SĀMKHYA-YOGA- Filosofia della natura e teoria dell’azione

di

LUCA PINZOLO

[…] È il sangue, invece, il corpo,
il vero testimone che non mente,
che porta impressa, sicura
anche se mutante, la memoria.
Maurizio Cucchi

1. Premessa

Le Strofe del Sāmkhya, attribuite a Īśvarakrishna (1), costituiscono l’essenziale di uno dei cosiddetti sei darçana,  ovvero «punti di vista», «prospettive» in cui si traduce l’insegnamento delle scuole brahmaniche (2)  – un insegnamento dapprima trasmesso oralmente per poi essere trascritto all’incirca tra il V e il III secolo a. C., che si diffonde con il duplice intento di demar- care il dettato upanishadico dalle emergenti scuole buddhiste e giainiste e, nello stesso tempo, di ripensare in una cornice, per così dire, intellettuale e dialettica gli aspetti più propriamente mistici presenti nelle stesse Upanishad (3).

Composta in epoca più tarda – si pensa non prima del IV-V secolo d. C. – la Sāmkhyakārikā appare come la sistemazione ulteriore di una dottrina assai più antica, la cui formulazione viene attribuita a Kapila, e originariamente affidata a scritti non pervenutici (4). Nella Bhagavad gītā il riferimento a Sāmkhya è costante ogni volta che si tratta della «via della conoscenza» rispetto alla via dell’azione (5).

Il commento di Gaudapāda è a sua volta posteriore – forse dell’VIII sec. d. C. – e contestualizza Sāmkhya in una visione complessiva unitaria che tiene conto anche di altri darçana (6).

Il testo si presenta come una dottrina unitaria che si snoda in una cosmologia, una gnoseologia, una teoria dell’inferenza. L’andamento del testo, rigorosamente argomentativo, procede per inferenze strettamente concatenate tra loro; ogni proposizione viene dimostrata con logica stringente. Tuttavia, malgrado aspetti che potrebbero suggerire delle analogie con gli strumenti della filosofia occidentale, il testo in questione non è da ritenersi filosofico – almeno in un senso stretto, quello riconducibile al motivo aristotelico della filosofia come conoscenza disinteressata (7) – perché l’intento che lo guida, più che unicamente teoretico, è salvifico: il retto uso dell’intelletto è funzionale alla salvezza dell’anima. L’intelletto assume, nel Sāmkhya, una duplice posizione: da un lato prodotto, o meglio manifestazione, della natura, dall’altro – e nello stesso tempo e senso – facoltà capace di discriminare, pertanto di delimitare secondo verità ciò che appartiene all’anima e ciò che appartiene alla natura; questa facoltà discriminativa è il principale – se non l’unico – strumento di salvezza.

2. L’essenza della manifestazione: il manifesto e l’immanifesto

Sāmkhya, anzitutto. Originariamente

Questa parola significa «numero» ed «enumerazione». In genere, si ritiene che la denominazione alluda alla lista delle categorie o dei princìpi ammessi in questo darçana, ma si potrebbe anche riferire ai tre princìpi costitutivi fondamentali, e alla esigenza cognitiva di saperli distinguere adeguatamente (8).

Il punto di partenza è l’esperienza del dolore (duhkha) e la definizione dei mezzi per porvi rimedio. Il dolore è di tre generi: interno, esterno e divino. Il dolore interno è quello proprio di ciascun organismo vivente e include tutte le sue possibili affezioni: dalle malattie del corpo alla sofferenza psicologica («separazione da ciò che è caro e unione con quanto non è caro»); quello esterno è causato dai danni provocati dagli altri esseri viventi – animali e uomini (dalle punture degli insetti alle aggressioni vere e proprie); quello divino, infine, è causato da fattori climatici ed atmosferici – caldo, freddo, pioggia etc. La disamina delle cause del dolore permette di de- limitarne la natura all’esperienza del divenire e al conseguente sentimento dell’impermanenza del mondo e di se stessi. Solo una conoscenza adeguata della natura delle cose rende possibile la liberazione dal dolore. Una conoscenza «adeguata» perché «discriminativa» (vijñāna), ossia basata sulla distinzione «del manifesto (vyakta), dell’immanifesto (avyakta) e del conoscente (jña)» (9), dove il «manifesto» è l’insieme dei fenomeni di cui abbiamo esperienza, l’immanifesto è la natura o Prakriti, e il conoscente è Purusha, che, con buona approssimazione, è traducibile come «anima».

Questi due ultimi princìpi sono a tutti gli effetti distinti e non mescolabili – Sāmkhya è un sistema dualista –; tuttavia, nel corso del testo, si afferma a più riprese che la natura è insen- ziente anche se «appare come se fosse cosciente in virtù dell’unione con l’anima» (10), così come l’anima è senziente, ma ciò che sente e, in fondo, il fatto stesso di sentire qualcosa, è illusorio. Si tratterà, adesso, di esplicitare il senso di queste affermazioni.

La conoscenza dei due principi nella loro distinzione è affidata all’intelletto (buddhi), il quale, come si diceva, «distingue, ovvero fa discriminazione tra quanto è peculiare all’anima e quanto è proprio della natura» (11). «Conoscere» in quanto «discriminare» equivale a non attribu- ire all’anima ciò che è proprio della natura e viceversa.

Il «manifesto» è tutto quanto l’ambito fenomenico, tutto ciò che appare. Esso è effetto di una natura che, di per sé, è troppo sottile per essere percepibile, ma la cui esistenza può essere inferita dai suoi effetti: «Non perché la natura non esista, sibbene per la sua sottigliezza non riusciamo a percepirla. Però possiamo averne percezione attraverso i suoi effetti […]» (12).

L’immanifesto è la natura, con cui si traduce il sanscrito Prakriti – termine composto dal prefisso verbale pra, «fuori» e prakri, «fare, produrre, compiere». Essa è causa del mondo fenomenico e, nello stesso tempo, principio attivo della sua manifestazione. Va sottolineato, tutta- via, che Prakriti non è causa materiale dei fenomeni, in quanto non ne costituisce il sostrato – i fenomeni, quali effetti, sono già virtualmente preesistenti in essa (13)  – e può essere detta «causa efficiente» solo per approssimazione: essa non crea, nel senso che non porta qualcosa all’essere, ma lo «trae fuori di se stessa», lo porta alla manifestazione.

Causalità e potere manifestante vanno pensati insieme, come potenza unica e unitaria di una sola natura: esse definiscono la sua duplice proprietà di essere attiva e inattiva. La natura è pro- duttiva in quanto causa dei fenomeni, in un altro senso essa è non-produttiva. In primo luogo, Prakriti è onnipervadente, ossia non è da un’altra parte rispetto ai suoi effetti; (14) in secondo luo- go l’effetto preesiste nella causa (15); in terzo luogo non è possibile distinguere spazialmente la na- tura dagli elementi che la costituiscono: «La natura non si differenzia dai tre elementi costitutivi [i guna], non si può, cioè, distinguere: questi sono gli elementi costituitivi, questa è la natura» (16).

In che cosa consiste il mondo fenomenico? Essenzialmente in una concatenazione di cause che ha come punto di partenza l’intelletto, buddhi. Dall’intelletto si dipartono: il senso dell’io (ahamkāra, da «aham», «io» e «kri», «fare»: letteralmente, «ciò che fa, che produce, l’io»); i cinque elementi sottili (tanmātra), oggetto dei sensi – ossia: suono, tatto, odore, colore sapore, che sono elementi a tutti gli effetti, e non qualità sensibili come si sarebbe portati a pensare; i cinque corpi grossi (bhūta) – ossia: etere (17), aria, terra, fuoco, acqua. Da qui i dieci indriya: i cin- que sensi mentali (jñānendriya) – ossia: orecchio, pelle, occhio, lingua, naso – e i cinque sensi dell’azione (karmendriya) – voce, mani, piedi, ano, genitali. Infine manas, il senso interno, che svolge una funzione organizzatrice delle sensazioni (18).

Si vede, da quanto esposto, che l’intelletto (buddhi), nonché il senso dell’io e il senso interno, rientrano interamente nell’ambito del fenomenico e sono determinati da cause materiali, l’intelletto, in particolare, è determinato da una causa naturale, vale a dire Prakriti, di cui è la prima manifestazione. Anziché essere una facoltà spirituale – come diremmo noi – o l’esercizio di una sostanza-anima (di una res cogitans), esso si risolve in un dato naturale con l’insieme di tutte le sue operazioni; come scrive Aurobindo:

Secondo il Sānkhya, l’intelligenza e la volontà rientrano completamente nell’energia meccanica della Natura e non sono proprie dell’Anima; esse costituiscono la buddhi, uno dei ventiquattro tattva o princìpi cosmici. […] Benché questi princìpi [intelletto, senso dell’io e manas] siano soggettivi, rientrano nondimeno nell’energia incosciente e sono meccanici (19).

Come, e perché, avviene la manifestazione?

