Sull’idea di rivoluzione in Lenin
Jean Salem
Per quanto riguarda l’idea di rivoluzione in Lenin, cinque tesi principali ci sembrano emergere da un esame sistematico delle opere di Lenin (1)
1. La rivoluzione è una guerra; e, in senso generale, la politica è paragonabile all’arte militare
Lenin cita e fa propria di buon grado la dichiarazione di Kautsky, che aveva scritto nel 1909 nel libretto intitolato Il cammino del potere: «l’era delle rivoluzioni comincia» (2). Infatti, dal momento che la guerra civile ha cominciato ad infiammare il mondo, solo la rivoluzione sociale del proletariato potrà aprire il cammino della pace e della libertà delle nazioni (3). Poche settimane soltanto dopo la rivolta dei marinai della corazzata Potëmkin, nel 1905, lo stesso Lenin aveva del resto annunciato la fine del «lungo periodo di reazione politica quasi ininterrotta» che aveva dominato in Europa dopo la Comune di Parigi. Scriveva: «Noi siamo indubbiamente entrati oggi in una nuova epoca, si è iniziato un periodo di sconvolgimenti politici e rivoluzionari» (4).
All’indomani della rivoluzione «borghese» del febbraio 1917, le previsioni dei socialisti che non si erano lasciati «inebriare dalla mentalità bellicista, selvaggia e bestiale» si trovarono in effetti giustificate. Il Manifesto adottato nel 1912 alla conferenza socialista di Basilea si era esplicitamente richiamato al precedente della Comune di Parigi, ossia la trasformazione di una guerra tra i governi in guerra civile (5). Ora, la guerra imperialista, cioè la guerra per la spartizione del bottino tra capitalisti, lo strangolamento dei popoli deboli, aveva davvero cominciato a trasformarsi in una guerra civile, cioè «nella guerra degli operai contro i capitalisti, nella guerra dei lavoratori e degli oppressi contro i loro oppressori, contro gli zar e i re, contro i grandi proprietari fondiari e i capitalisti per la completa emancipazione dell’umanità dalle guerre, dalla miseria delle masse, dall’oppressione dell’uomo sull’uomo! Agli operai russi sono toc- cati l’onore e la fortuna di iniziare per primi la rivoluzione, cioè la grande guerra degli oppressi contro gli oppressori, l’unica guerra legittima e giusta» (6).
C’è infatti «guerra e guerra». Se abbiamo condannato la guerra imperialista, precisa Lenin, «non rifiutavamo la guerra in generale»7. Certo, i socialisti hanno sempre condannato le guerre tra i popoli come un evento barbaro e bestiale (8). La storia, tuttavia, ha conosciuto diverse guerre che, malgrado gli orrori, le atrocità, le calamità e le sofferenze che inevitabilmente comportano, sono state «progressive», utili cioè allo sviluppo dell’umanità, poiché possono contribuire a «distruggere istituzioni particolarmente nocive e reazionarie (per esempio l’autocrazia o la servitù della gleba), i più barbari dispotismi dell’Europa (quello turco e quello russo)» (9). Riconosciamo perfettamente, continua Lenin, «la legittimità», «il carattere progressivo e la necessità delle guerre civili, cioè delle guerre della classe oppressa contro quella che opprime, degli schiavi contro i padroni di schiavi, dei servi della gleba contro i proprietari fondiari, degli operai salariati contro la borghesia»(10). E naturalmente una guerra rivoluzionaria «è una guerra, è una cosa altrettanto penosa, sanguinosa e dolorosa» (11).
Comunque sia, gli avversari della rivoluzione non mancheranno di competere in materia di pietà selettiva: «La borghesia imperialistica internazionale ha fatto sterminare dieci milioni di uomini e ne ha resi invalidi altri venti milioni nella ‘sua’ guerra, in una guerra scatenata per decidere a chi spetti il dominio mondiale, ai predoni inglesi o invece ai predoni tedeschi. Se la nostra guerra, se la guerra degli oppressi e degli sfruttati contro gli oppresso- ri e gli sfruttatori, causerà mezzo milione o un milione di vittime in tutto il mondo, la borghesia comincerà a dire che i primi sacrifici erano legittimi e i secondi sono invece delittuosi» (12).
La guerra è la continuazione, con mezzi violenti, della politica condotta dalle classi dominanti delle potenze belligeranti già molto prima dell’apertura delle ostilità (13). Essa non è per niente in contraddizione con i principi della proprietà privata; ne è piuttosto lo «sviluppo diretto e inevitabile» (14). Essa non «scoppia per caso»; non è un «‘peccato’, come pensano i preti cristiani (che predicano il patriottismo, l’umanitarismo e la pace non peggio degli opportunisti), ma una tappa inevitabile del capitalismo, una forma inevitabile della vita capitalistica, legittima come la pace» (15).
Come la quiete non gode nella fisica moderna d’alcun privilegio rispetto al movimento, così il suo contrario, la pace, fin quando durerà il sistema capitalista, non sarà affatto uno stato più «naturale» della guerra. Con la capitolazione di Port Arthur all’inizio del 1905, non è stato dunque il popolo russo a subire una disfatta disonorevole, ma Nicola II e l’autocrazia. Questa disfatta dell’autocrazia «è servita al popolo russo». La capitolazione di Port Arthur è il prologo della capitolazione dello zarismo (16).
Del resto, quando parla del partito operaio, Lenin ricorre frequentemente a delle metafore militari. I partiti socialisti, infatti, non sono dei circoli di discussione, ma delle organizzazioni del proletariato in lotta! (17) «L’epoca della rivoluzione è per la socialdemocrazia ciò che il tempo di guerra è per l’esercito» (18). E si converrà, dichiara ancora nel 1920, che sarebbe «irragionevole o persino criminale» la condotta di un esercito che non imparasse a maneggiare tutte le armi, tutti i mezzi e sistemi di cui dispone o di cui può disporre il nemico: «ma ciò vale in politica ancor più che sul piano militare» (19).
Analogamente, quando si tratta di presentare, alla fine del 1922, i risultati dei primi diciotto mesi della NEP (Nuova Politica Economica), Lenin accenna al fatto che i bolscevichi debbano sempre sapersi preparare «una ritirata». Il capitalismo di Stato costituisce appunto una tale «linea di ritirata». Ora, non sapere ripiegare in buon ordine quando si è avuta, troppo in fretta, la pretesa di condurre un’«offensiva economica» e «passare subito» alle forme puramente socialiste dell’organizzazione del lavoro significa esporre la rivoluzione alla morte (20). Infine, riguardo alla condotta di operazioni puramente militari, Lenin aveva giustificato con un certo realismo l’umiliante pace di Brest Litovsk: «quale che sia la tregua, per quanto instabile, per quanto breve, dura e umiliante sia la pace, è meglio della guerra, perché permette alle masse popolari di prender fiato» (21).
