Spiegazione funzionale e meccanismi sociali

Stefano Bracaletti

Introduzione

Discutiamo in questo lavoro alcuni aspetti della spiegazione funzionale inquadrandola nella problematica centrale di quello che è oggi definito «paradigma dei meccanismi sociali». Il paradigma dei meccanismi sociali – che ha una diretta filiazione dal concetto di teoria di medio raggio proposto da R.K. Merton alla fine degli anni ̓50 (1) – pur pretendendo di non essere riduzionista, riprende varie tesi proprie dell’individualismo metodologico, insistendo in particolare sul fatto che la correlazione tra variabili macro, classe e reddito per esempio, ha un valore esplicativo limitato se non si mette in luce un meccanismo a livello individuale che la produce. Prendendo come paradigmatica la posizione di Elster, la critica alla possibilità di identificare regolarità empiriche tramite l’uso di strumenti statistici si è in particolare focalizzata sul fatto che la messa in luce di relazioni macro-macro presenta 1) un alto rischio di correlazioni spurie, cioè di non cogliere autentiche relazioni causali, e sul fatto che 2) le spiegazioni dei fenomeni sociali sono caratterizzate da un alto numero di clausole ceteris paribus, cioè di condizioni che devono essere tenute fisse per poter spiegare l’andamento di una determinata variabile e ciò rende rischiosa ogni forma di generalizzazione. Per quanto riguarda 1), Elster ha sostenuto che, se riusciamo a identificare dei meccanismi, facciamo emergere la «grana fine» dei feno- meni sociali, in quanto riduciamo lo scarto temporale tra explanans ed explanandum e quindi, indirettamente, riduciamo il rischio di stabilire una connessione causale infondata. Per quanto riguarda 2) la soluzione è rinunciare a generalizzazioni della forma «se A allora B» per forme «se A allora a volte B, C, D». Le diverse possibilità si riferiscono all’attivarsi di diversi mecca- nismi che possono corrispondere a differenti clausole ceteris paribus imposte. Un meccanismo sociale può, allora, essere definito come «un processo causale, osservabile o meno, situato a livello del sistema d’interazione che dà conto di come si è generato un certo fenomeno». Nel contesto esaminato, spiegare tramite meccanismi significa dunque mettere in luce «i micro- processi generativi che producono i macro-fenomeni osservati» (2).

Per meglio comprendere questo aspetto, si consideri il seguente esempio. Il fatto che l’India abbia un alta mortalità infantile non può essere spiegato dal fatto che il prodotto nazionale indiano è basso e dalla regolarità fenomenica «le nazioni con un basso prodotto nazionale, hanno alti tassi di mortalità infantile».
La messa in luce di una connessione statistica stabile tra questi due aspetti non costituisce una spiegazione del fatto che un certo paese ha un alto tasso di mortalità infantile. Ciò che invece risulta esplicativo è la connessione o meccanismo causale attraverso il quale, a partire da un prodotto nazionale basso si arriva ad un alto tasso di mortalità infantile. Una volta messa in luce questa connessione, non abbiamo più bisogno di fare riferimento a regole fenomeniche, ma solo verificare che quel tipo di meccanismo sia all’opera nel paese che stiamo studiando. Il meccanismo può essere così descritto. Un basso prodotto nazionale implica un basso livello del reddito individuale e delle entrate statali. Un basso reddito individuale significa scarsa capacità di garantire nutrimento e assistenza medica adeguata e quindi scarsa salute sia della madre che del bambino. Basse entrate statali implicano l’impossibilità per i governi di creare programmi di assistenza pubblica per cure mediche e nutrizione ed anche questo conduce a una scarsa salute sia della madre che del bambino (3).

La problematica appena definita può essere posta anche per la spiegazione funzionale. Sem- plificando al massimo, una spiegazione funzionale spiega un comportamento singolo/collettivo oppure il ruolo di un’istituzione, attraverso, appunto, la sua funzione, cioè i sui effetti positivi in termini di adattamento, stabilità, sopravvivenza, benessere, su qualche altra entità dello stesso livello o di livello inferiore o superiore, quindi su un individuo, un gruppo, sulla società nel suo insieme. Dal punto di vista del valore esplicativo, l’aspetto più importante è riuscire a costruire una spiegazione funzionale che dia conto del fatto che una certa pratica o una certa istituzione esistono grazie a loro effetti positivi senza introdurre una forma di teleologia, cioè senza l’assunzione implicita che esse si realizzino solo perché sono utili, e fornendo un’argomentazione adeguata del rapporto tra effetti positivi ed esistenza/persistenza di quella stessa pratica e di quella istituzione.

La domanda è allora: una spiegazione funzionale valida richiede la messa in luce di meccanismi a livello individuale che connettono l’effetto utile al persistere della pratica o dell’istituzione? È questa ad esempio la posizione di Elster, coerentemente con la sua visione generale sul problema della microfondazione. L’unico tipo di meccanismi secondo lui chiaramente iden- tificabili sono quelli che in qualche modo ripropongono lo schema della selezione naturale. In ambito sociale questo meccanismo trova però, come avremo modo di vedere, esemplificazioni molto limitate. Più in generale, non è scontato che esso possa essere esteso alle società umane, che non sono entità che si riproducono.

Due articolati tentativi di difendere una forma di spiegazione funzionale che non impone a priori il riferimento a meccanismi, sono quelli di E. Nagel(4)  e G. Cohen (5). Nagel ha cercato di mostrare che la spiegazione funzionale può avere valore in quei contesti nei quali non si riescono a identificare chiare connessioni causali. In contrasto con la pretesa avanzata da Elster si è mosso in particolare G. Cohen. Per stabilire che una certa pratica sociale A esiste perché causa B, è necessario, secondo Cohen, definire una legge che collega la disposizione di A a causare B con l’esistenza di A. Dobbiamo, cioè, riuscire a mostrare che ha valore di legge il fatto che quando A ha effetti/conseguenze utili, esso viene in essere. Se ci riusciamo, il riferimento a meccanismi non è necessario. Cohen, come vedremo, tenta di elaborare dettagliatamente un modello centrato proprio su questo aspetto, trascurando però il problema della costruzione di un’evidenza empirica adeguata. Cercheremo di sviluppare questo aspetto, indagando la possibilità di adattare una forma di evidenza empirica a livello macro alla spiegazione funzionale senza riferimento a meccanismi. Questa possibilità è indicata, per esempio, da H. Kinkaid che propo- ne un modello che riprende alcuni spunti dello schema delineato da Cohen. Kinkaid sottolinea tuttavia che la messa in luce di questa evidenza empirica, per quanto realizzabile, può presentare, dato il tipo particolare di pretesa espresso dalla spiegazione funzionale, notevoli difficoltà (6).

Ha quindi un senso tentare di tracciare le linee di una soluzione alternativa. Questa soluzione può, in effetti, essere rappresentata da una forma di microfondazione basata però su un mec- canismo diverso da quello della selezione naturale e cioè il rinforzo, che rientra nello schema del condizionamento operante. Esso presuppone, a differenza del classico meccanismo tipo selezione naturale, una presa di coscienza da parte di alcuni individui del rapporto tra una certa pratica e la sua funzione positiva e può estendersi poi per imitazione al resto di una popolazione su un certo arco di tempo. Come avremo modo di osservare, tuttavia, il rinforzo rappresenta una strategia indiretta (7). La presenza di un meccanismo di rinforzo può essere in molti casi ipotizzata come plausibile, ma il suo effettivo accertamento può presentare difficoltà ancora maggiori della messa in luce dell’evidenza empirica a livello macro.

