Strategie della virtù in Machiavelli
Strategie della virtù tra necessità e libertà in Machiavelli
di Filippo Del Lucchese
Benché la storiografia abbia riflettuto ampiamente sulla concezione della natura e del mondo in Machiavelli[1], non sono molti gli autori che si sono occupati esplicitamente del tema della necessità e del suo rapporto con la libertà nella filosofia del Segretario fiorentino. Questi temi trovano spazio nelle analisi di alcuni grandi commentatori di Machiavelli, specialmente in relazione alla teoria politica ed all’agire umano ad essa collegato[2]. Tuttavia raramente si è messa al centro dell’analisi proprio quella relazione ed il suo significato non solo in termini politici, ma filosofici e ontologici. Un’eccezione importante è rappresentata dalla monografia di Lanfranco Mossini dedicata appunto al tema della necessità e del suo rapporto con la legge[3]. Ed è significativo che questa analisi sia stata condotta prevalentemente sul terreno della filosofia giuridica e politica. La concezione della necessità, infatti, ha delle implicazioni dirette ed immediate proprio sui temi della politica e del diritto. Nella prima parte del suo studio Mossini mette in luce come una concezione della necessità causale degli eventi naturali trovi un ampio sviluppo in epoca rinascimentale, specialmente attraverso la riflessione di alcuni autori di enorme importanza, come ad esempio Leonardo Da Vinci. Senza insistere in modo esaustivo nella ricostruzione di una difficilissima genealogia classica del concetto, Mossini individua nell’Astronomicon di Marco Manilio una delle opere che maggiormente può aver influenzato Machiavelli. L’opera di questo poeta ed astronomo romano, vissuto nel I secolo dopo Cristo e di cui si hanno scarsissime notizie, fu riscoperta all’inizio del XV secolo da Poggio Bracciolini. Questo poema ebbe una grande diffusione nell’ambiente filosofico fiorentino e fu senz’altro conosciuto da Machiavelli, che quell’ambiente frequentava e conosceva bene, sapendo scegliere con cura gli autori da cui trarre importanti insegnamenti (Tucidide, Lucrezio, Livio, Plutarco e Polibio su tutti) e quelli da conoscere ed utilizzare magari per criticarli più o meno esplicitamente (Aristotele, Platone, ma anche l’umanesimo civico di Bruni e Bracciolini o il platonismo dell’Accademia ficiniana)[4]. Mossini ipotizza quindi una conoscenza ed un’influenza diretta dei versi di Manilio, depurata tuttavia da ogni residio misticismo[5].
La riflessione machiavelliana, sulla scorta di queste e di altre influenze letterarie, si sviluppa quindi nel senso di una logica della necessità che caratterizza ed informa completamente la realtà naturale. In questo senso la filosofia e la cosmologia di Machiavelli preparano il terreno al suo potente realismo, ontologico e politico ad un tempo[6]. Le leggi della storia, in modo del tutto analogo agli eventi naturali, sono caratterizzate da una necessità assoluta che non ammette deroghe. In natura, cioè, è possibile osservare una regolarità degli eventi che indica la perfezione della realtà in cui gli uomini sono immersi. Secondo Mossini, tuttavia, proprio gli uomini – per Machiavelli – sarebbero in qualche modo un’eccezione a questa regolarità e perfezione. Una sorprendente ‘contraddizione’ sembrerebbe mostrare, quindi, la concezione machiavelliana della natura umana rispetto all’ambiente esterno ed alle leggi della storia[7]. Storia e natura, quindi, che rispettano leggi assolutamente necessarie e che seguono una ferrea regolarità, sono contrapposte ad una natura umana la cui debolezza ed imperfezione deroga in qualche modo a questa stessa necessità. Proseguendo la sua analisi, Mossini individua nella libertà di scelta, nella ‘elezione’ secondo la terminologia machiavelliana, la causa della rovina umana. In particolare sarebbero le passioni a rendere possibile la deroga a quella necessità e perfezione che caratterizzano invece il resto della natura, a trarre gli uomini in inganno quasi fossero – per citare Spinoza – tamquam imperium in imperio[8]. La virtù politica, in questo senso, avrebbe il compito principale di recuperare in quanto possibile gli uomini a quella dimensione originaria di necessità naturale, di sottrarli al disordine delle passioni contro al dominio della ‘elezione’, del ventaglio aperto di possibilità e di scelte che inevitabilmente li trascina nell’abisso della corruzione[9]. Il lavoro della politica, quindi, sarebbe quello di riportare gli uomini ad una purezza originaria – il «ritorno ai principî»[10] – con uno spirito del tutto simile a quello della riforma religiosa i cui effetti esploderanno in tutta Europa negli anni immediatamente successivi[11].
Ora, il lavoro di Mossini è particolarmente utile per il tentativo di una lettura sistematica della riflessione su uno degli argomenti più importanti della filosofia machiavelliana. L’influenza del poema di Marco Manilio, ad esempio, suggerisce la necessità di riflettere sulle radici classiche della cultura di Machiavelli. Proprio su questo terreno, infatti, ha origine la riflessione sul tema del caso e della necessità. Il riferimento alla «elezione», ancora, suggerisce l’idea che necessità e caso abbiano un’influenza diretta ed un ruolo esplicito nella concezione etica e politica dell’autore dei Discorsi. Tuttavia, alcune delle conclusioni di Mossini non rendono pienamente conto della novità e della radicalità del pensiero di Machiavelli, lasciando aperto lo spazio per ulteriori spunti di riflessione. È quindi intorno a questi punti che sembra possibile approfondire l’analisi. Nel paragrafo successivo si svilupperanno alcune note sul rapporto di Machiavelli con gli autori classici che maggiormente possono aver influenzato la sua elaborazione del tema della necessità. Successivamente si mostreranno alcuni luoghi in cui Machiavelli mette a frutto la propria concezione della necessità nell’elaborazione della sua teoria politica.
I – Ex nihilo nihil: l’atomismo e la critica del teleologismo
L’influenza diretta del poema di Marco Manilio su Machiavelli non può ovviamente esser provata, vista la riluttanza dell’autore dei Discorsi a parlare diffusamente delle proprie fonti. Tuttavia, in principio, non può neanche essere esclusa. Ciò che deve essere approfondito, tuttavia, è l’eventuale contributo che altre fonti classiche possono aver fornito a Machiavelli. Non si tratta di stabilire quanto una determinata opera abbia potuto influire rispetto ad altre sulla formazione intellettuale di un autore. Di stabilire, insomma, se più abbiano contato Polibio o Livio o Plutarco rispetto a Manilio[12]. Si tratta però di vedere in che modo un autore sensibile ed attratto da certe tematiche come Machiavelli abbia potuto far interagire e «dialogare» tra loro diverse fonti rispetto ad un medesimo problema. Infatti, alcuni degli autori che si considerano di maggiore importanza nella formazione culturale di Machiavelli pongono al centro della loro riflessione proprio il tema della necessità e del caso. Prima di considerare predominante, quindi, l’influsso di un autore – seppure importante e diffuso – come Manilio, si dovrà cercare se nei «luoghi» maggiori della cultura machiavelliana ci siano altri elementi di particolare interesse che riguardano il tema della necessità. Ora, tra gli autori che più hanno contato nella formazione culturale del Segretario fiorentino, sembra possibile affermare che gli spunti più interessanti su questo tema siano offerti da un lato dalla riflessione sulla storiografia e la concezione del divenire storico di Polibio, dall’altro dal tema della necessità e del caso nella filosofia atomista ed in particolare nel De rerum natura di Lucrezio. Naturalmente si potrebbero rintracciare altri percorsi di grande interesse per l’indagine su questi temi. Tuttavia non si tratta in queste pagine di ripercorrere la genealogia della formazione filosofica di Machiavelli[13]. Si tratta piuttosto di indicare alcuni elementi che possono aver concorso alla formazione di questi concetti, in modo da approfondire l’interpretazione stessa ed il valore che il caso e la necessità hanno nel sistema politico di Machiavelli. Si cercherà, quindi, di mostrare alcuni aspetti del rapporto tra l’autore dei Discorsi e lo storico di Megalopoli, proseguendo poi l’indagine su uno strato più profondo, intorno cioè ad alcune idee presenti nell’opera di Lucrezio.
Come è noto, nella sua teoria delle forme di governo e della successione degli stati, esposta nei primi capitoli dei Discorsi, Machiavelli utilizza la teoria dell’anacyclosis [άνακύκλωσις] di Polibio[14]. Machiavelli era stato tra i primi, in Occidente, a far uso del riscoperto libro VI delle Storie polibiane[15], accogliendone alcune suggestioni, per modificare però nel profondo il senso e la portata della filosofia della storia di Polibio. Nella cosiddetta teoria dell’anacyclosis, lo storico descrive il ciclo, naturale e necessario, che tutti gli Stati vedono compiersi al loro interno e in cui i diversi modelli costituzionali si susseguono in un ritmo senza fine[16].
Ciò che inevitabilmente colpisce, dell’argomento polibiano, è che il ciclo di nascita, sviluppo e morte, avviene per cause naturali [κατά φύσιν], cioè come seguendo una determinata legge biologica. Polibio prosegue descrivendo i meccanismi della successione delle forme, della loro nascita e corruzione, nel modo che sarà seguito anche da Machiavelli. Il fatto che questo processo si svolga secondo una necessità naturale consente di avere degli ampi margini di successo nell’interpretazione e nella previsione della realtà storica[17]. La concatenazione storica della nascita, sviluppo e decadenza avviene infatti in modo irreversibile e del tutto prevedibile a chi sia buon conoscitore della storia. Il destino di ogni forma politica, la sua morte è previsto fin dall’inizio nella sua origine[18].
Gennaro Sasso, nei suoi studi su Machiavelli e gli antichi, ha particolarmente approfondito il rapporto tra l’autore dei Discorsi e lo storico di Megalopoli[19]. Secondo Sasso l’esposizione contenuta nel sesto libro delle Storie è viziata da una grossa contraddizione. Dalla presenza, cioè, di tre diverse leggi che operano contemporaneamente all’interno della stessa teoria. Alla teoria dell’anacyclosis, legge ‘ciclica’ del mutamento, Polibio affianca una teoria ‘lineare’ dello sviluppo degli stati, composto da nascita, crescita e morte, e un’ulteriore legge, quella della ‘mistione’ [mikté] costituzionale, vero e proprio principio della stabilità. Tre diversi principi, reciprocamente contrapposti, che producono – secondo Sasso – una inconsistenza di fondo nella teoria polibiana. La tesi esposta da Sasso è che Machiavelli sia in grado di ‘riconoscere’ e superare questa contraddizione. Ciò avviene operando una ‘virata’ rispetto al significato attribuito da Polibio alla mistione ed alla teoria del governo misto. L’autore dei Discorsi, infatti, sottolinea il distacco dalla fonte polibiana quando afferma, nel bel mezzo della descrizione del ciclo costituzionale, che le variazioni delle forme di governo «nacquono […] a caso intra gli uomini»[20]. Sebbene si realizzi con una certa regolarità, il processo degenerativo che provoca le «variazioni» non risponde affatto ad una necessità naturale, non è cioè – polibianamente – κατά φύσιν.