Nel testo leggiamo che «il manifesto è naturato dei tre elementi costitutivi (guna)» (20), e che l’immanifesto «è composto dei tre elementi costitutivi» (21); la loro agitazione produce uno stato di squilibrio nella natura, che porta alla manifestazione di enti composti da questi elementi secondo proporzioni variabili:

 Prakriti è costituita dai tre guna o modi essenziali d’energia: sattva, germe d’intelligenza, che so- stiene le operazioni dell’energia; rajas, germe di forza e d’azione, che crea le operazioni dell’energia; tamas, germe d’inerzia e d’inintelligenza, negazione di sattva e di rajas, che dissolve ciò che essi creano e sostengono. Quando questi tre poteri dell’energia di Prakriti sono in equilibrio, tutto è allo stato di quiete […]. Ma quando l’equilibrio si rompe, i tre guna cadono in uno stato d’instabilità in cui lottano tra di loro e reagiscono l’uno sull’altro. Comincia allora l’avvicendamento inestricabile e incessante di creazione, conservazione e dissoluzione, in cui si svolgono i fenomeni del cosmo (22).

Gli elementi costitutivi sono quindi sattva, un principio luminoso, rajas,  un principio di attività e tamas, principio di inerzia e limitazione. Queste attività assumono come forma fenomenica le caratteristiche di piacere, dolore offuscamento: «I tre elementi costitutivi hanno come natura propria, rispettivamente, il piacere, il dolore e l’offuscamento; e, rispettivamente, hanno il potere di illuminare, attivare e limitare» (23).  Gaudapāda commenta:

 Gli elementi costitutivi sono il sattva, il rajas, il tamas; e di essi il primo è essenziato di piacere, il secondo di dolore, il terzo di offuscamento […]. Si sopraffanno vicendevolmente nel senso che si manifestano con le loro proprie caratteristiche: piacere, dolore, eccetera (24).

Delle attività, di per sé non percepibili, appaiono nelle forme di piacere, dolore e offusca- mento. Questi non sembrano pertanto essere delle sensazioni o degli stati d’animo, quanto piuttosto dei fenomeni associati a dinamiche quali l’illuminazione etc… Piacere, dolore, of- fuscamento, quindi, sono semplicemente stati del corpo, ma allora c’è da chiedersi se questi vengano avvertiti dal corpo stesso, e in quale maniera, soprattutto se si pensa alla seguente affermazione (SK11): «Il manifesto è naturato dei tre elementi costitutivi, è indiscriminato, oggettivo, generale, insenziente, produttivo. Tale è anche la natura» (25). Sia il manifesto che la natura sono insenzienti, ossia, come detto nel commento, non avvertono

tutto ciò che è gioia, dolore, offuscamento […]. Il manifesto è insenziente; la natura, del pari, non avverte né gioia, né dolore, né offuscamento (26).

Viceversa l’anima sarebbe senziente nel senso di «consapevole […] di gioia, dolore, offuscamento» (27). Come intendere queste affermazioni? Esse, infatti, ad un orecchio occidentale e filosoficamente accorto, potrebbero suggerire delle analogie con la concezione cartesiana della res extensa, della materia, che appare sprovvista di ogni sensibilità e di ogni attività rappresentativa. Ogni corpo esteso, compreso il corpo umano, appare come una macchina, capace di soli movimenti; a questi corrisponderebbero, nell’anima, sentimenti di piacere e dolore, che traducono in immagini (idee, sensazioni, passioni) quelli che sono solo movimenti dei muscoli e delle ossa. Descartes, nell’Uomo, ma anche altrove, afferma che il corpo è come una sorta di statua o di macchina semovente, simile a tante altre prodotte dall’artificio umano:

Vediamo infatti che orologi, fontane artificiali, mulini e altre macchine di questo genere, pur essen- do costruite da uomini, non per questo mancano della forza di muoversi da sole (28).

 Vale la pena di citare un altro passo della stessa opera di Descartes in cui la differenza tra anima e corpo appare limpidamente. Se concepiamo il corpo umano come creato da Dio, non possiamo negare che egli vi abbia unito un’anima capace di provare sensazioni sulla base dei movimenti che si producono nel corpo:

Ora vi dirò che quando Dio unirà a questa macchina un’anima razionale […], le darà nel cervello la sede principale e la farà di una natura tale che, secondo i diversi modi in cui, per l’azione dei nervi, saranno aperte le entrate dei pori che si trovano sulla superficie interna del cervello, essa avrà diverse sensazioni (29).

L’essere delle macchine insenzienti non preclude pertanto il movimento: fontane, orologi, mulini a vento si muovono da sé, in base alle leggi della natura – che per Descartes, così come per il Sāmkhya sono le leggi del movimento – senza bisogno di essere mosse da un’intenziona- lità spirituale. A ciò si aggiunga che, nel Sāmkhya, il corpo non è mosso né animato dall’intel- letto, dato che quest’ultimo, piuttosto, è a sua volta «mosso» dalla natura stessa e dai guna che lo pervadono. Di più, c’è un passo che farebbe pensare alla compatibilità tra l’insensibilità e l’esercizio di una finalità: il latte è privo di sensibilità, ma ciò non impedisce che esso svolga la sua funzione nutritiva: «A quel modo che il latte insenziente funziona in vista della crescita del vitello, così la natura funziona in vista della liberazione dell’anima» (30).

La concezione presente nel Sāmkhya non è sovrapponibile a quella di Cartesio: piacere, dolore e offuscamento, infatti, sono stati del corpo e sono nel corpo, e non nell’anima, la cui caratteristica di essere «senziente» non va intesa nel senso di depositaria delle sensazioni (31). Il corpo, in altri termini, esercita interamente la facoltà sensitiva, senza nessun bisogno dell’anima, e non c’è nulla di contraddittorio nell’affermare che ad ogni organo di senso corrisponde una fruizione accompagnata da piacere, dolore, etc., del proprio oggetto specifico. Il fatto che il corpo percepisca, e sia in uno stato di piacere o dolore senza essere senziente, e che d’altro canto l’anima sia senziente senza pensare, discriminare né percepire, è senz’altro uno degli aspetti più qualificanti e ancora oggi provocatori del Sāmkhya. Per illustrare quanto affermato occorre soffermarsi sulla teoria della sensazione presentata nel testo per poi, infine, entrare nello specifico della natura del Purusha.

3. Il problema della sensazione

 Che cos’è allora la sensazione? E come si verifica? Abbiamo detto che i guna si accompa- gnano agli stati di piacere, dolore, etc. Ciò non deve stupire più di tanto: sia gli oggetti esterni, sia gli organi di senso, sia i corpi sottili (come i suoni, gli odori etc.) dipendono «da particolari modificazioni dei tre elementi costitutivi» (32). Gaudapāda aggiunge qualcosa in più, ossia che «gli elementi costitutivi, che sono insenzienti, si svolgono in forma degli undici sensi» (33): ciò dipenderebbe dal fatto che noi abbiamo i sensi, più una pluralità di oggetti esterni a causa di una «modificazione degli elementi costitutivi che avviene per natura propria».(34) Gaudapāda afferma, pertanto, che l’azione dei guna coincide con lo svolgimento della sensazione, in quanto produce dei sensi «atti a percepire differenti oggetti» (35): la produzione dei corpi esterni non è disgiungibile dalla produzione di altri oggetti o corpi, la cui caratteristica è di percepire. Tutta- via verrebbe da chiedersi se la percezione, nell’ambito dell’insenziente, sia un fatto naturale o piuttosto dipendente dalla volontà di un dio. Gaudapāda risponde a questa possibile obiezione affermando che la sensazione avviene in base ad una causa specifica, ossia propria del mondo naturale ed interna ad esso: «per i seguaci del Sāmkhya la causa è la natura propria» (36).

Leggiamo nel testo: «La funzione dei cinque sensi mentali nei rispetti del suono eccetera è rappresentata da mera percezione» (37). Gaudapāda commenta: «la funzione dell’occhio è limitata al colore e non si estende al sapore» (38). La percezione dei sensibili è la funzione svolta dall’organo di senso, ma l’organo di senso, proprio perché «naturale», dovrebbe essere insenziente. Come spiegare questa che potrebbe sembrare una contraddizione? Dobbiamo cercare altri passi che chiariscano. In SK5, «la percezione consiste nella determinazione dei vari oggetti attraver- so i sensi». (39)  Gaudapāda commenta: «Il percepire è dunque una determinazione, da parte dei sensi, ovvero l’orecchio e gli altri, degli oggetti che a ciascuno d’essi rispettivamente competo- no, cioè il suono e via dicendo»40. In G26 leggiamo che i sensi «hanno la funzione di apprendere i cinque oggetti» (41); mentre in SK32, leggiamo che «loro funzioni sono il prendere, il ritenere, il manifestare» (42). «Apprendere» equivale, qui, a «determinare», e «determinare» significa «manifestare»: i sensi mentali – scrive Gaudapāda – «manifestano oggetti specifici quali il suono,  il tatto, il colore, il sapore e l’odore accompagnati da piacere, dolore e offuscamento» (43). La sensazione, ossia l’apprendimento degli elementi accompagnato da piacere e dolore, si svolge interamente nel corpo, ma con la funzione di «manifestare» ciò che viene appreso e, solo in questo senso, di «determinarlo». «Determinare» significa «esibire», e l’azione dei sensi viene paragonata a quella di una lampada, che «rende manifesti tutti gli oggetti» (44). Va aggiunto che la determinazione si produce come tale, ossia come esibizione-manifestazione del percepito, per- ché la funzione dell’organo di senso è compresente con l’attività determinativa dell’intelletto, quella «presuntiva» del senso dell’io e quella organizzativa del senso interno. La determinazione dell’oggetto percepito può avvenire simultaneamente allorché

L’intelletto, il senso dell’io, il senso interno e gli occhi arrivano a vedere simultaneamente la forma per cui si può dire «questo è un palo»; così l’intelletto, il senso dell’io, il senso interno e la lingua apprendono immediatamente il sapore; e ancora l’intelletto, il senso dell’io, il senso interno e il naso apprendono immediatamente l’odore; non diversamente accade per la pelle e gli orecchi (45).