1. Forma e problematiche della spiegazione funzionale

Come più sopra già esposto, una spiegazione funzionale spiega un comportamento singolo/ collettivo oppure il ruolo di un’istituzione, attraverso, appunto, la sua funzione, cioè i sui effetti positivi in termini di adattamento, stabilità, sopravvivenza, benessere, su qualche altra entità dello stesso livello o di livello inferiore o superiore, quindi su un individuo, un gruppo, sulla società nel suo insieme. Più analiticamente: dati un comportamento X, una funzione Y e un’en- tità Z (gruppo, classe, sistema sociale), X è spiegato dalla sua funzione Y per Z, se e soltanto se 1) Y è un effetto di X, 2) Y è vantaggioso per Z, 3) Y non è intenzionale per i soggetti che mettono in atto X, 4) Y (o almeno la relazione causale tra X e Y) non è riconosciuta dai soggetti in Z (8).
A questo tipo di spiegazioni sono state mosse svariate critiche: non sono falsificabili, perché identificare i benefici di una pratica sociale è troppo facile; sono gravate da scelte di valore, perché definire come positiva una pratica sociale implica un concetto preliminare di funzionamento appropriato; difettano di evidenza statistica e quando sembrano valide sono al- lora formulabili come normali spiegazioni causali. Vi è inoltre una tradizionale critica di ordine logico, dall’impatto non trascurabile. Secondo questa critica, la spiegazione funzionale altera l’ordine temporale della spiegazione causale. Essa colloca l’effetto prima della causa introducendo una dimensione teleologica. Così per esempio, l’asserzione «una certa pratica rituale ha la funzione di realizzare la coesione sociale», rovescia in realtà il rapporto causa-effetto. Essa mette l’evento «coesione sociale» prima dell’evento che la causa, cioè la danza della pioggia, e spiega questo evento in base a una dimensione teleologica che porta dalla presunta necessità del fenomeno «coesione sociale» al tempo t1 al realizzarsi della danza della pioggia al tempo t2. Un’ulteriore critica, infine, consiste nell’affermare che le spiegazioni funzionali non possono essere confermate perché non citano i meccanismi che connettono la pratica utile alla sua per- sistenza. Quest’ultimo è il punto centrale per la nostra discussione.

Secondo autori come Elster, il riferimento a meccanismi si presenta, nella spiegazione funzionale, ancora più fondamentale che in altre forme di spiegazione proprio in relazione al pro- blema di evitare forme di correlazione spuria. Il punto cruciale nell’identificazione di un meccanismo è esplicitato dalla condizione che Elster aggiunge alle prime quattro sopra citate, quali requisiti della spiegazione funzionale: 5) Y riproduce X per mezzo di un processo causale di feedback che passa per Z (9). La difficoltà sostanziale consiste nel riuscire a conciliare il punto 3) e il punto 4), cioè la non intenzionalità e l’inconsapevolezza, che è alla base del concetto di funzione latente come sopra definito, con il punto 5) cioè, appunto, l’esplicitazione di un meccanismo di feedback che determini comportamenti in Z che favoriscono il mantenersi della funzione. A questo scopo, è necessario fare riferimento a un meccanismo non strettamente individuale cioè a un meccanismo che non postuli un attore intenzionale che mette in atto un comportamento perché ne comprende i vantaggi rispetto a qualche fine. L’unico meccanismo di questo tipo teoricamente accettabile sembra essere, tuttavia, quello della selezione naturale, o che presenta tratti simili, e questo sembra limitare significativamente la possibilità di applicazione di una forma di spiegazione che rispetti i requisiti suesposti. In generale, le spiegazioni natural selection non sono a priori inapplicabili ai processi sociali ma sono pochi i casi che si prestano a questa estensione (10). In generale, quindi, le analogie biologiche, soprattutto in termini evoluzionistici, usate dalla spiegazione funzionale sono un problema. Infatti, le società non sono entità che si riproducono e quindi non è perspicuo che si possano vedere all’opera i meccanismi della selezione naturale. I nuovi tratti culturali non si producono in maniera casuale, come avverrebbe se i processi sociali fossero analoghi a quelli biologici. Il cambiamento culturale non mostra uno schema evoluzionistico.

2. La spiegazione funzionale nell’analisi sistemica e nell’interpretazione disposizionale

Come abbiamo già accennato, E. Nagel e G. Cohen hanno tentato di riaffermare il senso e il valore euristico della spiegazione funzionale contro le critiche ad essa indirizzate e senza un riferimento diretto alla necessità dell’identificazione di meccanismi.

Nagel ha cercato di togliere ogni aura metafisica a questo tipo di spiegazione, mostrando che essa non è assimilabile a una versione moderna della causa finale aristotelica. Si consideri la domanda: perché gli uomini hanno i polmoni? La spiegazione chiama in causa il ruolo dell’ossigeno nell’organismo e il suo passaggio dall’aria al sangue attraverso i polmoni. Non vuole specificare il funzionamento corretto dei polmoni, ma descrivere il ruolo che essi hanno nell’espletare delle attività biologiche fondamentali per il corpo umano. Essa, quindi, non individua una regolarità, ma una funzione «necessaria al mantenimento o allo sviluppo di un determinato processo». Per questo è facile trovare il concetto di spiegazione funzionale associato a quello di «scopo». Da qui deriva la definizione «spiegazione teleologica», con tutte le difficoltà che il termine «scopo» ha per lo scienziato moderno.

Il finalismo è, in effetti, assente dalla ricerca scientifica contemporanea. Esso tuttavia aveva una sua ragion d’essere: riuscire a spiegare dei processi, non solo biologici, nei termini dell’obiettivo a cui, intenzionalmente o meno, essi tendono. La spiegazione funzionale affronta proprio quest’aspetto. Accettata l’importanza della spiegazione causale, essa non mira, tuttavia, a spiegare un processo tramite scopi intenzionali o non intenzionali. Vuole invece, secondo il modello proposto da Nagel, mettere in luce le «condizioni necessarie e sufficienti» affinché un certo processo – umano, sociale, biologico, artificiale – si realizzi (11). Seguendo un esempio di Nagel stesso, esaminiamo quali concetti sono usati per spiegare in termini funzionali il ruolo della clorofilla nelle piante: «ʻLa funzione della clorofilla nelle piante è quella di permettere ad esse di realizzare la fotosintesi (cioè di formare amido da anidride carbonica e da acqua in presenza della luce solare)̓. Quest’enunciato rende ragione della presenza della clorofilla (una certa sostanza A) nelle piante (in ogni elemento S di una classe di sistemi, ciascuno dei quali ha una certa organizzazione C di parti componenti e di processi). Ciò viene fatto dichiarando che, quando si forniscono a una pianta acqua, anidride carbonica e luce solare (quando S è situata in un certo ambiente E ʻinterno̓ e ʻesterno̓) essa produce amido (vi si compie un certo processo P che fornisce un determinato prodotto o risultato) solo se la pianta contiene clorofilla. L’enunciato solitamente porta con sé l’implicita assunzione supplementare che senza amido la pianta non può proseguire le sue attività caratteristiche, quali la crescita e la riproduzione (non può conservarsi in un certo stato G); per il momento però ignoreremo quest’ulteriore assunzione. Di conseguenza, l’enunciato teleologico è un ragionamento in forma abbreviata così che quando se ne espliciti il contenuto, esso può venir reso approssimativamente nel modo seguente: se sono fornite di acqua, di anidride carbonica e di luce solare, le piante producono amido; se non hanno clorofilla, le piante anche se in possesso di acqua, di anidride carbonica e di luce solare, non producono amido; quindi le piante contengono clorofilla. Più in generale un enunciato teleologico della forma: la funzione di A in un sistema S con organizzazione C è quella di rendere possibile a S, in un ambiente E, di impegnarsi in un processo P può essere formulato più esplicitamente così:
«Ogni sistema S con organizzazione C in un ambiente E s’impegna in un processo P; se S con organizzazione C e in un ambiente E non dispone di A, allora S non s’impegna in P, quindi S con organizzazione C deve disporre di A» (12).