Con questo inciso Machiavelli inserisce già un primo elemento di crisi nel suo rapporto con la fonte polibiana. Questo distacco si compie interamente poche righe dopo, con la definitiva demolizione della certezza biologico-naturale che caratterizzava il discorso di Polibio:
E questo è il cerchio – prosegue Machiavelli – nel quale girando tutte le republiche si sono governate e si governano: ma rade volte ritornano ne’ governi medesimi; perché quasi nessuna republica può essere di tanta vita, che possa passare molte volte per queste mutazioni, e rimanere in piede. Ma bene interviene che, nel travagliare, una republica, mancandole sempre consiglio e forze, diventa suddita d’uno stato propinquo, che sia meglio ordinato di lei: ma, posto che questo non fusse, sarebbe atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi[21].
La teoria polibiana subisce qui un pesantissimo attacco. Non c’è abbastanza «vita», nelle Repubbliche, perché possano compiere infinitamente quel ciclo. Si dovrà concepire, allora, una realtà in cui esistono contrapposti e comunicanti molti «cicli», tutti quelli cioè degli Stati «propinqui». Se questi hanno sufficiente «vita» e «forze» allora interromperanno il ciclo di quel primo Stato, attraverso la sua conquista, il dominio, la rovina. È evidente come qui sia in gioco l’elaborazione della nozione di necessità naturale. Il ciclo delle repubbliche, in Polibio, avviene secondo una rigida necessità naturale. Questa necessità dell’evoluzione circolare del tempo storico e politico, inoltre, si inserisce in una circolarità più vasta che potremmo definire cosmica. L’anaciclosi politica, come è stato giustamente scritto, è contenuta nell’anaciclosi cosmica[22]. Ora è interessante notare che Machiavelli – pur accettando la suggestione della tendenza circolare del movimento politico – opera la rottura con la fonte polibiana proprio su questo principio. Ed è una rottura frontale, radicale, che avviene attraverso il «caso». Infatti le variazioni delle forme di governo, il passaggio da una forma sana ad una corrotta – nel quadro dello sviluppo circolare polibiano – avvengono «a caso intra gli uomini»[23]. Machiavelli compie qui un gesto filosofico di enorme importanza[24]. Sottrae in una parola il tempo storico alla rigidità del tempo cosmico-ciclico di Polibio. Il caso, quindi, è l’elemento chiave che viene inserito nella riflessione sul ciclo cosmico-politico polibiano. Questo, infatti, si svolgeva con la stessa necessità naturale di una legge biologica. Il caso permette a Machiavelli di sottrarsi ad una logica finalistica e ad una filosofia della storia fortemente influenzata da un impianto teleologico simile a quella di Polibio.
Tuttavia è importante notare che le «variazioni», pur intervenendo «a caso intra gli uomini», non avvengono affatto secondo un ordine arbitrario. Il caso non sottrae gli eventi storici – nell’analisi di Machiavelli – alla legge di necessità causale per cui ad ogni evento corrisponde una determinata causa. Anche per Polibio il caso giocava un ruolo determinante, benché non nello stesso senso e significato che ha per Machiavelli. Caso e Fortuna [τύκη] sono per l’autore delle Storie un elemento determinante dello sviluppo degli eventi così come uno strumento che lo storico può usare per la loro interpretazione. Polibio mostra che la τύκη si definisce attraverso il carattere inconoscibile delle cause[25]. Lo storico non deve imputare alla fortuna ciò di cui ignora le cause. Quella, tuttavia, può intendersi almeno in tre significati: 1) come causa finale e provvidenziale che muove la storia a nostra insaputa, lasciandoci all’oscuro delle cause; 2) come caso, apparizione di eventi inattesi ed incontrollati che modificano il corso degli eventi; 3) come causa «coadiuvante»[26], cioè come insieme di coincidenze che complicano o risolvono per l’attore storico una situazione inizialmente sviluppatasi in una diversa direzione. Ora, nella rielaborazione machiavelliana del concetto di fortuna, su cui si tornerà in seguito, è possibile notare che l’autore dei Discorsi tende da un lato ad escludere totalmente il primo significato, negando qualsiasi sviluppo finalistico, provvidenziale o teleologico degli eventi storici, dall’altro ad amplificare il secondo significato, trasformando il ruolo residuale che il caso aveva per Polibio nella dimensione ordinaria e costante con cui gli uomini devono confrontarsi. Quanto al terzo significato, quello di causa coadiuvante, mentre per Polibio rientrava sostanzialmente nel disegno provvidenziale della Fortuna, Machiavelli tende a recuperarlo nella sua idea di caso come «occasione», come possibilità inattesa che la virtù umana deve saper cogliere, rompendo così il rigido sviluppo teleologico e provvidenzialistico del ciclo polibiano. Come vedremo nelle pagine successive, la fortuna intesa come caso-occasione è il campo di battaglia su cui si esercita la virtù politica.
Dunque, per quanto si è visto, Machiavelli può sottrarre in un certo senso gli eventi storici ad una necessità naturale intesa in modo rigidamente finalistico. Ora, questa sottrazione può essere concepita in un «senso forte» e in un «senso debole». Nel primo caso – in «senso forte» – significa che gli eventi storici, non essendo dominati da una stretta necessità causale, potrebbero anche avvenire «a caso», cioè senza che una o più cause precise contribuiscano necessariamente a determinarli. In «senso debole», invece, significa due cose insieme. La prima è che la nostra conoscenza è insufficiente ad abbracciare l’intero meccanismo causale che regola la natura, e quindi gli eventi ci appaiono privi di qualsiasi causalità. La seconda è che il caso stesso si presenta come una causa ed interviene a modificare – necessariamente – gli eventi storici. Sembra possibile affermare che lo sganciamento di Machiavelli dal necessitarismo polibiano avviene in «senso debole», senza abbandonare cioè il principio di causalità. Nel ciclo polibiano delle repubbliche rivisto secondo la lettura machiavelliana, ad esempio, la debolezza di uno stato in un determinato momento è senz’altro frutto di determinate cause, così come la corrispondente potenza di uno stato «propinquo». Il loro incontro è invece frutto del caso, di serie causali reciprocamente sganciate che pure, in un determinato momento, interagiscono determinando un nuovo corso storico per entrambi gli stati. Il caso come causa è all’origine delle variazioni, concepito come il risultato di una combinazione di molte altre cause non calcolate e non percepite in modo chiaro, ma non per questo meno necessarie nella loro logica interna. Da questo punto di vista, ciò che conta agli occhi di Machiavelli è la possibilità di sfuggire ad una logica meccanica degli eventi che, come un destino ineluttabile deciso da sempre e per sempre, impedirebbe ogni azione all’uomo ed ogni possibilità di esercizio della virtù, sia essa individuale o di uno stato. Tuttavia, non per questo il caso può essere inteso come la mancanza di cause, che impedirebbe appunto qualsiasi possibilità di imitazione degli antichi, di comprensione delle dinamiche storiche e politiche. La virtù politica sfiderà costantemente, quindi, proprio questa opacità del mondo e dello sviluppo storico, cercando di comprendere e di riconoscere il carattere sfuggente ma determinato e necessario del caso e della fortuna[27].
Ora, dal punto di vista delle fonti classiche, la riflessione sulla teoria della storia di Polibio è evidente ed è stata indagata a fondo dalla critica. Tuttavia, le conclusioni a cui siamo giunti rispetto al caso ed alla necessità sembrano suggerire la possibilità di approfondire l’influenza di un altro autore caro a Machiavelli, cioè Lucrezio. Si è scoperto, non molti anni fa, che Machiavelli ricopiò di suo pugno in gioventù il poema lucreziano, certamente con una notevole partecipazione e curiosità intellettuale per la dottrina del filosofo romano[28]. Come è noto la riflessione sui concetti di necessità e caso è al centro della tradizione filosofica dell’atomismo, a cominciare dalla elaborazione democritea, poi attraverso l’epicureismo fino a giungere proprio alla riflessione di Lucrezio in ambito latino[29]. È estremamente probabile, quindi, che Machiavelli abbia elaborato la propria concezione della necessità e del caso anche attraverso la filosofia atomistica, in particolare nella originale rielaborazione lucreziana.
Il tema della necessità appare centrale nei pochi frammenti che ci sono giunti di Democrito. Democrito ritiene che una necessità meccanica e causale caratterizzi l’intero universo e la successione degli eventi. La necessità appare cieca nel suo principio, che costringe ogni evento in una catena causale totalmente determinata. Si tratta di un principio primo e autosufficiente che regge e spiega interamente il funzionamento dell’universo[30]. Tuttavia se Democrito può esser detto colui «che‘l mondo a caso pone»[31] è proprio perché una certa quantità di aleatorietà si mantiene all’interno del suo sistema. Il «caso», infatti, esiste nell’universo, nel carattere aleatorio di alcuni movimenti pre-cosmici. Questo indica la presenza – seppure residuale e marginale – del contingente negli eventi del mondo. Tuttavia è importante notare che mentre il caso e la necessità sono normalmente opposti, almeno a partire dalla critica di Aristotele nel libro II della Fisica[32], questo non è affatto vero per la filosofia pre-aristotelica. In particolare per Democrito il caso – automaton [αύτόματον] – non è ciò che avviene in assenza di cause, ma ciò che si produce per sé stesso, che è naturalmente necessario e spontaneo. Il caso è quindi solo un altro nome della necessità[33]. Non è da confondere, cioè, con la mancanza di causalità, in quanto indica piuttosto che i protagonisti di un certo evento «casuale» assistono alla sua produzione nell’ignoranza delle sue condizioni necessarie di produzione. Il caso, in sostanza, è solo il fenomeno soggettivo di una necessità che, per quanto ignorata, non è per questo meno oggettiva[34].
Tuttavia, questa interpretazione del caso e della necessità sembrò riduttiva, insufficiente e pericolosa agli occhi di altri pensatori. In particolare proprio Epicuro e successivamente Lucrezio criticarono esplicitamente Democrito su questo punto. La necessità, per il filosofo del giardino, caratterizza l’universo, ma il suo potere è molto limitato e non assoluto come per Democrito. Attraverso la rielaborazione della fisica democritea Epicuro intende contrastare il ferreo necessitarismo del filosofo di Abdera. Seguendo la sua impostazione, anche Lucrezio cerca di limitare il potere della necessità assoluta, subordinandola esplicitamente ad una contingenza prima, introducendo così l’idea di una deviazione – il clinamen – nel movimento originario degli atomi[35]. Questa ipotesi ha una valenza immediatamente etica, poiché è la sola soluzione, rispetto alla dottrina di Democrito, che consente di render conto della libertà degli uomini[36]. Lucrezio nega sostanzialmente l’idea che la necessità sia la causa unica e assolutamente determinante. Il clinamen è una limitazione radicale del rigido necessitarismo di Democrito. Tuttavia si deve notare come la frattura tra questi sistemi non sia così netta. La dottrina lucreziana non mira ad eliminare la necessità causale dall’universo[37], ma a rendere possibile l’azione umana e la sua libertà[38]. Se per Democrito la necessità è principio primo ed inflessibile dell’accadere, per Epicuro e Lucrezio lascia uno spazio – un’occasione – all’esercizio della libertà umana[39]. La necessità non è più una determinazione assoluta ma un principio che vive all’interno della natura rendendo possibile la libertà degli uomini.
