Sedizione e modernità

La divisione come politica e il conflitto come libertà in Machiavelli e Spinoza

 Filippo Del Lucchese


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. Seditiosissime dicere

Se la parola originariamente è greca, la cosa è almeno altrettanto romana. Non sono certo i latini ad aver inventato il concetto di «sedizione», connaturato all’idea stessa di politica. Quella greca, appunto, e quindi quella occidentale, nella cui eredità ancora ci troviamo. Il fenomeno della seditio, tuttavia, non ricalca completamente la stasi$ dei greci. Sia perché questa è a sua volta un’idea complessa e articolata, sia perché quella attraversa varie epoche e accomuna forme politiche che, sebbene interne a uno stesso ambito culturale, sono tuttavia significativamente differenti, nate e sviluppate, ad esempio, prima in età repubblicana e poi in età imperiale (1).

La distinzione del carattere dello scontro politico, nelle varie epoche della storia romana, è al centro della riflessione di storici e filosofi. Si definisce qui, in particolare, l’idea di un conflitto moderato e «civile», ad esempio quello della plebe che si ritira sull’Aventino, da un conflitto violento, che assomiglia più alla guerra, dunque a una patologia piuttosto che a una normale espressione della vita politica. La differenza fra secessio – un’opposizione moderata e ragionevole – e la seditio – vero e proprio preambolo al bellum civile – tracciano anche i confini di un diverso rapporto delle forze sociali rispetto allo spazio della politica. Se nella prima prevale l’idea di una sospensione della collaborazione – un vero e proprio «sciopero politico» – nella seconda prevale l’impulso ad occupare quello spazio, ad escludere l’avversario e a imporre una diversa norma dei rapporti sociali.

Ma anche questa distinzione trae la sua origine dalla divisione dello spazio politico nella Grecia classica, fra l’«interno» abitato degli elleni, che possono anche scontrarsi, ma sempre con l’idea di una futura riconciliazione, e l’«esterno» popolato dai barbari, che è lecito sottomettere duramente, in quanto schiavi per natura, e con cui nessuna riconciliazione è per definizione ipotizzabile.

La sedizione ha anche a che fare con il «movimento» della politica. I possibili significati suggeriti dal greco stasi$, ad esempio, sono solo apparentemente antinomici, come hanno mostrato alcune profonde indagini storiografiche (2). La stasi$ esprime da un lato il blocco, la crisi senza sbocco di un conflitto fra le parti, ma dall’altro è anche nome d’azione derivato dal verbo ”isthmi, sinonimo di kinhsi$, sollevazione, movimento, in particolare dal basso verso l’alto (3). Complicazione analoga con il latino, dove la seditio sembra derivare, secondo Benveniste, dall’indoeuropeo *swe. La radice implica l’idea della distinzione, il ripiegarsi su se stessi, ma anche lo sforzo di un movimento, di una separazione dall’altro (4).

Il concetto di sedizione richiama il problema teorico più vasto del rapporto fra la politica e il conflitto, in tutte le sue forme. La seditio è un fenomeno ricorrente, concreto e reale che ha segnato la vita politica non solo del mondo classico ma anche degli Stati moderni fin dalla loro nascita. In che modo la filosofia ha saputo, ha potuto, oppure ha voluto occuparsi di questo fenomeno? Qual è la risposta specifica che la filosofia politica moderna ha dato al problema del conflitto e della sedizione nell’epoca della prima formazione degli Stati nazionali? Questa ricostruzione non ha solo il carattere di una semplice curiosità storiografica. Dall’analisi del pensiero politico moderno è possibile trarre alcuni elementi più generali di notevole importanza per interpretare il fenomeno della rivolta e della sedizione sul piano teorico.

Qui mi soffermerò sul pensiero di Machiavelli e di Spinoza, poiché essi rap- presentano, nella prima età moderna, una vera e propria anomalia. Essi costruiscono un pensiero teorico del conflitto – una vera e propria teoria politica della seditio – che fa tremare le fondamenta su cui si reggono i dogmi della politica moderna. Questa, infatti, si rappresenta come un pensiero dell’ordine e della neutralizzazione del fenomeno del conflitto. In particolare, ciò che rende interessante la posizione di Machiavelli e di Spinoza è la loro specifica conclusione sulla relazione fra diritto e conflitto, che non si definisce né come una reciproca esclusione (il diritto inteso come superamento del conflitto) né come un rapporto semplicemente circolare (il diritto come esito e come risultato del conflitto, con anche il compito della sua regolazione). Il rapporto fra diritto e conflitto, per Machiavelli come per Spinoza, ha un ritmo complesso, non lineare, non automaticamente causale. Come vedremo si tratta piuttosto di un rapporto ricorsivo, di compenetrazione e di coessenza, fuori da ogni schema dialettico di composizione o di sintesi dei due termini.

2. Machiavelli e la teoria politica della seditio.

Gli storici della Grecia classica hanno sottolineato l’opposizione fra due modelli utilizzati per descrivere il pensiero e la vita politica di una comunità. Da un lato un modello statico, iconografico, costruito sul mito dell’unità della polis, della convergenza dei suoi cittadini, dell’unità continua e ininterrotta di un tempo immobile. Dall’altro un modello dinamico, diretto a cogliere le differenze, le rotture, la dinamica costitutiva della vita politica, le divisioni e gli  ‘strappi’ che segnano il divenire della comunità.

Sono il modello «degli antropologi» e quello «degli storici», ricostruiti puntualmente nelle opere magistrali di Nicole Loraux (5). Questi due modelli storiografici trovano riscontro, a loro volta, in due modi coesistenti e opposti attraverso i quali gli stessi greci descrivevano la propria città e la vita politica. Il modello degli antropologi, attraverso l’oblio del conflitto, ha come conseguenza la spoliticizzazione del racconto della città. Quello degli storici, invece, riconosce l’immanenza del conflitto nella nozione stessa di politica. Sono gli stessi greci a rappresentare, attraverso le loro opere, la vita politica della polis secondo questa doppia caratteristica. La città greca offre di sé, generalmente, un’immagine spoliticizzata, che tende a obliterare il carattere conflittuale della politica e della sua origine. L’arch,  nome del potere legittimo, viene volentieri preferito al krato$, che indica la superiorità, la sopraffazione, la vittoria sul nemico esterno o su quello interno (6).

Ma oltre il significato ideologico di questa autorappresentazione pacifica e pacificante è opportuno riconoscere il significato delle parole, i concetti che quelle richiamano, i campi semantici da cui derivano. Come si è visto, le aree semantiche della seditio e della secessio, così come della stasi$, rinviano a una problematica che è innanzitutto teorica e filosofico-politica. La filosofia è chiamata in causa, dunque, dalla storia di quei concetti, dalla loro formazione, dall’articolazione che, appunto, proprio gli storici e in particolare gli storici antichi hanno impresso a questi temi. Ecco uno dei motivi per cui due autori come Machiavelli e Spinoza dedicano uno spazio amplissimo all’analisi e all’esperienza storica, che considerano un terreno privilegiato di elaborazione concettuale (7).

Machiavelli utilizza la storia come un vero e proprio Kampfplatz teorico, un campo di battaglia dove si affrontano le forze politiche, le parti della città in conflitto tra loro. Non è uno scontro metaforico, quindi, ma una vera e propria teoria politica del conflitto e della rivolta. Nel Proemio delle Istorie fiorentine, la sua opera più matura, Machiavelli critica i grandi storici della sua città. Essi non hanno affrontato il tema dei conflitti e delle sedizioni che hanno avuto luogo a Firenze.  Egli denuncia così il carattere eccessivamente astratto e idealizzato di queste opere, così come la loro inutilità per la com- prensione della politica reale (8).

Questo atteggiamento, che per Machiavelli è una vera e propria colpa poli- tica oltreché un vizio storiografico, ha una lunga tradizione. L’«oblio» del conflitto rispecchia l’attitudine di molti storici della Grecia classica per cui l’idea di condivisione alla base dell’isonomia è, con le parole di Nicole Loraux, l’immagine che la collettività dei cittadini desidera dare di se stessa, sotto il segno dell’intercambiabilità. Qualcosa di simile a un’utopia, per mascherare ciò che la città non vuole vedere né pensare, cioè che al cuore del politico si trova virtualmente – e a volte realmente – il conflitto e che la calamità della divisione è l’altra faccia della bella città unita.