Analizzando il passo precedente rileviamo, innanzitutto, il concetto di sistema S. Esso indica un insieme di elementi posti in una relazione tale che il modificarsi di uno di essi (sia l’elemento che la relazione stessa) può indurre il modificarsi di tutto il sistema. Abbiamo poi il concetto di organizzazione C. Esso indica la «disposizione effettiva» (con diversi gradi di libertà e vincoli) di relazioni ed elementi (tra cui un fattore A, in questo caso la clorofilla) e i legami chimici che formano la pianta. Si hanno poi le relazioni ammesse dalla chimica e dalla fisica del sistema (la fotosintesi, per esempio) sia all’interno sia in rapporto con l’ambiente. È quindi necessario defi- nire un ambiente E e, più esattamente, è necessario distinguere il sistema dall’ambiente in cui è inserito. In questo modo è possibile definire le perturbazioni a cui il sistema va incontro e distinguerle dalle trasformazioni che i risultati dei suoi processi producono sull’ambiente. Per poter operare questa distinzione, si deve essere in grado di definire almeno un processo P specifico del sistema S, definibile azione del sistema, nell’esempio riportato, il processo di fotosintesi. L’azione del sistema è necessaria per determinare il suo stato di equilibrio o disequilibrio rispet- to all’ambiente. In questo modo la spiegazione funzionale si integra con un approccio sistemico che introduce nella letteratura sulla spiegazione scientifica una notevole novità concettuale. Ne richiamiamo qui alcuni aspetti. Anzitutto, ogni elemento del sistema è considerabile un sistema di livello inferiore (sottosistema) e, a sua volta, ogni sistema è considerabile elemento di un sistema di livello superiore («ricorsività»). Si pone allora il problema di scegliere il livello di osservazione. È questa una scelta che spetta al ricercatore che isola, all’interno di un determinato ambiente, un insieme di processi specifici, e lascia sullo sfondo le altre relazioni che possono darsi nell’interazione tra sistemi. Ogni scienza ha elaborato un insieme di strumenti, concettuali e tecnici, per determinare il livello di osservazione rispetto al quale un insieme di relazioni acquista significatività e può essere definito «sistema». Risulta chiaro quindi che la spiegazione funzionale non si propone di individuare cause finali, ma di stabilire condizioni di equilibrio. Non è importante, inoltre, conoscere in che modo una certa funzione viene assicu- rata. Ciò che deve essere messo in evidenza sono le condizioni e i meccanismi adattativi grazie ai quali il sistema continua a svolgere un suo processo. La spiegazione funzionale non esclude naturalmente la ricerca delle «cause specifiche di determinati comportamenti del sistema». La spiegazione causale, tuttavia, incontra dei limiti a causa del numero dei fattori coinvolti, della loro variabilità e interazione. Spesso, l’unico obiettivo che si può raggiungere è individuare le «condizioni di equilibrio» nell’ambito delle quali il sistema può variare continuando a svolgere un certo processo (13).

Come già anticipato, un altro tentativo di difendere la spiegazione funzionale senza un riferimento diretto a forme di microfondazione è quello di G. Cohen. L’analisi di Cohen, tralasciando considerazioni di tipo sistemico, si focalizza, in particolare, sulle critiche precedentemente richiamate sull’inversione della sequenza causale. Per evitare queste critiche, la spiegazione funzionale viene riformulata attraverso i concetti di «fatto disposizionale» (dispositional fact) e di «legge di conseguenza»(consequence law). Una «legge di conseguenza» è un’asserzione condizionale il cui antecedente è un’asserzione causale ipotetica che definisce/identifica un fatto disposizionale. Formalmente: se si dà il caso che, se E accade esso provoca F (fatto dispo- sizionale), allora E accade (14), dove E ed F indicano eventi o classi di eventi:

(E → F) → E
Può essere utile, per meglio comprendere la struttura di questa asserzione complessa, visua- lizzarla nel seguente schema nel quale:
X= se E accade esso provoca F
Y= E accade

Legge di conseguenza nella forma di asserzione condizionale

 

Il condizionale «se E allora F» viene definito fatto disposizionale, perché generalizza la disposizione/propensità di un certo evento, in certe condizioni, ad avere un certo effetto. Più specificamente generalizza la disposizione/propensità, in una determinata società, di una certa pratica o di una certa istituzione a causare un determinato effetto utile (15). L’analisi di alcuni esempi chiarirà meglio la struttura logica e le connessioni. Consideriamo l’affermazione «la danza della pioggia ha, in situazioni di tensione, la funzione di ristabilire la coesione sociale». Essa, come si è osservato più sopra, è una tipica asserzione funzionale ingenua. Traduciamola nella consequence law. Formalmente: se si dà il caso che, se la danza della pioggia viene messa in atto essa causa un alleviamento della tensione, allora la danza viene messa in atto. Se si dà il caso che, se E accade esso provoca F (fatto disposizionale), allora E accade e in simboli:
(E → F) → E.

L’antecedente, (E → F), come abbiamo detto, esprime il fatto disposizionale. Il fatto disposizionale generalizza la propensità di varie pratiche rituali, tra cui la danza della pioggia, a causare coesione. Una determinata società ha caratteristiche tali da sviluppare certe pratiche piuttosto che altre per ristabilire la coesione. Una formulazione alternativa è, inoltre, la seguente: l’evento e, danza della pioggia al tempo x nella società y, si è verificato a causa della sua propensità (disposizione) a causare l’evento f, coesione sociale in quella stessa società, perché ogni volta che la classe di eventi E (insieme di pratiche rituali) causa la classe di eventi F (alleviamento tensione, coesione sociale…) la classe di eventi E si verifica. È utile fare riferimento anche ad altri due esempi forse meno tradizionali, solo accennati da Cohen nella sua analisi, e che possiamo sviluppare ed esporre più dettagliatamente e analiticamente come segue.
Consideriamo l’asserzione: «Una determinata descrizione del conflitto industriale da parte della stampa conservatrice ha la funzione di rafforzare il dominio della classe capitalista». Se vogliamo tradurla nella forma della consequence explanation, dobbiamo innanzitutto identificare la disposizione che può avere, in una certa società e sotto certe condizioni, un certo modo di descrivere il conflitto industriale (16), da parte della stampa conservatrice, ad essere funzionale alla classe capitalistica (mette in cattiva luce i lavoratori e sottrae loro consensi, fa mobilitare altre classi sociali in opposizione ai lavoratori). Possiamo poi formulare il fatto disposizionale e la consequence law secondo la solita enunciazione formale in base allo schema (E → F) → E. Abbiamo allora: se si dà il caso che, date determinate condizioni di una determinata società, se il conflitto industriale viene descritto in un certo modo da parte della stampa conservatrice ciò ha un effetto positivo per la classe dominante, allora esso viene descritto in quel modo.

Un ulteriore esempio è quello delle economie di scala. In termini molto semplificati, con economie di scala si intende un fenomeno economico per cui, oltre e solo oltre un certo livello di produzione, partendo da una certa quantità di fattori (input) si ottiene un prodotto (output) più che proporzionale. Consideriamo allora l’asserzione «l’aumento della scala di produzione ha la funzione di permettere il verificarsi di economie di scala» (che provocano il risparmio sui costi e l’aumento dei profitti) e traduciamo anch’essa nella formulazione della consequence law. Il fatto disposizionale può essere formulato come segue: l’aumento della scala di produzione ha la disposizione a produrre, in certe condizioni, (capacità tecnica e di organizzazione, possibilità di concentrazione, reti di trasporti e infrastrutture varie sufficientemente sviluppate, controllo sul lavoro che l’aumento della scala di produzione rende possibile) delle economie di scala, quindi a rendere possibile il risparmio sui costi e l’aumento dei profitti. E da qui ancora una volta:

Se si dà il caso che, se si verifica un aumento della scala di produzione esso porta all’instaurarsi delle economie di scala, allora l’aumento della scala di produzione si verifica.