Si sono visti, dunque, gli elementi più interessanti che sia Polibio sia Lucrezio – ed attraverso di lui la tradizione dell’atomismo – hanno potuto offrire alla riflessione machiavelliana. Sembra possibile affermare che la concezione della necessità e del caso si forma principalmente attraverso questi autori. Machiavelli critica la rigida necessità naturale del modello circolare polibiano, accogliendo quella concezione di «caso» e di fortuna intesi come «occasione» offerta all’agire umano. Proprio alla valorizzazione della libertà dell’agire umano, inoltre, era diretto lo sforzo filosofico di Lucrezio nei confronti della tradizione atomistica. Uno sforzo simile caratterizza la dottrina della virtù di Machiavelli. Senza rinunciare all’idea della necessità causale naturale, entrambi gli autori sembrano porre questo principio al servizio dell’agire umano e della possibilità per l’uomo di intervenire in questo sistema. Nelle pagine seguenti si cercherà di mostrare la prossimità della concezione machiavelliana della necessità e del caso con questa tradizione filosofica.
II – «Non si abbandonare mai». Virtù dell’occasione tra caso e necessità
Machiavelli utilizza spesso i termini «necessità» e «caso», seppure con un significato diverso da quello di categorie ontologiche o fisico-cosmologiche che caratterizzano l’universo. La necessità è principalmente il «bisogno», la costrizione in cui gli uomini vengono a trovarsi per mancanza di alternative valide nei propri comportamenti. È piuttosto una categoria dell’azione, che può essere libera di scegliere diverse strade o costretta dalle necessità ad operare in un unico modo. Ora, afferma Machiavelli, l’azione umana sembra volgersi con più facilità alla virtù non quando ci sono maggiori possibilità di scelta, di «elezione», ma proprio quando questa è ridotta al minimo e la necessità domina la situazione. Gli uomini, infatti, «operono o per necessità o per elezione» e l’esperienza mostra esserci «maggior virtù dove la elezione ha meno autorità»[40]. Questo principio, espresso più volte nel corso dell’opera, deve essere interpretato. Non si traduce infatti, nel linguaggio machiavelliano, in una sorta di riduzione del ruolo della virtù, che deve scegliere l’unica via disponibile, senza smarrirsi nei meandri dell’«elezione», che riserva molteplici possibilità di errore e di fallimento. Si tratta, al contrario, di un principio di costrizione della virtù stessa a farsi fondamento unico dell’azione umana, via «al tutto necessaria» della stessa azione. La virtù deve cacciare militarmente le occasioni di debolezza che continuamente possono sedurre ogni uomo, trascinandolo alla rovina. Proprio attraverso il modello delle armi Machiavelli cerca di descrivere questo principio. Un capitano prudente, infatti, deve «imporre ogni necessità di combattere a’ suoi soldati, e, a quegli degli inimici, torla»[41]. Combattere per necessità, infatti, rende gli uomini più determinati alla vittoria. Lasciare ai nemici una via di fuga o di salvezza, invece, li rende più vili e pronti ad abbandonare il campo. Attraverso le figure di Gaio Manilio, di Vezio Messio o di Marco Furio Camillo, Machiavelli illustra il principio di questa necessità, chiamata da Livio «ultimum ac maximum telum». La stessa logica vale in guerra come in qualsiasi altra situazione, poiché la virtù è sempre in guerra contro le infinite possibilità di rovinare. Necessità, quindi, come passaggio obbligato in cui costringere la virtù ad operare.
Tuttavia è possibile riconoscere nella filosofia di Machiavelli un significato più ampio di necessità, intesa come principio ontologico che governa la realtà. Un principio che, come si vedrà, rivela profonde analogie con l’impostazione lucreziana del tema della necessità e del caso. Si può proseguire l’indagine nel testo machiavelliano attraverso l’idea dell’imitazione degli antichi e della loro virtù. Come è noto i Discorsi sulla prima deca di Tito Livio si aprono con la denuncia degli uomini che, pronti a lodare ed ammirare astrattamente l’«antiquità», non ne imitano poi i buoni esempi di virtù tramandati dalle storie. Si ammira e si compra anche a «gran prezzo» il frammento di una statua, solo perché antico, mentre si trascurano gli insegnamenti delle antiche repubbliche e degli uomini di stato, che sarebbero invece di estrema utilità e necessità nei tempi presenti[42].
Quest’idea dell’imitazione, fondata sulla necessità di trovare degli esempi per un agire politico virtuoso, ha il suo fondamento in una precisa concezione della natura, in particolare della natura umana. Seguire l’esempio degli antichi, afferma Machiavelli, è possibile perché gli uomini non sono mutati, non sono cioè diversi da come erano nei tempi antichi. Sono mutati i fatti concreti, le situazioni storiche, ma ciò non impedirebbe l’imitazione a chi di quelle storie avesse «vera cognizione» e volesse gustarne il vero «sapore». Invece, prosegue l’autore dei Discorsi, l’imitazione è giudicata difficile o addirittura impossibile, «come se il cielo, il sole, li elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di potenza, da quello che li erono antiquamente»[43]. Stesso moto, ordine e potenza. L’imitazione degli antichi non è un puro espediente retorico, un’idea della ragione che suggerisce un modello astratto da seguire ed imitare. Non si tratta, in sostanza, di un sapere erudito e teorico, sganciato dalla realtà dei tempi presenti o dalla concreta pratica politica. I tempi antichi, per questa costanza «di moto, di ordine e di potenza» degli uomini, sono in realtà estremamente prossimi. È la struttura stessa della realtà – naturale ed umana – a suggerire la possibilità di questa imitazione. «Non sia, pertanto, nessuno – prosegue Machiavelli – che si sbigottisca di non potere conseguire quel che è stato conseguito da altri; perché gli uomini, come nella prefazione nostra si disse, nacquero, vissero e morirono, sempre, con uno medesimo ordine»[44]. La struttura della realtà, quindi, in particolare della realtà delle azioni umane, presenta delle costanti e delle regolarità che, attraverso una lettura attenta delle storie, possono trasformarsi in conoscenza al servizio dell’agire virtuoso. Decifrare le storie significa innanzitutto comprendere la possibilità della loro ripetizione, la possibilità di ripercorrere le imprese – ma anche di cadere negli stessi errori – degli antichi.
Queste dichiarazioni di Machiavelli sembrerebbero richiamare l’idea che l’imitazione, resa possibile dalla ripetizione, nasconda al suo interno la concezione di una struttura rigida e finalistica della storia[45]. Si è già visto, attraverso la critica a Polibio, che la concezione machiavelliana della storia è molto lontana da questa rigidità. Si devono tuttavia mettere in luce, proprio per cogliere chiaramente le differenze, i temi che maggiormente potrebbero ricordare questa idea. Si legge ad esempio nel capitolo 39 del I libro dei Discorsi che:
si conosce facilmente, per chi considera le cose presenti e le antiche, come in tutte le città ed in tutti i popoli sono quegli medesimi desiderii e quelli medesimi omori, e come vi furono sempre. In modo che gli è facil cosa, a chi esamina con diligenza le cose passate, prevedere in ogni republica le future, e farvi quegli rimedi che dagli antichi sono stati usati; o, non ne trovando degli usati, pensarne de’ nuovi, per la similitudine degli accidenti. Ma perché queste considerazioni sono neglette, o non intese da chi legge, o, se le sono intese, non sono conosciute da chi governa; ne séguita che sempre sono i medesimi scandoli in ogni tempo[46].
Esaminare e prevedere, procedendo dal passato al futuro senza soluzione di continuità. Si deve affermare che la costanza degli umori e desideri degli uomini conduce necessariamente e, soprattutto, finalisticamente alla similitudine degli accidenti? E che tale simlitudine è così importante da permettere a chi la intende e la conosce di prevenire tutti i possibili ‘scandoli’? Ciò confermerebbe, seppure con alcune differenze, la visione rigidamente naturalistica che opera nella concezione della storia di Polibio.
L’idea machiavelliana della ripetizione, però, e della necessità che la caratterizza non sembra corrispondere ad una struttura governata da una meccanica rigida degli eventi umani. Si può pensare, piuttosto, che la teoria dell’imitazione sia influenzata dalla concezione della virtù e della fortuna[47]. Questa, in particolare, sembra escludere per Machiavelli l’idea della contingenza storica. Benché agli uomini possa apparire il contrario, non è il caso – inteso come contingenza ed assenza di cause – a governare gli eventi. Il loro sviluppo è caratterizzato invece dalla necessità, entro cui si colloca la fortuna intesa principalmente come occasione.
Ad una idea della contingenza come alternativa indeterminata, sganciata da qualsiasi causalità, Machiavelli sembra opporre – attraverso il tema della fortuna – una concezione ben diversa della realtà storica e del caso stesso. Una struttura, cioè, in cui l’alternativa tra due possibili soluzioni è sempre determinata dal concorso della virtù, o meglio delle virtù in campo, delle potenze determinate che, a loro volta, concorrono ad indirizzare lo sviluppo degli eventi. Queste potenze sono sempre legate tra loro necessariamente e causalmente. Attraverso questo schema, quindi, Machiavelli abbandona sia il naturalismo polibiano sia un rigido necessitarismo simile a quello di Democrito. Una concezione simile a quella di Lucrezio sembra agire nelle pagine machiavelliane. Rifiutare l’idea della causalità necessaria degli eventi significherebbe l’impossibilità di giungere ad una scienza degli eventi umani e l’impossibilità dell’imitazione. Significherebbe in una parola rinunciare all’idea di libertà. Proprio per rendere possibile questa imitazione, invece, l’uomo deve in un certo senso essere libero di agire in modo autonomo e virtuoso.