La determinazione può anche avvenire gradualmente: ciò si verifica quando la percezione non è del tutto chiara. In tal caso essa si accompagna al dubbio, che viene successivamente sciolto dal persistere della percezione e dall’attività dell’intelletto e del senso dell’io:

Per esempio una persona camminando per strada e scorgendo da lontano un oggetto è presa dal dubbio se si tratti di un uomo o di un palo; poi vede, sopra di esso, un suo proprio segno caratteristico oppure un uccello. Allora, formatosi il dubbio grazie al senso interno, l’intelletto si fa discriminante onde egli pensa «questo è un palo». Quindi per una definizione decisiva, interviene il senso dell’io, con la proposizione: «questo può essere solo un palo» (46).

In entrambi i casi, la percezione si definisce come «funzione dei quattro nei riguardi del percepibile»; si tratta di una funzione complessa che si compone di quattro fattori, ossia: intelletto, senso dell’io, senso interno più l’organo di senso coinvolto. In nessun caso si dà uso dell’intelletto indipendentemente dalla percezione, in nessun caso si dà attività dell’organo di senso che non sia accompagnata da determinazione: la percezione è immediatamente apprensione-determinazione-giudizio e quindi, proprio per questo, manifestazione. Intelletto, senso dell’io e senso interno sono le attività mediante le quali i tanmātra, nel loro contatto con i sensi, si danno a vedere. Ma a chi? In fondo, sembra poter ricavare dal Sāmkhya, l’intelletto – per il tramite degli organi di senso e degli altri sensi (senso dell’io e senso interno) – apprende, determina, ma non vede e non sente. Eppure, l’oggetto tattile è nella mano, l’oggetto visibile è nell’occhio, il piacere è nei genitali etc.

La tesi ricavabile da Sāmkhya è forse questa: l’errore, l’illusione, consiste nel credere che vi sia un soggetto spirituale, una sostanza che sta alla base di operazioni che, in realtà, si effettuano e si spiegano in base alle sole leggi di natura. Se c’è qualcosa come uno «spirito», questo non è un soggetto e non esercita alcuna di quelle funzioni che noi tenderemmo a definire «spirituali». È il caso di considerare più da vicino la natura e la funzione dell’intelletto, per poi conside- rare, per differenza specifica, le peculiarità dell’anima – o Purusha.

4. L’intelletto

L’intelletto è determinazione. La sua natura è costituita di virtù, conoscenza, distacco e potere ove prevalga il sattva; è costituita dal contrario nel caso che predomini il tamas (47).

La funzione svolta dall’intelletto, come già detto, è la discriminazione, ossia il giudizio che determina una cosa in quanto ne coglie la natura peculiare che la distingue da un’altra. A sua volta pervaso dall’attività dei guna, l’intelletto agisce in quanto ne è continuamente modificato.48 Le modificazioni dell’intelletto definiscono – secondo il commento di Gaudapāda – «otto parti, a seconda che si trovi nello stato di sattva o di tamas» (49): nel primo caso avremo «virtù», «conoscenza», «distacco», «potere»; nel secondo caso – quando cioè prevale il fattore inerziale tamas – avremo il contrario, ossia «non-virtù», «ignoranza», «attaccamento», «impotenza». Queste «parti», che Gaudapāda afferma risiedere nell’intelletto (50), sono da considerarsi degli stati naturali. In altri termini, la virtù è un fatto naturale almeno quanto la sua mancanza, la conoscenza è un fatto naturale almeno quanto l’ignoranza: in entrambi i casi – virtù e conoscenza, o la loro mancanza – dipendono dall’azione modificatrice degli elementi costitutivi sull’intelletto.

 5. Il corpo sottile

Il corpo sottile è l’ultima manifestazione della natura, ciò che più assomiglierebbe all’anima individuale, se non fosse che la sua natura è corporea. Esso si compone, infatti, di intelletto, senso dell’io, senso interno e dei cinque elementi sottili (suono, tatto, odore, colore, sapore). Le sue caratteristiche, oltre all’estrema sottigliezza, vengono elencate in SK40-41 (pp. 78-79): il corpo sottile è a sua volta «impregnato» dei modi d’essere (51); è incapace di fruizioni: non ha, di per sé, le prerogative del corpo composto dagli elementi grossi. Sensazioni, piacere, dolore, offuscamento si producono, come si è visto, in virtù dell’azione dei guna nel corpo grosso: le funzioni del corpo sottile sono, pertanto, mutuate dal corpo esterno52; è separato, non perché stia effettivamente da qualche altra parte rispetto al corpo esterno, ma perché è separabile, quindi in grado di trasmigrare. Il rapporto che lo lega al corpo esterno viene definito per analogia a quello di una pittura su un sostrato (p. es. un muro dipinto), o di un’ombra proiettata da un palo:

Come una pittura non può esistere senza un sostrato o un’ombra senza un palo, o altro, così il dis- solubile non può esistere senza un supporto, senza cioè il non-specifico (53).

Il rapporto con un sostrato non è un legame essenziale – quel sostrato, infatti, sia esso un muro o altro, è non-specifico, ossia non è necessario al corpo sottile che, pur avendo comunque bisogno di un sostrato, non è legato a questo o a quel sostrato. Il supporto di una pittura può essere sia un muro che una tavola, così come niente impedisce che una stessa pittura venga riportata su un altro sostrato, attraverso un restauro. Allo stesso modo, l’ombra di un palo non è sul palo, né è un «pezzo» del palo, ma si proietta a sua volta su un’altra superficie, quale che essa sia. Altri passi, con il relativo commento, chiariscono ulteriormente questa non essenzialità del legame fra corpo sottile e corpo esterno: il corpo sottile è in grado di trasmigrare e, anzi, «non è altro che la natura, con i suoi molteplici stadi, ad essere legata e a trasmigrare» (54).

La natura determina la condizione del corpo sottile nell’assumere questo o quel corpo […]. Il corpo sottile, che è composto di minuscole particole, cioè gli elementi sottili, qualora sia accompagnato da tutti i tredici sensi agisce negli uomini, negli dèi e nelle bestie. In che modo? Al modo di un attore. Infatti come un attore entrato con un certo vestito diventa un dio e, uscito (dalla scena), rientrerà poi nelle spoglie di un uomo e poi di un buffone, parimenti il corpo sottile in grazia della sua connessione con gli strumenti e i loro effetti, entrato nel grembo, ne esce ora come elefante, ora come donna ora come uomo (55).

Il corpo sottile – manifestazione della natura – è a sua volta determinato dalle configurazioni degli elementi naturali. Sulla base di queste configurazioni, assumerà questo o quel corpo o, meglio, si «vestirà» di un corpo piuttosto che di un altro, così come fa un attore (56). Il passo in questione fa riferimento a due concetti importanti quanto noti: il legame karmico, cui il corpo sottile è sottoposto, e la cosiddetta «trasmigrazione», o samsāra: «ogni nuovo corpo – afferma Gaudapāda – si ottiene in base agli impulsi karmici via via precedenti» (57).

«Karma» è il termine impiegato per esprimere una rigorosa e quasi meccanica concatena- zione di cause ed effetti con riferimento specifico all’azione umana: quand’anche inteso come una sorta di causalità «morale», essa non è però meno deterministica nel suo effettuarsi, e non comporta alcun riferimento alla capacità di un attore di formulare liberamente delle scelte e, altrettanto liberamente, di porle in atto. Allo stesso modo, gli effetti, che consistono nel ciclo delle rinascite, non hanno nulla a che vedere con il disegno di un’intelligenza provvidenziale sovramondana che elargisce premi e punizioni. Karma, come la sua stessa etimologia potrebbe indicare, è una ulteriore versione dell’impersonale e cieca necessità della natura.

Proviamo a spiegare perché vi sia legame karmico e in che senso questo conduca al samsāra. Come si è già visto, secondo il Sāmkhya l’effetto è consustanziale alla causa, in un certo senso preesiste virtualmente in essa; ne segue che le conseguenze dell’azione – sia essa buona o cattiva – ricadono principalmente sull’attore più ancora che sulla realtà esterna: virtù e vizio, paradossalmente, producono entrambi legami karmici. Le conseguenze dell’azione lasciano come delle tracce (samskāra) nell’intelletto e nel corpo sottile, determinando delle abitudini e delle tendenze che stanno alla base delle future rinascite:

serva le impronte (samskāra) lasciate dalle sue azioni e dalle esperienze fatte durante la sua vita, e tale deposito karmico matura al momento della morte determinando il tipo e la qualità di detta rinascita (58).

Il samsāra è, a sua volta, un concetto coerente con il dinamismo continuo della natura: più che alla «trasmigrazione», esso allude all’immagine della ruota, o meglio di ruote concentriche che disegnano il ciclo delle nascite e delle morti. «Samsāra» può essere tradotto anche con «confluenza»; in questo contesto, l’impiego di tale significato si potrebbe spiegare così: poiché la natura è una ancorché in continua agitazione, poiché le forme della sua manifestazione – gli elementi di cui essa si compone – sono gli stessi, ogni ente ed ogni vita individuale possono, di principio, confluire in ogni altro ente o vita individuale in tempi successivi (59). Il che è come dire che chi è attaccato alla propria vita, al punto da desiderarne la persistenza – quand’anche in un condizione che consenta un migliore esercizio della virtù – porta su di sé la responsabilità dell’esistenza di tutto quanto il mondo: non è infatti il singolo a rinascere, ma è il mondo a persistere nell’esistenza, in una forma o nell’altra.