Ma il tema, nella letteratura classica, ha uno sviluppo più complesso di ciò che può sembrare a prima vista. Lo stesso Platone – maestro appunto di utopia e per questo biasimato da Spinoza – condanna la zoografia come immobilizzazione del vivente, evocando nel Timeo il sentimento che si prova di fronte alla descrizione astratta e costruita secondo un «modello» della poli$: «Ed ora, a proposito di questo nostro Stato che abbiamo descritto, ascoltate quale impressione mi suscita: un’impressione simile, direi, a quella che si prova quando, dopo aver visto dei magnifici animali, dipinti, o anche realmente vivi, ma fermi, si prova il desiderio di vederli in moto, e di dare realtà a qualcuno di  quegli esercizi che sembrerebbero adatti ai loro corpi». È a questo punto che Socrate chiede la descrizione dei conflitti che daratterizzano la citta:

Ecco ciò che io sento considerando questo Stato di cui abbiamo discorso, e vorrei appunto che qualcuno mi esponesse, ragionando, come le lotte, che ogni Stato affronta, proprio queste il nostro affronti (9).

Ma è stato Foucault che, in epoca contemporanea, ha espresso più di ogni altro il carattere conflittuale della storia e il suo significato anfibio: da un lato come espressione dei conflitti, delle lotte, delle rivolte fra le «parti», dall’altro come strumento di lotta teorica, attraverso il colpevole oblio della conquista, dell’oppressione, dei massacri su cui si fonda l’ordine politico moderno. Con Boulainvillier, secondo Foucault, nasce in epoca moderna l’idea di una «controstoria» come illustrazione della «guerra delle razze». La vittoria di alcuni, all’interno di una comunità, è sempre la disfatta di altri. La controstoria illustra come all’origine del legittimo possesso, mostrato come un diritto, vi sia invece il furto, la spoliazione, la violenza (10).

La guerra viene così a ricoprire interamente il diritto. Nella filosofia politica moderna, per esempio nel contrattualismo, la guerra veniva opposta, come una minaccia continuamente incombente, alla politica e al diritto. La sedizione, come una patologia, interrompeva il corso normale e sano della politica. Ora, secondo Foucault, la controstoria di cui parla Boulainvillier ha invece la precisa funzione di svelare la guerra che cova sotto il diritto, proprio come il fuoco cova sotto la brace. La politica e il diritto, dunque, sono la continuazione della guerra con altri mezzi. Questo conflitto inesauribile tenderà a riemergere in ogni aspetto delle relazioni sociali. Foucault si è occupato in particolare della prigione per cui, nel finale di Sorvegliare e punire, ha scritto che in questa umanità centrale e centralizzata, effetto e strumento di complesse rela- zioni di potere, corpi e forze assoggettate da dispositivi di carcerazione multipli, bisogna discernere il rumore sordo e prolungato della battaglia (11).

Ora, lo sforzo teorico di Machiavelli consiste da un lato nel far emergere dalla storia il carattere necessariamente conflittuale della politica, dall’altro nel valorizzare questo aspetto, riconoscendo proprio la sedizione – e più in generale il conflitto – all’origine della libertà.

Come prima cosa, Machiavelli contesta il valore della concordia e del bene comune che, almeno da Aristotele in avanti, erano al centro della tradizione politica occidentale. Per Aristotele esiste una naturale divisione dei ruoli all’interno della società. Padre e figlio, marito e moglie, padrone e schiavo, sono le coppie fondamentali sulla cui base si struttura la vita della comunità. Questa divisione, essendo naturale, ha per ogni individuo un preciso significato normativo. Gli uomini, cioè, devono comprendere come sia necessario […] che si uniscano gli esseri che non sono in grado di esistere separati l’uno dall’altro (12).

Si tratta di una necessità dagli effetti positivi, poiché l’essere che può prevedere con l’intelligenza è capo per natura, è padrone per natura, mentre quello che può col corpo faticare, è soggetto e quindi per natura schiavo: perciò padrone e schiavo hanno gli stessi interessi.

Aristotele pone così un legame indissolubile fra i membri, naturalmente diseguali, della comunità. La disuguaglianza naturale non genera il conflitto ma, al contrario, ispira un sentimento di reciproca amicizia. La differenza fra giusto e ingiusto, in politica, risiede nel bene della comunità, cioè principalmente nella concordia (omonoia) che esclude qualsiasi possibilità di stasi$ o di sedizione (13).

Machiavelli attacca con forza questo concetto di bene comune, inteso come concordia e rifiuto della sedizione all’interno dello Stato. Egli sostiene che il bene comune è solo la maschera del potere, che nasconde l’oppressione che continuamente minaccia la libertà. Machiavelli intende in questo modo far emergere il krato$ che si nasconde sotto ogni forma di arch. Sotto il velo ideologico del bene comune, lo scontro fra le parti riemerge continuamente con forza, rivelando la natura conflittuale di ogni convivenza politica.

Nelle Istorie fiorentine sono raccontate innumerevoli vicende che mostra- no come ogni tentativo di asservire la città e ogni attacco alle libertà repub- blicane da parte degli oligarchi o dei tiranni, come ad esempio quello del Duca di Atene, sia sempre stato condotto in nome del «bene comune» (14). Ma dove la critica di Machiavelli appare più evidente è nel ruolo della guerra e nel rapporto fra politica interna e politica estera. La guerra contro un nemico esterno, sia a Firenze sia a Roma, è sempre stata anche uno strumento di lotta politica interna. Uno strumento, cioè, per arricchire una parte della città a scapito dell’altra. Uno strumento, quindi, di regolazione delle dinamiche di potere e di costruzione dell’ordine interno, basato sulla paura e l’oppressione. Ciò è particolarmente chiaro nel racconto, ricostruito da Machiavelli, della reazio- ne fiorentina contro Castruccio Castracani, signore di Lucca (15), o della lunga guerra che ha opposto Firenze al Ducato di Milano, guidato dai Visconti (16).

Machiavelli, quindi, prende come punto di partenza la critica del bene comune e della concordia aristotelica per sostenere la sua posizione teorica più originale e potente, cioè il ruolo positivo del conflitto politico nella produzione e nella difesa della libertà.

Nei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, Machiavelli sostiene che Roma è divenuta una città grande e potente non grazie alla sua «fortuna», come molti ritengono, ma a causa della sua costituzione materiale, che ha permesso lo sfogo degli «umori» politici della città. Una costituzione, cioè, che non solo non ha represso, ma anzi ha permesso e perfino favorito il conflitto della plebe con il senato. Machiavelli distingue un conflitto moderato, in cui le parti hanno lottato per gli onori e per obiettivi politici, da un conflitto più aspro e violento, in cui le fazioni si affrontavano per motivi economici. Questo secondo tipo di conflitto, in particolare, si è sviluppato in seguito alle lotte scatenate dalla legge agraria voluta dai Gracchi.

Sebbene questo conflitto abbia infine condotto alla fine della repubblica e al sorgere dell’impero, Machiavelli sostiene che senza quelle stesse lotte la libertà sarebbe stata persa ancora prima. Solo il continuo stato di sedizione, che ha caratterizzato per tre secoli la storia di Roma, ha permesso che essa si mantenesse libera e potente. Egli sembra quindi identificare due tipi di conflitto di cui il primo, moderato e positivo, contribuisce a mantenere la libertà, mentre il secondo, violento ed estremo, provoca la crisi delle istituzioni repubblicane.

La divisione tracciata da Machiavelli ricorda la differenza che, nella filoso- fia classica, veniva fatta tra i diversi modi del combattere. I greci, come abbiamo visto, distinguevano la guerra (polemo$) dalla discordia (stasi$). Platone, ad esempio, sostiene che è proprio degli Elleni mantenere una certa familiarità e affinità anche nella lotta, con l’obiettivo principale di una futura riconciliazione fra le parti. Contro i barbari, invece, lo stato di guerra è naturale e perpetuo. I modi del combattere sono più atroci e violenti, prevedendo anche il saccheggio, l’incendio, la devastazione e l’assassinio, che sono quindi non solo leciti ma anche naturali (17).