La storia delle guerre insegna che la pace ha spesso giocato nella storia il ruolo di una tregua al fine di raccogliere le forze in vista di nuove battaglie. Così la pace di Tilsit, che Napoleone impose alla Prussia nel 1807, fu una grande umiliazione per la Germania; ma al tempo stesso segnò «una svolta verso un possente slancio nazionale». Anche dopo una pace del genere il popolo tedesco tenne duro; seppe raccogliere le forze, risollevarsi e conquistare il suo diritto alla libertà e all’indipendenza. Anche noi, afferma Lenin «abbiamo firmato una pace di Tilsit!». Secondo lui si devono dunque condannare le declamazioni in virtù delle quali «una pace durissima è un abisso di perdizione e la guerra la via dell’onore e della salvezza» (22). Si può notare come in ciò Lenin imiti il lucido realismo di un Robespierre, il quale, in circostanze analoghe, aveva lasciato accuratamente ai girondini o a un Barère il pri-vilegio delle dichiarazioni sferzanti e dei propositi infiammati (23).
2. Una rivoluzione politica è anche e soprattutto una rivoluzione sociale, un cambiamento nella situazione delle classi in cui la società si divide
La storia delle rivoluzioni, scriveva Lenin nel 1905, rivela «contraddizioni che maturavano da decenni e da secoli» (24). Durante il «turbine rivoluzionario» (che può del resto prolungarsi per mesi, e anche per anni e quindi non deve essere concepito come un solo atto (25), si realizza «quella fase della vita popolare in cui il malcontento accumulato nei secoli […] esplode infine nei fatti, e non nelle parole, nelle azioni di milioni di uomini del popolo, e non di pochi individui» (26). A decenni di cosiddetta evoluzione «pacifica», «cioè tale che milioni di persone si lasciano pacificamente tosare dalle diecimila che si trovano sopra di loro» (27), succedono (com’è accaduto tra l’autunno 1905 e l’autunno 1907) anni nel corso dei quali la vita diventa straordinariamente ricca (28). È durante tali periodi che si creano i fondamenti della nuova «sovrastruttura» politica, la quale in seguito si mantiene a lungo sulla base dei rinnovati rapporti di produzione (29).
Così la rivoluzione «borghese» del 27 febbraio 1917 ha trasferito il potere dalle mani dei feudatari della proprietà fondiaria (Nicola II in testa) a quelle della borghesia. E, quando la rivoluzione si è spinta più lontano, fino alla completa abolizione della monarchia e alla creazione dei Soviet di deputati operai, soldati e contadini, questa borghesia liberale «divenne nettamente controrivoluzionaria» (30). In altri termini, «la rivoluzione del 27 febbraio è stata anch’essa una rivoluzione sociale» (31). E, in un senso più generale, ogni rivoluzione politica, ogni autentica rivoluzione – che non si riduca a un semplice avvicendamento di fazioni – è una rivoluzione sociale, uno «spostamento delle classi» in cui si divide la società (32).
A dire il vero, il rivolgimento nei rapporti sociali era cominciato in Russia a partire dall’abolizione della servitù della gleba, nel 1861. Ora, circa cinquant’anni più tardi, la «sovrastruttura politica», l’autocrazia zarista, era rimasta praticamente immutata, sempre più «vetusta» rispetto a questo rivolgimento che aveva introdotto il capitalismo nelle campagne (33). Possono esserci e ci sono state delle rivoluzioni borghesi nelle quali la borghesia mercantile o mercantile-industriale ha svolto il ruolo di forza motrice principale – salvo lasciare che i contadini e l’elemento plebeo delle città componessero gli eserciti che dovevano sostener il combattimento della borghesia fino alla sua vittoria. È accaduto in Germania durante la Riforma e la Guerra dei contadini nel XVI secolo; è accaduto durante la Rivoluzione inglese del XVII secolo; e, ancora di più, è accaduto in Francia nel 1793 (34). Ma, afferma Lenin, in Russia le cose stanno diversamente. Infatti, «la prevalenza della popolazione contadina, la sua terribile oppressione da parte della grande proprietà fondiaria (per metà) feudale, la forza e la coscienza del proletariato già organizzato in un partito socialista» sono tutte circostanze che danno a questa rivoluzione borghese un «carattere particolare». Questa congiuntura particolare renderebbe la ditta- tura del proletariato e dei contadini una «necessità» assoluta per giungere alla vittoria in una rivoluzione del genere: infatti, in Russia, la borghesia è fin d’ora controrivoluzionaria e, in un paese così, senza la direzione o l’iniziativa del proletariato, i contadini non sarebbero «niente» (35)
3. Una rivoluzione è fatta da una serie di battaglie; spetta al partito d’avanguardia di fornire ad ogni tappa una parola d’ordine adatta alla situazione oggettiva; spetta ad esso di riconoscere il momento opportuno per l’insurrezione
In L’estremismo malattia infantile del comunismo, Lenin scrive che la «legge fondamentale della rivoluzione – legge confermata da tutte le rivoluzioni e specialmente dalle tre rivoluzioni russe del XX secolo (36) – è questa: «per la rivoluzione non basta che le masse sfruttate e oppresse siano coscienti dell’impossibilità di continuare a vivere come per il passato ed esigano dei cambiamenti, per la rivoluzione è necessario che gli sfruttatori non possano più vivere e governare come per il passato. Soltanto quando gli ‘strati inferiori’ non vogliono più il passato e gli ‘strati superiori’ non possono più vivere come in passato, la rivoluzione può vincere» (37). Solo una situazione simile, un tale equilibrio di forze, genera – ma stavolta genera inevitabilmente – un «conflitto decisivo» (38).
Bisogna certo «concepire la storia con criteri puramente scolastici per raffigurarsela senza ‘salti’, come una sorta di linea retta che ascende in modo lento e uniforme» (39). «Chi ‘accetta’ la rivoluzione del proletariato solo ‘a patto’ che essa si svolga in modo rettilineo e facile, che l’azione comune dei proletari dei diversi paesi si realizzi di colpo, che ci sia in partenza la garanzia contro ogni sconfitta, che la strada della rivoluzione sia ampia, sgombra, diritta, che nel marciare verso la vittoria non si debbano compiere a volte i sacrifici più gravi, che non ‘ci si chiuda nella fortezza assediata’ o che ci si apra un varco per gli stretti, impraticabili, tortuosi e perigliosi sentieri di montagna, costui non è un rivoluzionario» (40). E Lenin cita Cernicevskij, che aveva trovato questa formula assai nota: «Il processo storico non è il marciapiedi del Nievski Prospekt» (41).
Non si può poi rappresentarsi la rivoluzione «come un solo atto» (42). Questo «periodo di battaglie per tutte le questioni concernenti le trasformazioni economiche e democratiche, le quali saranno portate a compimento soltanto con l’espropriazione della borghesia» (43), questa transizione dal capitalismo al socialismo assomiglierà quindi, per riprendere una formula di Marx, a un «lungo periodo di travaglio doloroso», poiché la violenza è sempre la levatrice della vecchia società (44).
