Sul principio di obbligazione
Augusto Illuminati
Il principio di obbedienza annoda, secondo una celebre affermazione di Norberto Bobbio (1), le principali tematiche filosofiche di Hobbes, confluendovi infatti nominalismo logico, convenzionalismo etico, pessimismo antropologico e volontarismo giuridico. L’equiparazione fra mancato rispetto dei patti e assurdità logica (Elements of Law Natural and Politic, XVI, 1-2, De corpore, I, 5, 1 e De cive, III, 3) assegna a entrambe lo status di convenzioni arbitrarie ma preliminari per installare, rispettivamente, un agire collettivo e un discorso coerente. Si tratta dell’obbligazione fondamentale, donde discende ogni altro obbligo legale.
Le due prime leggi naturali invitano a istituire il patto d’unione fra i membri di una multitudo dissoluta e a mantenerlo in base all’inflessibile principio che pacta sunt servanda (2), tanto che trasgredirlo infrange il patto iniziale, non questa o quella legge, e il colpevole è un nemico dello Stato, un sovversivo, non semplicemente un cattivo cittadino o un criminale occasionale. Racaille, nel linguaggio di Sarkozy, tanto per riscontrare l’attualità sempreverde del Nostro. Infatti tale delitto è di lesa maestà, «trasgressione della legge naturale stessa, non di quella civile» (De cive, XIV, 21). Se l’obbedienza fosse imposta da una legge civile positiva, dovremmo rinviare a un’ulteriore prescrizio- ne dello stesso tipo e avremmo così un regresso all’infinito, di legge in legge. Qui torna utile la vigenza (altrove negata) della legge naturale – è il misterioso peccato contro lo Spirito Santo, non la violazione dei singoli comandamenti del Decalogo. D’altra parte, per un paradosso, l’obbligo «naturale» di obbedienza vale solo nello stato civile: è, insieme, causa ed effetto dell’esistenza dello Stato, è sorretto da ciò di cui pure costituisce il fondamento, precedendo e seguendo a un tempo la formazione del «supremo imperio». Anzi, l’obbedienza alle leggi è giustificata da un fatto, di per sé incommensurabile a qualsiasi ordinamento normativo: il passaggio dallo «stato di natura» allo «stato civile» (3), secondo un’antinomia tipica di qualsiasi fondamento, come risulta dalla metafora di Ludwig Wittgenstein, per cui il muro maestro sostiene l’intera casa e insieme ne è tenuto su (4). Non si creda che le cose vadano meglio per la Grundnorm kelseniana…
«La legge naturale comanda di obbedire a tutte le leggi civili in virtù della legge naturale che vieta di violare i patti […] [perciò] ci obbliga a obbedire prima di sapere quello che ci verrà comandato […] [imponendo] un’obbe- dienza generale e totale» (5) – macchina diabolica per il cui montaggio Hobbes adopera ingegnosamente tutti gli ingredienti giusnaturalistici (6). Ancor più nel passaggio dal De cive al Leviathan, da un pact or covenant residualmente implicante una pluralità democratica originaria di contraenti a una procedura di autorizzazione, in cui ogni singolo autore, senza contatto con gli altri, delega una persona repraesentativa, ovvero attore, le cui azioni e comandi siano riconosciuti vincolanti e fatti propri (owned) dagli autori, perfino contenti di essere puniti per eventuali trasgressioni (7). Già nel passaggio contrat- tuale da multitudo a populus – implicante la definizione negativa della prima – il secondo termine risolve la pluralità nell’unità e terzietà del rex (8); in seguito non si dà neppure una sequenza pseudo-storica. Cade la bilateralità, perché il sovrano-attore (non imputabile) è l’unico ad avere l’iniziativa, mentre gli autori che lo hanno istituito sono responsabili dei suoi atti, anche quando ne vengono colpiti (9). Il patto non è neppure qualcosa di cronologicamente anteriore, ma semplice presupposto logico implicito nel fatto che c’è la sovranità. Lo stesso vale per il soggetto-autore. Allo stesso tempo il sovrano ha il monopolio (considerato legittimo) non solo della violenza, ma dell’agire poli- tico in generale, mentre i sudditi sono privati del diritto tanto a usare violenza (fra di loro e contro il sovrano) quanto a prendere una posizione politica. Guerra e politica sono bandite con un medesimo gesto catecontico (10), che mira a neutralizzare il potenziale umano di pericolosità (11). Con tale doppio esonero viene tutelata la nuda vita: una vita non proprio minimale, perché si lascia campo all’attività economica e alla soddisfazione dell’illimitato bisogno di riconoscimento, ma senza relazioni politiche (compreso il presupposto della libertà di parola!), una zwh agiata, non un bio$ politiko$. Il carattere innaturale e costruttivistico dell’obbligazione circoscrive lo spazio di movimento sottratto alla guerra e alla politica per abbandonarlo all’utile privato dell’indivi- duo possessivo, avido di ricchezza e prestigio (12).
Spinoza, che pur tanto deve nei contenuti e nella terminologia a Hobbes, su questo punto si contrappone radicalmente rinviando alle differenti premesse ontologico-teologiche, potremmo dire, anche se lo schema della teologia poli- tica si applica perfettamente al suo antagonista Hobbes, meno all’Olandese, poiché la teologia rimanda storicamente a un Dio personale, che in quanto tale può essere antropomorfizzato, funzionando invece solo per omonimia nello schema impersonale del Deus sive Natura. Il grande Leviatano, dio mortale o potente uomo artificiale o automa, secolarizzava un Dio immortale, inconosci- bile ma dotato di potentia absoluta (13), per un verso, capace di creare dal nulla e di rigettare nel nulla il mondo con tutte le sue regolarità, per l’altro. Se questo Dio – sta scritto nel primo capitolo dell’Appendice latina al Leviathan – ha creato ex nihilo, non ut Aristoteles, ex materia praesistente e alla fine butterà all’aria tutto, per cui caelum et terra renovabuntur qua forma et specie vult Deus (14), si capisce bene che il diritto naturale, sua proiezione terrena, risulterà friabile quanto lo scolastico regnum tenebrarum della IV parte del Leviathan. La reciprocità fra i contraenti è segata in radice. Il monopolio attivo del Dio-sovrano è inoltre un prodotto delle passioni tristi delle creature-sudditi, della paura della morte in generale e di quella violenta del singolo. La contingenza è vissuta come angoscia e risolta in obbedienza – non avvertiamo un’anticipazione del movimento che risolve l’essere-per-la-morte, divenuto consapevole, nel grande ascolto heideggeriano dell’Essere? Non è forse l’ascolto il vertice dell’obbedienza (Gehör–Gehorchen)?