Lo si coglie con chiarezza in più luoghi dell’opera di Machiavelli. Nel capitolo 1 del II libro dei Discorsi, ad esempio, si discute della questione classica se, nel fare grande Roma, sia stato maggiore il ruolo della fortuna oppure quello della virtù[48]. Il capitolo si apre prendendo in considerazione le opinioni di Plutarco, «gravissimo scrittore» e di Livio, l’autore più caro a Machiavelli. Entrambi hanno sostenuto che la fortuna ha avuto la parte maggiore nel fare grande Roma. La virtù, ad esempio, non compare mai da sola nei loro racconti, ma sempre accompagnata dalla fortuna. A questa, inoltre, più che «ad ogni altro iddio», i romani dedicarono templi e quindi onori. Ma qui Machiavelli, rovesciando l’argomento degli scrittori illustri ed amati, sostiene il contrario[49]. La virtù degli eserciti è stata alla base delle conquiste militari, quella dei legislatori è servita a mantenerle. E dove la fortuna appare in primo piano, aggiunge l’autore dei Discorsi, si dovrà guardar meglio e più a fondo, per scorgere sempre l’ordine e la virtù di quella repubblica. Infatti, «la fortuna che ebbero […] i Romani, l’arebbono tutti quegli principi che procedessono come i Romani, e fossero della medesima virtù che loro»[50]. Questo non significa, tuttavia, che la fortuna e il caso non abbiano spazio nelle vicende umane, o che siano solo l’ombra pallida della virtù. Significa, piuttosto, l’affermazione che il contenuto della fortuna si concretizza nell’occasione che si offre di mettere alla prova la propria virtù. Machiavelli non vuole sostenere – questo il punto – che la conoscenza o la comprensione delle storie, ad esempio quella della repubblica romana, può far crescere la virtù dei principi moderni fino all’annichilimento della potenza opposta della fortuna. Virtù e fortuna si giocano entrambe in termini di potenza. Realisticamente, però, entrambe si incrociano nell’occasione, che la virtù può e deve cogliere.
Non sempre e non in qualsiasi modo tuttavia. Se Roma non avesse colto l’occasione giusta, se ad esempio avesse combattuto molti popoli insieme invece di avere un solo avversario per volta e sempre meno potente di lei, il corso della storia sarebbe stato completamente diverso. La sua azione, precisamente, non sarebbe stata virtuosa. Si legge in trasparenza, in queste pagine, la teoria dei molteplici cerchi delle repubbliche. Gli stati vicini, nel percorrere il loro cammino circolare, hanno sempre incontrato nel loro punto più basso la virtù di Roma, che invece un cerchio analogo stava salendo. È chiaro che una tale interpretazione spinge a ripensare il significato del caso e della contingenza nello svolgimento degli eventi umani. La fortuna non può essere vista come una potenza autonoma che poggia solo su se stessa, priva di radici nel tessuto dei rapporti umani, che quindi può dirigere a suo modo e senza alcuna logica causale. Il senso è proprio l’opposto. La fortuna è un’occasione che la virtù percepisce realisticamente e quindi riesce a dominare, oppure non riconosce e quindi lascia sfuggire. Il principe machiavelliano è invitato a cogliere proprio questo insegnamento dalla politica e dalla storia. La vicenda di Mosè, Ciro, Romolo e Teseo è la storia di occasioni colte virtuosamente e nient’affatto di una fortuna contingente sganciata sia dalla realtà storica sia dalle loro azioni: «Ed esaminando le azioni e vita loro, non si vede che quelli avessino altro dalla fortuna che la occasione; la quale dette loro materia a potere introdurvi dentro quella forma parse loro; e sanza quella occasione la virtù dello animo loro si sarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasione sarebbe venuta invano»[51].
Quest’ultimo passaggio sembra chiarire ulteriormente che il tema dell’occasione sposta notevolmente i termini del problema. Non ha più un gran senso porsi la domanda se la fortuna possa più della virtù nelle cose degli uomini o viceversa. Questa domanda è superata dall’idea della fortuna colta come occasione. La virtù senza la fortuna-occasione non può esprimersi, mentre questa arriva invano se non si è pronti a coglierla. Gli eventi si producono solo nell’incontro – o nel mancato incontro – della virtù con l’occasione, lasciando alle spalle l’immagine della fortuna come forza cieca produttrice di contingenza, come costruttrice di eventi oscuri e sganciati da ogni logica[52]. È piuttosto il contrario, come mostra ancora questo passaggio del XX capitolo de Il Principe:
Sanza dubbio e’ principi diventano grandi quando superano le dificultà e le opposizioni che sono fatte loro; e però la fortuna, massime quando vuole fare grande uno principe nuovo, il quale ha maggiore necessità di acquistare reputazione che uno ereditario, li fa nascere de’ nemici, e li fa fare delle imprese contro, acciò che quello abbi cagione di superarle, e su per quella scala che gli hanno pòrta e’ nimici sua, salire più alto. Però molti iudicano che uno principe savio debbe, quando ne abbi la occasione, nutrirsi con astuzia qualche inimicizia, acciò che, oppresso quella, ne seguiti maggiore sua grandezza[53].
Non si può immaginare un modo più chiaro, mi sembra, di segnalare lo stretto legame che unisce la virtù e la fortuna-occasione. Ma si deve attirare ancora di più l’attenzione sugli effetti che questa concezione produce nei termini di una necessità che governa le cose del mondo. Queste non accadono a caso né in modo totalmente indipendente dalla virtù. Beninteso, esistono moltissimi eventi – forse la maggior parte – che sfuggono al controllo ed alla previsione degli uomini. Ciò è dovuto, tuttavia, non all’intervento di una forza cieca e maligna, ma appunto al mancato incontro dell’occasione, al mancato dispiegarsi della virtù nell’azione. In questo senso, anche l’idea di causalità assume una piega tutta particolare in Machiavelli, perdendo ogni rigidità ed abbandonando qualsiasi riferimento ad una struttura finalistica dello sviluppo storico[54]. Lucrezio, di nuovo, non sembra essere solo «maestro di stile» per Machiavelli[55]. La sua filosofia sembra essere una tappa irrinunciabile sia per la critica al cerchio polibiano sia per la concezione di una libertà che non sia solo una vuota affermazione di principio[56].
Un’ulteriore considerazione, a questo punto, può riguardare le critiche che Mossini muoveva alla coerenza del principio di necessità in Machiavelli. La teoria del caso-occasione e del rapporto fortuna-virtù, infatti, rendono conto anche di quei fenomeni che potrebbero apparire inspiegabili a chi intendesse la fortuna come una volontà cieca e maligna ed il caso come un’assenza di causalità. L’uomo con i suoi affetti e le sue debolezze, infatti, non è affatto un’«eccezione» nel sistema di Machiavelli. La sua concezione della necessità e del caso, della virtù e dell’occasione sembrano rendere perfettamente conto dell’agire umano, sia nei suoi successi sia nei suoi fallimenti. Sembrano inoltre caratterizzare le sue passioni esattamente come proprietà e non come vizi della natura umana[57]. Da questo punto di vista, quindi, nessuna eccezione qualifica l’uomo nel sistema di Machiavelli, inserendolo a pieno titolo come una forza naturale all’interno della natura, caratterizzata in modo uniforme da una medesima necessità. Necessità della virtù, prima di tutto, come principio dell’azione politica.
Un altro punto di notevole interesse si incontra col tema della pre-disposizione della virtù agli «accidenti» che continuamente si producono. Siccome gli eventi del mondo sono così vari ed incontrollabili, la virtù dovrà caratterizzarsi proprio come una capacità di adattamento, come la possibilità di seguire ed assecondare efficacemente quella multiforme varietà sfuggendo ai suoi effetti distruttivi. È in quest’ottica che si può rileggere la celebre metafora del «fiume rovinoso», evitando un’interpretazione «scettica» del problema della libertà di azione di fronte all’opera cieca della fortuna:
E non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che gli uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbono iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte. Questa opinione è suta più creduta ne’ nostri tempi, per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora di ogni umana coniettura. A che pensando, io, qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro. Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. E assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e’ piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra; ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti, e con ripari e argini, in modo che, crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né si licenzioso né si dannoso. Similmente interviene della fortuna; la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle; e quivi volta li suoi impeti dove la sa che non sono fatti gli argini e li ripari a tenerla[58].
La fortuna come occasione indica esattamente questo, la necessità cioè di costruire «argini e ripari» quando i tempi sono quieti, unita alla coscienza che, quando il fiume cresce, è troppo tardi per intraprendere quella costruzione. Che la fortuna sia arbitra della metà delle nostre azioni e che l’altra metà sia in nostro potere ha quindi questo significato. Nessuna azione è in nostro potere se la virtù non è sufficiente e l’occasione non è colta, mentre ogni azione è in nostro potere se la virtù è preparata e riesce a cogliere l’occasione.
Non è affatto una soluzione scettica, quindi, ma la cifra e la dichiarazione di un realismo radicale. Nessuna illusione di poter frenare il fiume rovinoso degli eventi a nostro piacimento, ma la possibilità di prevenirlo preparandosi a fronteggiarlo. Realisticamente la virtù si misura solo sull’occasione e questa sul grado di preparazione ad ogni evento, ad ogni incontro. In quest’ottica si interpreta anche il tema classico del conflitto tra virtù e fortuna. Conflitto, quindi, perché la virtù deve sempre lottare contro tutti gli eventi, presenti e futuri, per essere pronta ad affrontare qualsiasi rivolgimento, qualsiasi novità che può risultare dannosa: «Vedesi […] ogni dì, miracolose perdite e miracolosi acquisti. Perché, dove gli uomini hanno poca virtù, la fortuna mostra assai la potenza sua; e, perché la è varia, variano le republiche e gli stati spesso; e varieranno sempre, infino che non surga qualcuno che sia della antichità tanto amatore, che la regoli in modo, che la non abbia cagione di mostrare, a ogni girare di sole, quanto ella puote»[59].
Si è visto, quindi, come la fortuna intesa come occasione suggerisca, nella filosofia machiavelliana, una dinamica degli eventi umani che esclude il caso inteso come assoluta contingenza a favore di un principio realistico di necessità. Il caso, proprio come nella tradizione atomistica e lucreziana, sembra piuttosto un elemento spontaneo – ma non per questo meno necessario – che inesorabilmente «abita» il mondo umano. Gli uomini ignorano il corso della fortuna, così come ignorano se e quando questa si mostrerà come occasione. Al suo apparire, quindi, questa potrà sembrare frutto del «caso» e sganciata da qualsiasi concatenazione causale. Ma la virtù, seppure non conosce questo svolgimento nei suoi minimi particolari, nella sua successione istantanea e puntuale, conosce invece il principio generale. È per questo che deve sempre essere pronta a cogliere l’occasione. Casuale – perché ignota – può apparire la sua origine, ma non per questo è meno necessaria. La fortuna può introdurre l’inaspettato e l’ingovernabile, ma non il contingente. Dipende dalla virtù e dall’occasione non cedere ai suoi effetti. Ma cosa significa questo dal punto di vista dell’azione umana? Bisogna pensare che solo un saggio conoscitore delle storie possa far fronte al corso impetuoso della fortuna, mentre tutti gli altri sono condannati a subirne gli effetti devastanti? Considerando quanto sono rari coloro che riescono a cogliere l’insegnamento delle storie si direbbe piuttosto il contrario. Machiavelli, infatti, sembra suggerire non tanto un’etica per gli eruditi o per i saggi, ma un principio pratico di azione politica, rivolto appunto a chi sa, a chi può, ma soprattutto a chi vuole cogliere l’occasione. Nel capitolo 29 del II libro si legge infatti:
Affermo, bene, di nuovo, questo essere verissimo, secondo che per tutte le istorie si vede, che gli uomini possono secondare la fortuna e non opporsegli; possono tessere gli orditi suoi, e non rompergli. Debbono, bene, non si abbandonare mai; perché, non sappiendo il fine suo, e andando quella per vie traverse ed incognite, hanno sempre a sperare, e sperando non si abbandonare, in qualunque fortuna ed in qualunque travaglio si truovino[60].