Anche i romani erano coscienti della differenza teorica, così come reale e pratica, fra i due modi della lotta. Ad esempio Appiano, nella sua Storia romana, distingue il conflitto scatenato dalla secessione della plebe sul monte Sacro dalla vera e propria guerra dichiarata da Coriolano alla propria città, che lo aveva esiliato ingiustamente (18). Lucio Ampelio, nel suo Liber Memorialis, dedica alcuni capitoli alle sedizioni, distinguendo chiaramente fra la secessione da un lato, ai tempi dell’opposizione fra plebe e patriziato e la sedizione dall’altro, ad esempio al tempo dei Gracchi (19). Dionigi di Alicarnasso sottolinea come i romani, per centinaia di anni, avessero lottato senza grandi spargimenti di sangue, ma che dopo la distruzione dell’armonia  del governo da parte dei Gracchi, essi non cessarono di sgozzarsi ed esiliarsi a vicenda dalla città (20). La secessio è un atto non sanguinoso, un’interruzione non violenta della collaborazione civile che viene distinta dalla seditio, che termina sempre nel sangue. Questa differenza, sebbene abbia dei confini mobili e imprecisi, testimonia di una coscienza che, nella mentalità dei romani, era ben chiara nella distinzione tra diversi modi di combattere.

Questa distinzione richiama un problema teorico rilevante, relativo allo spazio della politica. Un problema che sarà determinante nella costruzione della «geometria» dello Stato moderno, soprattutto con l’emergere del para- digma contrattualista. La distinzione tra la lotta – legittima e non violenta – della plebe da un lato e il conflitto – sanguinoso e sovversivo – al tempo dei Gracchi, mette in questione lo spazio legittimo della politica e del conflitto nella città. La plebe, auto-escludendosi dalla vita politica, uscendo dalla città e ritirandosi sul monte Sacro, contesta «da fuori» la gestione comune del potere. Fuori dallo spazio dell’urbe, la plebe intende imporre, attraverso la propria  assenza,  una  nuova  negoziazione  della  condivisione  del  potere. Stasi$ e apostasi$  (stasiazw e afisthmi) sono i termini impiegati ad esempio da Dionigi di Alicarnasso per determinare il campo – a un tempo semantico e teorico – dell’azione della plebe in rivolta. Nell’«apostasia» della plebe è evidente il senso del ritrarsi, del rinunciare, del sospendere la propria azione e del ritirare la propria adesione a uno spazio comune della politica (21).

Le  sedizioni  successive,  invece,  vedono  sempre  affrontarsi  due  gruppi opposti all’interno della città. Lo strumento della lotta non è un ritiro, un’assenza, una sospensione, ma al contrario un’occupazione violenta del centro della scena. L’«interno» dello spazio politico diventa territorio di conquista, per una lotta sanguinosa la cui posta in gioco non è più la condivisione, ma l’occupazione del centro del potere e l’estromissione della parte avversa.

Nei Discorsi, Machiavelli ha ben presente questa distinzione che risale alla storiografia classica e che separa le lotte precedenti la legge agraria dalla sedizione che, tragicamente e inesorabilmente, porta al sorgere dell’impero. La sedizione provoca una crisi che indebolisce progressivamente la potenza della repubblica. Tuttavia – questa la posizione teorica forte e originale di Machiavelli – quei tumulti e quelle sedizioni non sono da biasimare. Sebbene violente e sanguinose, esse ebbero il merito di «frenare» il processo di degenerazione della libertà, causato dall’ambizione e dalla volontà di potenza dei nobili:

Tale, adunque, principio e fine ebbe la legge agraria. E benché noi mostrassimo altrove, come le inimicizie di Roma intra il Senato e la Plebe mantenessero libera Roma, per nascerne, da quelle, leggi in favore della libertà, e per questo paia disforme a tale conclusione il fine di questa legge agraria; dico come, per questo, io non mi rimuovo da tale opinione: perché gli è tanta l’ambizione de’ grandi, che, se per varie vie ed in vari modi ella non è in una città sbattuta, tosto riduce quella città alla rovina sua. In modo che, se la contenzione della legge agraria penò trecento anni a fare Roma serva, si sarebbe condotta, per avventura, molto più tosto in servitù quando la plebe, e con questa legge e con altri suoi appetiti, non avesse sempre frenato l’ambizione de’ nobili (22).

Machiavelli, dunque, intende distaccarsi dalla tradizione storiografica che condannava la sedizione e il conflitto anche violento che da quella deriva. Alcuni anni dopo, scrivendo le Istorie fiorentine e tornando sul problema teo- rico del rapporto fra politica e conflitto, egli muta significativamente l’inter- pretazione della sedizione. Machiavelli confronta il conflitto di Roma con quello di Firenze: se a Roma le lotte sono state moderate e si sono risolte «civilmente», a Firenze hanno sempre dato luogo a violenze, assassinii ed esilii. Torna, come si vede, l’opposizione classica tra i due modi del conflitto. Tuttavia – questa la tesi di Machiavelli – lo sviluppo «civile» e moderato delle lotte di Roma ha progressivamente rafforzato la classe nobiliare e ha condotto inesorabilmente alla perdita della libertà. La crisi scatenata dalle lotte, in questo modo, ha progressivamente indebolito la potenza romana: crisi e potenza si oppongono qui l’una all’altra in modo lineare.

A Firenze, invece, la sedizione della plebe contro le «famiglie grandi» ha progressivamente «decapitato» la potenza nobiliare, portando a una situazione sociale, politica ed economica per cui, ora, sarebbe possibile «ordinare» una repubblica democratica e virtuosa. La potenza di Firenze non è stata diminuita dallo scontro fra nobili e popolo. Al contrario, la sedizione continua ha generato una crisi il cui esito sono le condizioni per un nuovo possibile ordinamento. La crisi, nel suo significato etimologico, non significa più qui diminuzione della potenza. La crisi diviene il punto nodale in cui una situazione può evolversi verso esiti diversi e opposti. Proprio la sedizione ha creato, quindi, uno stato per cui a Firenze crisi e potenza si intrecciano, si compe- netrano e si richiamano a vicenda.

Questo rapporto complesso fra crisi e potenza, mediato dalla sedizione, richiama la relazione altrettanto complessa fra diritto e conflitto. La prefe- renza che Machiavelli accorda a una concezione conflittualistica della politica, infatti, non resta confinata sul piano della pura fattualità, sul piano della mera esistenza politica delle repubbliche, sganciata dalla loro essenza costituzionale  e  legislativa.  Al  contrario,  Machiavelli  nega  questa  distinzione,  ovrappondendo e fondendo il piano politico con quello giuridico. Il conflitto e la sedizione, per Machiavelli, hanno un valore positivo non indipendentemente dal diritto, ma proprio perché producono delle buone leggi a favore della libertà. Parlando di Roma, egli scrive infatti:

[…] e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de’ grandi; e […] tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disu- nione loro […]. Né si possano, per tanto, giudicare questi tomulti nocivi, né una republica divisa, che in tanto tempo per le sue differenzie non mandò in esilio più che otto o dieci cittadini, e ne ammazzò pochissimi, e non molti ancora ne condannò in danari. Né si può chiamare in alcun modo, con ragione, una republica inordinata, dove siano tanti esempli di virtù; perché li buoni esempli nascano dalla buona educazione; la buona educazione, dalle buone leggi; e le buone leggi, da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano; perché chi esaminerà bene il fine d’essi, non troverrà ch’egli abbiano partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della publica libertà (23).

I «buoni esempli» provengono dalla «buona educazione» e questa dalle «buone leggi» che, infine, derivano proprio da ciò che la filosofia politica aveva sempre rifiutato di riconoscere non solo come base della politica, ma come fenomeno ineliminabile della convivenza umana, cioè il conflitto. Althusser ha così sostenuto che Machiavelli, parlando dell’«accumulazione politica primitiva», usa – e non potrebbe essere altrimenti – il linguaggio della forza e non quello del diritto. Ma nelle sue pagine troviamo in realtà entrambi gli elementi legati fra loro in modo indissolubile, collegati ricorsivamente in una spirale che non conosce pacifiche soluzioni o mitiche età dell’oro.

La possibilità di «fissare» definitivamente il movimento della storia in un ordinamento istituzionale non è scartata a priori da Machiavelli. Licurgo, e come lui altri savi «datori di leggi», sono riusciti proprio in questa impresa. Ordinando una società con leggi adeguate alla struttura sociale e politica di un dato periodo sono riusciti a bloccare il corso della storia, le possibilità stesse di qualsiasi sviluppo, fissandole in una situazione virtuosa in grado di resiste- re al mutare degli eventi, non in eterno ma comunque per un lungo periodo. Nel caso di Roma, invece, leggi e ordini avanzano di pari passo con la storia, con lo sviluppo – necessariamente conflittuale – delle sue forze politiche e sociali. Le leggi sono l’espressione stessa dei mutamenti che si determinano in seno a una società. Poiché questa non ha «incontrato» originariamente un saggio legislatore, è costretta ad accettare la sfida della storia, ad aprirsi al mutamento e al conflitto, pena la rovina immediata di fronte allo scatenarsi dei conflitti, all’espressione naturale e necessaria degli «umori» politici.