Per un verso, la potenza di questo formalismo astratto, di ascendenza teologica, è tanto autoreferenziale quanto straordinariamente operativa nel divieto preventivo di ogni indeterminata trasgressione, per l’altro si fissa su una struttura del potere troppo aderente al dato storico immediato dell’assolutismo regio (intercambiabile con la dittatura cromwelliana). Si può capire l’entusiasmo di Carl Schmitt, ma è un tratto in realtà asfittico. Il momento strutturale è talmente forte che è suscettibile di traduzione sia nel comando morale kantiano, altrettanto indeterminato, sia nella forma moderna russoiana della sovranità popolare. In entrambi i casi viene però sciolto dal contesto seicentesco e democratizzato, cioè il principio hobbesiano dell’eguaglianza (delle creature contingenti e dei corpi galileiani) è reinvestito coerentemente nel diritto civile e politico. La trascrizione kantiana dell’obbligazione hobbesiana è precisa: il non-agire generico è il complemento dell’agire generico, del far sì che la tua massima diventi universale. Non si sa quanto verrà comandato e la razionalità del comando (la volontà dell’automa (15) risiede nella sua formale legittimità: auctoritas non veritas facit legem. Auctoritas, beninteso, del tutto trasferita dall’auctor nelle mani dell’actor.
All’autorità del potere (indirettamente trascendentale) corrisponde quella del noumenico (direttamente trascendentale). Il contenuto veritativo, soggetto a discussione, e le inclinazioni sensibili, materia di phronesis, devono restare irrilevanti – come le qualità delle merci rispetto al denaro, tanto per alludere a quanto sottostà a entrambe le formulazioni. L’immaginario è completamente investito sull’astratto unificante, mentre il molteplice è disatteso o demonizzato. Si salvano, ai due estremi, l’universale e l’individualismo, la coercizione e la privatezza – fondamenti del mercato e del diritto.
Il dover-essere fa aggio sull’essere, compatta eticamente e politicamente quanto viene dichiarato ontologicamente inattingibile ma praticamente valido: ricordiamo il Dio inconoscibile di Hobbes, cui pure si deve obbedienza assoluta, come al sovrano… Ovvio, a questo punto, che in Kant si dia una rigorosa confutazione del diritto di resistenza: anche nel mite paesaggio dello Stato di diritto l’obbedienza generale si apposta dietro i cespugli del consenso. Le ragioni della disobbedienza, per contro, andranno invocate sia rispetto alla legge giuridica che a quella morale.
L’eredità hobbesiana esige però una certa dose di democratizzazione per continuare a essere plausibile e spendibile. Kant infatti la gestiva, sul versante politico, mediando in senso liberale la lezione di Rousseau che, pur accogliendo certe istanze machiavelliche e spinoziane (16), aveva portato all’estremo l’impossibilità costituzionale di resistenza, lasciando porta aperta solo all’autoesilio dalla comunità – in analogia al diritto di fuga che restava al condannato hobbesiano. La volonté générale traduce la Sostanza spinoziana (17) con una deviazione, appunto, sostanziale, che consolida in ambito democratico il meccanismo di comando e disciplina: quiconque refusera d’obéir à la volon- té générale y sera contraint par tout le corps: ce qui ne signifie autre chose sinon qu’on le forcera d’être libre (CS, I, 7). Il miracolo operato dalla legge è la servitù anonima, secondo un folgorante interrogativo del Ms. di Ginevra (cap. VII): comment se peut-il faire que tous obéissent et nul ne commande, qu’ils servent et n’ayent point de maitre?
La più perfettamente dissimulata forma della servitù volontaria di La Boétie. Pur conservandosi il diritto a esprimere un giudizio circa i mezzi dell’autoconservazione, tanto che le leggi sono votate a maggioranza e il popolo può sempre cambiarle, magari sbagliando (CS, I, 7 e II, 12), viene però interdetta la resistenza, esclusa la positività di dissenso e conflitto, negata perfino la possibilità di consultazioni fra gli elettori, fino alla celebre contrapposizione di volonté générale media e volonté de tous sommatoria di CS, II, 3 e IV, 2, dove si ribadisce la conformità alla volontà generale quale indice di giustezza o errore. Ne consegue una sorprendente convergenza con Hobbes: je ne vois point de milieu supportable entre la plus austère démocratie et le hobbisme le plus parfait (lettera a Mirabeau del 26 luglio 1767). Unità trascendente del corpo politico in un caso, imma- nente nell’altro. La vocazione spoliticizzante e identitaria della democrazia (anticipata nell’autorizzazione assolutistica e senza contatti orizzontali di Hobbes) disloca dominio e sottomissione nel consenso interiore. All’ingresso delle carceri genovesi di allora (peccato manchi oggi a Bolzaneto) stava scritto Libertas (CS, IV, 2), come in seguito altrove Arbeit macht frei…
Il superamento della dipendenza personale era incompleto, perché la soggezione alla legge impersonale manteneva il momento dell’arbitrio rifuggendo da ogni messa in discussione organizzata. In presenza di un peuple [qui] veut toujours le bien, mais de lui-même il ne le voit pas toujours (CS, II, 6), Rousseau si inventò una fondazione mediatico-mitologica, il Legislatore, che trascina le masse senza usare direttamente la forza e senza poter far ricorso a una ragione che ancora non c’è. Ecco l’affinità intrinseca fra mito e ordine giuridico intuita da Walter Benjamin nella Kritik der Gewalt, con la conseguente assunzione di una presunta colpevolezza originaria, di cui l’obbedienza civica e morale sconta l’infinita imprescrittibilità (18).