Cogliere l’insegnamento profondo della storia significa quindi capire quando l’occasione è favorevole e quando invece i tempi non sono propizi. Machiavelli invita a non disperare dell’apparente onnipotenza della fortuna. Tessere gli orditi e non rompergli significa ancora che l’azione – necessariamente – non può svilupparsi in modo felice se la virtù non si accorda con l’occasione, se la «congiuntura singolare» non è favorevole[61].
Tuttavia – questo il fatto significativo – nessuno conosce il ‘fine’ della fortuna. In questo contesto il «fine» non ha niente di preordinato, di teleologico, come se fosse un destino superiore ed insondabile. L’orizzonte aristotelico delle cause finali è definitivamente superato, così come quello polibiano della τύκη intesa in senso provvidenzialistico. Si è invece pienamente nell’orizzonte atomistico e lucreziano del nesso tra libertà e necessità. Tra necessario manifestarsi del «caso» come causa e libera necessità dell’uomo di agire virtuosamente. Si tratta delle condizioni con cui la virtù potrà e dovrà necessariamente misurarsi. Queste non sono conosciute chiaramente da nessuno. Ed ecco il suggerimento di Machiavelli, ben distante da ogni possibile soluzione scettica. Non si tratta, di fronte alla ‘piena’ della fortuna, di cui non conosciamo in anticipo l’entità, di sedersi ad aspettare, verificando poi i danni del suo passaggio. Si tratta, al contrario, di non abbandonarsi mai, di non perdere la speranza, proprio perché le sue vie sono «traverse ed incognite».
Dal punto di vista della riflessione sulla realtà politica si ha qui un prezioso suggerimento. Si è ipotizzato in queste pagine che il teatro dell’azione politica, per Machiavelli, fosse guidato da una certa necessità e causalità, che il rapporto virtù-fortuna e la fortuna intesa come occasione suggerissero – dal punto di vista ontologico – l’assenza della contingenza dall’universo machiavelliano. Da un punto di vista realistico, però, l’azione umana non deve essere annichilita da questa struttura guidata dalla necessità. Di questa, infatti, nessuno è in grado di conoscere l’intima struttura, i suoi meccanismi più nascosti, il corso che imprimerà al fiume della fortuna. Da qui la necessità di riflettere in termini di «congiuntura». L’orizzonte della critica epicurea al necessitarismo democriteo, attraverso la riflessione di Lucrezio, viene ripreso e messo al lavoro nella costruzione di una teoria «fortissima» dell’agire politico. Il suggerimento di Machiavelli, quindi, è di non abbandonarsi mai, di pensare che la nostra stessa virtù è inserita in quel crogiolo di cause, è essa stessa una di quelle cause – la più parte delle quali ci rimane nascosta – che contribuiscono al divenire della storia. Ne è un elemento interno, autonomo e costruttivo, che partecipa a quel conflitto, a quell’urto di molteplici cause che ricorda in modo potente gli urti che si producono tra gli atomi grazie a quel principio necessario che è il clinamen lucreziano, fondamento di ogni libertà.
Gli uomini, quindi, devono conservare la speranza di poter affermare la loro virtù. Questa non aumenterà certo grazie alla speranza, che non contribuisce in niente alla creazione di condizioni migliori per un’occasione favorevole. Ciò sarebbe solo un’illusione e una superstizione. Tuttavia la virtù deve essere sempre pronta a cogliere l’occasione nel momento in cui questa si offre, anche e soprattutto perché «chi non spera il bene non teme il male»[62]. Si capisce, quindi, che tipo di speranza l’autore dei Discorsi suggerisca di coltivare. Non si tratta certo di una divina provvidenza, né di fiducia in un qualche finalismo, per cui gli eventi si produrrebbero «in vista» degli uomini e della loro virtù[63]. Speranza significa un’attenzione costante alla possibilità sempre presente che si determini l’occasione. In questa visione del mondo e della realtà storica, quindi, non prevale il disincanto, né tantomeno la rassegnazione. «Non si abbandonare» mai è la cifra di un realismo dal forte contenuto normativo, dalla coscienza che l’incontro tra virtù e occasione è sempre possibile anche se mai necessario e mai già dato[64]. Si tratta di un realismo – quindi – che vuole educare alla forza d’animo, alla costanza ed alla fermezza di fronte alla coscienza della struttura del reale in cui l’uomo si trova ad operare. Non si tratta di una concezione simile a quella stoica, che poggia sull’idea di un nucleo intimo ed originario dell’uomo, protetto dai rivolgimenti della fortuna. Una cittadella interiore in cui rifugiarsi nel momento in cui gli eventi – per il saggio – volgono al peggio[65].
Si tratta, al contrario, di una fermezza d’animo che deriva dalla coscienza che l’unica azione virtuosa è quella che incontra in modo favorevole l’occasione. La virtù non si afferma mai se non incontra l’occasione ma questo, tra le infinite «pieghe» del reale, è un evento che può prodursi in continuazione, come in continuazione si produce la libertà all’interno dell’universo atomistico di Lucrezio[66]. In questo modo acquista un’importanza sempre maggiore per Machiavelli da un lato la conoscenza del mondo, della sua mutevolezza e della sua «malignità», dall’altro la fermezza d’animo di fronte a questo «spettacolo», per cui diviene necessario non abbandonarsi mai.
Si vede – afferma Machiavelli nel 31° capitolo del III libro – come gli uomini grandi sono sempre in ogni fortuna quelli medesimi; e se la varia, ora con esaltarli, ora con opprimerli, quegli non variano, ma tengono sempre lo animo fermo, ed in tale modo congiunto con il modo del vivere loro, che facilmente si conosce, per ciascuno, la fortuna non avere potenza sopra di loro. Altrimenti si governano gli uomini deboli; perché invaniscono ed inebriano nella buona fortuna, attribuendo tutto il bene che gli hanno a quella virtù che non conobbono mai. D’onde nasce che diventano insopportabili ed odiosi a tutti coloro che gli hanno intorno. Da che poi dipende la subita variazione della sorte; la quale come veggono in viso, caggiono subito nell’altro difetto, e diventano vili ed abietti[67].
La fermezza d’animo richiesta dalla virtù machiavelliana non è, appunto, simile a quella stoica. Non è garantita, cioè, dalla superiorità di una zona «intima» del sé, che si troverebbe al riparo dai rivolgimenti della fortuna. Al contrario, si tratta della coscienza che proprio perché niente è al riparo dalla fortuna, nessuna virtù può considerarsi assoluta. Proprio da questo derivava, infatti, l’illusione di credersi al sicuro o, al contrario, di sentirsi perduti in modo definitivo.
Si può affermare, invece, che pur non essendo assoluta, questa virtù ha tuttavia qualcosa di originario e che, pur non sfuggendo ai rivolgimenti della fortuna, può assicurare una certa stabilità. Si tratta del fatto che è l’unica arma in nostro possesso e l’unico elemento che ci appartiene veramente, sia questo sufficiente o meno a farci sopravvivere all’azione dei tempi. La mutevolezza, quindi, la molteplicità del reale, da fattore di crisi può trasformarsi essa stessa in un’occasione, in una opportunità di resistere alla decadenza e moltiplicare gli effetti della virtù. Machiavelli sosteneva la necessità del ritorno ai principî, luogo della molteplicità e del conflitto originario[68]. Lucrezio lo afferma con uguale enfasi, sostenendo che più i corpi sono composti e molteplici, più sono potenti e pieni di vita[69]. Ecco perché, di nuovo, quel rapporto tra virtù e occasione è indice di un realismo fortemente normativo, che non abbandona l’idea di un forte progetto etico e politico. L’unica possibilità, per il principe virtuoso, è quella di fondarsi solo sulla propria virtù. In quella ha senso riporre la propria speranza, non certo nella sorte favorevole o nell’occasione, che niente ci garantisce possa presentarsi al momento giusto.
Nella denuncia di Machiavelli dei tempi presenti si legge questo insegnamento. I principi italiani avevano tenuto il proprio stato lungamente. Non avevano pensato, in quei tempi quieti, che la situazione potesse mutare al peggio, poiché «è comune defetto degli uomini, non fare conto, nella bonaccia, della tempesta»[70]. Sperarono quindi che fossero i loro popoli a desiderare la cacciata dei conquistatori ed il loro ritorno.
Il quale partito – afferma Machiavelli – quando mancono gli altri, è buono; ma è bene male avere lasciati gli altri remedii per quello: perché non si vorrebbe mai cadere, per credere di trovare chi ti ricolga; il che, o non avviene, o, s’egli avviene, non è con tua sicurtà, per essere quella difesa suta vile e non dependere da te. E quelle difese solamente sono buone, sono certe, sono durabili, che dependono da te proprio e dalla virtù tua[71].
Necessità di fondarsi sulla propria virtù, quindi, accompagnata dalla necessità di conoscere i rovesci – le occasioni – della fortuna. Questo l’insegnamento del realismo machiavelliano che, come si è visto, si basa anche su un’ontologia e su una precisa idea della causalità e della necessità di eventi e meccanismi dell’azione umana.
Volendo riassumere, quindi, si potrebbe dire che la concezione machiavelliana della necessità e del caso si sviluppa principalmente attraverso la riflessione sulle fonti classiche. L’opposizione alle tesi provvidenzialistiche e finalistiche di matrice aristotelica e polibiana è chiara. Il caso inteso come assenza di cause, la fortuna intesa come potenza cieca e volontà distruttrice sono – come dirà Spinoza – un vero e proprio «asilo degli ignoranti». Al contrario, Machiavelli sembra riprendere e rielaborare la filosofia lucreziana, tentando una sintesi capace di coniugare libertà e necessità, virtù e fortuna-occasione. Il caso, quindi, non si oppone alla necessità, ma ne rappresenta un’espressione. Si veste quindi dell’abito dell’occasione, consentendo alla virtù di esprimersi e realizzarsi. La salvezza non è mai certa, ma la rovina non è mai scontata. Di nuovo, il tema dell’occasione e della necessità sembrano far affiorare quel rapporto paradossale ed ambiguo che la virtù intrattiene con la fortuna, che la crisi intrattiene con la potenza. La crisi, per Machiavelli, non è l’opposto della virtù, ma l’origine della politica[72], il luogo primo del conflitto, in cui la virtù stessa può cogliere l’occasione. Crisi, nel senso della medicina ippocratica, come punto nodale in cui si decide l’evoluzione di una malattia, verso la guarigione del paziente o verso la sua morte[73].