I socialdemocratici non sono ostili alla lotta per le riforme, ma, «a differenza dei social-patrioti, degli opportunisti e dei riformisti», la subordinano alla lotta per la rivoluzione, scrive nello stesso periodo (45). Se è senz’altro vero che, durante le epoche ordinarie, le «concessioni» servono assai spesso a ingannare e a corrompere (46), se – per definizione – le riforme sono delle concessioni alle quali la classe dominante acconsente continuando a restare al potere (47), nondimeno il partito della classe operaia deve imparare a non rinunciare ad accettare degli «acconti», per riprendere un’espressione di Engels (48). Quanto alle semplici promesse di riforma, esse devono a fortiori essere accolte con la più vigile riserva.
Così, nel 1905, quando lo zar Nicola II, sotto la pressione degli eventi (49), aveva dovuto «concedere» alla popolazione dell’Impero le libertà pubbliche e politiche, quando si era «lasciato sfuggire» le parole «suffragio universale» e aveva concesso una sorta di diritto di veto alla Duma governativa (50), Lenin aveva detto con sarcasmo: «Vi prometto quel che volete, dice lo zar, purché mi lasciate il potere, purché consentiate che a mantenere le mie promesse ci pensi io. A questo si riduce il manifesto dello zar, e si capisce che esso non poteva non spingere alla lotta decisiva. Concedo tutto fuorché il potere, dichiara lo zarismo. Tutto è illusione fuorché il potere, risponde il popolo rivoluzionario» (51).
«È vero che non si può fissare la data di una rivoluzione popolare», conce- de Lenin durante una delle assai frequenti polemiche che ha con altri membri del partito social-democratico. Ma la data dell’insurrezione, aggiunge subito, «può essere fissata quando coloro che la fissano godono di un’influenza fra le masse e sanno rettamente valutare il momento» (52). Le «parole d’ordine» devono senz’altro essere considerate come delle «conclusioni pratiche dell’analisi di classe di una situazione storica data», e non come dei «talismani» dati una volta per tutte ad un partito o ad una corrente53. Non è sufficiente che i rivoluzionari – dirà Lenin un po’ più tardi contro gli «otzovisti» (che parlavano continuamente di «rivoluzione»(54) – imparino a memoria le parole d’ordine:
«occorre anche imparare quale sia il momento opportuno per lanciarle» (55). In altri termini, l’ora della rivoluzione non si può prevedere. Ma, in un momen- to rivoluzionario, «smisurato sarebbe il crimine dei rivoluzionari se essi si lasciassero sfuggire il momento» (56). E siccome continuamente invoca di tutto cuore una rivoluzione mondiale che possa venire in aiuto ai Soviet, ripete: «La rivoluzione mondiale è vicina, ma non esiste alcun orario in base al quale la rivoluzione si sviluppi» (57).
Ciononostante, i dirigenti operai non dovrebbero limitarsi, come fanno i liberali o i nemici della rivoluzione, a riconoscerla una volta che sia scoppiata. «I rivoluzionari prevedono la rivoluzione prima del suo inizio, hanno coscienza della sua inevitabilità, ne insegnano alle masse la necessità, spiegandone le vie e i metodi» (58). E quando si trovano riunite le condizioni oggettive di una crisi politica profonda, allora i rivoluzionari devono saper creare l’occasione o, perlomeno, devono saperla afferrare. Napoleone – scriverà Lenin al crepuscolo della sua vita – ha detto: «On s’engage et puis… on voit». «È ciò che abbiamo fatto» (59). Attendere per agire, è la fine; «bisogna decidere la cosa immancabilmente questa sera o stanotte», aveva dichiarato risolutamente Lenin la notte tra il 24 e il 25 ottobre 1917, quando, dall’Istituto Smolnji, aveva lanciato la parola d’ordine dell’insurrezione contro un governo provvisorio già sospeso nel vuoto (60). Quanto a coloro che gli rimproverarono allora il suo «avventurismo», avrà certamente risposto loro rimandandoli a questa frase di Marx: «Sarebbe del resto assai comodo fare la storia universale, se si accettasse la battaglia soltanto alla condizione di un esito infallibilmente favorevole» (61).
4. I grandi problemi della vita dei popoli sono sempre risolti con la forza
Lenin nota che, secondo Marx, «lo Stato è l’organo del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe da parte di un’altra; è la creazione di un ‘ordine’ che legalizza e consolida questa oppressione, moderando il conflitto fra le classi» (62). È «l’organizzazione della violenza destinata a reprimere una certa classe» (63). Come ha sostenuto Engels, lo Stato antico e lo Stato feudale sono stati innanzitutto gli organi per mezzo dei quali i proprietari di schiavi, poi i nobili, hanno potuto reprimere e sfruttare gli schiavi e i servi. Analogamente, lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento dello sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale (64); in effetti, la più democratica repubblica borghese «è soltanto una macchina che permette alla borghesia di schiacciare la classe operaia, che permette a un pugno di capitalisti di schiacciare le masse lavoratrici» (65).
L’esercito permanente e la polizia, afferma ancora Lenin, sono «i principa- li strumenti di forza del potere statale» (66) – e ciò, lo notiamo incidentalmente, può anche soffrire di eccezioni assai notevoli in un’epoca di globalizzazione neoliberista (67). Perciò, in Stato e rivoluzione, leggiamo che colui che riconosce unicamente la lotta di classe «non è per ciò stesso un marxista». La dottrina della lotta di classe, in generale, può ancora «essere accettata dalla borghesia»68. È marxista soltanto chi estenda il riconoscimento della lotta di classe fino a riconoscere la dittatura del proletariato (69). Lenin torna spesso su questa, che è «la questione fondamentale del movimento operaio contemporaneo in tutti i paesi capitalisti senza eccezioni» (70).
Per dirlo in un modo soltanto un po’ diverso, «indubbiamente la questione principale di ogni rivoluzione è la questione del potere. Quale classe detiene il potere?» (71). Il proletariato ha infatti bisogno del potere dello Stato, di un’organizzazione della forza centralizzata, di un’organizzazione della violenza, sia per contenere la resistenza degli sfruttatori che per dirigere la grande massa della popolazione – contadini, piccola borghesia, semiproletari – nell’«avviamento» dell’economia socialista (72). Cercare di effettuare, per mezzo di questo apparato di Stato, riforme quali l’abolizione senza indennità della grande proprietà fondiaria o il monopolio dei cereali ecc., significa illudersi enormemente, ingannare se stessi ed ingannare il popolo. Questo apparato può essere utile a una borghesia repubblicana quando istituisce una repubblica che è una «monarchia senza monarca» come la IIIa Repubblica in Francia, ma è assolutamente inadeguato ad applicare delle riforme che non diciamo che abolisca- no, ma anche che intacchino o limitino effettivamente i diritti del capitale, i diritti della «sacrosanta proprietà privata» (73). L’idea di Marx, osserva Lenin più volte, era che la classe operaia dovesse spezzare, demolire (zerbrechen) la «macchina statale già pronta» e non dovesse limitarsi a prenderne possesso (74).