L’idea di destino è solidale con quelle di violenza mitica, monopolio statale della violenza (tanto più violento quanto più nascosto), controllo biopolitico sulla morte e obbligazione trascendentale. Vale per l’Uomo al singolare e per la nuda vita vulnerabile, la cui messa a rischio è esonerata dall’istituzione. Più con Hobbes, allora, che non con stoici e cristiani se la prendeva Spinoza, quando negava drasticamente (Eth IV, pr. 67) che la filosofia debba soffermarsi sulla morte. Conseguenza stringente del rifiuto della creaturalità già in precedenza affermato (sempre e alla lettera contro Hobbes) in Eth II, pr. 3, scolio, quando veniva rigettato il concetto volgare della potenza di Dio quale libera volontà di tipo regio e la complementare riduzione della natura a contingenza soggetta in qualsiasi momento a distruzione arbitraria. Spinoza chiama in tal caso impotenza (camuffata da potenza capricciosa) quello che Benjamin denun- ciava nell’oscuro nesso fra colpa e destino. In positivo è altrettanto importante la nota al TTP, XVI, laddove si sostiene che secondo ragione noi possiamo amare Dio ma non ubbidirgli, quasi promulgasse leggi alla maniera di un principe. Di nuovo, vita dell’amore contro morte della sottomissione.
Vediamo ora come Spinoza si contrapponga a Hobbes. La diversità di tale approccio spinoziano fu ben percepita nel saggio che il giovane e davvero nietzschiano (19) Leo Strauss redasse fra il 1925 e il 1928 (20) e in cui l’avversione dell’Olandese alle utopie veniva presa per assunto più ontologico che politico, ben più fervido e partecipato delle oggettive constatazioni del suo maestro Machiavelli, configurando non un semplice realismo politico, ma un dire sì al reale, cui segue un’accessoria attenzione alla politica. A differenza che in Hobbes, l’autoconservazione spingerebbe Spinoza verso la tranquillitas animi della teoria, non alla sicurezza nello Stato. È il diritto naturale a definire lo stato di natura, senza essere ricavato per via antropologica: al contrario si applica all’uomo un concetto acquisito altrove. L’equipollenza diritto-potenza vale infatti per ogni individuo vivente, non specificamente per l’uomo ed è (in termini non straussiani) un partage: spartizione e compartecipazione dell’illimitato diritto-potenza del Deus sive Natura. Il diritto naturale dell’uomo è dedotto a partire da Dio, non dalla condizione creaturale. Esso vale con pari legittimità tanto per le passioni della moltitudine quanto per il progresso dei pochi verso la saggezza, che realizzano la natura più propriamente umana. Giustificando in pari misura ragione e passioni, intelligenza e stupidità, la dottrina spinoziana non offre nessun appiglio per fondare il diritto in quanto tale, per convertirsi in ordinamento positivo mediante obbligazione.
Il gioco della potenza-diritto consente di provare gioia sia nel definire i meccanismi di una corretta gestione dello Stato che nell’organizzare la lotta dei ragni con le mosche. Dal punto di vista strettamente tecnico aveva le sue brave ragioni il cattolico conservatore G. Gonella ad accusarlo negli anni ’30 di «nichilismo giuridico»! Spinoza irride a ogni tentativo hobbesiano di giustificare il rispetto superstizioso dei patti fino a mantener fede alla promessa estorta con le minacce da un brigante, mentre un patto può essere infranto tranquillamente quando non sussistano più le condizioni e i rapporti di forza che hanno indotto qualcuno a soggiacervi. Soltanto le necessità del reale e un durevole successo giustificano l’instaurazione di uno Stato razionale e la conseguente osservanza dei patti, prevalendo criteri politici (non filosofici) sulle passioni scatenate. Lo Stato si fonda sulla potenza più o meno razionalizzata di tutti e non sul patto (21). Nella materialistica equiparazione di normatività giuridica biologica, la produzione della norma ricalca quella della natura, che non ha finalità né privilegi per l’uomo, anzi – insistiamo – per uomini al plurale sbarazzati dal mitico «destino». Il diritto non assoggetta l’individuo al dover essere della legge, ma si risolve nei comportamenti cui è immanente.
La benemerita interpretazione di Strauss, per lo più fondata sul TTP, che pur aveva il limite di scomporre moltitudine e saggezza, Ethica e Tractatus politicus, ispirò molte delle formulazioni successive, perfino quelle più temerarie che saltano il fossato fra beatitudine del saggio e potenza della moltitudine (22). Ricordiamo l’accostamento di Alexandre Matheron (23) fra il TP, dove la Civitas è la risultante meccanica di un puro rapporto di forze, e l’Ethica (IV, pr. 4, dem.), in cui la radice ontologica della constatazione machiavelliana è riportata al monismo antropologico del conatus nell’equivalenza divina di diritto e forza: potentia itaque hominis, quatenus per ipsius actualem essentiam explicatur, pars est infinitae Dei seu Naturae potentiae. Quel quatenus giustifica integralmente il desiderio individuale, identifica diritto e fatto, secondo il carattere unitario e positivo del conatus, a differenza dalla logica pragmatica di Hobbes, che dissocia la nuda vita da conservare (the preservation of his own Nature; that is to say, of his own life, Lev., XIV) dai mezzi che la conservano. Lo jus naturae, che nell’Inglese è potere meccanico di azione, nell’altro è essenza attuale e irrinunciabile, scaturisce non ex lege ma ex potentia e il diritto di governare viene meno con la capacità effettiva di farlo.
Il trasferimento del diritto vale per il solo periodo di tempo durante cui si mantiene la situazione da cui risulta; finita la speranza o la paura ridiveniamo giuridicamente indipendenti ed è stolto chi si affida ciecamente alle promesse (24). Si passa dall’interdépendance fluctuante (25) dello stato di natura alla migliore garanzia di aspettative e sanzioni dello stato civile, senza fondazione (cfr. Eth IV, pr. 37, sc. 2) o transfert, dato che in entrambi i casi vige l’eterodeterminazione dei desideri (26). Più il gruppo è vasto, meno il singolo ha licenza di disobbedire; sparita l’illusione dell’indipendenza formale ognuno riceve i diritti che la comunità gli accorda (27).
