, the break-up  of the unified working-class unions  and parties  seems  to be advancing  just as it is in Britain  and  the United States. I don’t see any integrating tendencies. […]The working  class, and the left in general,  is being very strongly  attacked. As you know, the union movement is disinte­ grating, and the standard  of living of workers is being attacked. And the first necessity to get something started  is to fight against that.
Il che evidentemente significa che l’integrazione none un dato, e nemmeno un risul­tato  delle  tendenze spontanee del  capitalismo. E l’esito  di una  Iotta possibile, e di  un conflitto sociale e politico.

5. Conclusioni (in cerca  di una continuazione)

In una lettera a Michael Lebowitz che ho citato  in esergo, Sweezy da, da  «Vecchio», tre consigli a un  giovane «marxista». Non  citare Marx  ogni  due  frasi. Sviluppare pili «liberamente» il proprio stile e le proprie formulazioni. Polemizzare vigorosamente con i propri contemporanei: «ne  hanno disperatamente bisogno». E indubbio che  lo  stesso Sweezy, come  pure Napoleoni, siano stati un ottimo esempio di un marxismo eterodosso, non dogmatico, interiormente libero. L’unico di cui abbiamo davvero bisogno. A questo stile, per  quel  che  riguarda il secondo e il terzo  consiglio almeno, ho  anche cercato di attenermi in questa sede, come altrove. Pili difficile, invero, rispettare il primo consiglio in un lavoro che in qualche modo alla teoria  del valore  e della  crisi  di Marx non puo  non fare  direttamente riferimento… Che di uno sviluppo creativo dell’eredita marxiana- e dunque anche  dellascito diNa­ poleoni e di Sweezy- vi sia bisogno ce lo dicono, con la loro  forza, i «fatti»  stessi. Essi portano scritta  in se una  sfida  vera,  e l’ultima citazione di Sweezy ci aiuta  a dipaname i termini, se la leggiamo tenendo a mente  una lontana rna non per questo meno  importante tesi di Rosa Luxemburg. Eduard Bernstein aveva avanzato contro Marx 1’argomento di una persistenza delle  piccole-medie imprese contraria, secondo il socialdemocratico tedesco, alla previsione di una loro scomparsa in forza della tendenza al monopolio. Nella seconda edizione di Riforma sociale  o rivoluzione? Luxemburg ribatteva che non era affatto questa l’idea di Marx(114). ll piccolo capitale e il pioniere della rivoluzione tecnica, e non ha dunque alcun  riscontro all’intemo dell’«economia politica  critica» l’idea di un tramonto graduale e rettilineo della  piccola e media  impresa. «ll processo di sviluppo reale  e anche  in questo caso assolutamente dialettico, e si svolge  costantemente tra opposti» (115) .E spiegava: accade al capitale di essere preso, come  il mondo dellavoro, tra due  tendenze  opposte, l’una «positiva»  o «stimolatrice» e l’altra invece  «depressiva’. Nel caso. del mondo dellavoro, la tendenza positiva e quella  per cui lo sviluppo capitalistico lo riunifica, omogeneizzandolo e concentrandolo in fabbriche sempre  pili grandi;  mentre quella  depressiva e quella  per cui quello stesso  sviluppo  lo frantuma, dividendolo e in­debolendolo. Nel caso  della  piccola e media  impresa, la tendenza positiva e quella  per cui periodicamente esso ha la possibilita di ricostituirsi e riemergere, nei vecchi  settorirna anche  e soprattutto in nuove sfere;  quella  depressiva e legata  al continuo salire  del livello di produzione, chefa perire  il piccolo capitate assorbendolo nel  grande. La lotta del piccolo  capitale, delle piccole  e medie imprese, con il grande capitalenone da concepire come una battaglia regolare, in cui le truppe della parte pili debole si esauriscono  direttamente  e quantitativamente  sempre di pili, rna come un periodico falcidiamento del piccolo capitale, che poi rapidamente rifiorisce  per esser di nuovo  fal­ cidiato  dalla grande industria (116) .

Ad altra occasione lo sviluppo di questo  suggerimento, che ci pare esser  stato larga­ mente  ignorato nella trattazione marxista  sull’economia industriale e dell’innovazione. Certo,  come mi ha fatto notare in una corrispondenza privata  Giacomo Becattini, alcuni aspetti  di queste  pagine  di fine Ottocento ricordano il Marshall di Industry and  Trade. Ed e pure vero che Rosa Luxemburg vede nel piccolo capitale pili imprese  capitalistiche gia costituite come tali che invece, secondo la tradizione distrettuale, qualcosa che nasce non  (soltanto) capitalistico e che  esprime, insieme, volonta  di arricchirsi e volonta  di affermare la propria  personalita. Per chi scrive,  sta qui, in questa  impostazione di Rosa Luxemburg, la possibile base  di una  visione  non  armonicistica dei sistemi  di piccola e media  impresa, e degli  stessi  distretti. Per altri- del tutto  comprensibilmente- vi e invece, in queste  pagine, una visione  sanamente dialettica certo,  rna forse  un po’troppo fastidiosamente conflittualistica. Il filo che qui preme pen), in conclusione, tirare e un altro. La Luxemburg e esplicita in continuita piena,  a me pare,  con Marx:  ed e questa  continuita oggi  a fare  proble­ ma – nel pensare  che  mentre  per il lavoro  «Vince» la tendenza «positiva», quella  alia riunificazione, per il piccolo  capitale vince la tendenza  «depressiva», quella  al monopo­ lio e dunque all’accorciamento dei tempi di vita della  piccola  e media  impresa. Vince dunque  la tendenza alla stagnazione del capitale, visto che «il piccolo  capitale e l’avan­ guardia  del progresso tecnico, e il progresso  tecnico  e il battito  di polso  dell’economia capitalistica» (117) . L’opera di Sweezy  (con Baran  e Magdoff) in fondo  cerca  di spiegare come  la tendenza alia stagnazione si sia si acuita  dopo  l’esaurirsi della  libera  concor­ renza,  rna come essa sia stata sinora  sempre  efficacemente controbattuta all’interno del capitalismo monopolistico.A chi scrive sembra che vi sia oggi qualche cosa di pili. Nella fase attuale del capitali­smo, una fase che ha inizio dalla meat/fine degli anni ’70-gli anni in cui Napoleoni  abban­ dona il Marx «economista», mentre Sweezy cerca i modi per continuarlo e rinnovarlo -la situazione  si e del tutto invertita rispetto alia previsione  della Luxemburg, e di Marx. Per quel che riguarda illavoro e prevalsa la tendenza «depressiva». Nel caso del piccolo capita­ le-sarebbe meglio dire: della dimensione delle unita produttive capitalistiche – e prevalsa la tendenza  «positiva», in un contesto di sempre maggiore  «snellimento»  delle imprese. I due fenomeni a me sembrano strettamente legati. II capitalismo che abbiamo di fronte e sempre pili un capitalismo «organizzato». Esso  e pen)  sempre meno  legato  alla  pura  e semplice crescita della dimensione d’impresa. Anche per questo produce sempre meno  una omogeneizzazione della  condizione «concreta» dellavoro dentro la stessa  produzione. In­ somma: centralizzazione senza concentrazione. Edi fronte a questi fenomeni che e urgente uno sviluppo della  teoria  marxiana che sia, per un verso, fedele allo spirito della  teoria  del (plus)valore e della  crisi, rna anche, per l’altro verso, altrettanto libero e creativo di quanto non sia stato, alloro tempo, l’approccio di Napoleoni e Sweezy, pur nelle loro diversita. Come si sarebbe detto una  volta:  Hie Rhodus, hie salta!