Leggi e conflitto, quindi, si sostengono e si producono a vicenda. Dagli uni agli altri senza soluzione di continuità. Ma come è possibile frenare gli effetti distruttivi del conflitto sociale? Quale garanzia abbiamo che i tumulti stessi non corrompano lo Stato e le leggi che ne hanno permesso lo svolgimento? La risposta è duplice. Da un lato l’apertura delle leggi e delle istituzioni alla storia impedisce una soluzione pacifica e definitiva di questo problema, che metta al riparo per sempre dal rischio della corruzione. Questa, insieme alla necessità di difendersi attivamente e di lottare contro i suoi effetti perversi, resta la cifra di qualsiasi pensiero sinceramente repubblicano, come alcuni interpreti  hanno  più  volte  sottolineato (24).  Dall’altro  lato,  l’argomento  dei buoni e dei cattivi tumulti gioca un ruolo importante nella riflessione di Machiavelli.

Non tutti i conflitti, lo sappiamo, producono effetti positivi all’interno degli Stati. In particolare le lotte che danno luogo a parti e fazioni sembrano essere le più violente e distruttive per la vita politica delle città. Così fu al tempo della legge agraria a Roma e per i lunghi secoli delle lotte in epoca comunale a Firenze. Ora, il rapporto di ricorsività fra leggi e tumulti potrebbe essere interpretato proprio in questa prospettiva (25). I tumulti giustificano la nascita delle leggi ma, per non essere distruttivi, dovrebbero supporre già in qualche modo una legge che li regoli e, entro certe condizioni, li permetta e perfino li favorisca26. Questa ricorsività, così, non dovrebbe risolversi in una dialettica inglobante. Un conflitto virtuoso richiamerebbe in qualche modo una virtù necessariamente preesistente che si concretizzi, ad esempio, nella non esclusione degli sconfitti o, più in generale, in un’etica pubblica condivisa.

Nessuno dei due termini – né la legge né il conflitto – può essere posto a fon- damento o può occupare stabilmente l’origine. Al contrario, proprio l’instabilità e lo squilibrio sono il motore virtuoso che mantiene vivo un fecondo rapporto di causalità fra leggi e conflitto. Questo però, di nuovo, sembra rimandare a una concezione non lineare (ma, appunto, ricorsiva, fino al limite della compenetrazione) fra crisi e potenza, che Machiavelli esprime con maggior forza pro- prio nelle pagine più mature del Principe e delle Istorie fiorentine. Il centauro Chirone, una delle metafore più potenti di tutta l’opera di Machiavelli, suggeri- sce al meglio questa idea di ricorsività e di compenetrazione:

Dovete, adunque, sapere come sono dua generazione di combattere: l’uno con le leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie: ma, perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Per tanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte è suta insegnata a’ principi copertamente dalli antichi scrittori; li quali scrivono come Achille, e molti altri di quelli principi antichi, furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura; e l’una sanza l’altra non è durabile (27).

Di nuovo, però, non si può in alcun modo affermare che questa visione ricorsiva rappresenti uno sbocco, un esito lineare di questa tensione. Non c’è alcuna soluzione dialettica, nel pensiero di Machiavelli, per questo scontro, né c’è alcuna sintesi fra leggi e conflitto. Al contrario, si potrebbe dire che le leggi sono la «funzione» (28)   del conflitto, la sua espressione, consentendo a loro volta agli umori di esprimersi in maniera conflittuale e non distruttiva.

Ciò non significa l’affermazione di un’etica pubblica o di una virtù preesistente all’affermazione della giustizia, né il fatto che questa possa considerar- si la sintesi delle diverse posizioni in lotta. Al contrario, nella legge troviamo sempre e necessariamente il segno di una vittoria iniziale, la traccia di un fratricidio originario. Il nomo$, in questo senso, segue sempre la ubri$: «E’ sono le forze che facilmente si acquistano e nomi, non i nomi le forze» (29). Da questo punto di vista, nel rapporto ricorsivo, il conflitto precede la legge. La compenetrazione, in questo senso, è massima. Ma ciò non accade, come per altri pensatori, per denunciare moralmente il lato oscuro della politica e affermare un astratto «vivere bene» (30). Al contrario, serve a sottolineare con estremo realismo che la giustizia è affermazione di parte, che il bene comune non esiste in quanto fine superiore e trascendente ma rappresenta la conflittualità immanente alla dinamica storica.

Ora, di fronte alla necessaria instabilità del rapporto ricorsivo fra diritto e conflitto, Machiavelli tenta di elaborare alcuni meccanismi di resistenza alla degenerazione a cui sempre rimane esposta la politica. Da un lato, infatti, abbiamo la consapevolezza di questo rapporto necessariamente ricorsivo. Dall’altro, abbiamo l’idea che questo sviluppo non sia lineare e non conduca ad alcuna pacificazione, ad alcuna sintesi, ad alcuna dialettica fra questi elementi. Diritto e conflitto si muovono sempre sullo stesso piano, si intrecciano e si compenetrano continuamente.

Non si tratta quindi in alcun modo di superare o di pensare una sintesi per quel cerchio che unisce giustizia e conflitto, ma piuttosto di «piegarlo» alla virtù. Ciò è possibile, secondo Machiavelli, declinando questi due elementi – giustizia e conflitto – nel binomio della necessaria unione di giustizia e armi, ossia nel tema dell’esercito di popolo.

Come è noto, riprendendo alcuni argomenti della tradizione repubblicana, Machiavelli ha sostenuto sia nelle sue opere, sia durante l’attività politica come cancelliere della repubblica, la necessità per uno Stato di avere un eser- cito proprio, una milizia cittadina fedele ed efficiente per resistere agli attac- chi esterni, facendo così a meno delle infide truppe mercenarie (31), perché come scrive a proposito di Davide e Saul, «l’arme d’altri, o le ti caggiono di dosso o le ti pesano o le ti stringono» (32).

Ora, è importante precisare che l’apologia machiavelliana delle armi pro- prie e la condanna di quelle mercenarie non rappresenta l’adesione a un culto ‘cittadino’ della milizia e della guerra. Se il conflitto è l’anima della politica, non significa che la guerra sia il suo fine. Al contrario, le armi pro- prie sono l’espressione di uno sviluppo produttivo del rapporto ricorsivo fra leggi e conflitto. Machiavelli lo afferma sottolineando come il fine di un eser- cito virtuoso sia il combattere per la propria gloria e non per l’ambizione altrui. L’attaccamento ai valori della repubblica, così, non si esaurisce in una vuota retorica militare ma nella resistenza all’oppressione e nella ricerca della libertà.

Ora, il tema delle armi proprie non riguarda solo il piano dell’efficienza militare e della guerra, ma investe interamente anche quello della politica e del diritto. L’esercito di popolo non è solo un’arma contro altri eserciti nemici, ma è anche inequivocabilmente, nel pensiero di Machiavelli, uno strumento di libertà. Egli dichiara apertamente la sua avversione per una concezione «aristocratica» della guerra, nella preferenza accordata alla fanteria rispetto alla cavalleria. Questa, infatti, aveva costi altissimi all’epoca e si basava sulla preminenza e sul controllo della battaglia da parte dei «grandi» e dei nobili. Machiavelli, al contrario, ritiene le fanterie essere «il nerbo» di un esercito virtuoso (33).

Questa conclusione investe direttamente il piano politico. Nel capitolo 6 del I libro dei Discorsi viene affrontata la questione dell’ordinamento romano e della possibilità di ristabilire la pace fra il popolo e il senato. Sparta e Venezia, che nella tradizione rappresentano dei modelli di stabilità, riuscirono a impedire tumulti e sedizioni al loro interno, rinunciando ad ampliare i propri dominii. Roma, al contrario, non avrebbe potuto né dovuto creare degli ordinamenti simili a quelli spartani e veneziani, semplicemente perché questi sono deboli. Roma ha da un lato utilizzato la plebe in guerra, dall’altro ha aperto la via della cittadinanza ai forestieri, contraddicendo il fondamento degli ordini spartano e veneziano. Questo è il motivo che «dette alla plebe forze ed augumento, ed infinite occasioni di tumultuare» (34). Nessuna via di mezzo è praticabile. Roma è stata una grande potenza e una repubblica sediziosa per le stesse ragioni. Eliminando le cause del conflitto si sarebbero rimosse nello stesso tempo quelle della sua grandezza e potenza, così come quelle della libertà e del governo della legge, concepito da Machiavelli in rapporto al conflitto.