La tradizione atomistica, quindi, viene messa al lavoro per costruire un sistema etico e politico che si fonda sulla necessità e sulla libertà. Lo stesso gesto filosofico che, un secolo e mezzo più tardi, sarà compiuto da Baruch Spinoza il quale, come è noto, non ha parole di elogio per i grandi filosofi della tradizione, con l’unica eccezione rilevante dell’«acutissimus» Machiavelli[74] e, appunto, degli atomisti – Epicuro, Democrito, Lucrezio – contro l’autorità priva di grande valore di Socrate, Platone ed Aristotele[75]. Nessun teleologismo, nessuna teoria delle «anticipazioni» o dell’«inveramento». Solo la costruzione di filosofie la cui virtù è data dalla potenza della libertà, il cui nome «forza alcuna non doma, tempo alcuno non consuma e merito alcuno non contrappesa»[76].
[1] Solo per citare gli studi più importanti e recenti, cfr. N. Badaloni, Natura e società in Machiavelli, «Studi Storici», 10 (1969), pp. 675-708; M.P. Edmond, Machiavel et la question de la Nature, «Revue de metaphisique et de morale» 94 (1989), pp. 347-53; S. Basu, In a crazy time the crazy come out. Machiavelli and the cosmology of his day, «History of political thought» 11 (1990), pp. 213-239; A. Parel, The machiavellian cosmos, New Haven and London, Yale University Press, 1992; M. Sacco Messineo, Il fiume e gli argini. Natura ed esperienza nell’opera del Machiavelli, Palermo, Palumbo, 1992; E. Garin, Machiavelli fra politica e storia, Torino, Einaudi, 1993; L. Gerbier, Histoire, médecine et politique. Les figures du temps dans «Le Prince» et les «Discours» de Machiavel, thèse de doctorat, Université de Tours, inedita, 1999; H. Guineret, Le terme de nature dans «Le Prince» de Machiavel, «Revue philosophique de la France et de l’Étranger» 124 (1999), pp. 7-18; A. Parel, Ptolémée et le chapitre 25 du «Prince», in G. Sfez, M. Senellart (éds), L’enjeu Machiavel, Paris, P.U.F., 2001, pp. 15-40.
[2] Oltre alle considerazioni più generali di O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, Torino – Roma, Loescher 1883-1911, di G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, Milano, Ricciardi, 1987 e id., Niccolò Machiavelli, Bologna, Il Mulino, 1993; cfr. anche C. Lefort, Le travail de l’oeuvre: Machiavel, Paris, Gallimard, 1972, pp. 218-236. Si soffermano poi sul concetto di necessità R. König, Niccolò Machiavelli. Zur Krisenanalyse einer Zeitwende, Erlenbach-Zurich, Eugen Rentsch, 1941; L. von Muralt, Machiavellis Staatsgedanke, Basel, Benno Schwabe, 1945; G. Saitta, Il Rinascimento: il pensiero italiano nell’Umanesimo e nel Rinascimento, vol. III: Il Rinascimento, Bologna, Zuffi, 1951, pp. 375-414; K. Kluxen, Politik und menschliche Existenz bei Machiavelli. Dargestellt am Begriff der «necessità», Kohlhammer, Stoccarda, 1967; R. von Albertini, Das florentinische Staatsbewuβtsein im Übergang von der Republik zum Prinzipat, Bern, Francke AG Verlag, 1955, trad. it., Firenze dalla repubblica al principato, Torino, Einaudi, 1970; L. Strauss, Thoughts on Machiavelli, Glencoe (Ill.), The Free Press, 1958, trad. it. Pensieri su Machiavelli, Milano, Giuffrè, 1970; S. Anglo, Machiavelli: a dissection, London, V. Gollanz, 1969; P. Manent, Machiavel ou la défaite de l’universel, “Contrepoint” 17 (1975), pp. 81-100; R. Polin, Platon et Aristote dans la pensée politique et juridique au XVIe siècle: les regimes politiques et l’imitation des anciens chez Machiavel, in Platon et Aristote à la Renaissance. XVIe colloque international de Tours, Paris, Vrin, 1976, pp. 155-162; B. Guillemain, Machiavel: l’anthropologie politique, Genève, Droz, 1977; P. Renucci, Les méandres de la nécessité et de la fortune, in G. Barthouil (a cura di), Machiavelli attuale/Machiavel actuel, Ravenna, Longo, 1982; M. Senellart, Machiavélisme et raison d’Etat, Paris, P.U.F., 1989.
[3] Cfr. L. Mossini, Necessità e legge nell’opera del Machiavelli, Milano, Giuffrè, 1962.
[4] Sul rapporto di Machiavelli con la cultura fiorentina del suo tempo cfr. F. Gilbert, Niccolò Machiavelli. La vita culturale del suo tempo, Bologna, Il Mulino, 1964, id., Machiavelli and Guicciardini. Politics and history in sixteenth-century Florence, Princeton, Princeton University Press, 1965, trad. it. Machiavelli e Guicciardini. Pensiero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento, Torino, Einaudi, 1970; R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma, Belardetti, 1954; N. Rubinstein, Machiavelli and the world of florentine politics, in M.P. Gilmore (a cura di), Studies on Machiavelli, Firenze, Sansoni, 1972, pp. 5-28. Sulla cultura e le fonti di Machiavelli cfr. AA.VV., Cultura e scrittura di Machiavelli. Atti del Colloquio di Firenze-Pisa, 27-30 ottobre 1997, Roma, Salerno Editrice, 1998; G.M. Anselmi, Ricerche sul Machiavelli storico, Pisa, Pacini, 1979; J.J. Marchand (a cura di), Niccolò Machiavelli: politico, storico, letterato: atti del Convegno di Losanna, 27-30 settembre 1995, Roma, Salerno Editrice, 1996; C. Dionisotti, Machiavellerie, Torino, Einaudi, 1980; G. Ferraù, Per la cultura umanistica di Machiavelli: i principati felici, «Studi umanistici» 3 (1992), pp. 149-64; M. Martelli, Schede sulla cultura di Machiavelli, «Interpres» 6 (1985), pp. 283-330; id., Machiavelli e la storiografia umanistica, «Interpres» 10 (1990), pp. 224-257; id., Machiavelli e gli storici antichi. Osservazioni su alcuni luoghi dei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, Roma, Salerno Editrice, 1998; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, Milano, Ricciardi, 1987; id., Niccolò Machiavelli, cit.; O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli cit.; P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, Milano, Hoepli, 1897; M. Viroli, From politics to Reason of State: the acquisition and trasformation of the language of politics 1250-1600, Cambridge, Cambridge University Press, 1994, trad. it. Dalla politica alla Ragion di Stato: la scienza del governo tra XIII e XVII secolo, Roma, Donzelli, 1994.
[5] Cfr. L. Mossini, Necessità e legge cit., p. 9: «Il ‘fata regunt orbem, certa stant omnia lege’ di Manilio sarà svolto sempre più nel senso di una completa identificazione di questo sotto molti aspetti ancor mitico ed equivoco ‘fatum’ con quella ‘certa lex’, che diventerà anzi la natura stessa».
[6] L’espressione «realismo ontologico» viene usata da L. Bove, Le réalisme ontologique de la durée chez Spinoza lecteur de Machiavel, in L. Bove, J.-P. Coujou, N. Cournarie et al. (éds.), Préparer l’Agrégation et le CAPES de philosophie, vol. 1, CRDP Midi-Pyrénées, Ellipses, 1998.
[7] L. Mossini, Necessità e legge cit., p. 42: «Se il mondo è sempre stato ‘ad uno medesimo modo’ […] come accade allora che l’uomo incorre tanto spesso in errore e si perde dietro false immagini di bene, verso fini che si traducono nella sua stessa rovina ed infelicità? […] In che modo si può e si può davvero spiegare questa sorprendente contraddizione tra la immutabile regolarità delle leggi di svolgimento della storia, dell’esperienza, della natura e la insufficienza e irrazionalità, l’arbitrio e il disordine della condotta individuale?».
[8] «Anziché essere, come si è scritto molto inesattamente a nostro parere, una ‘forza della natura’, la componente, una delle componenti di un ‘giuoco naturale di forze’, l’uomo sembra presentarsi agli occhi del Machiavelli come una sorta di tragica eccezione all’ordine della natura, quasi il frutto di un originario atto di arbitrio, di, come il Machiavelli ama scrivere, ‘elezione’, una specie di macchia, di peccato di origine per il quale appunto la natura umana è quella che è, corrotta, perduta» (ivi, p. 50).
[9] «[Machiavelli] ritrova proprio nella corruzione ed insufficienza della condizione umana e, con strettissimo collegamento, nell’intuizione di quanto essa potrebbe se fosse dato sottrarla ai vincoli delle passioni e ricondurla alla necessità, ai termini ed alle regole della natura, il presupposto e la giustificazione ultima della politica, in tutte le sue crudezze ed aspre esigenze, nel suo distacco dai precetti e dalle consuetudini di una forma di esistenza semplicemente individuale e privata» (ivi, p. 58). Con un diverso punto di vista, ma con una sostanziale convergenza sulla tesi di fondo, cfr. N. Badaloni, Natura e società in Machiavelli cit.
[10] In realtà, il tema del ritorno ai principi può essere letto in una luce completamente diversa, sottolineando proprio come nell’«origine» Machiavelli intravedesse proprio il luogo più umano e passionale della politica. Cfr. T. Berns, Le retour à l’origine de l’État, «Archives de Philosophie» 59 (1996), pp. 219-248; T. Berns, Violence de la loi à la Renaissance. L’originaire du politique chez Machiavel et Montaigne, Paris, Kimé, 2000. Mi permetto di rinviare anche al mio F. Del Lucchese, «Disputare» e «combattere». Modi del conflitto nel pensiero politico di Niccolò Machiavelli, «Filosofia politica» 15 (2001), pp. 71-95.
[11] Su Machiavelli e la religione cfr. soprattutto A. Tenenti, La religione di Machiavelli, «Studi storici» 10 (1969), pp. 736-748 e, da ultimo, E. Cutinelli Rèndina, Chiesa e religione in Machiavelli, Roma-Pisa, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 1998.
[12] Che un’opera, inoltre, sia considerata oggi di «minore» importanza, non significa affatto che essa abbia influito meno in altre epoche o in diversi contesti.
[13] Per questo restano insostituibili le accurate indagini filologiche di G. Sasso, Machiavelli e gli antichi cit.