In primo piano viene l’aspetto relazionale più che coercitivo del potere e il carattere non valoriale del diritto. La soggettività si definisce per regime transindividuale (Balibar) che abbracci il massimo di compatibilità delle passioni. La norma, sempre negoziabile, si misura sull’utilità delle parti e della società (28) e l’assolutezza del potere è proporzionale alla potenza della moltitudine non alla pretesa che il detentore del potere sia legibus solutus, come il Dio scotista o calvinista. «Non v’è genesi giuridica» – tanto meno teologica – «del potere, ma solo sua genealogia democratica» affermerà graficamente Antonio Negri (29); ogni modo finito o aggregato di modi tantum in naturam habet juris, quantum potentia valet, secondo il molto citato passo di TP, II, 4. Multitudo absoluta e non più dissoluta (30)!
Comprendiamo ora meglio la netta presa di distanza contenuta nella lettera 50 del 2 giugno 1674 a Jarig Jelles, in cui non si richiede la cancellazione del diritto naturale, che anzi è conservato semper sartum tectum e fiorisce con l’unione delle forze nella società civile, dato che la potenza dello Stato è quella della moltitudine, che esprime e si fa carico dell’autoconservazione dell’essenza attuale della sostanza. Lo jus naturae autorizza il pieno sviluppo di sé senza implicazioni teleologiche; è un diritto soggettivo legato alla dimen- sione individuale e riferito a tutti i viventi, non solo agli uomini, razionali e irrazionali, particulae totius naturae (TTP, XVI; cfr. TP, I, 7 e II, 18), e non ha carattere normativo, pur prescrivendo una selezione fra i possibili com- portamenti umani. Anche la politica, come la filosofia, è meditatio vitae, non esorcismo biopolitico della morte. Lo jus commune vive nell’insieme degli jura communia e tanto più quanto sono numerosi gli associati, quo plures in unum sic conveniunt (TP, II, 15). La summa potestas è condizionata effet- tualmente, ricevendo restrizioni materiali nell’esercizio, mentre l’individuo è già da sempre socialmente legato e pertanto non si dà alcuna irreversibilità nell’eventuale statuizione del patto (31).
Senza dubbio la scansione dello jus mediante il pactum (presente soprat- tutto nel TTP) e la sua sedimentazione in lex (in entrambi i trattati) fa pro- blema. Nell’influente assunto di A. Negri (32) il passaggio dall’individualità alla comunità non avviene con ingranaggi giusnaturalistici ma dentro un proces- so costitutivo dell’immaginazione, spostando la potenza in una più complessa organizzazione degli antagonismi. Secondo Etienne Balibar (33), il patto serve a spiegare il complesso delle cause che permettono a uno Stato determinato di conservare la propria forma rendendo intelligibile la dinamica dei conflitti e la produzione di obbedienza come combinazione di interessi, forze e credenze. Le volontà individuali degli autori non preesistono al patto, ma si costituiscono quale suo effetto retroattivo – accordo fra Schmitt e Althusser! La traslazione da jus a lex genera volontà divise, che la eseguono o la trasgrediscono. Fermo restando il rapporto di potenza, cioè conservandosi il diritto naturale, la legislazione rinvia a un Legislatore anonimo o fittizio (Dieu, Personne, Celui qui est). Gli uomini fanno la storia, ma nella misura in cui ricevono la legge nella loro immaginazione sotto una forma inversa: il dictamen dell’Altro per esseri dotati di volontà. Corpo politico e legame sociale possono presentarsi in forma mistica o laica, ma sempre quale totalità organica, integrazione di individui a un ordine finalizzato. Lo scontro, una volta eliminata la finzione giuridica dell’obbligazione, si sposta sul piano dell’immaginazione. Non sarà più il Dio del Sinai o il Legislatore evanescente russoiano, ma resterà l’aura sacra della Legge, il culto civico della legalità – trascendenza aggiustata alla società dello spettacolo e all’epoca della riproducibilità tecnica.
Obbedienza e disobbedienza: dove passa la linea di frattura con la tradizione servile, tutt’altro che obsoleta? Laurent Bove (34) distingue nell’obtemperantia la soggezione superstiziosa al contenuto della legge da quella alla rappre- sentazione comune della legge, intesa quale legame vitale fra gli uomini, che conferisce unità, ordine e significato alle loro azioni e identità a una data società. Il libero cittadino obbedisce, ma esamina e discute il contenuto, pro- ponendone dettati più conformi alle condizioni sociali reali o alla ragione. La libera Repubblica produce anzi cittadini capaci di contrastare i poteri, di acquisire l’ingenium secondo o habitus della libertà (l’opposto della servitù volontaria): dove c’è resistenza e strategia (elementi di un diritto di guerra, cfr. TP, IV, 4-6) c’è razionalità.
Generalmente indifferente a interessi politico-giuridici, Ludwig Wittgenstein discute volentieri sul ruolo della regola (35), intesa quale abitudine (istituzione) seguita da più di un uomo e in più di una situazione: giocare una partita a scacchi, dare o comprendere un ordine, insomma padroneggiare un linguaggio e una tecnica senza domandarsi ogni volta quali ne siano le ragioni. La regola si rappresenta spontaneamente in noi come un qualcosa di fisso e por- tante: per esempio, l’alveo di un fiume rispetto alla corrente del medesimo. Ci si potrebbe immaginare, però, che certe proposizioni, che hanno forma empirica, vengano irrigidite e funzionino quasi da rotaia per le altre proposizioni più fluide, alternandosi con il tempo in continui scambi, così che la medesima proposizione possa essere trattata una volta come una proposizione da controllare con l’esperienza, un’altra come regola di controllo, secondo un principio di commutazione. L’alveo del fiume può spostarsi dopo una piena. I criteri più inconcussi del ragionevole e dell’irragionevole cambiano con il tempo– fenomeno particolarmente caratteristico dei periodi di crisi, quando la pras- si umana si pone sulla soglia fra corredo istintuale e struttura proposizionale, pulsioni e grammatica (sconvolta). L’uso altera le regole grammaticali, generando incessante innovazione, alludendo talvolta a una ricorrente uscita dalla vita pre-grammaticale. Le regole grammaticali non sono in sé né vere né false, bensì stabiliscono i criteri di verità e falsità e hanno a che fare con la sfera non ulteriormente fondabile dell’agire e del vivere, con la comune natura del vivente e quella particolare degli uomini. Con il conatus, potremmo dire, alla lettera con le naturae leges, seu regulas, secundum quas omnia fiunt, cioè lo Jus naturae di TP, II, 4, che oggi noi leggiamo attraverso la riformulazione nietzschiana quale Vita, da cui deriva, sotto travestimento biblico, la nozione straussiana di Legge.