Una volta descritta la sequenza delle manifestazioni di Prakriti, occorre svolgere alcune con- siderazioni prima di affrontare il tema dell’anima. Nel Sāmkhya non sembra presente un’idea organica e unitaria di corpo (per es.: il corpo umano individuato): al suo posto troveremmo, piuttosto, quella che vede il corpo come l’effetto dell’aggregazione più o meno stabile di par- ticelle dovuta all’agitazione degli elementi costitutivi (60). Di queste aggregazioni, il corpo sottile sembra quella dotata di una relativa stabilità o permanenza, dovute al suo carattere «sottile», che rende meno facile la dissoluzione. Peraltro, essendo composto di intelletto, senso dell’io e senso interno, esso include fattori che noi definiremmo «soggettivi» – malgrado qui il termine sia privo di senso – come la volontà, l’identificazione, l’attaccamento, che inducono il corpo sottile a permanere. Ma potremmo anche dire che la volontà di continuare ad essere – e quindi di trasmigrare – coincide con la naturale tendenza di un organismo a persistere nel proprio essere: lungi dal trattarsi di un fatto soggettivo, essa si spiegherebbe in base alle leggi naturali del movimento.

6. L’inverso della natura: Purusha

Il terzo principio – oltre al fenomeno e alla natura – è Purusha, ossia l’ «anima». Come ha sostenuto Aurobindo, «Purusha è l’Anima, non nel senso comune o popolare del termine, ma in quello di Essere puro e cosciente, immobile, immutabile e in sé luminoso» (61); a sua volta Arena ne parla come di un «elemento astratto, ancorché di rilievo e che, solo, può rendersi conto di realtà quali la reincarnazione e la liberazione […]. A prescindere dal purusha, il mondo mate- riale verrebbe a mancare dell’apporto della consapevolezza»(62). Se proseguiamo con la lettura del testo, notiamo qualcosa di nuovo: mentre Prakriti è una, vi sono molteplici Purusha. Le differenze tra individui – alcuni saggi, altri meno, altri per nulla; alcuni felici, altri infelici etc. – la non-contemporaneità delle vite individuali, provano la pluralità delle anime. Se vi fosse una sola anima del mondo, la durata della vita di ciascuno sarebbe identica e simultanea a quella di ciascun altro; tutti sarebbero nello stesso stato, di virtù o del suo opposto etc.; tutti agirebbero simultaneamente allo stesso modo; gli elementi costitutivi si troverebbero nella medesima com- posizione in ciascun ente fenomenico:

La pluralità delle anime è dimostrata da queste prove: nascita, morte e organi sono fissati separata- mente per ogni individuo, l’attività non è simultanea; esistono infine le diversità dovute ai tre elementi costitutivi (63).

Gaudapāda commenta:

Se infatti esistesse un’unica anima, al nascere di quest’una sorgerebbero tutte le altre, mentre alla sua morte anche le restanti verrebbero meno; e se uno fosse affetto da deficienze corporali come la sordità o la cecità, fosse muto, mutilato e zoppo, tutti quanti sarebbero altresì sordi, ciechi, mutilati e zoppi. Ma non è così, la pluralità delle anime è dimostrata appunto dal fatto che nascita, morte e organi sono fissati separatamente per ogni individuo (64).

La varietà delle esistenze, le differenze nei percorsi specifici di ciascuna di esse provano quindi l’esistenza di una molteplicità di anime. Il sistema Sāmkhya si trova, in certo modo, ob- bligato ad introdurre tale molteplicità: Prakriti e Purusha potrebbero, infatti, bastare a spiegare l’esistenza del mondo fenomenico, ma mai la varietà delle sue forme e la pluralità dei destini individuali. Poiché Prakriti è una e identica per tutti gli enti fenomenici, bisogna postulare la molteplicità dei purusha perchè l’ideale della salvezza di ciascuno possa avere la possibilità anche  solo di essere formulato.

Naturalmente, l’opzione a favore del pluralismo dei purusha non risolve il problema principale, che consiste in ciò: che cos’è e che cosa fa purusha? Di che natura è il rapporto che lo lega a Prakriti? Esaminiamo più da vicino le caratteristiche dell’anima. Esse vengono definite per contrasto rispetto a quelle della materia: «Dal contrasto discende che l’anima è testimone, isolata, indif- ferente, percipiente e non agente» (65). A differenza della materia, l’anima è isolata, nel duplice senso che non è legata alla materia e che, come specifica Gaudapāda, è «diversa dai tre ele- menti costitutivi»,(66) e così come la natura è agente e non senziente, così l’anima è senziente e non agente. «Senziente» nel duplice senso che a) «l’anima è consapevole… di gioia, dolore e offuscamento» (67), b) «all’anima è dato di vedere la natura nei suoi effetti, cominciando dall’in- telletto e finendo con gli elementi grossi» (68).
L’anima è l’osservatore di quanto si svolge nel corpo e, più in generale, nel mondo dei fenomeni naturali; in più essa, in quanto «senziente», avrebbe consapevolezza di ciò che osserva, quella consapevolezza che mancherebbe alla natu- ra: la natura, infatti, ripetiamolo, è insenziente nel senso che «non avverte né gioia, né dolore, né offuscamento» (69), e tuttavia essa «appare come se fosse cosciente»(70). Allo stesso modo sembra che l’anima sia attiva, sembra che essa sia il soggetto di attività che si producono in base alle sole leggi di natura. A chi sembra? A chi «appare» questa sembianza? E quali sono le attività che sembrano appartenere all’anima? Infine, perché ciò avviene? Partiamo da quest’ultima domanda, l’unica che sembra ricevere una risposta certa e chiara:

Il dissolubile, di per sé insenziente, diviene come senziente in virtù dell’unione con l’anima; d’al- tro canto l’anima, pur essendo indifferente, si fa come attiva mercé all’attività propria degli elementi costitutivi (71).

L’unione dell’anima e della natura si spiegherebbe in base all’unica caratteristica che presenta- no in comune, ossia l’onnipervasività: la natura è dappertutto, e lo stesso vale per l’anima, anzi, a maggior ragione, per le anime: non a caso Gaudapāda ne parla quasi negli stessi termini: «l’imma- nifesto è pervadente, per il fatto che tutto permea» (72); «l’anima, che tutto permea, è pervadente»: (73) il contatto tra Prakriti e Purusha è, quindi, «risultante dalla loro onnipervadenza» (74).

Tuttavia, qualche problema rimane: l’anima, infatti, per definizione è l’inverso della natura; essa possiede qualità opposte a Prakriti, il che rende inspiegabile la loro unione, nonché la natura di tale unione. Ancora: l’anima è definita come «isolata» e non composta né permeata dagli elementi costitutivi, che invece permeano di sé Prakriti: il commento a SK20 afferma a chiare lettere che «sono gli elementi costitutivi a compiere la determinazione, l’anima in nessun modo» (75). Per cercare di spiegare tale unione, Gaudapāda ricorre a due esempi: il primo è quello di un vaso – immagine della natura – che, messo a contatto con qualcosa di freddo o di caldo, inevitabilmente finisce col modificare la propria temperatura, pur non avvertendo né il freddo né il calore; il secondo è quello di un uomo onesto che, per il fatto di essere visto accanto a dei ladri, viene a sua volta spacciato per ladro (76).
I due esempi non sono dello stesso genere; nel primo caso si fa riferimento a una contiguità che produce un’affezione: un corpo freddo, messo a contatto con un altro di diversa temperatura, lo raffredda e a sua volta si riscalda; così l’anima, a contatto con la natura, si concepisce come se agisse e nella natura si produce un effetto di sensibilità. Il secondo esempio fa riferimento alla percezione confusa che un osservatore potrebbe ricavare da un fenomeno complesso colto nel suo movimento: se vedo un individuo accanto ad un altro che so essere un ladro, penso che anche il primo sia un ladro. Vedere due cose insieme può indurre a pensare che si tratti di una cosa sola. Potremmo, però, immaginare un terzo esempio che ci mostri la coerenza di fondo dei due proposti da Gaudapāda: se in un recipiente versiamo dell’acqua e dell’olio, questi due liquidi restano contigui – l’uno sopra l’altro – senza fondersi in uno; così farebbero Prakriti e Purusha, le cui caratteristiche non sono tali da consentire effettivamente la loro unione. Tuttavia, nulla toglie che un osservatore, vedendo il recipiente colmo di acqua e di olio, possa per un attimo pensare che si tratti di uno stesso liquido.

Ma, ancora: «chi» viene indotto a pensare ciò? Evidentemente, chi sia dotato di facoltà per- cettive e conoscitive. Ma nel testo è piuttosto chiaro che le sensazioni sono prerogativa dei soli organi di senso – nonché dell’intelletto, che è a sua volta un fenomeno della natura – e che la conoscenza risiede nel corpo sottile (77).