La spiegazione funzionale trova un’applicazione particolarmente significativa, secondo Cohen, all’interno del materialismo storico, in quanto offre una struttura logica valida per chiarire il rapporto tra forze produttive e rapporti di produzione. Secondo lo schema precedentemente spiegato, quindi: se E sono i rapporti di produzione ed F le forze produttive allora E si afferma perché in una data situazione – quindi in una serie di società storicamente determinate – esso causa normalmente lo sviluppo di F. Passando al solito schema: se si dà il caso che, se E ac- cade esso provoca F (fatto disposizionale), allora E accade, (E → F) → E (17). Se si dà il caso che, se determinate relazioni di produzione si instaurano esse hanno come effetto di favorire lo sviluppo delle forze produttive, allora quelle relazioni si instaurano. L’evento e (instaurazione di un certo insieme di rapporti di produzione, in determinato tempo/luogo) si è verificato a causa della sua propensità (disposizione) a causare l’evento f (sviluppo delle forze produttive in determinato tempo/luogo) perché, ogni volta che la classe di eventi E (instaurazione di certi rapporti d produzione) causa la classe di eventi F (sviluppo delle forze produttive), la classe di eventi E si verifica.

Per ricapitolare. Data la pretesa centrale di una spiegazione funzionale – le pratiche sociali esistono per promuovere certi effetti – un aspetto cruciale è evitare l’impasse logica per cui eventi futuri causerebbero eventi presenti. A questo scopo, una spiegazione funzionale deve definire dei processi che legano le conseguenze causali di un fenomeno o di un’entità alla sua esistenza. Come abbiamo visto, Cohen ha tentato di elaborare dettagliatamente un modello centrato proprio su questo aspetto, sostenendo che le spiegazioni funzionali sono una sottorubrica di quelle forme di spiegazione definibili consequence explanation, nelle quali, per stabilire che una certa pratica sociale A esiste perché causa B, è necessario definire una legge che collega la disposizione di A a causare B con l’esistenza di A. Ciò significa riuscire a mostrare che ha valore di legge il fatto che quando A ha effetti/conseguenze utili, esso viene in essere. Quella così definita è una consequence law, una legge di conseguenza. Una spiegazione funzionale è allora una forma di spiegazione che fa riferimento a una legge di conseguenza. Nella consequence ex- planation, come precedentemente esemplificata in vari modi, è il rapporto tra fatto disposizionale e occorrenza dell’evento in questione che ha valore esplicativo e questo rapporto, a livello logico formale, rispetta il normale ordine temporale causale. Tuttavia, anche se l’enunciazione formale è corretta, resta il problema di stabilire la «necessità» del rapporto tra fatto disposizio- nale ed evento, altrimenti il rischio di stabilire una correlazione spuria è, anche, e in particolare, nel caso della consequence explanation, effettivamente presente.

Neppure l’approccio sistemico precedentemente esaminato offre una soluzione per questo problema. Tuttavia, proprio a partire dall’insistenza sulla difficoltà, in alcuni casi, di mettere in luce chiare relazioni causali, esso offre un quadro forse più strutturato che compensa, almeno in prima istanza, questa difficoltà. La necessità del rapporto tra fatto disposizionale ed occorrenza dell’evento che si desidera spiegare (che in effetti nel modello di Cohen resta non chiarita dal punto di vista logico, (nel linguaggio sistemico, il rapporto tra la funzione di classi di eventi di tipo A all’interno di classi di processi di tipo P, e il verificarsi dell’evento a appartenente ad A) è «decentrata» sulla necessità di un insieme di condizioni di contesto che sopperiscono, almeno in via provvisoria, all’identificazione del meccanismo che attua la relazione di funzionalità.

Se allora volessimo tradurre gli esempi di Cohen nello schema sistemico, avremmo all’incirca (18): la funzione dei mezzi di comunicazione favorevoli alla classe dominante (A), in una determinata nazione (S) con una determinata struttura sociale (C), è quella di rendere possibile a S, in un momento di tensione sociale, di impegnarsi in un processo P di ripristino dell’equilibrio. Una società S (una determinata nazione) di organizzazione C (con una struttura sociale capitali- stica) in un ambiente E (in un momento di conflitti e tensione sociale) si impegna in un processo P (la risoluzione di una crisi, il ripristino dell’equilibrio); se S non dispone dell’elemento A (dei mezzi di comunicazione favorevoli alla classe dominante) allora S non può impegnarsi nella risoluzione della crisi, quindi S deve disporre di A.

Passando ancora una volta alle asserzioni fondamentali del materialismo storico: la funzione di A (un determinato insieme di relazioni di produzione) in una data società S (storicamente e geograficamente determinata) di organizzazione C (C distinto da A che esprime solo un aspetto di S) in un ambiente E (una situazione di sufficiente tranquillità politica, quindi non durante una guerra o una crisi sociale acuta ecc.), è quella di rendere possibile ad S in un ambiente E di impegnarsi nel processo P (lo sviluppo delle forze produttive). Ogni società S di organizzazione C in un ambiente E si impegna nello sviluppo delle forze produttive. Se S non dispone dell’ele- mento A (determinate relazioni di produzione) non può impegnarsi nello sviluppo delle forze produttive, quindi S deve disporre di quelle relazioni. La funzione di A (determinati rapporti giuridici) in una società S di organizzazione C (in questo caso C indica le relazioni di produzio- ne) è quella di permettere ad S di impegnarsi in P (stabilizzare le relazioni di produzione). Ogni società S di organizzazione C in un ambiente E cerca di stabilizzare le relazioni di produzione. Se S non dispone dell’elemento A (determinati rapporti giuridici) non può rendere stabili le relazioni di produzione, quindi S deve disporre di quei determinati rapporti giuridici.

L’espressione «quindi deve» fa riferimento, in maniera solo apparentemente paradossale, a un insieme di condizioni causali che fanno venire in essere l’insieme dei processi P. Queste condizioni causali sono necessarie ma in prima istanza possono non essere indagate. Questo fatto non altera la validità teorica del modello.

3. Microfondare la spiegazione funzionale

Se la soluzione che emerge dallo schema sistemico lascia insoddisfatti, la via più diretta per affrontare il problema evidenziato nel precedente paragrafo – mettere in luce la «necessità» del rapporto tra fatto disposizionale ed evento, per evitare il rischio di stabilire una correlazione spuria – sembrerebbe quella di cercare di capire cosa connette una certa pratica alla sua utilità. Nei nostri esempi, questa connessione potrebbe essere in prima istanza descritta secondo le linee seguenti: nel primo esempio, molto semplicemente, alcuni individui hanno notato che mettere in atto la danza provoca una forma di alleviamento della tensione, riscontrabile attraverso una serie di segni facilmente identificabili. Essi hanno sufficiente potere e carisma e riescono a convincere gli altri a praticarla nuovamente anche senza spiegare questi effetti positivi. Nel secondo esempio, possiamo avanzare l’ipotesi che, casualmente, un mezzo d’informazione un certo giorno, in un certo luogo, abbia descritto un determinato conflitto tra padroni e operai in termini negativi per questi ultimi. Alcuni appartenenti alla classe capitalista notano che in quel contesto questo fatto aliena consensi agli operai mettendoli in cattiva luce. Essi cominciano allora, in vari modi, a fare pressioni su vari giornalisti affinché altre situazioni simili vengano descritte nello stesso modo. Una descrizione secondo linee analoghe può essere fatta per l’esempio delle economie di scala e per il rapporto tra forze produttive e rapporti di produzione. Qui stiamo, in effetti, collegando il darsi di una certa relazione a livello macro secondo una certa modalità, con eventi/fatti riguardanti un livello individuale. A questo livello, identifichiamo un meccanismo che in questo caso può essere descritto in senso molto ampio come «rinforzo». Lo schema ana- litico più generale in cui il concetto di rinforzo rientra è quello di condizionamento operante. P. Van Parijs lo propone come alternativa alle natural selection explanations che, come è stato osservato, hanno una possibilità di applicazione molto limitata nelle scienze sociali.