Seguire o trasgredire una regola nell’ambito di una forma di vita, di una determinata configurazione di potenze-diritti finiti, è diverso dallo stare sotto l’antica Legge e relative secolarizzazioni, crogiolandosi nel pulviscolo di pec- cati e reati che ne prolifera. La convergenza fra Spinoza e Paolo non è un segreto. Il regime stesso dell’applicazione sempre insicura e ambivalente della regola (all’opposto della fissità per etimo presunta al patto, da paciscor, pango, phgnumi) apre un varco al cambiamento, all’istituzione di nuove regole secondo la loro funzionalità all’utile sociale, cioè allo sviluppo delle singo- larità, alla felicità dei corpi e delle menti che ne sono idea. Questo significa la conservazione del diritto naturale dentro la socializzazione della citata lettera a Jelles: un lavoro di adattamento e manutenzione, materiale e figurato – come ci testimoniano Cicerone e Ulpiano per l’espressione latina sartum (et) tectum, il cui primo termine deriva dal lavoro di rammendo (sarcio) del sarto. Un’integrità che deriva dalla riparazione minuta giorno per giorno dell’edificio (cui allude il secondo termine), più che da grandi e intervallati restauri. Notoriamente funziona meglio ed evita speculative demolizioni.
Il potere regolamentare tiene in sé l’empirico e il grammaticale, vincolando a osservanze particolari più che a un’obbedienza generale, inducendo a trasgressioni circoscritte più che alla trasgressione in generale. Non garantisce però un (del resto ampiamente illusorio) esonero (la gehleniana Entlastung) dall’eccesso di complessità. I dilemmi di Antigone contro le certezze di Creonte tornano interminabilmente a riproporsi. La regola è modificabile dalla pratica che essa stessa avvia e può diventare termine di controllo. Alla lettera viene ri-sarcita (re-sarta) nel suo più profondo aggancio grammaticale alla forza vitale e transindividuale degli uomini, al piano di immanenza delle essenze individuali. L’immaginazione mira ad allentare i vincoli flessibili della compatibilità dei conatus, non ad esaltare la cupidigia servile per l’ordine trascendente, che in fondo è perfetta solitudo, ineffettività del conatus (36). Pratiche effettive di liberazione si oppongono a universali oppressivi quanto menzogneri, a princìpi morali di codice o trascendentali, a maggior ragione quando essi siano assunti quali rinforzi comunitari, intrusi nella schematicità dell’obbligazione per renderla più sanguigna. Il rispetto dei patti, per tornare infine alla dimensione giuridica, si colloca all’interno della razionalità sociale, dipende da condizioni effettuali senza discendere da un obbligo destinale di obbedienza preordinato alla libertà soggettiva, da un feticismo della legge intimamente solidale con quello della merce. Questa è la differenza fra servo e cittadino, fra Uomo e uomini, fra Uno e molti e, ancor oggi, fra integrazione statale del popolo e democrazia conflittuale della moltitudine, figura relazio- nale e tenebrosa implicante produzione di disobbedienza.
Riesaminiamo ora le ragioni di Hobbes: quanto nella moltitudine possa suonare equivoco l’attributo absoluta, versione collettivamente antropomor- fica del volontarismo divino, quanto invece necessario sondarla con i temi del negativo, del male e perfino del katecon. Se, per un verso, la moltitudine, sciolta dal principio di obbligazione e aliena da qualsiasi rappresentanza, si sottrae attivamente a una democrazia neutralizzante, per l’altro esibisce con la massima chiarezza l’indole problematica, potenziale e pericolosa propria dell’animale umano, pulsionalmente eccedente le proprie finalità biologiche (37) e la cui regolazione resta un problema, anche una volta scartata la soluzione repressiva della legge-Stato. Problema la cui soluzione comporta la necessità di istituzioni e regole flessibili che contengano, quasi nuovo katecon dopo quello paolino e schmittiano, l’aggressività autodistruttiva (38), ma forse prima ancora (o meglio simultaneamente) ne garantiscano la vittoria contro le vecchie forme di dominio – esito tutt’altro che automatico o dialetticamente insito nel corso della storia, come a volte qualcuno sembra credere con generosa letizia. La stessa giusta contrapposizione fra potenza costituente della molti- tudine e formalismo della legge non toglie che la rappresentazione immagi- naria della sfera giuridico-politica sia una mediazione necessaria della poten- za moltitudinaria e un sintomo del suo stato internamente contraddittorio (39).
Nel presente testo l’accento è caduto prevalentemente sul TP, che più audacemente rinnega obbligazione hobbesiana e contrattualismo, portando in primo piano il realismo machiavelliano e cautamente dando conto delle ragioni della libertà e della resistenza più che di quelle dell’obbedienza. Nel TTP – si sa – il dosaggio degli ingredienti è diverso, anche se già la figura profetica combina la tradizione farabiano-maimonidea con la lezione dell’acutissimus Florentinus. Ci interessa però in quella sede il legame di una strategia del profetismo e dell’obbedienza con un processo di esodo, così da capire se quel tipo di conoscenza storica essenziale di terzo genere dell’esperienza ebraica (40) possa fornire idee per altre esplorazioni del governo dell’esodo. Riprendiamo in modo cursorio l’analisi condotta al proposito da Bove (41): la coppia obbedienza-trasgressione politica si forma storicamente sulla base della superstizione (timore e sottomissione, insoddisfazione e rivolta), dunque in primo luogo nell’ambito di un regime teocratico, adatto a popoli ancora barbari o appena usciti dalla schiavitù.