Rileggiamo, quindi, SK19. Troviamo, come detto, che Purusha  è «testimone», «isolata», «percipiente» e «non-agente» (78). Ripartiamo dalla domanda: che cosa significa «percepire» a proposito dell’anima? Sappiamo già che il discorso sull’anima viene svolto «per contrasto» rispetto a quello sulla natura, quindi, ad es., se la natura è «agente», commenta Gaudapāda, l’anima «sarà percipiente e non agente nei rispetti di queste azioni» (79). Si noterà, per altro, che qui il termine «percipiente» viene associato ad altri come «indifferente» e «testimone». Diversamente, in SK28, si parla del «percepire» come della «funzione» – ossia dell’attività – degli organi di senso: qui «percepi- re» non è contrapposto ad «agire», perché anzi è l’azione specifica degli organi di senso (80). Di fronte ad «azioni di questo genere», l’anima è percipiente e non agente, in altri termini: l’anima potrebbe essere percipiente nei confronti delle attività svolte dai sensi – ossia della percezione. L’impiego di uno stesso termine – «percezione» – non deve, quindi, indurre a pensare che si tratti della stessa attività, svolta un po’ dai sensi e un po’ dall’anima.

Il fatto che l’anima venga definita «indifferente» in SK19 permetterebbe di chiarire quan- to affermato in G11, ossia che «l’anima è senziente: è consapevole, cioè, di gioia, dolore, offuscamento»81. L’anima è consapevole del fatto che, sotto i suoi occhi, il composto corporeo si trova, per esempio, in uno stato in cui predomina l’elemento costitutivo sattva; tuttavia, essendo indifferente, essa non «gioisce» ma si limita a percepire lo stato di piacere in cui è avvolto il corpo.

Purusha è testimone: un testimone non è colui che percepisce questa o quella qualità, ma è colui che assiste allo svolgersi di un’azione o al prodursi di un evento. Nel Sāmkhya, come detto, l’occhio percepisce l’elemento sottile-colore, l’udito percepisce l’elemento sottile-suono e così via. L’anima assiste come testimone alle azioni del corpo e in generale della natura. Se l’occhio percepisce il colore, l’anima osserva quell’azione che è la percezione del colore: essa non osserva i dati sensibili, p. es. quelli visivi, ma osserva lo svolgersi della funzione in atto della vista (in cui ci sono anche gli elementi sottili, oltre ai sensi); essa osserva l’azione dei guna e gli stati di piacere, dolore, offuscamento da essi procurati, ma non prova né piacere, né dolore, né offuscamento. All’anima non appartiene alcuna attività, ma solo l’osservazione delle attività svolte dalla natura e dai suoi fenomeni. L’anima non pensa, almeno nel senso in cui noi diciamo che l’intelletto pensa; non percepisce, almeno nello stesso modo in cui percepiscono i sensi; non è cosciente di sé – prerogativa del senso dell’io – né può essere considerata come un’autocoscienza che avverte se stessa nel proprio avvertire le cose (82)  – prerogativa anch’essa dell’insieme dei fattori della conoscenza confluiti nel corpo sottile.

Ma allora che cosa, propriamente, avverte l’anima? Nel testo leggiamo: «Colà l’anima, che è senziente, patisce il dolore prodotto dalla vecchiaia e dalla morte, fino al venir meno del corpo sottile; da questo, per sua natura, sorge il dolore» (83). L’anima, insomma, non sente tanto piacere, dolore e offuscamento – che, come detto più volte, sono stati del corpo che dipendono dalla prevalenza di questo o quello dei tre elementi costitutivi – né percepisce colori, suoni, odori etc. Quello che l’anima avverte è una visione d’insieme di processi naturali singolari, raccolti nel ciclo della vita, con la nascita, la vecchiaia e la morte. L’anima patisce dell’invecchiare e del morire, ossia di processi che, di per sé, dolorosi non sono: la vecchiaia non è dolorosa, do- lorosi sono, casomai, i singolari impedimenti del corpo che ad essa si possono accompagnare; analogamente, il morire, di per sé, non implica dolore. In quanto testimone di un processo, l’anima sembra patire dell’insieme del processo stesso. Ma, ancora, perché ciò avviene? Come è compatibile con le caratteristiche dell’anima? Ciò avverrebbe a causa dell’unione di Prakriti e Purusha, ma si è già sottolineata la difficoltà di concepire un tale unione, giacché non si tratta di un confluire l’una nell’altra, né di un divenire-uno. Casomai, si tratterebbe di un accompa- gnarsi, così come uno zoppo si accompagna a un cieco (84).

7. L’illusione e ciò che salva

Chi si inganna? Chi non è libero e cerca di perseguire la propria liberazione?

Il corpo sottile non è libero, né potrebbe esserlo in alcun modo, in quanto soggetto al karma e al samsāra (quest’ultimo, peraltro, a sua volta inevitabile, se lo intendiamo nel senso di una «confluenza» di enti di natura composti dagli stessi elementi): la liberazione coincide con la dissoluzione del corpo sottile.

Non può essere Purusha ad ingannarsi, in quanto non soggetto né al karma, né al samsāra, né all’attività di pensiero. Peraltro, non essendo legato a Prakriti, non ha nulla da cui liberarsi; Purusha, non essendo schiavo, non ha neppure la possibilità di essere libero; non ingannandosi, non può neppure perseguire la verità: non è libero né non-libero, non è sapiente né ignorante.

Abbiamo visto che il testo insiste sul fatto che l’inganno si origina dall’unione di anima e natura, ma abbiamo anche visto che tale unione non ha senso, trattandosi di cose eterogenee che non possono confluire l’una nell’altra; né, d’altra parte, ha senso parlare di disunione, essendo i due princìpi onnipervadenti, ossia «dappertutto». Non ha senso dire che qui c’è Prakriti, e là c’è Purusha, in quanto le determinazioni spaziali acquisiscono il loro significato solo sul piano fenomenico.

Aurobindo propone di considerare l’unione tra i due princìpi nei termini di un «riflesso» – termine che, in effetti, consente di mantenere la posizione dualista del Sāmkhya: non c’è nessuna fusione, tuttavia è come se la natura proiettasse la propria ombra sull’anima e questa, a sua volta, credesse di svolgere quelle attività, compreso l’esercizio dell’intelletto, che sono, invece, solo naturali.

A causa del riflettersi di Prakriti in Purusha la luce della coscienza dell’Anima viene attribuita alle operazioni dell’energia meccanica; avviene che il Purusha, osservando la Natura come testimone, dimentica se stesso, cade nell’illusione (generata nella natura) e crede di essere lui a pensare, a senti- re, a volere, ad agire, mentre in realtà le operazioni di pensiero, di senso, di volontà e di azione sono sempre effettuate dalla Natura e dai suoi tre modi, e mai completamente da lui (85).

L’immagine del riflesso merita di essere approfondita. Propongo però, piuttosto che di «riflesso», di parlare di «proiezione», e vedere il rapporto tra Prakriti e Purusha in analogia con il movimento di un proiettore che trasmette delle immagini su uno schermo (86); Purusha è lo schermo sul quale vengono proiettate le attività di Prakriti: se questa è attività meccanica, l’anima è il luogo nel quale l’attività perviene alla sua visibilità.

Seguiamo più da vicino l’analogia. Da una parte abbiamo il proiettore e le sue operazioni, ossia: il proiettore stesso, i suoi ingranaggi che si muovono, la pellicola, sulla quale sono stam- pate delle immagini che vengono illuminate da un fascio di luce; le immagini, come la pellicola stessa, si trovano già nel proiettore, esse sono immagini singolari distinte, che vengono mosse in successione. Sullo schermo, dall’altra parte, si vede un’immagine in movimento, ma non tutto il resto, vale a dire: non si vede il proiettore, non si vede la pellicola, non si vede neppure lo schermo, che è completamente ricoperto dall’immagine. L’immagine – appunto – e non le immagini: quelle immagini che sulla pellicola sono distinte e mosse in successione, sullo schermo appaiono come una sola immagine in divenire, come unitaria processualità organica di un’immagine-movimento (87). Cose distinte appaiono come una cosa sola in movimento, ciò che è mosso appare come se si muovesse da sé, come dotato di un’intenzionalità che spinge all’azione – si potrebbe anche dire così: cause del movimento appaiono come motivi dell’azione (88).
Tale illusione – se così si può chiamare – dipende dal dinamismo della natura, dalla velocità del suo movimento, che appare come lo svolgimento unitario di una sola cosa, impedendoci di vedere che si tratta, in realtà, dell’agitazione di singole particelle. A titolo di esempio, possiamo riportare una considerazione di J. Krishnamurti volta proprio alla decostruzione della visione unitaria dell’io:

quando un meccanismo gira velocissimo – sostiene Krishnamurti – ad esempio un ventilatore con le sue pale, le varie parti non sono visibili, ma appaiono come un tutto unico. Allo stesso modo l’io, il «me», sembra un’entità unica, ma, se rallentiamo le sue attività, vedremo che non è un’entità unica (89).

L’illusione consiste, quindi, nel ritenere che le parti siano un intero, e che questo intero coincida con lo schermo, vale a dire con l’anima. Tuttavia, questo «errore» si verifica perché la natura non può fare diversamente che muoversi così come si muove. Non c’è un soggetto che coglie il vero o si inganna, perché ciò che chiamiamo illusione è un evento che dipende dalla ra- pida congiunzione di parti in movimento e dalla proiezione di questa congiunzione sull’anima.