Nel condizionamento operante, il comportamento di un individuo (e più in generale, di un organismo) viene plasmato inducendo in esso, attraverso ricompense e punizioni, uno stato di soddisfazione o insoddisfazione associato a determinate azioni. L’individuo stesso le compirà o le eviterà prevedendo rispettivamente il piacere e il dolore ad esse collegati. Ad un certo momento, inoltre, egli riuscirà a prevedere i diversi esiti connessi a comportamenti diversi e a cogliere il collegamento causale tra il comportamento messo in pratica e la sua funzione. Per questo motivo, il rinforzo implica una forma di scelta nell’individuo in cui si attua. Il rinforzo si basa su un livello assoluto di soddisfazione. Se questo livello, anche se basso, si trova, tuttavia, al di sopra di un certo valore soglia, l’organismo non è motivato alla ricerca di nuovi comportamenti. Se, al contrario, questo valore soglia viene oltrepassato, il processo di cambiamento ha inizio. In generale, il rinforzo può realizzarsi sia come instaurazione di stati positivi di soddi- sfazione sia come alleviamento della tensione (19). Come già era chiaro negli esempi precedenti, nello schema appena proposto un punto fondamentale è la possibilità, da parte di qualcuno al tempo x nel luogo y, di cogliere il collegamento tra comportamento e la sua funzione. Non è necessario che questo riconoscimento sia globale. Nella gran parte della popolazione la connes- sione può non essere compresa e il comportamento può diffondersi, per esempio per imitazione. Questa ipotesi permette di conservare all’interno di questo modello esplicativo il concetto di funzione latente. Si osservi però che, se è accettabile l’ipotesi di diversi livelli di consapevolezza rispetto all’utilità di un certo comportamento o evento, in questo schema vi è un problema non trascurabile che potremmo definire dell’effetto soglia. Qual è il numero minimo di indivi- dui la cui coscienza di un processo causale in atto è necessaria affinché questo processo si ripeta  un numero sufficiente di volte da innescare forme di imitazione?

4. Costruzione di un’evidenza empirica adeguata per la spiegazione funzionale

Evidenziato questo aspetto, vediamo quale può essere una strategia di conferma alternativa. Potremmo tentare di stabilire un forma di evidenza empirica adeguata per il fatto disposizionale e la legge di conseguenza e vedere se è sufficiente. Secondo uno schema molto generale, sem- pre riprendendo gli esempi precedenti, nel caso della danza della pioggia, potremmo imporre le seguenti condizioni: 1) deve essere accertato empiricamente che ogni volta che si creano si- tuazioni di tensione, una determinata società, con determinate caratteristiche, mette in atto una forma di interazione sociale/atto rituale definito danza pioggia; 2) deve essere accertato empiri- camente che in seguito a questa pratica si ristabilisce coesione. Allo stesso modo, nell’esempio del conflitto industriale, 1) deve essere accertato empiricamente che, ogni volta che si verificano determinate condizioni (ad esempio di scioperi ripetuti, disordini ecc.), una parte della stampa descrive il conflitto in un certo modo (fa perdere giornate di lavoro, fa diminuire il PIL, la qualità dei prodotti ne risente, crea disagi, mette a rischio il posto di altri lavoratori); 2) deve essere accertato empiricamente che, sotto certe condizioni, ciò ha un effetto utile alla classe capita- lista (mette in cattiva luce i lavoratori e sottrae loro consensi, fa mobilitare altre classi sociali contro la classe lavoratrice (20). Sviluppando questi spunti, vogliamo ora esaminare la possibilità appunto di costruire un’evidenza empirica valida ed accurata come base per una spiegazione funzionale. Questo aspetto è stato analizzato in profondità in particolare da H. Kinkaid.

Secondo quest’ultimo, lo schema teorico proposto da Cohen può costituire un primo passo verso una forma di spiegazione funzionale fondata, ma non è ancora sufficiente. È possibile avere una legge di conseguenza ben confermata che correla gli effetti utili di A e la sua esistenza, senza avere una spiegazione funzionale adeguata. Questa correlazione non stabilisce, infatti, un rapporto causale. Mostrare che una certa pratica esiste quando ha certi benefici non signi- fica provare che essa effettivamente viene in essere perché ha questi benefici. Per esempio, gli organi mobili negli animali hanno questa caratteristica probabilmente perché essa contribuisce alla loro fitness. Le piante avrebbero giovamento se potessero cambiare luogo per catturare la luce del sole, ma questo è ovviamente impossibile. Allo stesso modo, le grandi aziende esistono perché le economie di scala contribuiscono alla loro sopravvivenza. Questo non significa però che un’azienda automaticamente divenga più grande ogni volta che il suo ampliamento avrebbe effetti benefici. Questo passaggio può essere impedito da mancanza di risorse, miopia orga- nizzativa e altri fattori. Vi sono, secondo Kinkaid, aspetti validi della proposta di Cohen, che possono essere riformulati in modo più plausibile all’interno di uno schema causale, il quale allo stesso tempo salva l’idea della persistenza di una certa pratica legata alla sua utilità. Questo schema causale può essere precisato tramite le tre seguenti asserzioni:

1) A causa B
2) A persiste perché causa B
3) A precede causalmente B

La prima condizione è una normale asserzione causale. La seconda asserzione è il punto cruciale: un certo processo sociale ha un certo effetto, e quando ciò avviene c’è un meccanismo causale che assicura che A continua ad esistere. Quando la pratica smette di avere quel deter- minato effetto, il meccanismo causale smette di operare. Anche la seconda asserzione è un’as- serzione causale. Essa non si richiama ad effetti futuri oppure, come nel caso della legge di conseguenza, ad effetti potenziali, cioè agli effetti che avrebbe qualora fosse in essere. Quindi, A causa B e ciò causa il fatto che A continua ad esistere nel momento successivo. L’asserzione 3) assicura che il processo può iniziare con A ma non con B. Inoltre, se B in qualche modo si verifica indipendentemente da A, non ha come conseguenza A. Se A persiste allo scopo di mantenere B e questo avviene su un arco di tempo sufficientemente lungo, le condizioni 1) e 2) produrranno una catena causale come la seguente (21):

At1 → Bt2 →At3 → Bt4

Come specificato appena sopra, la condizione 3) afferma che questo processo può iniziare con A ma non con B. Se B per qualche ragione viene in essere prima, non produrrà A. Per esempio, ammettiamo che i riti d’iniziazione esistano per realizzare la solidarietà sociale. La condizione 3) asserisce che è possibile fornire questa spiegazione funzionale solo nel caso in cui, qualora la solidarietà sociale si verificasse per ragioni indipendenti, essa non avrebbe come effetto il verificarsi di riti d’iniziazione, dando il via alla catena mostrata sopra. È in questo senso dunque che i riti devono avere una priorità causale. Specificare queste condizione evita i problemi precedentemente accennati, cioè il fatto che i tratti adattivi di un organismo non necessariamente presentano meccanismi di omeostasi, ovvero non necessariamente mutano da- vanti a fattori esterni di disturbo. In base alle condizioni ora specificate, se qualcosa impedisce ad A di causare B, non c’è nessuna garanzia a priori che A cambi in maniera adeguata. In questo modo è evitato, a differenza che nello schema di Cohen, il problema della correlazione spuria, perché la condizione 2) è una condizione causale. Le correlazioni spurie, come in qualsiasi analisi causale, sono un rischio, ma in questo nuovo schema esse non sono rese possibili dalla forma stessa della spiegazione come nel caso di Cohen. Lo stesso schema assicura inoltre che le spiegazioni funzionali non sono invertibili. Questo significa che le condizioni 1) e 2) escludono anche una forma di causalità reciproca. Esse assicurano cioè, che se A esiste per produrre B, non segue che B esiste per produrre A. Inoltre, Se A causa B e B fa sì che A cessi di esistere, la condizione 2) non risulta valida. La condizione 3) definisce ulteriormente questo aspetto ed esclude forme di rinforzo reciproco. Se A e B sono in semplice dipendenza reciproca, non è possibile connotare A come esistente allo scopo di provocare/instaurare B. La condizione 3) aiuta allora ad evitare che, se si ammette una forma di causalità reciproca, la spiegazione funzionale diventi troppo indefinita.