«Spezzare la macchina burocratica e militare»: in queste poche parole, prose- gue, si trova brevemente espressa la lezione principale del marxismo sui com- piti del proletariato nei confronti dello Stato nel corso della rivoluzione (75).
In polemica con Kautsky, Lenin afferma che «in ogni rivoluzione profonda una resistenza lunga, caparbia, disperata degli sfruttatori, che per decine di anni conservano ancora grandi vantaggi effettivi sugli sfruttati, è la regola» (76). In effetti, per lungo tempo dopo la rivoluzione, gli sfruttatori conservano inevitabilmente «una serie di grandi vantaggi effettivi: rimane loro il denaro (che non si può sopprimere di colpo), una data quantità, spesso cospicua, di beni mobili; rimangono loro le aderenze, l’esperienza organizzativa e direttiva, la conoscenza di tutti i ‘segreti’ (consuetudini, procedimenti, mezzi, possibilità) della gestione; rimangono loro un’istruzione più elevata, strette relazioni con il personale tecnico più qualificato (che vive e pensa da borghese), un’esperienza infinitamente superiore dell’arte militare (il che è molto importante) ecc. ecc.» (77).
Se inoltre gli sfruttatori sono battuti soltanto in un paese, restano comunque più forti degli sfruttati, poiché le loro «relazioni internazionali» sono immense (78). Così, nelle condizioni della Russia del 1905, non sarà suffi- ciente «‘dare uniti il colpo di grazia’ all’autocrazia, abbattere il governo auto- cratico. È necessario inoltre ‘respingere uniti’ i disperati ed inutili tentativi di restaurare l’autocrazia abbattuta. Il ‘respingere uniti’ in rapporto al periodo rivoluzionario non è altro che la dittatura democratica rivoluzionaria del pro- letariato e dei contadini, non è altro che la partecipazione del proletariato al governo rivoluzionario» (79). La Comune è stata una dittatura del proletariato (80). Ricorda Lenin che Engels domandava: «La Comune di Parigi sarebbe durata un solo giorno, se non si fosse servita di questa autorità del popolo armato, in faccia ai borghesi? Non si può al contrario rimproverarle di non essersene ser- vita abbastanza largamente?» (81).
Una vittoria «effettiva e completa» della rivoluzione può essere soltanto una «dittatura», come diceva già Marx – dittatura «delle masse su un pugno di uomini, e non il contrario» (82). Ora, l’indizio necessario, la condizione indi- spensabile della dittatura è «la repressione violenta degli sfruttatori come classe e quindi la violazione della ‘democrazia pura’, cioè dell’uguaglianza e della libertà, nei confronti di questa classe» (83). Infatti, per venire a capo dei crimini, degli atti di banditismo, di corruzione, di speculazione e delle infamie di ogni tipo che un periodo del genere non manca mai di suscitare, occorrerà «del tempo» e «un pugno di ferro» (84). Quando i repubblicani borghesi, aggiunge Lenin, rovesciavano i troni «non si curavano affatto dell’uguaglian- za formale dei monarchici e dei repubblicani». Quando si tratta di far cadere la borghesia, «solo i traditori e gli imbecilli possono postulare l’uguaglianza formale per la borghesia» (85). Si pensi a queste parole di Marat: «La libertà dev’essere stabilita attraverso la violenza, ed è venuta l’ora di organizzare il transitorio dispotismo della libertà, per schiacciare il dispotismo dei re» (86).
E poi, la «democrazia», nella società capitalista, non può mai essere altro «che una democrazia tronca, miserabile, falsificata, una democrazia per i soli ricchi, per la sola minoranza» (87). Per questa ragione, l’autocrazia non costituisce né la sola né l’ultima muraglia che il proletariato deve abbattere. «Tutti sono uguali, indipendentemente dai ceti, tutti sono uguali, il milionario e lo straccione: così parlavano, così pensavano, così credevano sinceramente i più grandi rivoluzionari del periodo che è entrato nella storia come il periodo della grande Rivoluzione francese. La rivoluzione marciava contro i grandi proprietari fondiari sotto la parola d’ordine dell’eguaglianza, ed eguaglianza significava che il milionario e l’operaio dovevano avere eguali diritti. La rivoluzione [bolscevica] è andata oltre. Essa dice che l’‘eguaglianza’ […] è un inganno se è in contrasto con l’emancipazione del lavoro dal giogo del capitale» (88).
La «democrazia capitalista», ama ripetere Lenin, autorizza gli oppressi, ogni tre oppure ogni sei anni, a decidere quale membro della classe dirigente li rappresenterà e calpesterà sotto i piedi i loro interessi in parlamento! (89)
Il marxismo di Lenin si avvicina a questo riguardo alle imprecazioni anti-occidentaliste di un Pobedonostsev e degli slavofili più reazionari della fine del XIX secolo: «Considerate qualsiasi paese parlamentare, dall’America alla Svizzera, dalla Francia all’Inghilterra, alla Norvegia ecc.: il vero lavoro ‘di Stato’ si compie fra le quinte, e sono i ministeri, le cancellerie, gli stati maggiori che lo compiono. Nei parlamenti non si fa che chiacchierare, con lo scopo determinato di turlupinare il popolino» (90). I capitalisti, dichiara ancora, «hanno sempre chiamato ‘libertà’ la libertà di arricchirsi per i ricchi e la libertà di morire di fame per gli operai» (91). Per questa ragione, la forma migliore di democrazia, la migliore repubblica democratica, è il potere senza la grande proprietà fondiaria e senza le grandi ricchezze, la democrazia proletaria, il potere dei Soviet, che lavora a vantaggio dell’immensa maggioranza della popolazione, degli sfruttati, dei lavoratori (92).
5. Nell’epoca delle masse, la politica comincia laddove si trovano milioni di uomini, anzi decine di milioni. Spostamento tendenziale dei focolari rivoluzionari verso i paesi dominati
Essere rivoluzionario è insomma – Lenin non cessa di ripeterlo – comportarsi da militante internazionalista. Non votare i crediti di guerra, non inco- raggiare lo sciovinismo del «proprio» paese (e dei paesi suoi alleati), combattere in sommo grado lo sciovinismo della «propria» borghesia, senza limitarsi alle forme legali di lotta quando sopravviene una crisi e la borghesia è la prima ad abrogare la legalità che essa stessa ha creato, ecco la linea d’azione che devono seguire i partiti rivoluzionari (93). È questo il «dovere» dei socialisti: stimolare, «agitare» il popolo (e non addormentarlo con lo sciovinismo, come fanno Plekhanov, Axelrod, Kautsky), utilizzare la crisi per affrettare la caduta del capitalismo; ispirarsi agli esempi della Comune e a quelli dell’ottobre-dicembre 1905 (94). Un anno dopo l’inizio della prima guerra mondiale (95), Lenin constata che il tradimento dei partiti della sua epoca, la loro morte poli- tica, l’abdicazione al loro ruolo, il loro schierarsi a fianco della borghesia si traduce nel non adempiere a questo dovere, o (nel migliore dei casi) nel rifugiarsi sulle nuvole, sulle cime di un vago appello al «disarmo» (96).