L’illusione non è un problema epistemologico (90), ma un fatto ontologico, come viene provato dai passi nel testo in cui si afferma che tanto gli impedimenti alla conoscenza, quanto le forme di ottenimento della stessa sono effetti dell’azione modificatrice dei guna. In questo senso è possibile affermare che l’apparire dell’immagine di un io sostanziale – di una res cogitans – coincide con l’accadere naturale dell’illusione: l’errore, quindi, non è un pensiero scorretto, ma è il fatto naturale del pensiero, ossia la sua fatticità e la necessità – ancorché transitoria – della sua ipostatizzazione fenomenica. Ripetiamolo: l’illusione nasce dal fatto che una pluralità di fattori, in movimento simultaneo e congiunto, proietta sull’anima l’immagine unitaria di un io unico e sostanziale, facendo perdere di vista che la conoscenza è un processo, il cui effetto emerge dall’azione simultanea, e solo per questo congiunta, di un complesso di fattori di per sé non conoscenti né «intelligenti», mai in nessun modo riconducibili ad unità.

Ora, come un proiettore ha bisogno di uno schermo perché la manifestazione si effettui, così Prakriti ha bisogno di Purusha: se la natura è il luogo in cui gli eventi si producono, l’anima è il luogo in cui essi pervengono a manifestazione: «L’unione dell’anima con la natura ha per iscopo la visione» (91).

La manifestazione si produce come un doppio processo di identificazione: in primo luogo, dei movimenti singolari e locali vengono visti come il movimento unitario di un solo organi- smo; in secondo luogo, i singoli movimenti, una volta raccolti, vengono identificati con il luogo in cui questi movimenti appaiono. Detto in altri termini: il percepire – funzione dei sensi – vie- ne identificato con l’osservare – peculiarità dell’anima. Ma non è l’anima a fare tutto questo: essa non vede, non pensa, non desidera, in quanto è solo l’impassibile superficie riflettente dell’attività di Prakriti. L’ «unione» tra anima e natura è, piuttosto, l’estrema prossimità tra Purusha e il complesso mobile del mondo fenomenico. Questo eccesso di contiguità fa sì che l’anima non possa osservare la natura e i suoi processi, ma solo i suoi effetti – e li osservi su di sé.

Tutto questo – l’illusione, ma anche il suo contrario, la liberazione – accade da sé, per na- tura: «è soltanto la natura che lega o libera se stessa» (92); poiché è soltanto la natura che agisce, la distinzione tra «azioni intenzionali» ed «eventi naturali» perde di senso: come non c’è un soggetto del pensiero, così non c’è nemmeno un soggetto dell’azione. Allo stesso modo, l’attività discriminatrice di buddhi scompone l’immagine nelle sue com- ponenti, considera separatamente la natura e le qualità di ciascuna di esse e fa svanire l’illusio- ne, e questo non perché l’intelletto sia adeguatamente condotto, ma, semplicemente, perché è nella sua natura fare così. Il fatto che ciò non si verifichi sempre dipende dall’attività dei guna, che a volte produce chiarezza, a volte offuscamento.

È possibile ravvisare in questa posizione una sorta di intellettualismo etico? La conoscenza, di per sé, sarebbe sufficiente a produrre degli effetti reali come un’autentica liberazione? Questa domanda può sorgere solo a condizione di pensare la conoscenza come un’attività puramente mentale-spirituale, di contro a un mondo materiale che non potrebbe restarne immediatamente intaccato: solo allorché si distingue il piano della conoscenza da quello della realtà ha senso domandarsi se l’una possa avere effetti sull’altra. Ma va detto che, nel Sāmkhya, la conoscenza è una pratica reale, che interviene sul reale in quanto coinvolge, nel suo esercitarsi, degli organi reali:

In forza di una conoscenza che si manifesta così: questa è la natura, questo l’intelletto, questo il senso dell’io, questi i cinque elementi grossi; l’anima, a sua volta, è distinta da tutti questi; in forza, dico, di tale conoscenza il corpo sottile cessa di esistere e si perviene alla liberazione (93).

La conoscenza si manifesta (è manifestazione della natura) come attività dell’intelletto che analizza e distingue. Tale attività produce effetti materiali in virtù della materialità dell’intel- letto stesso: l’analisi è realmente scomposizione e dissoluzione dei composti. È possibile cono- scere rettamente un composto solo se lo si smonta, ma, una volta effettuata tale scomposizione, il composto non c’è più, e «l’unione della natura con l’anima è rivolta all’isolamento» (94). Ne consegue la dissoluzione del corpo sottile e il venir meno dell’idea stessa di un nucleo egoico, soggetto della conoscenza e dell’azione, ipostasi fittizia del movimento delle particelle della natura:

grazie all’esercizio sui princìpi nasce una conoscenza la quale, atteso che (uno si dice): «Io non sono; nulla è mio; questo non sono io», è totale: questa conoscenza, non dandosi errore, risulta unica e pura (95).

L’intelletto, quindi, in virtù della necessità della sua natura, contribuisce alla dissoluzione delle apparenze. Si compie, così, l’opera della natura e, sottolinea il testo, a solo vantaggio dell’anima. In SK56 si legge:

questo sforzo in quanto vien fatto dalla natura, a cominciare dall’intelletto fino agli elementi grossi specifici, avviene per la liberazione di ogni singola anima cioè a vantaggio di un altro, pur sembrando avvenire per il proprio (96).

Gaudapāda commenta:

La natura è simile a quegli che, accantonato il proprio interesse, si dedica a quello dell’amico. L’anima, a sua volta, non rende alla natura nessun bene in cambio (97).

Come interpretare questi brani, che sembrano introdurre nella natura una causa finale, come se l’anima fosse il telos della natura? L’energia di Prakriti dipenderebbe da una teleologia che la pervade, per cui essa si muoverebbe in vista dell’anima (98)? Il passo appena citato anticipa quanto si legge in SK60:

La natura, che è generosa e provvista degli elementi costitutivi, con innumerevoli mezzi, senza alcun beneficio per sé, compie l’utile dell’anima che è sprovvista degli elementi costitutivi e non la ricambia in nulla (99).

In che cosa consiste il «vantaggio» che la natura apporterebbe all’anima? L’anima è priva di elementi costitutivi; non potendo agire non può, evidentemente, nemmeno «ricambiare il favore», ma, nello stesso tempo, essendo priva di corpo, di organi di senso e di intelletto, essa non può sentire, né pensare. Allora, forse, il vantaggio consiste in nient’altro che in un corretto esercizio delle facoltà naturali, in particolare – anche se non solo – della funzione dell’intelletto. L’intelletto, esercitando correttamente la sua attività, ossia quella di discriminare, agisce secondo natura e, nello stesso tempo, a vantaggio dell’anima. Ritorniamo, quindi, a SK56 e leggiamo il commento di Gaudapāda:

anche se la natura appare agire per il proprio vantaggio, non agisce in realtà per sé, ma per quello altrui. Il vantaggio consiste nell’apprensione degli oggetti dei sensi quali il suono e tutto il resto e nell’apprendere la distinzione tra gli elementi costitutivi e l’anima (100).

Ancora, in G58 troviamo un passo che fa ulteriore chiarezza: si legge, infatti, che la natura agisce per liberare l’anima, così come la gente comune agisce per realizzare i propri desideri.

Viene abbandonata ogni traccia di teleologia: la natura agisce per sé stessa e secondo le sue leggi: agendo per sé, porta a compimento un ciclo che si conclude con la separazione dei due princìpi e il loro isolamento. In questo senso essa agisce a favore dell’anima: il perseguimento della propria specificità coincide con il mantenimento della specificità dell’anima; agendo secondo la propria necessità, la natura lascia essere l’anima nel proprio isolamento. Solo così si può dire che il «desiderio» della natura è il conseguimento del fine dell’anima. Questo fine «È duplice, consistendo vuoi nella fruizione degli oggetti dei sensi, vuoi nell’apprensione della differenza che corre tra anima e natura» (101). La natura agisce sia sul piano della percezione, sia su quello dell’intellezione. Entrambe queste attività sono prodotto del meccanismo della natura, esse tuttavia costituiscono il «duplice vantaggio» dell’anima. La natura, lasciata a se stessa, libera di procedere in base alle sue proprie leggi, per necessità naturale persegue il fine dell’anima. Si sottolinea ancora una volta la funzione salvifica dell’attività intellettiva – intesa come facoltà che consente di distinguere tra natura e anima attribuendo a ciascuna ciò che le è proprio. Nello stesso tempo, però, Gaudapāda afferma che il vantaggio dell’anima non solo non è in contraddizione con la fruizione degli oggetti dei sensi, ma addirittura si accompagna ad essa, in quanto la consapevolezza della distinzione tra l’anima e la natura consente non solo l’effettivo distacco dei due princìpi, ma anche una più adeguata fruizione degli oggetti dei sensi.

8. Conclusioni

Come la danzatrice smette di danzare dopo essersi mostrata al pubblico, così la natura cessa la sua attività essendosi manifestata all’anima (102).
Questa immagine, assai suggestiva, con cui in fondo si conclude l’esposizione del Sāmkhya è qualcosa di più di una metafora, di un modo inadeguato per esprimere qualcosa che va oltre la nostra capacità di comprensione e di articolazione verbale. Se Purusha è il luogo in cui Prakriti perviene alla visibilità, non è poi così improprio dire che la natura, che agisce per liberare l’anima, a tutti gli effetti si esibisce di fronte ad essa come una ballerina.