Per quanto lo schema appena discusso presenti una naturale esemplificazione nella teoria della selezione naturale, appoggiarsi al concetto di selezione differenziale tramite ereditarietà non è strettamente necessario. Determinate caratteristiche acquisite possono tramandarsi tra- mite apprendimento e imitazione ed anche tramite l’azione intenzionale. Ad agire può essere una combinazione di fattori quali azioni intenzionali, conseguenze non intenzionali dell’azione intenzionale e processi di selezione differenziale delle pratiche sociali. Si osservi inoltre che, in effetti, nel modello precedente non viene richiesto che la funzione di A sia benefica per qual- cuno o qualcosa, e questo rende non necessaria l’ereditabilità. Il modello genetico è quindi una sottospecie del modello più ampio (22). Riprendendo il discorso sopraccennato, vediamo come lo schema proposto da Kinkaid permette, in effetti, di sviluppare un evidenza empirica valida anche a livello statistico. In generale, questa evidenza può essere riportata a due tipologie, eviden- za diretta e indiretta. Nella prima, che è quella che ci interessa di più, ognuna delle 3 precedenti asserzioni – 1) A causa B; 2) A persiste perché causa B; 3) A precede causalmente B – deve essere testata separatamente. Nella seconda si cerca di mostrare che la spiegazione funzionale è compatibile con diversi insiemi di fatti.

Per quanto riguarda allora l’evidenza diretta, come già abbiamo avuto modo di vedere, la prima delle tre condizioni che definiscono una forma accettabile di spiegazione funzionale è una semplice asserzione causale. Per testarla è allora possibile usare gli stessi metodi che usia- mo per testare asserzioni causali. Per quanto riguarda la seconda, dobbiamo riuscire a stabilire che quando A causa B, A continua a sussistere e che ciò avviene in effetti proprio perché A causa B. A questo scopo, possiamo tentare di identificare altre possibili cause ed appurare che la persistenza di A ha una correlazione con la persistenza di B. Questo fatto dimostra che B da solo non è correlato con la persistenza di A e quindi non può iniziare la catena causale. Questo fornisce le prove che sia la condizione 2) che la 3) sussistono effettivamente. Così non può essere la solidarietà sociale a causare le forme rituali di una società. Più formalmente allora, per collegare la spiegazione funzionale ad una forma di evidenza empirica quantitativa di tipo statistico, Kinkaid propone in prima approssimazione la condizione che la spiegazione stessa confermi il seguente modello causale:

1) B = x1A + e1
2) P = x2E + e2

Dove:

A è il tratto o la pratica che deve essere spiegata secondo lo schema funzionale; B è la funzione d A;
P è una variabile che misura la persistenza di A;
E misura se l’equazione 1 vale in un qualche periodo precedente a P;
x è il coefficiente di regressione, e indica il margine di errore (23). Può essere una variabile dummy (24) che prende un valore tra 0 e 1, in base ai risultati dell’equazione. Riguardo a P, è possibile usare vari strumenti statistici per stimare la probabilità che A esista dopo lo stato iniziale.
B può essere una misura di solidarietà sociale e A una misura della frequenza dei riti d’iniziazione. P allora misurerebbe la durata dei riti d’iniziazione, dove E registra se i riti d’iniziazione causano la solidarietà come espresso dall’equazione 1. Altri fattori devono essere controllati e il modello di regressione non basta, tuttavia se abbiamo evidenza sufficiente per queste equazioni possiamo affermare in maniera fondata che A causa B e persiste perché causa B.

Quello presentato da Kinkaid è uno schema approssimativo di come le procedure statistiche possono sostenere la spiegazione funzionale. Resta da appurare se è possibile far riferimento a dati sufficientemente strutturati da costituire una forma di evidenza empirica valida per il modello. Gli antropologi hanno compilato una banca dati sulle piccole società noto come schedario settoriale delle relazioni umane (25).
Questa banca contiene i dati cross-section su centinaia di società. Se oltre ad essi, contenesse anche dati su serie storiche riguardanti pratiche sociali, la risposta alla precedente domanda sarebbe positiva. Il fatto che questi dati non siano, al momento, disponibili non significa quindi che il modello, in linea di principio, non possa essere testato. Un’altra forma di evidenza diretta per questo modello consiste anche nel mostrare che si verifica una forma di selezione/sopravvivenza differenziale attraverso il manifestarsi di deter- minati tratti. Se siamo in grado di mostrare che alcuni tratti di una determinata entità sociale S contribuiscono al suo persistere nel tempo, abbiamo l’evidenza iniziale che A esiste grazie alla sua funzione.
Così, rispetto allo schema precedente, A sono i riti d’iniziazione e B è una qualche misura di sopravvivenza di una certa istituzione. Riuscire a mostrare una correlazione non spuria tra A e B rappresenta un’evidenza per l’equazione 1 e quindi rappresenta un’evidenza per l’ipotesi avanzata, secondo la quale i riti d’iniziazione causano la sopravvivenza. Tuttavia, mostrare che A contribuisce in qualche modo alla sopravvivenza non è sufficiente. Per mostrare che A esiste allo scopo di contribuire alla sopravvivenza, dobbiamo mostrare che questo fatto è la causa del persistere di A. È chiaro però che i riti d’iniziazione possono essere la causa della sopravvivenza di una certa entità sociale e tuttavia non persistere, perché ad esempio l’entità sociale che sopravvive cambia la sua fisionomia troppo velocemente. È anche possibile che una certa pratica causi effettivamente la sopravvivenza di una certa entità sociale ma non persista a causa di ciò bensì per altre ragioni. È per questo che abbiamo bisogno dell’evidenza eventualmente prodotta dall’equazione 2. Nella selezione naturale darwiniana questa evidenza è data dalla possibilità di stabilire l’ereditabilità di quei tratti, ma questa, secondo Kinkaid, non è una condizione necessaria. Il meccanismo della selezione naturale è solo una sottospecie della spiegazione funzionale interpretata secondo il modello appena esposto. Le entità a cui si fa riferimento in questo tipo di spiegazioni, quindi, non devono essere necessariamente entità che si riproducono. Da questo punto di vista, allora, nelle scienze sociali è sufficiente riuscire a mettere in luce qualsiasi processo equivalente che colleghi il contributo di un determinato tratto alla sopravvivenza con il suo persistere (26).