L’imperialismo non è altro che «lo sfruttamento di milioni di uomini delle nazioni dipendenti da parte di un piccolo numero di nazioni ricche». E per questo è possibilissimo trovare la più grande democrazia all’interno di una nazione ricca, mentre essa continua ad esercitare il suo dominio sulle nazio- ni dipendenti. Si tende troppo spesso, osserva Lenin (il quale, è bene ricordarlo, non vive all’inizio del… XXI secolo), a dimenticare questa situazione – che fu mutatis mutandis quello degli uomini liberi nelle città democratiche ma schiaviste della Grecia antica, e che si ritrova nell’Inghilterra e nella Nuova Zelanda dell’inizio del XX secolo (97). E questa dimenticanza interessata costituisce perfino una delle condizioni indispensabili al mantenimento della dominazione della borghesia nei paesi dominanti: il «principale sostegno» del capitalismo nei paesi capitalisti ad avanzata industrializzazione, dichiarerà Lenin nel 1921, «è appunto la parte della classe operaia organizzata nella II Internazionale e nell’Internazionale due e mezzo» (98).
Semi-intellettuali e operai sovraqualificati dimenticano facilmente, anche nella nostra cosiddetta epoca di «globalizzazione», che il mondo è più vasto della metropoli nella quale sono loro concesse delle briciole: questo strato di operai «imborghesiti», «completamente piccolo-borghese per il suo modo di vita, per salari percepiti, per la sua filosofia della vita» costituisce la base sociale dell’opportunismo, cioè dell’accomodamento al sistema (99). Per questa ragione, si è potuto pensare, all’indomani del primo conflitto mondiale, che il movimento emancipatore sarebbe cominciato più facilmente «nei paesi che non fanno parte del novero dei paesi sfruttatori, che hanno la possibilità di saccheggiare più facilmente e hanno i mezzi per corrompere gli strati superiori dei loro operai» (100).
Lenin sottolinea sempre che il XX secolo, più di qualsiasi altro secolo precedente, sarà un’epoca di masse numerosissime – l’epoca delle folle (101). «Noi sappiamo – dirà nel 1918 – […] che una rivoluzione diviene tale solo quando decine di milioni di uomini, in uno slancio unanime, si sollevano come una sola persona» (102). Occorre ormai tener conto di «questa particolarità della rivoluzione, prima sconosciuta, l’organizzazione delle masse» (103). Sono al giorno d’oggi «milioni e decine di milioni gli uomini» che, durante dei rivolgimenti di questo genere «imparano in una settimana più che in un anno di vita ordinaria, sonnolenta» (104). E va da sé, aggiungiamo noi tranquillamente, che il XXI secolo conoscerà delle battaglie ancora più imponenti, senza dubbio planetarie, che coinvolgeranno non più decine, ma centinaia di milioni di uomini in lotte che raggiungeranno una scala ancora ignota fino ad oggi:
la manifestazione che ha riunito lo stesso giorno quindici milioni di abitanti delle campagne Terriens – in Giappone, in Europa, in Medio-Oriente, in Australia, anche negli Stati Uniti – contro la minaccia dello scoppio delle ostilità in Irak costituisce certo il modello ancora balbettante di tali rivolu- zioni mondializzate (105).
Insomma, non senza una lucidità prospettica che i cinquant’anni seguenti avrebbero confermato, Lenin stesso annuncia l’evoluzione che sostituirà alle lotte sociali che oppongono localmente sfruttatori e sfruttati di una stessa nazione o di uno stesso continente delle lotte di dimensioni planetarie, delle lotte globalizzate, che metteranno in movimento masse d’uomini sempre più numerose e sempre più universalmente diffuse sulla Terra. In questo senso osserva che «il movimento nei paesi coloniali viene ancora considerato come un movimento nazionale senza importanza e assolutamente pacifico. Ma così non è […]. È assolutamente chiaro che nelle future battaglie decisive della rivoluzione mondiale il movimento di questa maggioranza della popolazione del globo, che in un primo tempo tende alla liberazione nazionale, si rivolgerà poi contro il capitalismo e l’imperialismo e avrà forse una funzione rivoluzionaria molto più grande di quanto ci attendiamo» (106).
Le rivoluzioni, diceva Marx, sono le «locomotive della storia» (107). La rivoluzione, aggiunge Lenin, è la «festa degli oppressi e degli sfruttati. Mai la massa popolare è capace di operare in quanto creatrice attiva di nuovi ordini sociali come durante la rivoluzione. In tali epoche […] il popolo è capace di fare miracoli» (108). È anche necessario che in quei momenti i dirigenti dei partiti popo- lari siano in grado di far sì che l’energia rivoluzionaria non s’indebolisca, siano cioè in grado di produrre delle parole d’ordine che additino «il cammino più breve, più diretto verso la vittoria completa, assoluta, decisiva»(109).
La rivoluzione è una festa: che i suoi attori individuali siano motivati da nobili sentimenti o, al contrario, che siano mossi soltanto (come Bazarov, il personaggio di Turgenev) dal tedio e dall’odio (110), ciò, tutto sommato, è assai poco importante. Così, durante la rivoluzione del 1905, durante questa «serie di lotte di tutte le classi, i gruppi e gli elementi malcontenti della popolazione», c’erano delle masse che avevano dei pregiudizi barbari, «con i più oscuri e fantastici scopi di lotta», c’erano gruppuscoli che ricevevano del denaro dal Giappone, c’erano speculatori e avventurieri ecc. Al di là di tutte queste circostanze, resta tuttavia questo dato di fatto: «obiettivamente, il movimento delle masse colpiva lo zarismo e apriva la strada alla democrazia». Per questa ragione gli «operai consapevoli» lo hanno diretto (111). È quindi l’avanguardia della rivoluzione, il proletariato avanzato, che esprimerà la verità oggettiva di questa lotta di massa «varia e disparata, variopinta ed esteriormente frazionata»; l’avanguardia conferirà bellezza e coerenza, darà una forma, afferma Lenin, a questa «esplosione» provocata da «tutti gli oppressi e tutti i malcontenti» (112). Il comunismo è infatti, come scriveva Marx, la forma necessaria e il principio propulsore del prossimo futuro (113).
[Traduzione dal francese di Marco Vanzulli]
Note
1 Cfr. V.I. Lenin, Opere complete, Roma, Edizioni Rinascita – Editori Riuniti, 1954-1970, 45 voll. D’ora innanzi OC.
2 Stato e rivoluzione [agosto-settembre 1917], in OC XXV, giugno-settembre 1917, 1967, tr. it. di F. Platone e R. Platone, cap. VI, 2, p. 453.
3 Progetto di risoluzione della sinistra di Zimmerwald [1915, pubblicato per la prima volta nel 1930], in OC XXI, agosto 1914 – dicembre 1915, 1966, tr. it. di R. Platone, pp. 317-318.