Questa immagine fa pensare ad un ciclo cosmico che si conclude: uno stato entropico nel quale i due princìpi si separano, una sorta di cessazione del movimento e della produttività na- turale. In breve: la fine del mondo, in attesa che il ciclo ricominci in altra forma, che il sipario si alzi nuovamente e lo spettacolo si riproponga. È senz’altro a questo che allude il compilatore della Sāmkhyakārikā, ma forse non unicamente. Proveremo quindi a proporre un’altra ipotesi di lettura, ma prima è opportuno ripercorrere in sintesi il cammino svolto e i risultati a cui siamo pervenuti.

Prakriti è energia che porta alla manifestazione, essa «getta i fenomeni fuori di sé» pur non smettendo di contenerli in sé: la sua operazione causale è piuttosto una sorta di esplicitazione dell’implicito. Il mondo fenomenico è composto da corpi grossi e leggeri, da funzioni e da qualità. Se Prakriti è la dynamis della manifestazione, Purusha ne è piuttosto lo schermo luminoso, il luogo in cui il manifesto perviene alla propria visibilità. Purusha e Prakriti sono onniper- vadenti e inseparabili, dove c’è l’uno, c’è anche l’altro – anche se sono differenti per natura. Purusha è la superficie riflettente non tanto di Prakriti, quanto dei fenomeni: essa è testimone dello svolgimento del mondo fenomenico. Poiché la manifestazione si produce sull’anima, o in stretta contiguità con essa, viene impedita una visione chiara e distinta dei suoi fattori – funzio- ni, corpi, qualità – e sorge l’illusione dell’esistenza di sostanze individuali psicofisiche, dotate, per esempio, di una facoltà di pensiero nella quale risiederebbero, come attributi, intelligenza e volontà. Sia chiaro: l’illusione non verte sull’esistenza dei corpi, né su quella dei pensieri, ma solo sulla loro sostanzializzazione. Il pensiero è un effetto dovuto all’incontro di diversi fattori naturali, di per sé non pensanti, ma in grado di produrre congiuntamente un fatto di pensiero.

La «creazione», o meglio la «manifestazione», consiste nell’illusione che ci sia un nucleo individuale dei corpi – il corpo individuale (in realtà un aggregato di particelle, funzioni e qualità) – e un nucleo individuale e sostanziale dei pensieri – ossia la mente intesa come anima e come res cogitans (anche qui, solo l’effetto dell’aggregazione di determinati fattori materiali). Di più, «creazione», «illusione», «finalità» costituiscono una costellazione di concetti solidali. La creazione, infatti, è l’apparizione di unità fisiche e psicofisiche, ma solo in quanto alcune particelle in movimento appaiono sotto la forma di composti. Questi composti sembrano essere sorgenti di un’attività orientata verso un obbiettivo, ossia portatori di una intrinseca teleologia; l’azione rivolta verso uno scopo – ossia teleologica – è il modo in cui appare esteriormente il movimento concomitante di particelle sottili e non visibili ad occhio nudo: solo questo è reale, ma esso si rivela unicamente nelle sue manifestazioni più macroscopiche, con il risultato che si attribuisce al composto ciò che è proprio dei soli componenti. In altri termini, noi possiamo pensare – come ci suggerisce il Sāmkhya – che in natura vi siano qualità, funzioni ed elementi la cui azione concomitante e congiunta produce come effetto dei composti. Viceversa – e questa è l’illusione – possiamo limitarci a quanto appare e ritenere che i composti esistano già dall’inizio, e che qualità, funzioni ed elementi ne siano gli attributi o i predicati (per cui, ad es., il composto psicofisico umano pensa, desidera, vede, cammina, afferra e così via…): così, però, invertiamo l’ordine della natura e scambiamo la causa con l’effetto. L’effetto dell’azione di alcuni fattori naturali viene percepito come la struttura sottostante questa stessa azione, come la sostanza di cui questi fattori-funzioni sarebbero le attività (103).

La liberazione si pone al termine dell’esercizio della funzione intellettiva. Si tratta di un fatto naturale, e come tale, in certa misura necessario. Tuttavia, esso non è inevitabile, ma con- tingente nella sua necessità, perché il suo esito è vincolato ad alcune variabili: la pluralità dei purusha – per cui la liberazione si compie solo singolarmente e mai globalmente in un colpo solo –; l’attività molteplice dei guna; l’eventualità che si produca una congiunzione favorevole al normale funzionamento di buddhi. Quando la liberazione si compie, «cessano le danze»; ma è proprio così?

Si potrebbe provare a sostenere che la natura si esibisce propriamente solo quando la balleri- na smette di danzare: così facendo, infatti, essa esibisce lo spettacolo, il carattere di spettacolo del suo movimento. Ora la manifestazione si compie, ossia si realizza in quanto manifestazione. Prima di ciò, non c’era davvero manifestazione: la natura restava invisibile all’anima, che ne osservava solo gli effetti e gli stati, attribuendoli a se stessa perché schiacciati, o proiettati, su di essa. L’anima, in altri termini, sentiva il sentire della natura, quegli stati dovuti all’attività dei guna, ma non percepiva effettivamente tale attività né la produzione di stati del corpo quali, appunto, piacere, dolore, offuscamento. L’anima percepiva colori, suoni, odori, etc. – che sono in realtà colti dai sensi – ma non percepiva il rapporto che lega organi di senso ed elementi sottili, e così via…

Una volta che la manifestazione si compie – quando la ballerina smette di danzare – i due princìpi – Prakriti e Purusha  – non si compenetrano più: essi stanno l’uno accanto all’altro (ammesso che abbia un senso esprimersi così, dato il carattere onnipervasivo di entrambi), ciascuno mantenendo la propria peculiarità. Ma, a questo punto, e solo adesso, Purusha vede rettamente Prakriti. E allora, che succede? È come se il paradigma cosmologico proposto dal Sāmkhya facesse da sfondo ad un’ortoprassi (104)  intesa nel senso di un «fare» che coincide con l’essere in conformità a quanto real- mente accade per natura.

Ortoprassi che è altra cosa da un’etica: l’etica, infatti, è una teoria del «dover essere», o della «vita buona». Essa si fonda su un’antropologia, in primo luogo, e/o sul riferimento a valori o sistemi di valore in secondo luogo. In modo differente, ortoprassi significa essere e agire se- condo natura – e per ciò stesso agire correttamente; il paradigma su cui essa può basarsi è una teoria della natura o una cosmologia, ma mai un’antropologia, la quale non può che nascere da un equivoco, ossia dalla mancata discriminazione di Prakriti e Purusha.

La fine del mondo, allora, non è necessariamente lo sprofondare delle cose nel nulla, o la fine del movimento della natura: è forse, piuttosto, il momento in cui lo spettacolo ha la possibilità di cominciare realmente, e la danza della ballerina prendere la forma dell’azione disciplinata e corretta. L’azione disciplinata – ciò che qui intendo per «ortoprassi»: azione corretta perché «adeguata», che, proprio in virtù della sua adeguatezza, acquisisce la sua disciplina – si può verificare quando non compare più l’illusione della commistione tra Prakriti e Purusha, quan- do, cioè, ciascuno dei due princìpi è lasciato a se stesso. Così, l’anima è libera solo se lasciata essere in conformità con la sua natura, ossia se non attribuisce a se stessa dei fatti e degli stati naturali, ma esercita, se si può dire, la sua facoltà più propria, quella di osservare Prakriti e i suoi effetti – ossia il mondo fenomenico.

Si dirà che, una volta che l’identità individuale si sia dissolta, non c’è più spazio per l’azione, in quanto, assieme all’io, sparisce anche l’attore. In effetti, nel testo sembra che dell’io si possa parlare solo per negazione: «io non sono questo», «io non sono io». Che cosa non è l’io?

Io non è natura, perché la natura è un principio molto più ampio del senso dell’io. Ma Io non è neppure anima, in quanto l’anima non pensa, non parla, non determina, non delibera né agisce, ma, soprattutto, l’anima non ha identità né senso dell’io: pur essendo un’anima singo- lare, essa è impersonale. «Io», quindi, è una parola complessa, che indica le componenti che lo costituiscono, il carattere transitorio della composizione, l’irriducibilità degli elementi che lo compongono. «Io non sono io» significa che non c’è un luogo dell’io dove questi si raccolga in totalità e come tale si colga, ma c’è solo l’evento dell’io, l’emergenza dell’io nonché la sua virtuosa destituzione, in quanto «io» è il nome dell’apparenza centripeta di movimenti che di per sé sono solo simultanei.

Ma allora se non c’è un luogo dell’io, c’è un luogo in cui ha senso dire «io non sono io»; si tratta del discorso dell’azione corretta, che potrebbe essere così formalizzato: «[Io non sono] ciò [che] agisce» – il discorso dell’azione senza soggetto né scopo. Venendo meno l’attac- camento al frutto dell’azione, viene anche meno la soggettività dell’attore. Questo carattere impersonale dell’azione è stato ben messo in luce da Mircea Eliade, laddove egli afferma che l’azione di chi si è liberato non può più essere ascritta ad un soggetto agente:

codesta attività non è più sua, è oggettiva, meccanica, disinteressata. In poche parole essa non esiste più in funzione del suo «frutto» (vairāgya). Quando il «redento agisce», non ha coscienza del «io agisco», ma del «si agisce»: in altri termini non introduce il «sé» in un processo psico-fisico. Siffatta è l’esistenza del redento, e in tal guisa si protrae per tutto il tempo di cui i potenziali già germinati necessitano di attualizzarsi e consumarsi. E poiché la forza dell’ignoranza ha cessato di agire, non vengono a crearsi nuovi nuclei karmici. Quando i sopraddetti «potenziali» sono distrutti, la redenzione è assoluta e definitiva. Si potrebbe perfino dire che il «redento» non ha l’ «esperienza» della liberazione (105).