L’ordine romano è opposto a quello pacifico, veneziano o spartano. Libertà e potenza, ordine e conflitto, legge e sedizioni si fondono in questo nucleo teo- rico del pensiero di Machiavelli. Di nuovo questi elementi giocano a favore dell’idea di una sovrapposizione fra crisi e potenza, eliminando qualsiasi possibile illusione di una «soluzione» del problema del conflitto. Si può notare come, ancora una volta, linguaggio e teoria si richiamino a vicenda. Il tema dell’esercito popolare viene utilizzato da Machiavelli a sostegno della libertà repubblicana. Non nel senso dell’arch, nuovamente, ma in quello del krato$. L’esercito repubblicano è ciò che spaventa maggiormente i nobili, come testi- monia Francesco Vettori (35). Ma la definizione stessa di bellum civile, di guerra civile, appare a Roma all’epoca dello scontro fra Mario e Silla, quando un esercito di cittadini, nell’88 a.C., entra nella città, rivolgendo le armi contro altri cittadini. L’invasione avviene come se si trattasse di una città nemica (36).

E tutto ciò, ancora una volta, è per Machiavelli la conseguenza della sedizione innescata all’epoca dei Gracchi.

C’è tuttavia un altro esempio di lotta intestina, che è di importanza fonda- mentale agli occhi di Machiavelli. Si tratta della tribù di Levi, radunata da Mosè per reprimere gli adoratori del vitello d’oro (37). Non è un vero e proprio esercito, ma forse questo rende l’esempio ancor più significativo. Mosè tra- sforma una parte del popolo in un esercito – un esercito sedizioso – per rivol- gerla contro un’altra parte. Le armi vengono sollevate contro i propri fratelli, i propri amici, i propri parenti. La costituzione dello Stato ebraico ha origine nella violenza e nella sedizione, che instaura un nuovo rapporto di forza all’in- terno della società e che mostra, ancora una volta, come leggi e conflitto si richiamino a vicenda. Un esempio che Machiavelli non manca di valorizzare, sottolineando non il carattere distruttivo dell’opera di Mosè, ma al contrario quello fondativo. Il carattere reale di questo evento sedizioso che mostra cosa sia un «profeta armato» (38).

3. Spinoza, l’indignazione e l’origine della politica

Il vero e proprio ‘colpo di stato’ di Mosè rappresenta un punto storico e teorico fondamentale anche per Spinoza. Nel capitolo XVII del Trattato teologi- co-politico, Spinoza decostruisce il mito del legislatore, che fonda l’organizza- zione della comunità sulla propria razionalità e saggezza. Proprio l’esempio di Mosè e dei Leviti mostra come l’azione del legislatore sia sempre inscritta nel tessuto storico dei rapporti di forza e delle lotte intestine, dei conflitti e delle sedizioni, proprio come aveva illustrato Machiavelli (39).

Spinoza collega strettamente, nella sua riflessione, la metafisica da un lato con la politica e con la storia dall’altro. La sua concezione del diritto inteso come potenza guida tutta la costruzione della teoria politica e giuridica e, di conseguenza, anche la riflessione sul rapporto tra diritto e conflitto.

Nella sua introduzione al pensiero politico di Spinoza, Etienne Balibar descrive il significato dell’identità stabilita da Spinoza fra diritto e potenza e i suoi effetti sulla concezione dei diritti e della legge. Enunciata nel capitolo XVI del Trattato teologico-politico e sviluppata ampiamente nel Trattato politico, questa teoria ha la funzione di stabilire la priorità della nozione di potenza su quella di diritto. L’obiettivo di Spinoza è affermare che il diritto di un individuo è coestensivo alla sua potenza. Su questa base, sostiene giustamente Balibar, Spinoza esclude sia l’idea di un ordine giuridico trascendente, ad esempio di origine divina, sia quella di un diritto come manifestazione della volontà libera di un individuo umano e razionale.

Per definizione, quindi, la categoria del diritto rinvia ai rapporti di forza e, in ultima istanza, al conflitto (40), avvicinando in modo interessante la riflessione di Spinoza a quella di Machiavelli. Su questo terreno, tuttavia, Balibar non ritiene di poter accostare il pensiero dei due autori. Se la cate- goria di jus mantiene intatta tutta la sua originalità in Spinoza, proprio il conflitto mostrerebbe invece tutta la distanza con Machiavelli. Il conflitto, infatti, viene avvicinato da Balibar allo stato di natura, cioè a quello strumento teorico di cui si servono i giusnaturalisti per condannare e impedire con ogni mezzo qualsiasi giustificazione della resistenza al sovrano e in ultima istanza della sedizione.

In questo modo però, traendo le dovute conclusioni dal ragionamento di Balibar si finisce, senza dubbio oltre le sue intenzioni, per riavvicinare il pensiero di Spinoza a quello dei contrattualisti, sottovalutando implicitamente il possibile apporto teorico che deriva dalla lettura di Machiavelli. Proprio la sua concezione conflittualistica della politica e del diritto suggerisce alcuni elementi per mettere in piena luce l’originalità di Spinoza nei confronti delle teorie giusnaturalistiche e contrattualistiche, nonché delle concezioni astratte, rigide e per questo utopistiche del diritto, che da quelle derivano.

Lo stato di natura, per Spinoza, non è qualcosa di astratto. Il conflitto politico, che ha delle ricadute sulla definizione del diritto e sull’intero impianto giuridico di uno Stato, analogamente a Machiavelli, non può essere rappresentato come lo stato di natura hobbesiano. La lettura di Balibar sembra ridurre il fenomeno conflittuale a una situazione limite, a una patologia che il diritto avrebbe almeno il compito di regolare se non addirittura di superare.

Al contrario, così come Spinoza rifiuta ogni finalità morale e ogni imma- gine trascendente di Dio, in grado di governare il mondo attraverso le leggi e  come  un  monarca, allo  stesso  modo  respinge  l’idea  della  legge  come norma superiore e trascendente. L’affermazione folgorante per cui «la paro- la legge non ha che un significato: la legge di natura non è mai una regola del dovere ma la norma di un potere» racchiude in sé tutta la potenza di questa concezione (41).

Le leggi non possono avere alcuna pretesa di dominare in modo trascen- dente le dinamiche concrete di composizione e interazione – anche conflit- tuale – fra gli uomini. Le leggi, in quanto tali, semplicemente non hanno in sé il potere – perché non hanno la potenza e quindi il diritto – di guidare le azioni umane. Non più di quanto la mente non abbia il potere, la potenza e quindi il diritto di guidare il corpo di cui è l’idea.

Questa concezione suggerisce l’idea di un rapporto fra diritto e conflitto che richiama con forza le tesi di Machiavelli. Se Spinoza suggerisce che i diritti, gli jura communia, sono l’«anima» dello Stato, è proprio per sottolineare che questi non guidano dall’alto e in modo trascendente la politica, proprio come l’«anima» non ha alcun potere di guidare il corpo. Al contrario, come qual- siasi altro diritto, sono una potenza che si compone di altri diritti e altre potenze, in modo reticolare e necessariamente anche conflittuale. L’effettività delle leggi, afferma esplicitamente Spinoza in questo stesso passaggio, dipen- de dal conflitto e dalla lotta per la loro difesa, altrimenti esse restano niente più che charta et atramentum, macchie di inchiostro su fogli di carta:

[…] in verità, se esiste uno stato che può essere eterno, sarà necessariamente quello le cui leggi, una volta correttamente istituite, rimangono inviolate, poiché le leggi sono l’anima dello stato: salve quelle, lo stato è necessariamente salvo. Ma le leggi non possono stare salde se non sono difese dalla ragione e dal comune affet- to degli uomini: altrimenti, se possono contare soltanto sull’aiuto della ragione, sono fragili e si abbattono facilmente (42).

Comprendere adeguatamente le leggi, quindi, significa comprendere la loro identità col diritto e, per definizione, con la potenza. Ma anche il loro rapporto col conflitto. Da un lato, il conflitto partecipa alla produzione di queste leggi. Dall’altro, senza di esso le leggi svaniscono, tornando a essere soltanto macchie di inchiostro, cioè tristi «tracce» di impotenza.

Avevamo visto la natura ricorsiva del rapporto fra diritto e conflitto per Machiavelli, per cui i buoni provvedimenti derivano e, allo stesso tempo, esprimono il conflitto oppure, se si vuole, che le «buone leggi» e le «buone armi» procedono sempre insieme. Un’idea del tutto simile emerge, nei testi di Spinoza, dall’area semantica relativa ai concetti di indignatio, conatus-potenza e jura communia. Il diritto di natura si concepisce solo «dove gli uomini hanno diritti comuni», i quali permettono di vindicare e repellere, affermando così la propria autonomia e integrità.