4 Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica [luglio1905], in OC IX, giugno-novembre 1905, 1960, tr. it. di E. Frisia, p. 24.
5 Il socialismo e la guerra (l’atteggiamento del POSDR verso la guerra) [luglio-agosto 1915], in OC XXI cit., cap. I, pp. 286-287.
6 La rivoluzione in Russia e i compiti degli operai di tutti i paesi [12 (25) marzo 1917, pubblicato per la prima volta nel 1924], in OC XXIII, agosto 1916 – marzo 1917, 1965, tr. it. di I. Ambrogio, p. 347. Per quanto riguarda le date degli articoli citati, scegliamo di indicarli all’antica, cioè secondo il calendario giuliano, che la Russia non abbandonò nel XVI secolo. Questa datazione all’antica sarà seguita, tra parentesi, dalla data corrispondente nel modo moderno. E così come la rivoluzione d’«ottobre» avvenne, com’è noto… in novembre, così l’articolo citato è apparso, secondo il nostro calendario (gregoriano), tredici giorni più tardi del 12 marzo, cioè il 25 marzo 1917.
7 VIII Congresso del PCR(B) (18-23 marzo 1919) [Pravda, marzo-aprile 1919], in OC XXIX, marzo – agosto 1919, 1967, tr. it. di R. Platone, p. 136.
8 Il socialismo e la guerra (l’atteggiamento del POSDR verso la guerra) cit., cap. I, p. 273.
9 Ibidem.
10 Ibidem.
11 I Congresso per l’istruzione extrascolastica. «Come si inganna il popolo con le parole d’ordine di libertà e di uguaglianza» [19 maggio 1919], in OC XXIX cit., p. 312.
12 Lettera agli operai americani [«Pravda», n. 178, 22 agosto 1918], in OC XXVIII, luglio 1918 – marzo 1919, 1967, tr. it. di I. Ambrogio, pp. 71-72.
13 A proposito del «programma di pace» [«Il Social-Democratico», n. 52, 25 marzo 1916], in OC XXII, dicembre 1915 – luglio 1916, 1966, tr. it. di F. Platone ed E. Negarville, p. 167. Lenin tiene in grande considerazione questa celebre formula di Clausewitz. La cita in più occasioni; cfr., tra le altre, La guerra e la rivoluzione in OC XXIV, aprile-giugno 1917, 1966, tr. it. di I. Ambrogio, pp. 410-411.
14 Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa [«Il Social-democratico», n. 44, 23 ago- sto 1915], in OC XXI cit., p. 313.
15 La situazione e i compiti dell’Internazionale Socialista [«Il Social-democratico», n. 33, 1 novembre 1914], in OC XXI cit., p. 31.
16 La caduta di Port-Arthur [«Vperiodo», n. 2, 1 (14) gennaio 1905)], in OC VIII, gennaio- luglio 1905, 1961, tr. it. di A. Carpitella, E. Robotti e R. Vecchione, pp. 43-44. Plehve, in quel momento ministro dell’Interno, aveva consigliato a Nicola II di rinsaldare il suo potere intraprendendo una «piccola guerra corta e vittoriosa» contro il Giappone. Furono i «maca- chi» giapponesi (l’espressione è dello stesso zar) ad infliggere una sconfitta dopo l’altra alla flotta e alla fanteria russe: davanti a Port Arthur (aprile 1904), la città finì per arrendersi il 2 gennaio 1905; nel mare cinese (agosto 1904); a Moukden, due volte (agosto-settembre 1904, e soprattutto nel marzo 1905); e, infine, davanti a Tsouchima (27 maggio 1905).
17 Il fallimento della II Internazionale [1915], in OC XXI cit., p. 190.
18 Nuovi compiti e nuove forze [«Vperiodo», n. 9, 23 febbraio (8 marzo) 1905], in OC VIII cit., p. 196.
19 L’«estremismo» malattia infantile del comunismo [1920], in OC XXXI, aprile-dicembre 1920, 1967, tr. it. di I. Ambrogio, cap. X, p. 85.
20 IV Congresso dell’Internazionale comunista (14-16 marzo 1922). 2. «Cinque anni di rivo- luzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale», relazione presentata il 13 novembre 1922 [«Pravda», n. 258, 15 novembre 1922], in OC XXXIII, agosto 1921 – marzo 1923, 1967, tr. it. di B. Bernardini, p. 387.
21 IV Congresso straordinario dei soviet di tutta la Russia. 2. Rapporto sulla ratifica del trattato di pace (14 marzo 1918), in OC XXVII, febbraio-luglio 1918, 1967, tr. it. di G. Garritano, p. 161.
22 Il compito principale dei nostri giorni [11 marzo 1918], in OC XXVII cit., p. 142.
23 Cfr. questa dichiarazione di Barère – che, fino a quel momento, cioè fino al 7 marzo 1793, non aveva tuttavia avuto alcun comportamento da esaltato –, dopo la votazione per accla- mazione da parte della Convenzione della guerra alla Spagna: «Un ennemi de plus pour la France n’est qu’un triomphe de plus pour la liberté», citato da A. Soboul, Précis d’histoi- re de la Révolution française, Paris, Gallimard, 19702 (1962), t. I, p. 341.
24 Giornate rivoluzionarie [«Vperiodo», n. 4, 18 gennaio 1905], in OC VIII cit., p. 90.
25 Che fare? [1902], in OC V, maggio 1901 – febbraio 1902, 1958, tr. it. di L. Amadesi, p. 475.
26 La vittoria dei cadetti e i compiti del partito operaio [aprile 1906], in OC X, novembre 1905 – giugno 1906, 1961, tr. it. di I. Ambrogio, p. 234.
27 Programma agrario della socialdemocrazia nella prima rivoluzione russa del 1905-1907 [1908], in OC XIII, luglio 1907 – marzo 1908, 1965, tr. it. di I. Solfrini, p. 205.
28 Giornate rivoluzionarie cit., p.90.
29 Contro il boicottaggio [1907], in OC XIII cit., p. 30. A proposito di «sovrastruttura» e di «struttura», Lenin cita instancabilmente il celebre testo della Prefazione di Marx a Per la critica dell’economia politica (1859): «nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomi- ni entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali […]. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale» (K. Marx, Per la critica del- l’economia politica, tr. it. di E. Cantimori Mezzomonti, Roma, Editori Riuniti, 19843 (1957), p. 5. Cfr, tra l’altro, Che cosa sono gli «amici del popolo» e come lottano contro i socialde- mocratici [1894], in OC I, 1893-1894, 1954, p. 152; Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica cit., pp. 114-115; Karl Marx [1914], in OC XXI cit., p. 48.
30 Spostamento di classi [«Pravda», n. 92, 27 giugno 1917], in OC XXV cit., p. 122.
31 Come i capitalisti cercano di intimidire il popolo [1917], in OC XXIV cit., p. 450. Cfr. anche Lo sviluppo del capitalismo in Russia [1896-1898], in OC III, 1956, pp. 1-613.