Si tratta di un dispositivo immaginario, fondato su quelle specifiche condizioni e destinato a ripresentarsi in termini ben diversi (ma pur sempre immaginativi) in seguito al potenziamento della razionalità scientifica e tecnica e alla liberazione dal predominio ecclesiastico e teologico. Grazie all’immaginazione, che converte l’arbitrario dell’istituzione in necessità assoluta, perfino la superstizione può trasformarsi da veleno in antidoto, lasciando riprodursi il desiderio di una vita felice che è pur tutta- via il movente di ogni azione umana. Spinoza, in TTP, XVII, oltre a eviden- ziare la genialità di Mosè nell’instaurare un ordine simbolico (secondo la lezione machiavelliana), scopre il ruolo innovativo e a suo modo ragionevole dell’immaginazione collettiva nel definire l’unità vitale delle istituzioni, nel costruire illusioni politicamente operative che incorporino le abitudini vigenti e i desideri popolari. Quel tipo di governo teocratico, senza successori o meglio dividendo la successione fra interpreti delle leggi divine e ammini- stratori, evitò agli Ebrei il passaggio a una monarchia secolare e garantì uno spazio equilibrato in una logica di contropoteri, senza dominio assoluto e senza ribellione, nell’affidamento diretto a Dio, alla minuziosa regolamenta- zione della vita quotidiana, con la possibilità dell’arrivo di nuovi profeti che giudichino gli atti del sovrano o la cattiva interpretazione delle leggi (42).
Schiavitù totale, ma non a qualcuno in particolare, caso limite della salvaguardia di un habitus o ingenium del popolo, fondato sulle consuetudines che ne limitano la congenita instabilità e ne strutturano le attese, definendo il campo di quanto ritenuto possibile e impossibile. L’impotenza della moltitudine, che decresce al crescere della democrazia e all’incorporazione del potere costituente, spiega la costituzione immaginaria della società; proprio il progetto democratico esprimerà una razionalità pratica (pur sempre entro e attraverso l’immaginazione) totalmente adeguata, in cui la spinta auto-orga- nizzatrice si sbarazza tendenzialmente da ogni residua alienazione. Uno Stato democratico si costituisce al limite della propria distruzione possibile: la sua consensualità critica gli fa minimamente temere la sedizione e contempora- neamente lo espone massimamente ad essa, secondo il meccanismo della discordia positiva che per la repubblica romana aveva constatato Machiavelli.
Fin qui Bove, ma torniamo al testo di Spinoza e alla sua connessione specifica con l’Esodo biblico. Non a caso, infatti, i capitoli XVII-XVIII del TTP trovano i germi della disgregazione del modello statuale ebraico e della sua posteriore inapplicabilità proprio nel modo in cui Mosè reprime le «mormorazioni» durante la traversata del deserto e in particolare quando, ridiscen- dendo dal Sinai, scopre i correligionari adorare il vitello d’oro e ne fa strage, con l’aiuto della tribù dei Leviti, l’unica che si era mantenuta esente dall’ido- latria e cui sarà da allora in poi delegata l’interpretazione delle leggi. Questa però è soltanto la conseguenza ultima della prima rinuncia che gli Ebrei hanno compiuto a un rapporto diretto con Dio, quando terrorizzati nell’ascoltarne la voce, scaricarono sul solo Mosè il diritto di interpellarlo e interpretarlo. Chi ha trasferito il potere – per il solito perverso rapporto fra obbe- dienza e sedizione – è pronto alla prima occasione a infastidirsi e insorgere contro la presunta usurpazione. Veniva così posto il germe di tutte le succes- sive discordie dopo la morte di Mosè, in particolare del distruttivo antagonismo fra re e sacerdoti, in ragione della contestata pretesa dei secondi di riser- varsi l’interpretazione delle leggi divine.
Il libro dell’Esodo nel commento spinoziano, dunque, ci presenta la seguente gamma di problemi:
1) pone una via intermedia fra sottomissione al Faraone e rivolta per sostituirlo con un altro capo sovrano (presumibilmente Mosè), scegliendo la secessione, sotto la guida carismatica dello stesso Mosè, 2) fonda un regime non monarchico, anzi tendenzialmente democratico, ma nella forma immaginativa prima di un patto di tutti con Dio, poi di una delega a Mosè, voce umana dello stesso, 3) implica da subito il problema di una messa in forma della moltitudine, caduta in preda al rimpianto della facile vita egiziana, disillusa per i tempi e le difficoltà di raggiungimento della Terra Promessa e pronta a rifluire nell’idolatria, 4) accenna alla selezione, su base volontaria, di un’avanguardia (i Leviti), che deve trascinare il popolo riluttante e più tardi si trasforma in una burocrazia, 5) mostra nella cattiva repressione (43) la causa dei posteriori dissensi e della crisi latente del modello ebraico. Ogni successivo esodo, in condizioni di maggiore razionalità e capacità di auto-organizzazione, ripropone tali problemi, proprio perché si tratta dell’anticipazione di una democrazia e non di una semplice rivolta che si limita a sostituire il detentore del potere. Per questo Spinoza non considererà mai trasparente e buona in sé la multitudo, mantenendone l’ambivalenza machiavelliana e filtrando nella propria ontologia tutta quella parte negativa dell’antropologia hobbesiana che non è facile ignorare o rimuovere pur nell’ambito di una recisa presa di distanza.
Abbiamo evocato il ruolo flessibile delle regole, il loro arrischiarsi sulla soglia di un’intrinseca ambivalenza delle relazioni umane, la necessità di inventarle nel corso della lotta. Del pari essenziale sarebbe lo studio del fenomeno inverso, cioè delle strategie di assoggettamento della moltitudine, che differiscono notevolmente dalle tradizionali pratiche di mistificazione della sovranità popolare e di contenimento delle classi pericolose, secondo lo schema deleuziano del passaggio dalla società disciplinare a quella di controllo. La messa in forma della moltitudine mediante un regime variabile di regole sarebbe – buttiamola lì come ipotesi provvisoria – la risposta al problema della governance dall’alto della società, la veste postfordista della lotta di classe. Di tale ipotesi la trattazione spinoziana della validità limitata dell’obbligazione è certo un cospicuo antecedente teorico.
Note:
1 N. Bobbio, Thomas Hobbes, Torino, Einaudi, 1989, p. 93 e sgg. e p. 142 e sgg.
2 De cive, III, 1, cfr. Leviathan, XIV-XV, dove il rispetto dei patti costituisce la terza legge di natura. Le leggi naturali impongono di istituire un ordinamento positivo.