Ora, ciò significa che, da un lato, proprio il diritto esprime in un certo modo l’idea di conflitto e che questo, a sua volta, produce direttamente effetti di libertà e di autonomia in una comunità, sia verso l’esterno che verso l’interno. Diritto e conflitto, in modo ricorsivo, si richiamano, si producono e si esprimono a vicenda nel movimento reale e immanente della politica. Il grado di razionalità di una comunità politica è tanto più elevato quanto più è il prodotto di un movimento democratico che coinvolge il più alto numero di cittadini e, possibilmente, l’intera moltitudine. Ma questo movimento non è pen- sabile esclusivamente in termini di cooperazione e secondo una ‘somma algebrica’ di diritti-potenze. Così facendo si dovrebbe presupporre una razionalità estrinseca già operante dall’esterno, dall’alto, in modo trascendente. L’unica razionalità collettiva possibile, invece, è quella che si forma entro e attraverso questo movimento democratico, attraverso l’esperienza del conflitto, proprio come per Machiavelli.

Lo jus sive potentia è anteriore alle leggi e alle istituzioni. Ciò spiega per- ché i diritti possono essere a un tempo l’anima dello stato (anima imperii) ma anche macchie d’inchiostro su fogli di carta. A spezzare questa ambivalenza interviene una concezione analoga a quella machiavelliana della ricorsività fra diritto e conflitto. La libertà e il diritto si difendono e si conquistano attraverso la cooperazione ma anche attraverso la resistenza e il conflitto.

Questo movimento fa emergere la razionalità immanente delle istituzioni:

«punto di vista ontogenetico del diritto di natura e non della legge, della potenza e non del potere» (43). Nel suo fondamentale studio sulla strategia del conatus in Spinoza, Laurent Bove sottolinea come queste conclusioni fossero già state messe in evidenza da Antonio Negri nell’Anomalia selvaggia, ma come questa lettura si basasse sulla assunzione di una priorità e anteriorità della potenza sul potere, del potere costituente sul formalismo della legge (44). Al contrario bisogna comprendere, con Negri ma anche oltre la sua interpretazione, che la legge stessa è la «mediazione necessaria della potenza della moltitu- dine nella sua affermazione, così come il sintomo del suo stato presente» (45).

Ora, l’idea di ricorsività, analogamente a Machiavelli, conferma il significa- to di legge come «mediazione» e al tempo stesso come «sintomo» della moltitudine. «Mediazione», di nuovo, non significa in alcun modo «dialettica», sublimazione, superamento, ma piuttosto «movimento reale». E, in quanto reale, un movimento che è al tempo stesso cooperativo e conflittuale, senza che uno dei due aspetti possa prevalere definitivamente sull’altro. Il «sintomo», invece, manifesta il grado di razionalità dello «stato presente», cioè il grado di disponibilità delle istituzioni e delle leggi alla critica, all’emendazione, al cambiamento, in una parola a rendere produttivo il conflitto.

Non ci si può stupire, allora, che Spinoza segua Machiavelli anche sull’esito ultimo del rapporto fra diritto e conflitto, cioè sul binomio «giustitia e armi» e sul tema dell’esercito popolare. La condanna delle milizie mercenarie e l’apologia di un esercito nazionale e popolare accomuna i due autori e, per entrambi, può essere considerata l’esito delle rispettive concezioni del diritto e della legge.

Spinoza insiste esplicitamente sul fatto che i cittadini sono «tanto più potenti, e dunque più autonomi», quanto più sono in grado di difendersi e di resistere alle aggressioni di nemici «esterni e interni» (46). In ciò consiste la difesa e, con parole machiavelliane, la «guardia» della libertà. Ed è per que- sto, ancora, che le milizie non devono dipendere da altri ma, al contrario, fon- darsi solo sulla propria virtù, proprio come aveva sostenuto Machiavelli (47).

L’esercito popolare, per Spinoza, contribuisce a creare dal basso le basi per la resistenza, per il conflitto in difesa della libertà e dei diritti comuni. Di nuovo, questi sono concreti solo se effettivamente vengono difesi. Sono anima imperii solo in quanto la moltitudine li desidera e li fa propri, manu militari, contro la minaccia della corruzione e dell’oppressione. L’esercito popolare, dunque, è una garanzia contro l’oppressione e la tirannia, uno stru- mento in difesa delle leggi. Ma rappresenta naturalmente, al tempo stesso, la possibilità sempre aperta della sedizione. La seditio, per Machiavelli come per Spinoza, è immanente alla politica e ai principi di un buono Stato. È anzi l’anima della libertà.

Fra gli elementi che più contribuiscono a rappresentare questa presenza immanente della sedizione, nella teoria spinoziana degli affetti figura l’indi- gnazione. In un articolo di alcuni anni fa, Alexandre Matheron ha insistito molto sull’importanza dell’indignatio, in relazione all’evoluzione di Spinoza dal Trattato teologico-politico al Trattato politico (48). L’analisi di Matheron parte da questo passaggio dedicato all’origine degli Stati:

Siccome gli uomini, s’è detto, si fanno guidare dagli affetti più che dalla ragio- ne, anche il popolo viene indotto a naturale accordo non dalla ragione, ma da qual- che comune affetto, e vuole essere guidato come da una sola mente, vale a dire (come abbiamo detto all’articolo 9 del capitolo III) da una comune speranza, o paura, o desiderio di vendicare un danno comune (49).

Spinoza abbandona qui esplicitamente il linguaggio del contratto sociale, affermando che gli uomini si accordano naturalmente e senza alcun riferi- mento a un patto originario. Inoltre, gli affetti hanno un ruolo determinante nella formazione dello Stato e della convivenza in comune. Matheron sottoli- nea come l’origine, la fondazione, il momento costituente della politica siano legati così indissolubilmente alla dimensione conflittuale, della resistenza e dell’indignazione. Questo il significato del rinvio dell’articolo VI, 1 al testo di III, 9. Qui, infatti, viene descritto il processo che porta dal timore alla resistenza e alla sedizione, per cui «nel diritto della cittadinanza non rientrano quelle cose che suscitano l’indignazione generale».

L’indignazione, come sottolinea Matheron, non è più soltanto una passione triste, secondo la definizione di Etica III, 22 scolio e del primo corollario di Etica III, 27. Essa è ora un elemento costitutivo e fondativo della vita in comune. La dimensione originaria della politica, quindi, si intreccia qui in modo indissolubile con quella del conflitto e della resistenza.

Torna qui il rifiuto, da parte di Spinoza, di considerare alcunché come un peccato o un vizio di natura. Il conflitto non può essere ridotto a una semplice patologia della vita politica. È piuttosto una delle sue manifestazioni, fin dal principio della vita in società. La sedizione della moltitudine nei confron- ti del potere sovrano – analogamente a Machiavelli – non è solo un’ipotesi remota, bensì uno degli elementi principali attraverso cui si manifesta l’esistenza politica. Nessun privato, infatti, ma solo il sovrano ha il diritto di giudicare se taluni provvedimenti siano o meno in accordo al bene comune. Solo chi detiene il potere, quindi, è l’interprete legittimo di quei provvedimenti, mentre i cittadini devono solo rispettare le leggi. Se tuttavia quelle leggi sono di tale natura da non poter essere violate senza che al tempo stesso si debili- tino le energie della cittadinanza, ovvero, senza che il comune timore dei cittadini si converta in indignazione, con ciò stesso la cittadinanza si dissolve e decade il contratto, che dunque non è garantito dal diritto civile, ma dal diritto di guerra (50).

Anche Spinoza quindi, come Machiavelli, pone il diritto di guerra, la resi- stenza e il conflitto al cuore della politica. La stessa filosofia diventa, nelle sue parole, sediziosa (51).

4. Seditio sive jus

La sedizione quindi, come la resistenza, chiama direttamente in causa l’intero piano giuridico dello Stato. Lo stesso termine però – in questo caso il diritto – può veicolare significati diversi e perfino opposti. Sulla base della riflessione teorica di Machiavelli e di Spinoza la sedizione può essere certo pensata come un diritto. Un diritto, però, inteso anch’esso in termini spinoziani, inteso cioè sive potentia. La sedizione rappresenta il punto di fusione fra il diritto e il conflitto, fra la conservazione e il mutamento. Il punto, cioè, in cui si attualizza la ricorsività di questo rapporto. Qui, di nuovo, l’anti- modernità di Machiavelli e Spinoza torna nuovamente a collegarsi a un insie- me di questioni teoriche che si erano già manifestate all’interno della menta- lità classica greca e romana.