Conclusa la nostra esposizione delle due diverse strategie esplicative – quella fondata sul meccanismo a livello micro del rinforzo e quella sull’evidenza statistica a livello macro – possiamo domandarci quando una forma di evidenza empirica a livello macro può essere autonoma e quando invece è necessario il ricorso a meccanismi. Per quanto il concetto di rinforzo sia convincente quale meccanismo più o meno generale sottostante una forma di connessione funzionale, esso costituisce comunque una forma di argomentazione indiretta. Se siamo riusciti a mettere in luce una forma di evidenza empirica come quella definita dalle equazioni viste precedentemente, potremmo ipotizzare che il meccanismo sottostante sia una forma di rinforzo secondo le modalità descritte, anche se non abbiamo una prova diretta di ciò. In altre parole, quale istanza legata ad un principio di completezza esplicativa, potremmo postulare un meccanismo coerente con il tipo di evidenza macro e le correlazioni stabilite su questo livello, anche se non è possibile identificarlo effettivamente. Viceversa, se non riusciamo a mettere in luce l’evidenza empirica necessaria potremmo comunque ipotizzare all’opera questo meccanismo, ma chiaramente il valore esplicativo delle nostre conclusioni è minore. La nostra resta un’ipo- tesi astratta, a meno di non riuscire a costruire evidenza empirica per il rinforzo stesso, di non riuscire, cioè, ad identificare effettivamente quando, in quali gruppi sociali e in quali contesti il rapporto tra evento/pratica e sua funzione positiva è stato registrato. Questo però può porre difficoltà ancora maggiori che non la messa in luce dell’evidenza empirica a livello macro, fatta attingendo a fonti più facilmente reperibili e utilizzabili. È per questo che, pur non menzionando il problema della costruzione di un’evidenza empirica adeguata, la tesi originaria di Cohen, secondo la quale una consequence explanation può essere valida anche senza l’identificazione di un meccanismo sottostante, sembra essere sensata.

Conclusione

Possiamo così riassumere i punti della nostra analisi, partendo dalla riformulazione del problema centrale di una spiegazione funzionale valida. Questo problema consiste, come abbiamo visto, nel riuscire a spiegare come una certa pratica esiste grazie a suoi effetti positivi senza introdurre una forma di teleologia oggettiva, senza cioè postulare, nelle dinamiche sociali, una valenza positiva – in termini economici, psicologici, culturali – per un determinato gruppo o classe sociale (in particolare quella dominante), a meno che non sia identificabile un chiaro disegno in questo senso da parte del suddetto gruppo o classe. Abbiamo esaminato la soluzione proposta da Nagel per risolvere in un contesto più generale, il problema della teleologia. L’at- tenzione viene spostata dalla ricerca di meccanismi causali alle condizioni di equilibrio di un sistema definito rigorosamente. Elster, coerentemente con la sua posizione generale, ritiene che un riferimento a meccanismi sia sempre necessario. Tuttavia l’unico tipo di meccanismo che, secondo lui, riesce ad evitare la teleologia è quello della selezione naturale. La caratteristica principale del meccanismo tipo selezione naturale è in generale la casualità e la non consapevolezza. Casuale è innanzitutto la variabilità dei caratteri. Possono esserci caratteri favorevoli, neutrali o sfavorevoli. É l’ambiente che fa prevalere gli individui con i caratteri più favorevoli. Casuale e non consapevole è poi la fonte della variabilità che è stata identificata dalla genetica nei meccanismi della mutazione e della ricombinazione genetica aventi luogo con la riproduzione sessuata. Abbiamo visto che questo tipo di meccanismo non è applicabile in modo diretto e a-problematico all’ambito sociale se non in casi molto ristretti. G. Cohen ritiene invece che, se la spiegazione funzionale è formulata correttamente a livello logico e se si riescono a mettere in luce certe condizioni, il riferimento a meccanismi non è necessario. Cohen sembra effettiva- mente riuscire nell’obiettivo poco sopra definito, cioè formulare una spiegazione che dia conto del fatto che una certa pratica esiste grazie a suoi effetti positivi ma senza introdurre una forma di teleologia. Ciò viene fatto tramite l’ uso, come abbiamo visto, del concetto di fatto disposizionale e di legge di conseguenza. Anche se questa formulazione riesce, in effetti, ad evitare una delle critiche più forti alla spiegazione funzionale, cioè quella di invertire il rapporto causa effetto, abbiamo evidenziato alcuni problemi irrisolti che possono riproporre il rischio di forme di correlazione spuria.

In tal senso sono state identificate due possibili soluzioni teoriche. La prima è quella di cercare effettivamente un meccanismo che connette il persistere di una certa pratica ai suoi effetti po- sitivi, purché questo meccanismo sia diverso dalla selezione naturale. Si è quindi accennato al concetto di rinforzo secondo il quale alcuni individui all’interno di un ambito sociale più ampio diventano consapevoli delle conseguenze positive di una certa pratica e agiscono affinché essa sia mantenuta. Al resto della popolazione essa può estendersi semplicemente per imitazione senza la coscienza dei suoi vantaggi. In questo modo, il concetto di funzione latente, cioè della funzione, per quanto riguarda una certa pratica, non voluta e non riconosciuta da coloro che la attuano, viene parzialmente conservato.

La seconda soluzione, già implicita nello schema di Cohen ma non sviluppata da quest’ultimo, mira a stabilire un forma di evidenza empirica adeguata per il fatto disposizionale e la legge di conseguenza. In questa direzione, come abbiamo visto, si è mosso H. Kinkaid, a partire da alcune critiche allo schema di Cohen stesso e da una sua riformulazione. Kinkaid ha mostrato la possibilità di costruire un’evidenza empirica sofisticata a livello macro in grado di confermare proprio la pretesa teorica più forte della spiegazione funzionale cioè che una pratica persiste perché ha conseguenze positive. Ci siamo domandati quando una forma di evidenza empirica può essere autonoma e quando invece è necessario il ricorso a meccanismi. Abbiamo visto che, se costruita adeguatamente e correttamente inserita in uno schema teorico come quello proposto da Kinkaid, l’evidenza statistica a livello macro presenta la propria autonomia esplicativa.

Riguardo al concetto di rinforzo, abbiamo osservato come esso sia convincente quale meccanismo alla base una forma di connessione funzionale ma rappresenti, in linea generale, una forma di argomentazione indiretta. Si possono dare allora 2 casi: se riusciamo a mettere in luce una forma di evidenza empirica come quella definita dalle equazioni viste precedentemente, potremmo ipotizzare, per completezza esplicativa, che il meccanismo sottostante sia una forma di rinforzo secondo le modalità descritte, anche se non abbiamo una prova diretta di ciò e non riusciamo a identificarlo direttamente. Se, al contrario, non riusciamo a mettere in luce l’evi- denza empirica necessaria, possiamo comunque ipotizzare all’opera questo meccanismo ma, al fine di rendere solide le nostre conclusioni, dovremmo riuscire a costruire un evidenza empirica per il rinforzo stesso. Abbiamo visto che questo significa identificare effettivamente quando, in quali gruppi sociali e in quali contesti la connessione tra evento/pratica e sua funzione positiva è stata avvertita osservando anche, tuttavia, che questo può essere più complicato che non la messa in luce dell’evidenza empirica a livello macro. Sulla base di queste considerazioni abbiamo concluso che la messa in luce di meccanismi può, in realtà, essere interpretata coerente- mente come integrazione alla messa in luce di evidenza empirica diretta e non come principio fondante. Questo insieme di considerazioni ci ha portato ad osservare che la tesi originaria di Cohen, secondo la quale una consequence explanation può essere valida anche senza la messa in luce di un meccanismo sottostante, sembra essere sensata, anche se, come si è rilevato, nella sua analisi viene trascurato il problema della costruzione di un’evidenza empirica adeguata a livello macro.

Sulla base delle considerazioni precedentemente svolte, in contrasto in particolare con la posizione di Elster, possiamo allora avanzare la seguente ipotesi: è possibile, anche se può presentare notevoli difficoltà, produrre una spiegazione funzionale che sia formalmente valida e che sia basata su evidenza empirica costruita in modo accettabile senza conoscere il meccanismo sottostante. Affermare che A persiste grazie ai suoi effetti è accettabile se si è in grado di stabilire una correlazione non spuria tra l’effetto di A e il suo persistere. Specificare il meccanismo sottostante aiuta ad evitare questo pericolo ma non è l’unico metodo. Secondo le linee precedentemente esposte, è possibile confermare asserzioni causali attraverso processi statistici adeguati senza conoscenza dei meccanismi a livello micro e, anche nel caso della spiegazione funzionale, è possibile eliminare la correlazione spuria controllando i fattori che possono intromettersi e creare confusione.