3 Cfr. P. Virno, Il cosiddetto «male» e la critica dello Stato, «Forme di vita» 4 (2005), p. 17 e sgg.
4 On Certainty (1951), tr. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1978, n. 248.
5 XIV, 10. Per dirla con Fabio Raimondi (testo inedito), è un caso particolare di soluzione delle controversie sulla definizione univoca dei nomi, secondo cui l’accordo non è il punto mediano tra le parti, ma consiste solo nel trasferire a terzi la competenza di decidere in base a criteri autonomi.
6 N. Bobbio, Thomas Hobbes cit., p. 168. Il termine dell’obbedienza essendo un terzo, dele- gato da una multitudo dissociata che si unifica solo nell’atto della delega e non da una uni- versitas, è irrevocabile, assoluto e indivisibile; si potrebbe uscire dal patto solo all’unani- mità e con il consenso del terzo.
7 Lev., XVI e XVIII.
8 De cive, XII, 8 (cfr. VI 1 e VII 5, 11 e 16): «Una moltitudine di uomini diventa una perso- na, quanto è rappresentata da un uomo o da una persona, per modo che diventi tale con il consenso di ciascun particolare componente la moltitudine. Infatti è l’unità del rappre- sentatore (representer), non l’unità del rappresentato che fa una la persona, ed è il rap- presentatore che sostiene la parte della persona e di una persona soltanto: l’unità in una moltitudine non può intendersi in altro modo». In ogni ribellione abbiamo multitudo con- tra populum, the moltitude against the people. Solo con la costituzione del patto obbli- gante la civium multitudo sive aggregatum, multitude or company of citizens si riunisce in volontà rappresentabile e allora Rex est populus, the king is the people.
9 E. Giancotti, La teoria dell’assolutismo in Hobbes e Spinoza, «Studia Spinozana» 1 (1985), ora in Studi su Hobbes e Spinoza, Napoli, Bibliopolis, 1995, p. 182 e sgg.
10 Sui vari usi del katecon, la forza che trattiene il male, cfr. il citato saggio di P. Virno, Il cosiddetto «male» e la critica dello Stato cit., p. 33 e sgg.
11 Superfluo ricordare che tutti tali motivi confluiranno nella grande risistemazione gerar- chica hegeliana di etica e morale, Stato e società civile.
12 Per F. Raimondi «il patto hobbesiano prevede che chi accetta l’atto politico sottoscrive di non partecipare al gioco politico se non come cittadino/suddito, cioè in una forma forte- mente depotenziata, perché caratterizzata, al contempo, da massima passività (non poter ridefinire l’atto politico e non poter partecipare alla definizione delle leggi) e da minima attività (deve pur sempre continuare a riconoscersi nel sovrano e obbedirgli)».
13 Il riferimento teologico più influente è alla potentia absoluta divina in Duns Scoto, Ordinatio, I dist. 44, in Ioannis Duns Scoti Opera omnia, Civitas Vaticana, 1950-1973, come meglio argomentato nel mio Revenge!, Roma, manifestolibri, 2005, p. 70 e sgg.
14 Th. Hobbes, Opera philosophica quae latine scripsit omnia, ed. W. Molesworth, London 1839-1845, rist. fototipica, Aalen, Scientia Verlag, 1961 vol. III, p. 513; tr. it. in Scritti teo- logici, Milano, Franco Angeli, 1988, p. 207. Per un pertinente commento cfr. Manfred Riedel, Metaphysik und Metapolitik. Studien zu Aristoteles und zur politischen Sprache der neuzeitlichen Philosophie, Stuttgart, Suhrkamp, 1975; tr. it. di F. Longato Metafisica e metapolitica, Bologna, Il Mulino, 1990, capitoli V-VII.
15 Cfr. Lev., Introduzione, da cui consegue che i contenuti della volontà sovrana sono del tutto indifferenti per la sua prestazione, dato che il Leviatano-automa funziona secondo una logica meccanica o geometrica che nemmeno il sovrano può sovvertire.
16 R. Derathé, Rousseau et la science politique de son temps, Paris, Vrin, 1950, rist. 1995 (tr. it. di R. Ferrara, Bologna, Il Mulino, 1993), ne offre un’adeguata documentazione, ma per l’interpretazione politica del rapporto cfr. A. Negri, L’anomalia selvaggia, Milano, Feltrinelli, 1981, ora in Spinoza, Roma, DeriveApprodi, 1998, passim, in particolare pp. 110, 153-155, 185-186 e 305-306.
17 E naturalmente la definizione di democrazia del cap. XVI del TTP, con la medesima sfu- matura idealistica.
18 «La suprema categoria della storia universale […] è la colpa. Ogni momento della storia universale è frutto di colpa (verschuldet) e produce colpa (verschuldend)», Fragmente vermischten Inhalts, GS, VI, fr. 65, p. 92.
19 Proprio in quanto autenticamente nietzschiano, Strauss riesce a capire bene la doppia lezione di Machiavelli e Spinoza, autori che invece l’anti-nietzschiano Carl Schmitt frain- tende o ignora, appropriandosi invece egregiamente delle implicazioni biopolitiche di Hobbes; cfr. C. Galli, Schmitt e Machiavelli, «Filosofia politica» (2005), 1, p. 123 e sgg.
20 Die Religionskritik Spinozas als Grundlage seiner Bibelwissenschaft. Untersuchungen zu Spinozas Theologisch-politischem Traktat, Berlin, 1930, cap. V 2-3; tr. it. La critica della religione in Spinoza, a cura di R. Caporali, Bari, Laterza, 2003, pp. 218-219, 222-227 e 232.
21 Riferimenti standard a Spinoza, TTP, XVI: «quia lex summa naturae est, ut unaquaeque res in suo statu, quantum in se est, conetur perseverare, idque nulla alterius, sed tantum sui habita ratione, hinc sequitur unumquodque individuum jus summum ad hoc habere, hoc est (uti dixi), ad existendum & operandum prout naturaliter determinatum est»; non- ché TP, II, 4: «Per Jus itaque naturae intelligo ipsas naturae leges, seu regulas, secundum quas omnia fiunt, hoc est, ipsam naturae potentiam atque adeo totius naturae, et conse- quenter uniuscujusque individui naturale Jus eo usque se extendit, quo ejus potentia; et consequenter quicquid unusquisque homo ex legibus suae naturae agit, id summo natu- rae jure agit, tantumque in naturam habet juris, quantum potentia valet». Di ciò hanno infatti meglio ragionato i politici che non i filosofi, cfr. TP, I, 1-3, II, 4.