32 Spostamento di classi cit., p. 121.
33 Due tattiche [«Vperiodo», n. 6, 1 febbraio 1905], in OC VIII cit., p. 138.
34 Per una valutazione della rivoluzione russa [pubblicato il 19 marzo 1908 nella rivista polacca «Przeglad Socjaldemokratyczny», n. 2], in OC XV, marzo 1908 – agosto 1909,
1967, tr. it. di I. Ambrogio, p. 52. Lenin rinvia qui allo studio di Engels Sul materiali- smo storico (prefazione all’edizione inglese di Socialismo utopico e socialismo scienti- fico, 1892).
35 Per una valutazione della rivoluzione russa cit., pp. 50 e 52.
36 Cioè: 1905-1907; febbraio 1917; ottobre 1917.
37 L’«estremismo» malattia infantile del comunismo cit., cap. X, p. 74.
38 Il significato storico della lotta all’interno del partito in Russia [redatto nel 1910, pubbli- cato nell’aprile del 1911], in OC XVI, settembre 1909 – dicembre 1910, 1965, tr. it. di E. Robotti, p. 355.
39 La dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini [«Vperiodo», n. 14, 12 aprile 1905], in OC VIII cit., p. 270.
40 Lettera agli operai americani cit., p. 69.
41 Ibidem.
42 Che fare? cit., p. 475.
43 Il proletariato rivoluzionario e il diritto di autodecisione delle nazioni [verso ottobre del 1915, prima pubblicazione nel 1927], in OC XXI cit., p. 373.
44 Chi è spaventato dal crollo del vecchio e chi lotta per il nuovo [gennaio 1918, prima pub- blicazione nel gennaio 1929], in OC XXVI, settembre 1917 – febbraio 1918, 1966, tr. it. di G. Garritano, p. 384. Cfr. le lettere di Marx a Liebknecht del 6 aprile 1871 e a Kügelmann del 12 aprile 1871, in K. Marx – F. Engels, Opere Complete, vol. XLIV, a cura di N. Benvenuti e M. Montinari, tr. it. di N. Benvenuti, E. Cantimori Mezzomonti, S. Romagnoli, Roma, Editori Riuniti, 1990, rispettivamente pp. 193-195 e 198-199.
45 Lettera aperta a Charles Naine, membro della Commissione Socialista Internazionale di Berna [dicembre 1916, prima pubblicazione nel 1924], in OC XXIII cit., p. 225.
46 La piattaforma della socialdemocrazia rivoluzionaria [«Prolétari», nn. 14 e 15, 4 e 25 marzo 1907], in OC XII, gennaio-giugno 1907, 1965, tr. it. di E. Robotti e R. Platone, p. 195.
47 Risposta alle domande di un giornalista americano [«Pravda», n. 162, 25 luglio 1919], in OC XXIX cit., p. 473.
48 La piattaforma della socialdemocrazia rivoluzionaria cit., p.195. Engels si era espresso in questo modo in una lettera a Turati del 26 gennaio 1894.
49 «Domenica di sangue» (9 gennaio 1905); incendi di proprietà nelle campagne; capitolazio- ne di Port Arthur (aprile); disastro navale di Tsoushima (15 maggio); sciopero generale…
50 Nel Manifesto del 17 ottobre 1905.
51 L’epilogo s’avvicina [«Prolétari», n. 25, 3 (16) novembre 1905], in OC IX cit., p. 427. Corsivi nostri.
52 Due tattiche cit., pp.138-139. Si tratta in questo caso di una delle discussioni tra Lenin e Martynov, un sostenitore dell’«economicismo», che, dopo il II Congresso del POSDR, divenne uno dei redattori della «Nuova Iskra» menscevica.
53 Alcune caratteristiche dello sfacelo attuale [«Prolétari», n. 32, 2 (15) luglio 1908], in OC XV cit., pp. 145-146.
54 Otzovisti: gruppo di bolscevichi diretti da Bogdanov, che esigevano che i deputati social- democratici russi delle terza Duma di Stato fossero richiamati (otzyv: richiamo) e che rite- nevano inutile la presenza dei rivoluzionari nelle organizzazioni legali.
55 Una caricatura del bolscevismo [Supplemento a «Prolétari», n. 44, 4 (17) aprile 1909], in OC XV cit., p. 370.
56 Lettera ai membri del Comitato Centrale [24 ottobre (6 novembre) 1917, prima pubblicazione nel 1924], in OC XXVI cit., p. 221.
57 VI Congresso straordinario dei soviet di deputati degli operai, dei contadini, dei cosac- chi e dei soldati dell’Esercito rosso (6-9 novembre 1918), in OC XXVIII cit., p. 164.
58 I marxisti rivoluzionari alla Conferenza Internazionale socialista del 5-8 settembre 1915 [«Il Socialdemocratico», nn. 45-46, 11 ottobre 1915], in OC XXI cit., p. 361.
59 Sulla nostra rivoluzione (a proposito delle note di N. Sukhanov) [1923], in OC XXXIII cit., II, p. 439.
60 Lettera ai membri del Comitato Centrale cit., p. 221.
61 Prefazione alla traduzione russa delle lettere di K. Marx a L. Kugelmann [1907], in OC XII cit., p. 99. Cfr. la lettera di Marx a Kugelmann del 17 aprile 1871, in K. Marx – F. Engels, Opere Complete, vol. XLIV cit., p. 202. Kugelmann aveva in effetti espresso dei dubbi sulla fondatezza dello scoppio della rivoluzione comunarda.
62 Stato e rivoluzione [giugno-settembre 1917], in OC XXV cit., I, 1, p. 367.
63 Ivi, II, 1, p. 380.
64 Ivi, I, 3, p. 371. Si tratta, in questa circostanza, di una citazione che Lenin riprende dall’o- pera di F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, tr. it. di L. Cecchini, Roma, Savelli, 1973, p. 214.
65 I Congresso dell’Internazionale comunista (2-6 marzo 1919). 2. Tesi e rapporto sulla democrazia borghese e sulla dittatura del proletariato (4 marzo) [«Pravda», n. 51, 6 marzo 1919], in OC XXVIII cit., p. 462.
66 Stato e rivoluzione cit., I, 2, p. 369.
67 Si pensi all’aumento delle polizie o di altre milizie private, che da molti anni costituiscono delle vere e proprie istituzioni in certe grandi città dell’America Latina; si pensi anche, nel contesto dell’attuale occupazione dell’Irak, al fatto che l’organizzazione della tortura sembra essere stata delegata in parte a degli stabilimenti privati, indipendenti fino a un certo punto dal Pentagono e dal governo statunitense.
68 Stato e rivoluzione cit., II, 3, p. 388.
69 Ivi, II, 3, p. 389.
70 Per la storia della questione della dittatura [1920], in OC XXXI cit., p. 326.
71 Uno dei problemi fondamentali della rivoluzione [«Rabotchi Pout», n. 10, 14 (27) set- tembre 1917], in OC XXV cit., p. 348.