La pretesa avanzata da Elster è invece ragionevole nel caso in cui non sia possibile reperire proprio l’ evidenza diretta necessaria a questo scopo e sia necessario fare ricorso a forme di evidenza indiretta, come nel caso di spiegazioni funzionali basate sul concetto di ottimalità e sulla correlazione tra tratti e ambiente (27). Queste argomentazioni sono accettabili solo se siamo in grado di escludere spiegazioni alternative non funzionali. In questo  caso, a differenza di quello generale, e necessaria riuscire  a dare un abbozzo del meccanismo generale all’opera anche  se non e fondamentale conoscerlo in maniera precisa.

 

 

Note
1       Cfr. F. Barbera, Meccanismi sociali, Bologna, Il Mulino, 2004, cap. 2. Alla base del concetto di teoria di medio raggio vi era la critica al modello neopositivista unificato di spiegazione tramite leggi di copertura. Questa critica metteva in luce l’impossibilità di identificare questo tipo di leggi nelle scienze sociali dove sono possibili solo generalizzazioni di ambito ristretto. Merton ne proponeva diverse, di cui la più nota e la teoria del gruppo di riferimento e il concetto di privazione relativa. Esponenti di primo piano sono, solo per citarne alcuni, i sociologi J. Elster, J. Coleman, R. Boudon, P. Hedstrom, R. Swedberg, P. Abell, A. Stinchombe, D. Gambetta. Gli economisti T. Schelling e T. Cowens.

2       Cfr. J. Elster A Plea  for Mechanisms, in P. Hedström, R. Swedberg, (eds.) Social mechanisms: an analytical approach to social theory, Cambridge, Cambridge University Press, 1998.

3       D. Little, Microfoundations, Methods and Causation, New Brunswick-London, Transaction Publishers, 1998 pp. 242-243

4       Cfr. E. Nagel, La struttura della scienza, Milano, Feltrinelli, 1984.

5       Cfr. G. A. Cohen, Functional explanation: reply to Elster, «Political studies» 28 (1980), pp. 129-130.

6       Cfr. H. Kinkaid, Philosophical Foundations of the Social Sciences: Analyzing Controversies in Social Research, Cambridge, Cambridge University Press, 1996.

7       Cfr. P. Van Parijs, Evolutionary Explanation in the Social Sciences: An Emerging Paradigm,  London, New York, Tavistock, 1981.

8       D. Sparti, Epistemologia delle scienze sociali, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 206.

9       J. Elster, Ulisse e le Sirene, tr. it. di P. Garbolino, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 74-75.

10     Cfr. P. Van Parijs, Evolutionary Explanation in the Social Sciences: an Emerging Paradigm cit.

11     Cfr. G. Boniolo, P. Vidali, Filosofia della scienza, Milano, Bruno Mondadori, 1999.

12     E. Nagel, La struttura della scienza cit., p. 413. Citato in G. Boniolo, P. Vidali, Filosofia della scienza cit., p. 482.

13     G. Boniolo, P. Vidali, Filosofia della scienza cit., p. 483-485.

14     G. A. Cohen, Karl Marx’s theory of history. A defence, Princeton, Princeton University Press, 1978, p. 260.

15     Allo stesso modo in cui una proprietà come «fragile» indica non la necessità ma la disposizione di un certo oggetto a rompersi se si verificano certe condizioni.

16     La descrizione può essere per esempio: fa perdere giornate di lavoro, fa diminuire il PIL, la qualità dei prodotti ne risente, crea disagi, mette a rischio il posto di altri lavoratori…

17     G. A. Cohen, Functional explanation: reply to Elster, «Political studies» 28 (1980), pp. 129-130.

18     Questo schema, come si ricorderà, era stato così formulato: la funzione di A in un sistema S con organizzazione C è quella di rendere possibile a S, in un ambiente E, di impegnarsi in un processo P; da cui, più tecnicamente: ogni sistema S con organizzazione C in un ambiente E s’impegna in un processo P; se S con organizzazione C e in un ambiente E non dispone di A, allora S non s’impegna (non può impegnarsi) in P, quindi S con organizzazione C deve disporre di A. La struttura logica di questo modello ha il suo fulcro nell’espressione controfattuale finale: «se S con organizzazione C e in un ambiente E non dispone di A, allora S non s’impegna (non può impegnarsi) in P, quindi S con organizzazione C deve disporre di A».

19     Cfr. P. Van Parijs, Evolutionary Explanation in the Social Sciences: an Emerging Paradigm cit.

20     Per quanto riguarda l’esempio delle economie di scala, 1) deve essere accertato empiricamente che quando in certe aziende sono stati aumentati gli investimenti, questo aumento si tradotto in capacità tecnica di organizzazione, innovazione tecnologica, miglioramento dei trasporti e diminuzione del tempo di circola- zione, migliore controllo sul lavoro; 2) Deve essere accertato empiricamente che, rispetto alla situazione precedente questo aumento, il rapporto input output è cambiato, cioè ad un certo aumento dell’input è seguito un aumento più che proporzionale dell’output.

21     H. Kinkaid, Philosophical Foundations of the Social Sciences: Analyzing Controversies in Social Re- search cit., p. 111.

22     Ivi, pp. 110-112.

23     Ivi, p. 116.

24     In statistica, con il termine «variabile dummy» si indica una variabile che prende solo i valori 0 o 1 per indicare la presenza o l’assenza di effetti fuori dall’ordinario che potrebbero alterare il risultato di alcuni test o delle previsioni di alcuni modelli, come per esempio guerre o scioperi molto estesi.

25     Human relations area file (HRAF).

26     H. Kinkaid, Philosophical Foundations of the Social Sciences: Analyzing Controversies in Social Re- search cit., pp. 115-116

27     In biologia, per esempio, si cerca evidenza indiretta a favore della selezione naturale mettendo in luce una correlazione tra i tratti di un organismo e il suo ambiente. Una correlazione forte in questo senso può indicare che quel tratto esiste a causa dall’ambiente e può essere la base per riuscire a stabilire, in un secondo tempo, che quel tratto è stato selezionato. Se un certo tipo di agricoltura si verifica solo in certi tipi di ambienti, è possibile sostenere che questo tipo di tecnica ha caratteristiche che determinano la loro persistenza, mentre altre spariscono. In questo senso la correlazione tratti-ambiente suggerisce che le equazioni 1 e 2 possono valere. L’antropologia ecologica fa uso frequente di queste argomentazioni. Possiamo allora interpretare il concetto di ambiente in maniera più ampia includendo fattori sociali ed estendere la possibilità di usare anche in questo caso il concetto di evidenza indiretta. Un’altra forma di evidenza indiretta in biologia è la design analysis, con la quale si mostra che un certo tratto è adattivo, perché risolve i problemi legati all’ambiente che un organismo deve affrontare. Se, in effetti, i tratti che poi  vengono trovati corrispondono  a quelli dell’analisi preliminare,  possiamo avere buone ragioni per ritenere che quel tratto esiste allo scopo di risolvere il problema in questione. Pili precisamente la design analysis usa l’argomento dell’ottimalità, così: riassumibile: 1) Un certo tratto di tipo A massimizzerebbe la fitness e sarebbe la soluzione migliore a certi problemi ambientali. 2) b possibile identificare un processo selettivo il cui risultato sarebbe il tratto ottimale che e stato definito. 3) Viene osservato un tratto corneA.  4) Quindi il tratto osservato esiste effettivamente  per massimizzare  la.fitness e risolvere quei determinati  problemi ambientali ecc. (H. Kinkaid, Philosophical Foundations of the Social Sciences: Analyzing Controversies in Social Research cit.,pp. 117-119).