22 L. Bove, La strategia del conatus. Affermazione e resistenza in Spinoza (1996), tr. it. Milano, Ghibli, 2002, p. 272 e sgg., secondo cui dal numero nasce la ragione, dandosi sia un’etica che una politica spinoziana della quantità.
23 A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, Paris, Les éditions de minuit, 1969, p. 267 e sgg.
24 «Stulte alterius fidem in aeternum sibi aliquem postulare»; TTP, XVI.
25 A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza cit., p. 305 e sgg.
26 «Homo namque tam in statu naturali, quam civili ex legibus suae naturae agit, suaeque utilitati consulit […] sed praecipua inter utrumque statum differentia est, quod in statu civili omnes eadem metuant, et omnibus una, eademque securitatis sit causa, et vivendi ratio; quod sane judicandi facultatem uniuscujusque non tollit»; TP, III, 3.
27 «Ubi homines jura communia habent, onesque una veluti mente ducuntur, certum est eorum ununquemque tanto munus habere juris, quanto reliqui simul ipso potentiores sunt, hoc est, illum revera jus nullum in naturam habere praeter id, quod ipsi commune concedit jus; TP, II, 16. L’unica ricorrenza del termine contractus in quel testo, IV 6 (Contractus, seu leges, quibus multitudo ius suum in unum concilium vel hominem transferunt), è interpre- tata da Matheron, Individu et communauté chez Spinoza cit., p. 327, quale passaggio all’in- terdépendance consolidée. Per A. Tosel, Spinoza ou le crépuscule de la servitude. Essai sur le Traité Théologico-Politique, Paris, Aubier Montaigne, 1984, p. 278 e sgg., il transfert o contratto è prodotto spontaneo di una meccanica contraddittoria di associazione e dissocia- zione. Nel TTP il patto irrompe quasi deus ex machina nell’ontologia naturalistica, oscillan- do fra l’essere prodotto di un meccanismo e il valere da postulato razionale per il passaggio allo stato civile, mentre il TP si sbarazza dell’anomalia (legata alla storia dello Stato ebraico) presentando una potentia senza consensus, mera adesione alla necessità.
28 Cfr. E. Giancotti, La teoria dell’assolutismo in Hobbes e Spinoza cit., p. 198 e sgg.
29 A. Negri, L’anomalia selvaggia cit., p. 305.
30 Sul tema cfr. A. Pardi, Crisi e liberazione. Democrazia e critica dell’ontologia politica in Spinoza, «Oltrecorrente» 10 (2005), p. 97 e sgg.
31 M. Walther, Die Transformation des Naturrechts in der Rechtsphilosophie Spinozas, «Studia Spinozana» 1 (1985), pp. 76-78, 90 e 94-96.
32 A. Negri, L’anomalia selvaggia cit., pp. 151-152.
33 Jus-Pactum-Lex, «Studia Spinozana» 1 (1985), p. 105 e sgg.
34 L. Bove, La strategia del conatus cit., pp. 203-204, 292-293, 305 e sgg., 329.
35 Della certezza cit., nn. 96-99, 110, 204-205, 253, 336, 343; Philosophische Untersuchungen, Oxford, 1953, tr. it. di M. Trinchero, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1967 e 1980, nn. 199, 202, 212, per la cui interpretazione ci riferiamo a Paolo Virno, Motto di spirito e azione innovativa, Torino, Bollati Boringhieri, 2005.
36 Cfr. Eth IV, pr. 73 (cfr. TP, VI, 1), dove l’uomo è considerato più libero vivendo nello Stato sotto un decreto comune che nella solitudine in cui obbedisce soltanto a se stesso e il conatus si traduce in dispendio di forza, e TP, V, 4 e VI, 4, dove il termine designa la pace servile cui si perviene per inerzia dei cittadini e dominio della tirannide.
37 P. Virno, Il «cosiddetto «male» cit., pp. 11 e 13. L’apertura al mondo, in cui tale eccesso si manifesta, oltre a funzionare benissimo da nuova forza produttiva, si identifica con lo stato d’eccezione permanente in cui (diceva già Benjamin) vivono gli oppressi: ciò richie- de di farsi carico del carattere instabile e perturbante delle istituzioni moltitudinarie, cfr. ivi, p. 21 e sgg. e 31 e sgg.
38 La moltitudine confina attualmente di fatto con il comunitarismo di ghetto, malgrado le distinzioni teoriche, e il ghetto – dalle inner cities statunitensi alle banlieus parigine – è un paradigma di introiezione dei modelli della classe dominante (razzismo, sessismo, marginalizzazione dei più deboli ecc.) distorti in forma di resistenza, enfatizzati dalla vio- lenza ostentata, ma conservanti una valenza nichilistica. L’eroe locale ne è il ribelle auto- distruttivo, con tutta l’ambiguità simbolica della sua richiesta di «rispetto».
39 L. Bove, La strategia del conatus cit., p. 282/52.
40 Nel senso usato da V. Morfino, «La scienza delle connexiones singulares», in Il tempo della moltitudine. Materialismo e politica prima e dopo Spinoza, Roma, Manifestolibri, 2005, p. 15 e sgg.
41 L. Bove, La strategia del conatus cit., capitoli VII e VIII.
42 L’interpretazione anti-monarchica dell’Esodo, con la correlata diffidenza verso una politi- ca messianica, era comune anche a Maimonide e viene ampiamente documentata nella parte conclusiva del fondamentale saggio di M. Walzer Exodus and Revolution (1985), tr. it. di M. D’Alessandro, Esodo e rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1986.
43 La strage degli adoratori del vitello d’oro fu esaltata da Lincoln Steffens, negli anni ’20, come prefigurazione del necessario terrore leninista, in cui i Leviti svolgevano il ruolo che sarà della Cekà (Walzer, Exodus and Revolution cit., p. 48). Ciò che conferma analogie e problemi!