[14] Su Polibio cfr. S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, Bari, Laterza, 1966; L. Canfora, Teorie e tecnica della storiografia classica, Bari, Laterza, 1974; D. Musti, Polibio e l’imperialismo romano, Napoli, Liguori, 1978; A. Momigliano, La storiografia greca, Torino, Einaudi, 1982.
[15] Questa ipotesi, come è noto, è stata oggetto di critiche e di diverse interpretazioni. Per una discussione completa cfr. in particolare G. Sasso, Machiavelli e gli antichi cit. e, soprattutto, E. Garin, Machiavelli fra politica e storia cit.
[16] Pol., Hist., VI, 4: «Spontaneamente e naturalmente – scrive Polibio – sorge prima di ogni altra forma la monarchia, dalla quale deriva, in seguito alle opportune correzioni e trasformazioni, il regno. Quando questo incorre nei difetti che sono ad esso connaturati e si trasforma in tirannide, viene abolito e subentra al suo posto l’aristocrazia. Quando, secondo un processo naturale, essa degenera in oligarchia e il popolo punisce indignato l’ingiustizia dei capi, sorge la democrazia. Quando questa a sua volta si macchia di illegalità e violenze, col passare del tempo si costituisce l’oclocrazia. La verità di questa mia affermazione appare chiara a chiunque consideri la nascita, lo sviluppo, la decadenza naturale di ognuna di queste forme; soltanto chi avrà considerato analiticamente l’origine di esse, potrà comprenderne lo sviluppo, la fioritura, la decadenza, la fine, e rendersi conto di quando, come e dove ciascuna di esse andrà a terminare».
[17] Ivi, VI, 9: «Così si svolge la rotazione delle forme di governo, processo naturale per il quale esse si trasformano, decadono, ritornano al tipo originario. Considerando tutto questo, chi vuol giudicare della futura sorte dei governi potrà sbagliare nel computo del tempo, ma ben raramente ingannarsi sul procedimento dello sviluppo e della decadenza di ogni singola forma e della loro successione, purché esprima il suo giudizio senza ira e invidia. Secondo questo criterio, passeremo a considerare l’origine, lo sviluppo, la fioritura dello stato romano e quindi la sua inevitabile decadenza: come infatti ogni altro stato, come ho appena detto, subisce questo ciclo, così anche quello romano, che ha avuto una origine e uno sviluppo, naturalmente avrà pure una decadenza, come potremo vedere da quanto esporrò».
[18] Cfr. M. Zanardi, Il corpo rigenerato, «Il Centauro» 5 (1982), pp. 68-69: «La forma politica è una forma naturale, il suo tempo ed il suo senso sono definiti da questo continuum irreversibile, senza sorprese. […] L’origine è così decisiva che, una volta conosciuta, ciò che segue non costituisce problema. Il sapere storico è analisi e sviluppo della causa prima: il futuro è nel passato come il causato nella causa».
[19] Cfr. G. Sasso, Machiavelli e gli antichi cit., specialmente i due saggi contenuti nel I tomo, «Machiavelli e la teoria dell’anacyclosis» e «Machiavelli e Polibio. Costituzione, potenza, conquista».
[20]Discorsi, I, 2.
[21] Ibidem.
[22] Cfr. l’analisi contenuta nel bel lavoro di L. Gerbier, Histoire, médecine et politique cit. Cfr. anche T. Ménissier, Machiavel, la politique et l’histoire. Enjeux philosophiques, Paris, P.U.F., 2001
[23] Discorsi I, 2.
[24] Cfr. ancora L. Gerbier, Histoire, médecine et politique cit.
[25] Cfr. G. Colonna d’Istria e R. Frapet, L’art politique chez Machiavel, Paris, Vrin, 1980.
[26] Ivi, passim.
[27] L. Gerbier, Histoire, médecine et politique cit., p. 118: «L’enjeu est simple: il s’agit de fonder la possibilité de la ‘science des régularités’. Si en effet on adopte la definition classique du ‘casus’ comme cause invisible ou absolument contingente, on s’interdit d’en bâtir une science. Si en revanche on choisit de faire de cette ‘illisibilité’ des causes une simple infirmité ponctuelle de l’œil humain, on se réserve la possibilité de construire après coup une science de ces causes, ce que Machiavel va précisément s’employer à faire aussitôt».
[28] Su Machiavelli e Lucrezio, oltre a M. Zanardi, Il corpo rigenerato cit. cfr. C. E. Finch, Machiavelli’s Copy of Lucretius, «Classical Journal» 56 (1960), pp. 29-32; R. Ridolfi, Del Machiavelli, di un codice di Lucrezio e di altro ancora, «La Bibliofilia» 65 (1963), pp. 249-259; S. Bertelli, Noterelle machiavelliane. Un codice di Lucrezio e di Terenzio, «Rivista Storica Italiana» 73 (1961), pp. 544-553; S. Bertelli, Noterelle machiavelliane II. Ancora su Lucrezio e Machiavelli, «Rivista Storica Italiana» 76 (1964), pp. 774-792; R. Ridolfi, Erratacorrige machiavelliana, «La Bibliofilia» 70 (1968), pp. 137-141; E. Raimondi, Il sasso del Machiavelli, «Strumenti critici» 4 (1970), pp. 86-91.
[29] Cfr. V.E. Alfieri, Atomos Idea. L’origine del concetto dell’atomo nel pensiero greco, Le Monnier, Firenze, 1953; G. Sasso, Il progresso e la morte. Saggio su Lucrezio, Bologna, Il Mulino, 1979; M. Serres, La naissance de la physique dans le texte de Lucrèce: fleuves et turbulences, Paris, Éditions de Minuit, 1977, trad. it. di P. Cruciani ed A. Jeronimidis, Lucrezio e l’origine della fisica, Palermo, Sellerio, 1980; J. Salem, Tel un dieu parmi les hommes. L’éthique d’Épicure, Paris, Vrin, 1989; id., La mort n’est rien pour nous. Lucrèce et l’éthique, Paris, Vrin, 1990; id., Démocrite. Grains de poussière dans un rayon de soleil, Paris, Vrin, 1996; G. Giannantoni, M. Gigante (a cura di), Epicureismo greco e romano, Napoli, Bibliopolis, 1996; D. Sedley, Lucretius and the transformation of Greek wisdom, Cambridge, Cambridge University Press, 1998; P.M. Morel, Atome et nécessité. Démocrite, Épicure, Lucrèce, Paris, P.U.F., 2000.
[30] Cfr. P.-M. Morel, Atome et nécessité cit.
[31] Dante, La divina Commedia, Inferno IV, 136.
[32] Cfr. L. Robin, Sur la conception aristotélicienne de la causalité, «Archiv für Geschichte der Philosophie» 33 (1910), pp. 1-28, 184-210; W.D. Ross, Aristotle, London, Methuen & Co., 19233, trad. it. di A. Spinelli, Aristotele, Bari, Laterza, 1946; L. Robin, Aristote, Paris, P.U.F., 1944; W. Wieland, Die aristotelische Physik, Göttingen, Vandenhoeck-Ruprecht, 1962, trad. it. di C. Gentili, La fisica di Aristotele, Bologna, Il Mulino, 1993; W. Leszl, Logic and Metaphysics in Aristotle: Aristotles Treatment of Types of Equivocity and Its Relevance to His Metaphysical Themes, Padova, Antenore, 1970; F. de Gandt, P. Souffrin (éds.), La Physique d’Aristote et les conditions d’une science de la nature, Paris, Vrin, 1991.
[33] Cfr. J. Salem, Démocrite cit.
[34] Ivi, passim.
[35] Mentre Democrito aveva solo ipotizzato la caduta rettilinea degli atomi ed i loro urti, Lucrezio introduce l’ipotesi fisica del clinamen, che consente di rendere conto del loro movimento e della formazione delle cose. Cfr. Lucr., De rer. nat., II, 216 sgg: «Nella caduta in linea retta che porta gli atomi attraverso il vuoto, in virtù del loro peso, a un momento indeterminato, in un luogo indeterminato, si scostano di poco dalla verticale, quanto basta perché si possa dire che il loro movimento se ne trovi modificato. Senza questa declinazione, tutti, come gocce di pioggia, cadrebbero dall’alto in basso attraverso la profondità del vuoto; tra loro nessuna collisione sarebbe potuta nascere, nessun urto prodursi; e mai la natura avrebbe creato alcunché».
[36] Ivi, II, 251 sgg.: «Se sempre tutti i movimenti sono solidali, se sempre il movimento nuovo nasce da uno più antico secondo un ordine inflessibile, se con la declinazione degli atomi non prendono l’iniziativa di un movimento che rompa con le leggi del destino per impedire la successione indefinita delle cause, da dove viene questa libertà accordata sulla terra a tutto ciò che respira? Da dove viene – dico – questo potere strappato ai fati, che ci fa andare ovunque ci conduce la nostra volontà e, come gli atomi, ci permette di cambiare direzione, senza essere determinati né dal tempo né dal luogo, ma secondo il piacimento del nostro spirito?».
[37] Ivi, II, 303 sgg.: «La somma degli esseri non può venir modificata da nessuna forza: non esiste un luogo al di fuori dell’universo, dove, sfuggendo dal tutto immenso, alcuna specie di elementi possa rifugiarsi, né da dove proverrebbe una forza immensa, tale da cambiare, con una incursione improvvisa, l’ordine della natura e sconvolgerne i movimenti».
[38] Cfr. J. Salem, La mort n’est rien pour nous cit.
[39] Cfr. P.M. Morel, Atome et nécessité cit.
[40] Discorsi, I, 4.
[41] Discorsi, III, 12.
[42] Discorsi, I, proemio. Sulla teoria dell’imitazione in Machiavelli cfr. in particolare R. Polin, Les régimes politiques et l’imitation des anciens chez Machiavel, in Platon et Aristote à la Renaissance, cit.
[43] Discorsi, I, proemio.
[44] Discorsi, I, 11, p. 95a.
[45] Questo tema è al centro del saggio di A. Parel, The machiavellian cosmos cit., il quale sostiene che l’imitazione è resa possibile, per Machiavelli, da un’azione causale dei pianeti e degli astri sul corso delle vicende umane, in accordo con una visione cosmologica ed antropologica pre-moderna e fortemente influenzata dalle teorie astrologiche dell’epoca. La concezione causale di Machiavelli sembra tuttavia decisamente lontana dalla rigida impostazione astrologica richiamata da Parel. Per il rapporto di Machiavelli con la cultura cosmologica del suo tempo cfr. anche L. Zanzi, I «segni» della natura e i «paradigmi» della storia: il metodo di Machiavelli. Ricerche sulla logica scientifica degli «umanisti» tra medicina e storiografia, Lacaita, Manduria, 1981; E. Garin, Machiavelli fra politica e storia cit., e ancora L. Gerbier, Histoire, médecine et politique cit.