72 Stato e rivoluzione cit., II, 1, p. 382.
73 Uno dei problemi fondamentali della rivoluzione cit., pp. 348-355. Basti pensare al destino delle nazionalizzazioni attuate in Francia sotto il governo di P. Mauroy (1981-1984): 1) riscatto al prezzo più alto da parte dello Stato delle azioni delle imprese nazionalizzabili (50 miliardi di franchi francesi, ossia 7,5 miliardi di euro); 2) «ristrutturazioni industriali», talvolta garantite da ex dirigenti sindacali riconvertiti per l’occasione in funzionari di Stato; 3) privatizzazioni neoliberiste.
74 Cfr. la lettera di Marx a Kugelmann del 12 aprile 1871 – lettera scritta, come si vede, durante la Comune.
75 Stato e rivoluzione cit., III, 1, p. 392.
76 La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky [1918], in OC XXVII cit., p. 258.
77 Ibidem.
78 Ibidem.
79 Sul governo rivoluzionario provvisorio [«Prolétari», nn. 2 e 3, 21 e 27 maggio 1905], in OC VIII cit., p. 427.
80 Chi è spaventato dal crollo del vecchio e chi lotta per il nuovo cit., p. 383. Cfr. la lettera di Marx a Liebknecht del 6 aprile 1871 e anche la lettera a Kugelmann del 12 aprile 1871, che abbiamo già citato.
81 La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky cit., p. 256. Cfr. F. Engels, Dell’autorità [1873], in K. Marx – F. Engels, Critica dell’anarchismo, a cura di G. Backhaus, Torino, Einaudi, 19742 (1972), pp. 307-311.
82 Il proletariato e il suo alleato nella rivoluzione russa [«Prolétari», n. 10, 20 dicembre 1906], in OC XI, giugno 1906 – gennaio 1907, 1962, tr. it. di A. Carpitella ed E. Robotti, p. 350.
83 La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky cit., p. 261.
84 I compiti immediati del potere sovietico [aprile 1918], in OC XXVII cit., p. 236
85 Lettera agli operai americani cit., p. 74.
86 Citato in A. Soboul, Précis d’histoire de la Révolution française cit., t. I, p. 358.
87 Stato e rivoluzione cit., V, 2, p. 434.
88 I Congresso per l’istruzione extrascolastica. «Come si inganna il popolo con le parole d’ordine di libertà e di uguaglianza» cit., p. 325.
89 Cfr. in particolare Stato e rivoluzione cit., V, 2, p. 433; o anche ivi, III, 3, p. 398. Si tratta d’altronde di una citazione di Marx, cfr. K. Marx, La guerra civile in Francia, a cura di G.M. Bravo, Roma, Newton Compton, 19782 (1973), pp. 114-115.
90 Stato e rivoluzione cit., III, 3, p. 399. Cfr. J. Salem, Critique de la démocratie parlemen- taire dans la Russie de la fin du XIXe siècle: Constantin Petrovich Pobedonostsev, théo- ricien de l’autocratie, «Revue de Métaphysique et de Morale» 1 (2005), pp. 127-149.
91 I Congresso dell’Internazionale comunista (2-6 marzo 1919). 2. Tesi e rapporto sulla democrazia borghese e sulla dittatura del proletariato (4 marzo) cit., p. 464.
92 La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky cit., p. 251.
93 La situazione e i compiti dell’Internazionale Socialista cit., pp. 30-31.
94 Il fallimento della II Internazionale cit., p. 194.
95 Ibidem.
96 Il programma militare della rivoluzione proletaria [1916], in OC XXIII, p. 82.
97 Osservazioni a proposito di un articolo sul massimalismo [1916, prima pubblicazione nel 1962], in OC XLI, 1896 – ottobre 1917, 1968, tr. it. di I. Ambrogio, p. 477.
98 III Congresso dell’Internazionale comunista (22 giugno – 12 luglio 1921) [1921], in OC XXXIII, dicembre 1920 – agosto 1921, 1967, tr. it. di R. Platone e A. Pancaldi, IV, p. 457. L’espressione «Internazionale due e mezzo» designa un gruppo di partiti operai che ave- vano temporaneamente abbandonato la II Internazionale per fondarne un’altra, non comunista, a Vienna nel 1921. Fecero ritorno alla II Internazionale (socialista) nel 1923.
99 L’imperialismo, fase suprema del capitalismo [1916], in OC XXII cit., p. 195. Ciò ridi- mensiona notevolmente la tracotanza e l’eterodossia che molti comunisti europei rimproverarono a Marcuse all’inizio degli anni ’70: sottolineando l’inevitabile imborghesimento di una parte sempre più grande della classe operaia nei paesi avanzati, Herbert Marcuse non camminava quindi su una terreno vergine, tutt’altro.
100 III Congresso dei Soviet, dei deputati, operai, soldati e contadini di tutta la Russia (10-18 [23-31] gennaio 1918). 1. Rapporto sull’attività del Consiglio dei commissari del Popolo (11 [24] gennaio 1918), in OC XXVI cit., p. 436.
101 Giornate rivoluzionarie cit., pp. 93-95.
102 V Congresso dei Soviet, dei deputati, operai, soldati e contadini di tutta la Russia (4-10 luglio 1918). 1. Rapporto del Consiglio dei commissari del Popolo (5 luglio 1918, prima pubblicazione nel 1924), in OC XXVII cit., p. 474.
103 Discorso in memoria di I.M. Sverdlov alla seduta straordinaria del Comitato esecutivo centrale di tutta la Russia [«Pravda», n. 60, 20 marzo 1919], in OC XXIX cit., pp. 74-75.
104 Gli insegnamenti della rivoluzione [«Rabotchi», nn. 8 e 9, 30 e 31 agosto 1917], in OC XXV cit., p. 217.
105 15 febbraio 2003 – Cinquanta scienziati della base McMurdo, nell’Antartico, hanno sfila- to attorno alla loro stazione di ricerca, mentre 10000 persone manifestavano dall’altra parte del globo, nelle strade di Trondheim, in Norvegia. Quel giorno le manifestazioni hanno riguardato seicento città in sessanta paesi diversi.
106 III Congresso dell’Internazionale comunista (22 giugno – 12 luglio 1921) cit., p. 457.
107 K. Marx, Le lotte di classe in Francia [1850], in K. Marx – F. Engels, Opere Complete, vol. X, settembre 1849 – giugno 1851, a cura di A. Aiello e M. Olivieri, tr. it. di G. de Caria, E. Fubini, P. Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 121.
108 Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica cit., p. 100.
109 Ibidem.
110 Cfr. I. Turgenev, Padri e figli, tr. it. di R. Küfferle, Milano, Mondatori, 1988, cap. XXI, p. 136.
111 Risultati della discussione sull’autodecisione[ottobre 1916], in OC XXII cit., § 10, p. 353.
112 Ibidem.
113 Cfr. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, tr. it. di N. Bobbio, Torino, Einaudi, 1968, p. 126.