La ricorsività fra diritto e conflitto, ad esempio, trova un suo corrispettivo nell’identità fra il cittadino e il soldato in Grecia. Il criterio della cittadinanza, nella città classica, era la facoltà di prendere le armi, la facoltà di essere sol- dato (52). Ma proprio questo rende indistinguibile il cittadino da colui che è, almeno in potenza, il soggetto del conflitto, l’attore della stasis. Nel VII e nel VI secolo a.C. le città attraversano delle profonde crisi, con lo sviluppo di conflitti di tipo economico e sociale che coinvolgono strati sempre più ampi di popolazione. La trasformazione degli eserciti e del combattimento ha direttamente a che fare con questi mutamenti. Al combattimento individuale, caratteristico del «duello» aristocratico, si sostituisce progressivamente il combat- timento di gruppo fino all’integrazione della massa dei contadini nella falange, formata da migliaia di soldati, che fu probabilmente sperimentata per la prima volta a Sparta (53). Il tipo di armatura e di protezione rendevano la coesio- ne sociale e la solidarietà l’elemento determinante dell’efficacia militare. I capi combattevano in mezzo ai propri soldati, uniti e coesi come un solo corpo e – potremmo dire spinozianamente – una veluti mente (54). Questo contribuiva anche alla formazione di una formidabile e temibile macchina da guerra non solo sul piano esterno, ma anche su quello interno, nella resistenza al potere aristocratico e tirannico. Il cittadino, così, è prima di tutto soldato ma, al tempo stesso e in quanto tale, è anche stasiwth$. Non solo di fatto, ma anche di diritto.

La ricorsività fra diritto e conflitto emerge con forza anche dalla famosa legge di Solone sulla stasi$. Solone, il mitico legislatore ateniese, è un eroe

per Aristotele, in quanto ha messo fine alla stasi$ fra ricchi e poveri (55). Tuttavia, ha anche imposto, nella sua legislazione, l’obbligo per ogni cittadino di prendere le armi in caso di conflitto (56). Perfino la mentalità romana rimane impressionata e interdetta dalla radicalità e dal possibile significato di questo provvedimento. Plutarco la ritiene una legge sorprendente, paradossale e imbarazzante o stupefacente (57). Eppure, perfino prima della degenerazione delle sedizioni che portarono all’impero, al tempo dei «buoni» conflitti tra la plebe e il senato, la politica e la guerra erano già intrecciate indissolubilmen- te. La secessio sull’Aventino è la manifestazione della concitata multitudo, della plebe, che intende sottrarsi alla guerra, rifiutando di prendere le armi contro gli Equi (58). Prendere le armi, essere obbligati a farlo, oppure rifiutare di farlo: la sedizione è ciò che fa emergere la compresenza e la ricorsività fra diritto e conflitto.

Sembra evidente, a questo punto del ragionamento, che l’idea di ricorsività che ho cercato di proporre suggerisca una possibile via di uscita da un meccanismo di mediazione tra diritto e conflitto. La sedizione deve essere pensata come interna e coesistente al diritto e allo Stato e può per questo essere concepita al di fuori di ogni meccanismo dialettico. Dalla filosofia conflittualista di Machiavelli e Spinoza sembra possibile trarre degli elementi teorici in que- sto senso. In particolare, si può immaginare la sedizione non come l’inverso della violenza dello Stato. Non il rovesciamento del paradigma della sovranità, ma l’espressione stessa della libera moltitudine nel suo movimento autonomo di costituzione e contestazione dell’ordine politico e giuridico. Libera multitudo come libera seditio. Questo il carattere mostruoso della sfida che Machiavelli e Spinoza hanno lanciato, tracciando confini diversi per segnare il campo semantico della politica. E si tratta di un vero e proprio campo di battaglia. La sfida alla modernità è ormai lanciata: Hic Rhodus, hic salta.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                   

Note
1   Cfr. P. Botteri, Stasis: le mot grec, la chose romaine, «Metis. Revue d’anthropologie du monde grec ancien», 4 (1989), pp. 87-100.

2   Cfr. N. Loraux, La cité divisée, Paris, Payot, 1997.

3   Cfr. P. Chantraine, Dictionnaire Étymologique de la langue grecque. Histoires des mots, Paris, Klincksieck, 1968.

4   Cfr. É. Benveniste. Vocabulaire des Institutions indo-européennes, Paris, Éd. de Minuit, 1969, I, p. 332.

5   Cfr, ancora N. Loraux, La tragédie d’Athènes. La politique entre l’ombre et l’utopie, Paris, Seuil, 2005.

6   N. Loraux, La citée divisée cit., p. 60 e sgg.

7   Cfr. P.-F. Moreau, Spinoza. L’expérience et l’éternité, Paris, Presses Universitaires de France, 1994.

8   Istorie fiorentine, proemio: «avendo io di poi diligentemente letto gli scritti [di messer Lionardo d’Arezzo e messer Poggio Bracciolini], per vedere con quali ordini e modi nello scrivere procedevano, acciò che, imitando quelli, la istoria nostra fusse meglio dai leggen- ti approvata, ho trovato come nella descrizione delle guerre fatte dai Fiorentini con i prin- cipi e popoli forestieri sono stati diligentissimi, ma delle civili discordie e delle intrinseche inimicizie, e degli effetti che da quelle sono nati, averne una parte al tutto taciuta e quel- l’altra in modo brevemente descritta, che ai leggenti non può arrecare utile o piacere alcu- no. Il che credo facessero, o perché parvono loro quelle azioni sì deboli che le giudicorono indegne di essere mandate alla memoria delle lettere, o perché temessero di non offende- re i discesi di coloro i quali, per quelle narrazioni, si avessero a calunniare. Le quali due cagioni (sia detto con loro pace) mi paiono al tutto indegne di uomini grandi; perché se niuna cosa diletta o insegna, nella istoria, è quella che particularmente si descrive; se niuna lezione è utile a cittadini che governono le repubbliche, è quella che dimostra le cagioni degli odi e delle divisioni delle città, acciò che possino, con il pericolo d’altri diven- tati savi, mantenersi uniti. E se ogni esemplo di republica muove, quegli che si leggono della propria muovono molto più e molto più sono utili».

9   Platone, Timeo 19 b-c.

10   M.  Foucault,  Il  faut  défendre  la  société.  Cours  au  Collège  de  France.  1976,  Paris, Gallimard, 1997. E nonostante le reticenze di Foucault, è chiarissima la convergenza con il realismo machiavelliano. Cfr. Istorie fiorentine, III, 13: «Ma se voi noterete il modo del procedere degli uomini, vedrete tutti quelli che a ricchezze grandi e a grande potenza per- vengono o con frode o con forza esservi pervenuti; e quelle cose, dipoi, ch’eglino hanno con inganno o con violenza usurpate, per celare la bruttezza dello acquisto, quello sotto falso titolo di guadagno adonestano. E quelli i quali, o per poca prudenza o per troppa scioc- chezza, fuggono questi modi, nella servitù sempre e nella povertà affliggono; perché i fede- li servi sempre sono servi, e gli uomini buoni sempre sono poveri; né mai escono di servi- tù se non gli infedeli e audaci, e di povertà se non i rapaci e frodolenti. Perché Iddio e la natura ha posto tutte le fortune degli uomini loro in mezzo; le quali più alle rapine che alla industria, e alle cattive che alle buone arti sono esposte: di qui nasce che gli uomini man- giono l’uno l’altro, e vanne sempre col peggio chi può meno» (corsivo mio).

11    M. Foucault, Surveiller et punir, Paris, Gallimard, 1975, p. 315, commentando il quale, Deleuze scrive che «il montre que la loi n’est pas plus un état de paix que le résultat d’une guerre gagnée: elle est la guerre elle-même, et la stratégie de cette guerre en acte». Cfr. G. Deleuze, Foucault, Paris, Éd. de Minuit, 1986, p. 38.

12   Aristotele, Politica, I, 2, 1252a, 30 e sgg.

13   Aristotele, Etica Nicomachea, IX, 6, 1167a, 22 e sgg. Cfr. anche VIII, 11, 1159b, 27 e sgg. e Politica, II, 4, 1262b, 8 e sgg.