[46] Discorsi, I, 39. Cfr. anche Discorsi III, 43: «Sogliono dire gli uomini prudenti, e non a caso né immeritatamente, che chi vuole vedere quello che ha a essere, consideri quello che è stato; perché tutte le cose del mondo, in ogni tempo, hanno il proprio riscontro con gli antichi tempi. Il che nasce perché, essendo quelle operate dagli uomini, che hanno ed ebbono sempre le medesime passioni, conviene di necessità che le sortischino il medesimo effetto».
[47] In queste pagine non si tornerà, in modo esaustivo, sulla questione della virtù e del suo rapporto con la fortuna, indagata a fondo e con ottimi risultati da gran parte della critica machiavelliana. Oltre agli studi classici di O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli cit., F. Chabod, Scritti su Machiavelli, Torino, Einaudi, 1964, F. Gilbert, Niccolò Machiavelli e la vita culturale del suo tempo cit. e G. Sasso, Niccolò Machiavelli cit. Cfr. più di recente su questo specifico tema R. Esposito, Ordine e conflitto: Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento italiano, Napoli, Liguori, 1984; H.F. Pitkin, Fortune is a woman: gender and politics in the thought of Niccolò Machiavelli, Berkeley, University of California Press, 1984; O. Balaban, The human origin of fortuna in Machiavelli’s thought, «History of Political Thought» 9 (1990), pp. 21-36; G. Nicoletti, Caso-causa o fortuna nel machiavellismo, in AA.VV., Il tema della Fortuna nella Letteratura francese e italiana del Rinascimento. Studi in memoria di Enzo Giudici, Firenze, Olschky, 1990, pp. 343-353 ; A. Fontana, Fortune et décision chez Machiavel, «Archives de philosophie» 62 (1999), pp. 255-68; C.J. Nederman, Amazing grace: fortune, God and free will in Machiavelli’s thought, «Journal of the History of Ideas» 60 (1999), pp. 617-638.
[48] Discorsi, II, 1, Quale fu più cagione dello imperio che acquistarono i romani, o la virtù, o la fortuna.
[49] «La qual cosa io non voglio confessare in alcun modo, né credo ancora si possa sostenere» (ibidem).
[50] Ibidem.
[51] Cfr. Il Principe, VI. Proprio i fondatori di città hanno avuto la possibilità di mostrare l’incontro tra virtù e fortuna come occasione che si concretizza nell’edificazione di uno stato potente. Cfr. D I,1: «In questo caso è dove si conosce la virtù dello edificatore e la fortuna dello edificato: la quale è più o meno maravigliosa, secondo che è più o meno virtuoso colui che ne è stato il principio».
[52] Piuttosto che alla contingenza, quindi si dovrà pensare ad una filosofia della congiuntura. Pagine notevoli, in questo senso, si trovano nell’interpretazione althusseriana di Machiavelli, dove il problema dell’incontro diviene centrale per l’intera lettura della sua opera. Cfr. L. Althusser, Sul materialismo aleatorio, Milano, Unicopli, 2000, tr. it. di V. Morfino e L. Pinzolo, p. 63: «Incontrando la fortuna, bisogna che il Principe abbia la virtù di trattarla come una donna per sedurla o farle violenza, in breve per usarla per la realizzazione del suo destino. È a questa considerazione che dobbiamo a Machiavelli tutta una teoria filosofica dell’incontro tra la fortuna e la virtù».
[53] Il Principe, XX.
[54] È di notevole interesse, quindi, quanto sostiene di nuovo L. Althusser, Sul materialismo aleatorio cit., p. 154: «Machiavelli non pensa nella conseguenza causa-effetto, ma nella sequenza [consécution] fattuale […] tra il ‘sé’ e l’’allora…’. In questo caso non si tratta più di una conseguenza da causa (o principio, o essenza) ad effetto oppure di derivazione o d’implicazione logica, ma di una semplice sequenza [consécution] di condizioni, dove ‘sé’ significa: date delle condizioni di fatto, cioè quella congiuntura fattuale senza causa originaria, e ‘allora’ designa quanto ne segue di osservabile e di ricollegabile alle condizioni della congiuntura».
[55] Cfr. R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli cit.
[56] Cfr. S. Visentin, La libertà necessaria. Teoria e pratica della democrazia in Spinoza, Pisa, ETS, 2001.
[57] Proprio Spinoza, che Mossini avvicinava in questo a Hobbes e allontanava da Machiavelli, riconoscerà esplicitamente nelle sue opere la coerenza e la profondità del realismo machiavelliano nella descrizione della natura umana. Cfr. Spinoza, Trattato politico, I, 1.
[58] Il Principe, XXV.
[59] Discorsi, II, 30.
[60] Discorsi, II, 29.
[61] Cfr. L. Althusser, Machiavelli e noi, Roma, Manifestolibri, 1999, tr. it. di M. T. Ricci, p. 36: «Credo che non sia avventato dire che Machiavelli è il primo teorico della congiuntura o il primo pensatore che abbia coscientemente se non pensato il concetto di congiuntura, se non fatto del concetto di congiuntura l’oggetto di una riflessione astratta e sistematica, almeno costantemente, in maniera insistente ed estremamente profonda, pensato nella congiuntura, cioè nel concetto di caso singolo aleatorio. Che cosa significa pensare nella congiuntura? Pensare un problema politico sotto la categoria di congiuntura? Significa innanzitutto tener conto di tutte le determinazioni, di tutte le circostanze concrete esistenti, passarle in rassegna, farne il rendiconto e il confronto».
[62] Istorie fiorentine, II, 14.
[63] A. Parel, The Machiavellian Cosmos cit. suggerisce invece l’idea che in Machiavelli sia all’opera un concetto ben definito di provvidenza, mutuato in questo caso dall’ambiente culturale fiorentino ed in particolare dall’accademia neoplatonica di Marsilio Ficino.
[64] Per una genealogica del concetto di realismo cfr. P.P. Portinaro, Il realismo politico, Bari-Roma, Laterza, 1999, che ne descrive con grande efficacia i diversi paradigmi, illustrando il ruolo di Machiavelli in questa tradizione.
[65] Cfr. G. Di Napoli, Niccolò Machiavelli e l’Aristotelismo del Rinascimento, «Giornale di Metafisica» 25 (1970), pp. 215-264, che suggerisce la presenza solo «generica» di motivi stoici in Machiavelli, ipotizzando invece una profonda influenza dell’aristotelismo rinascimentale che sfocia in un’etica caratterizzata da un forte «fatalismo pessimistico». Anche M.F. Sciacca, La concezione dell’uomo nel pensiero del Machiavelli, «Cultura e scuola» 9 (1970), pp. 56-71, suggerisce notevoli influssi sia dello stoicismo sia dell’aristotelismo rinascimentale sul «naturalismo» di Machiavelli, declinati però più in chiave politica che cosmologica. Su Machiavelli e lo stoicismo cfr. alcune considerazioni interessanti di U. Dotti, Niccolò Machiavelli. La fenomenologia del potere, Milano, Feltrinelli, 1979; R. Esposito, Ordine e conflitto cit. nonché i lavori di G. Sasso, Machiavelli e gli antichi cit. e Niccolò Machiavelli cit.
[66] È possibile, a questo punto, tornare sull’affermazione di Mossini per cui il concetto di necessità per Machiavelli deriverebbe principalmente dalla filosofia e cosmologia di Marco Manilio. Non si poteva escludere, in via di principio, questa conoscenza e questa derivazione. Dopo ciò che si è visto, tuttavia, questa interpretazione sembra in larga misura fuorviante. L’Astronomicon di Manilio, infatti, è tributario diretto della filosofia stoica e ideologicamente opposto alla rielaborazione lucreziana della filosofia greca in ambito latino. Di più, lo stoicismo di Manilio si fonda su una dottrina dei legami universali che pongono al centro l’idea dell’influenza degli astri sul destino degli uomini così come di un Dio-anima del mondo. Concetti, quindi, che si oppongono con forza ai contenuti ed all’attitudine comune a Lucrezio e Machiavelli verso queste tematiche. Sembra possibile concludere, quindi, che le analogie del pensiero machiavelliano con la dottrina di Manilio sono solo formali ed esteriori. Cfr. C. Salemme, Introduzione agli «Astronomica» di Manilio, Napoli, Società editrice napoletana, 1983.
[67] Discorsi, III, 31.
[68] Cfr. T. Berns, Violence de la loi à la Renaissance cit., F. Del Lucchese, «Disputare» e «combattere» cit. Cfr. anche le considerazioni di A. Negri, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, Milano, SugarCo, 1992.
[69] Cfr. Lucr., De rer. natura, II, 581 sgg.: «Ancora una verità che ti conviene tener sigillata e conservare preziosamente nella tua memoria: fra gli oggetti la cui sostanza è visibile ai nostri occhi, non ce n’è uno che non sia composto d’un miscuglio di elementi diversi. E più un corpo possiede in sé virtù e proprietà, più rivela di contenere diverse specie, differenti forme di principi».
[70] Il Principe, XXIV.
[71] Ibidem.
[72] Cfr. R. Esposito, L’origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil, Roma, Donzelli, 1996.
[73] Cfr. ancora L. Gerbier, Histoire, médecine et politique cit. ; V. Di Benedetto, Il medico e la malattia. La scienza di Ippocrate, Torino, Einaudi, 1986.
[74] Trattato Politico V, 7 e X, 1. Su Machiavelli e Spinoza cfr. le considerazioni di A. Matheron, Spinoza et la décomposition de la politique thomiste: Machiavélisme et Utopie, in Anthropologie et politique au XVIIe siècle (études sur Spinoza), Paris, Vrin, 1986; P.F. Moreau, Spinoza, L’expérience et l’éternité, Paris, P.U.F., 1994; L. Bove, La stratégie du conatus. Affirmation et résistence chez Spinoza, Paris, Vrin 1996, tr. it. e cura di F. Del Lucchese, La strategia del conatus: affermazione e resistenza in Spinosa, Milano, Ghibli, 2002 e del mio F. Del Lucchese, «Disputare» e «combattere» cit., ma soprattutto il lavoro di V. Morfino, Il tempo e l’occasione. L’incontro Spinoza-Machiavelli, Milano, LED, 2002.
[75] Epistola LVI a Hugo Boxel. Su Spinoza e l’atomismo cfr. «Archives de philosophie» 57 (1994), in particolare gli interventi di P.F. Moreau, Épicure et Spinoza: la physique, pp. 459-470 e di L. Bove, Épicureisme et spinozisme: l’éthique, pp. 471-484. Cfr. anche J. Vuillemin, Physique panthéiste et déterminisme: Spinoza et Huygens, «Studia spinozana» 6 (1990), pp. 231-250 e F. Barbaras, Spinoza et Démocrite, «Studia spinozana» 12 (1996), pp. 13-26.
[76] Istorie fiorentine, II, 34.