14   Cfr. Istorie fiorentine, III, 11 sulla repressione della rivolta dei Ciompi, II, 34-35 sulla tirannia eversiva del Duca di Atene, VII, 11-12 sulle lotte fra le grandi famiglie nobili con- tro la casata dei Medici, III, 25-26 sullo scontro fra Albizzi e Medici.

15   Istorie fiorentine, II, 26.

16   Ivi, IV, 4.

17   Cfr. Platone, La Repubblica, V, 470 b-e, 471 a-b: «Mi sembra che, come si usano questi due nomi di guerra [polemo$] e discordia [stasi$], così anche siano due le cose, che si riferi- scono a due sorta di dissensi. Queste cose sono per me una familiare e congenere, l’altra estranea e straniera. Ora, l’inimicizia con quella familiare si chiama discordia, quella con l’estranea guerra […] Dico che la razza ellenica è unificata dalla familiarità e dall’affinità, mentre rispetto ai barbari è estranea e ostile. […] Diremo allora che, quando combattono, gli Elleni fanno guerra ai barbari e i barbari agli elleni; che si tratta di un’inimicizia natura- le cui si deve dare il nome di guerra; e che invece, quando si scontrano Elleni con Elleni, essi sono per natura amici, ma che in tale circostanza l’Ellade è malata e in preda alla discordia, e che per quest’inimicizia si deve usare il nome di discordia. […] Considera dunque […] in quella che ora si è convenuto di chiamare discordia, dovunque il caso si verifichi e uno Stato si divida, in un reciproco saccheggio di campi e incendio di case, considera, ripeto, quanto odiosa sembri la discordia e quanto appaiano nemici della patria gli uni come gli altri; per- ché mai avrebbero dovuto osare di devastare la loro nutrice e madre. La giusta misura sem- bra invece questa: che i vincitori portino via i raccolti dei vinti e pensino a una prossima riconciliazione, e non a mantenere un perpetuo stato di guerra. […] E quindi, dal momen- to che sono Elleni, non porranno a sacco l’Ellade e non incendieranno le case e non ricono- sceranno in ciascuno Stato tutti come loro nemici, uomini donne fanciulli; ma nemici riter- ranno i responsabili del dissenso, che sono sempre poche persone».

18   Appiano, Bella Civilia, I, 1 e I, 3-4.

19   Lucio Ampelio, Liber Memorialis, 41.

20  Dionogi di Alicarnasso, Antichità romane, II, 11, 2.

21   Cfr. P. Botteri, Stasis: le mot grec, la chose romaine cit.

22   Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, I, 37.

23   Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, I, 4.

24   Cfr. in particolare Q. Skinner, The Foundations of Modern Political Thought, Cambridge, Cambridge University Press, 1979; P. Pettit, Republicanism: a theory of freedom and government, Oxford, Oxford University Press, 1999.

25   Cfr. T. Berns, Violence de la loi à la renaissance, Paris, Kimé, 2000, che parla di «circolarità» del rapporto tra leggi e conflitto.

26   Cfr. ivi e, da una diversa prospettiva, L. Baccelli, Machiavelli, la tradizione repubblicana e lo Stato di diritto, in P. Costa, D. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto, Milano, Feltrinelli, 2002, pp. 424-459.

27   Il Principe, XVIII.

28  L. Althusser, Machiavelli e noi, tr. it. di M.T. Ricci, Roma, Manifestolibri, 1999.

29   Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 34.

30  Questo fa ad esempio Platone, attraverso le parole di Callicle, in Gorgia, 483b-484c.

31   Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 21.

32   Il Principe, XIII.

33   Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, II, 18: «Ed infra i peccati de’ principi italiani, che hanno fatto Italia serva de’ forestieri, non ci è il maggiore che avere tenuto poco conto di questo ordine, ed avere volto tutta la sua cura alla milizia a cavallo. Il quale disordine è nato per la malignità de’ capi, e per la ignoranza di coloro che tenevano stato. Perché, essendosi ridotta la milizia italiana da’ venticinque anni indietro, in uomini che non avevano stato, ma erano come capitani di ventura, pensarono subito come potessero mante- nersi la riputazione, stando armati loro e disarmati i principi».

34   Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 6.

35   F. Vettori, Viaggio in Alamagna: «Io non so già allora come noi Fiorentini staremo sicu- ri; né so in che modo li uomini armati et essercitati vorranno ubidire a’ disarmati et ine- sperti. E dubito che non pensino, sendo stati un tempo sudditi, potere diventare signori. E credi a me, che tutto il giorno li pratico, che loro non ci amano né hanno causa d’amar- ci, perché noi li tiranneggiamo, non li dominiamo. E se abbiamo paura delli insulti ester- ni, è meglio pensare redimersi da quelli che vengono de’ quattro o sei anni una volta con danari, che temere di questi che possono venire ogni giorno. E se li possiamo congregare presto, questo medesimo possono fare da loro per nuocerci. E se a’ vicini con essi mette- remo timore, a noi medesimi metteremo timore e danno».

36   Cfr. ancora Appiano, Bella civilia, I, 269, 60.

37  Esodo 32, 26-29: «Mosè si pose alla porta dell’accampamento e disse: «Chi sta con il Signore, venga da me!». Gli si raccolsero intorno tutti i figli di Levi. Gridò loro: «Dice il Signore, il Dio d’Israele: Ciascuno di voi tenga la spada al fianco. Passate e ripassate nel- l’accampamento da una porta all’altra: uccida ognuno il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio parente. I figli di Levi agirono secondo il comando di Mosè e in quel giorno perirono circa tremila uomini del popolo. Allora Mosè disse: «Ricevete oggi l’investitura dal Signore; ciascuno di voi è stato contro suo figlio e contro suo fratello, per- ché oggi Egli vi accordasse una benedizione».

38   Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, III, 30: «E chi legge la Bibbia sensatamente, vedrà Moisè essere stato forzato, a volere che le sue leggi e che i suoi ordini andassero innanzi, ad ammazzare infiniti uomini, i quali, non mossi da altro che dalla invidia, si opponevano a’ disegni suoi».

39   Cfr. V. Morfino, Il tempo della moltitudine, Roma, Manifestolibri, 2005.

40  E. Balibar, Spinoza et la politique, Paris, Presses Universitaires de France, 1985, p. 75.

41   Cfr. TTP, XVI e TP, II, 5.

42   TP, X, 9.

43   L. Bove, La stratégie du conatus, Paris, Vrin, 1996, tr. it. a cura di F. Del Lucchese, Milano, Ghibli, 2002.

44  Cfr. A. Negri, L’anomalia selvaggia. Saggio su potere e potenza in Baruch Spinoza, Milano, Feltrinelli, 1981 e Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, Milano, SugarCo, 1992.

45   L. Bove, La stratégie du conatus cit.

46   TP, VII, 16.

47   TP, VII, 16-17.

48   Cfr. A. Matheron, L’indignation et le conatus de l’Etat spinoziste, in M. Revault D’Allones, H. Rizk (éds.), Spinoza: Puissance et ontologie, Paris, Kimé, 1994, pp. 153-165.

49   TP, VI, 1.

50   TP, IV, 6.

51   Mi permetto di rimandare a F. Del Lucchese – V. Morfino, Parole mostruose. Linguaggio, natura umana e politica in Spinoza, «Forme di vita» 3 (2005), pp. 50-64.

52   Cfr. Loraux, La cité divisée  cit., e  M. Finley,  Democracy of  Ancients and Moderns, London, Chatto and Windus, 1973.

53   Cfr. H.-J. Gehrke, La «stasis», in S. Settis (a cura di), I Greci, II, Torino, Einaudi, 1997, pp. 453-480.

54   Cfr. Erodoto, Storie, VI, 112.

55   Aristotele, Costituzione degli ateniesi, 8, 5.

56   Solone viene inoltre rappresentato come un oplita che imbraccia lo scudo e «occupa» il centro della scena, impedendo alle parti di venire in conflitto. Come un «lupo» in mezzo a una «muta di cani» egli occupa uno spazio fra due eserciti piuttosto. Un ruolo che, come giustamente nota N. Loraux, La tragédie d’Athènes cit., contrasta fortemente con l’imma- gine di moderazione tramandata dalla tradizione.

57   Cfr.  P.  Jal,  La  guerre  civile  à  Rome.  Étude  littéraire  et  morale,  Paris,  Presses Universitaires de France, 1963. Cfr. anche Plutarco, Vite parallele, Solone, 20 e Moralia, 4, II.

58   Cfr. ancora P. Botteri, Stasis: le mot grec, la chose romaine cit.