Egli aggiunge, inoltre, che «la soluzione del Sāmkhya respinge l’uomo fuori dell’umanità, potendosi essa realizzare solo tramite la distruzione della personalità umana»(106).

C’è un passo in cui la Sāmkhyakārikā ci può fornire dei punti di appoggio e dei suggerimenti ulteriori:

Ottenuta la perfetta conoscenza, la virtù e le altre forme divengono improduttive, tuttavia per ef- fetto degli impulsi karmici il corpo permane ancora, così come accade col movimento della ruota (107).

Quando sparisce l’illusione – e sparisce da sé, non quando lo vogliamo noi – si estingue anche ogni movente soggettivo dell’azione, compresa la virtù che, al pari del vizio, provoca nel corpo sottile attaccamento, desiderio di persistere e la sua trasmigrazione. Quando la conoscenza si produce, si manifesta, la natura, almeno per un po’, continua a muover-si, senza che vi sia più l’illusione di qualcuno che la muova, così come una ruota, ricevuta una spinta iniziale, continua a girare da sé per moto proprio:

così come accade al vasaio il quale, avendo messo in moto la sua ruota, modella il vaso ponendo una massa d’argilla sopra questa ruota, e, fatto il vaso, mette da parte la ruota che gira ancora per gli impulsi precedenti (108).

La liberazione si compie nel punto intermedio tra il movimento della natura e la sua cessa- zione completa. In quel punto, la ruota gira non tanto per inerzia, quanto perché oramai è chiaro che non c’è – e non c’è mai stato – nessuno che la spinge. Ipotizziamo che questo intervallo, breve o lungo, costituisca il momento in cui la distinzione tra natura e anima giunge a completa visibilità – il momento in cui la natura può muoversi senza l’illusione di essere «guidata» dall’anima e l’anima, «allo stato di astrazione dalla materia» (109), è libera di esercitare la sua funzione di superficie riflettente degli eventi. È in questo lasso di tempo che l’azione umana prende la sua forma corretta: l’essere e l’agire nella conoscenza e secondo natura fa sì che l’attore si comprenda e si risolva nell’attività della natura su se stessa e attraverso se stessa – e nello stesso tempo si faccia «ballerina» davanti a Purusha:

Colui le cui imprese sono tutte esenti dall’atto di volizione che procede dal desiderio, colui le cui opere sono bruciate al fuoco del conoscere, questo, appunto, i sapienti chiamano un uomo di sapere. Avendo dismesso l’attaccamento al frutto dell’operare, sempre soddisfatto, senza doversi appoggiare ad alcunché, egli non fa nulla, sebbene sia sempre occupato ad agire (110).

L’azione-evento, senza attore, senza scopo soggettivo e senza movente, anche se non priva di effetti, è oggetto della Bhagavad gītā – cui appartiene il passo appena citato – un’opera che tie- ne spesso sullo sfondo il sistema Sāmkhya, pur introducendovi delle varianti la cui esposizione esula dall’intento di queste note. È, però, certa, oltre che riconosciuta dalla critica, la continuità tra il darçana trascritto da Īśvarakrishna e il Canto del beato. Si comprende, quindi, l’insisten- za della Bhagavad gītā sulla complementarietà tra la speculazione Sāmkhya e l’azione (karma yoga), anzi sul loro essere lo stesso:

Gli sciocchi proclamano che il sāmkhya e lo yoga sono due cose separate, ma non così proclamano coloro che sanno. Colui che si dedica in modo compiuto anche ad una (sola dottrina), ottiene il frutto di tutte e due (111).

Note

1       Īśvarakrishna, Sāmkhyakārikā con il commento di Gaudapāda, Roma, Asram Vidya, 1994. D’ora in poi il testo verrà citato così: SK con il numero della strofa e il numero di pagina tra parentesi; il commento di Gaudapāda verrà indicato con l’iniziale del nome, il numero della strofa e, tra parentesi, il n. p., p. es.: SK1 (p. 28) e G1 (pp. 28-29) etc… Ho tenuto conto anche della più recente traduzione a cura di M. Vinti e P. Scarabelli, Sāmkhyakārikā, Milano, Mimesis, 2006; dove citato, il testo verrà richiamato per esteso, p. es.: Sāmkhyakārikā cit., p…

2       Cfr. L.V. Arena, Il pensiero indiano, Milano, Mondadori, 2008, pp. 37-38: «Il termine darçana […] non designa tanto un sistema, come invece si è creduto a lungo per un influsso della filosofia ottocentesca occidentale che ha influenzato le modalità di traduzione delle filosofie orientali, in particolare di quella indiana […]. Rendere darçana  con ‘visione’ sarebbe più appropriato, anche per cogliere una continuità rispetto al messaggio vedico e all’influsso dei rishi o ‘veggenti’ […]. Il verbo driś implica il vedere, e può dar luogo alla ‘osservazione’ o alla ‘percezione’ in genere, laddove la visione rappresenta il paradigma dell’esperienza sensoriale più incisiva. Il termine indica anche un insegnamento e la conoscenza deriva- tane, l’attestazione oculare di una verità nonché la disamina correlata a una forma di sapienza, la facoltà di giudizio o discernimento, una comprensione più che intellettuale; in breve, una dottrina nel più ampio senso del termine. Non sarà fuorviante aggiungere che la parola sanscrita può significare ‘sembianza’ o ‘apparenza’: darçana è lo specchio della verità, non la verità stessa; allude a una realtà suprema, ma di per sé non la costituisce». I sei darçana  sono, rispettivamente, Sāmkhya, Yoga, Mimānsā, Nyāya, Vaiçesika, Vedānta.

3       Cfr. G. Tucci, Storia della filosofia indiana, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 19: «la filosofia indiana si dibat- te fra una mistica soteriologia e lo scolasticismo che tesse intorno all’ansia della salvazione i sottili ricami di un agguerritissimo formalismo dialettico. Cotesta mistica è infatti una mistica che si potrebbe definire intellettualistica. […] L’indiano è dunque un mistico attivo e intellettualistico che presuppone una sempre desta scaltrezza dialettica per sopraffare il falso conoscere nel quale siamo precipitati». Sull’intento dei darçana  di «accomunare la spiritualità popolare alle esigenze della mente» insiste anche R. Panikkar, Il dharma dell’induismo, Milano, Rizzoli, 2006, p. 75.

4       Nel commento, Gaudapāda fa riferimento a uno scritto intitolato Şastitantra, andato perduto; cfr. G17 (p. 54). Oltre al commento di Gaudapāda, bisogna ricordare quello di Vacaspati Miçra, all’incirca del sec. XI d. C. Databile verso il XV secolo circa è poi il Sāmkhya Sūtra, raccolta di aforismi in sei libri, attribuito a uno pseudo-Kapila.

5       Cfr. Bhagavad gītā. Saggio introduttivo e commento di S. Radhakrishnan, tr. it. di I. Vecchiotti, Roma, Ubaldini, 1964, III, 3, p. 161: «O (eroe) senza macchia, un duplice modo di trar conclusioni del genere in questo mondo è stato dianzi da me indicato, quello che si riferisce alla via della conoscenza (jñānayogena sāmkhyānam), e riguarda i contemplativi, e quello che si riferisce alla via dell’operare, e riguarda gli uomini d’azione». Lo stesso passo viene tradotto così nell’edizione a cura di S. Aurobindo: «O [eroe] Senza-macchia, già ti avevo indicato le due vie della consacrazione: quella del Sānkhya attraverso lo yoga della conoscenza e quella dello yoga delle opere» (S. Aurobindo, Lo yoga della Bhagavad gītā, Roma, Mediterranee, 1997, p. 106). Sāmkhya potrebbe equivalere, quindi, all’atteggiamento rivolto alla conoscenza speculativa della natura delle cose – noi diremmo: la «teoria» di contro alla «prassi», se non fosse che il testo della Bhagavad gītā, nonché i numerosi commentari, si propongono di rigettare questa contrapposizione.

6       Per es. in G4, i «mezzi di retta conoscenza» vengono illustrati con la concezione del Purva Mimānsā, di cui viene riportato (p. 35) il noto sillogismo, o «presunzione», «Devadatta di giorno non mangia, eppure è grasso, si presume perciò che mangi di notte». In G23 troviamo riferimenti allo Yogasūtra di Patañjali (p. 61) e al Nyāya (p. 62). In più, uno stesso passo della Bhagavad gītā – III, 28 – viene richiamato due volte, rispettivamente in G12 (p. 47) e G27 (p. 67).

7       Non è qui il caso di ricordare che, naturalmente, molte, nella storia del pensiero filosofico, sono le voci che non si riconoscono appieno in questa impostazione. Resta, però, importante evidenziare le specificità dei testi e delle problematiche affrontate, senza cadere in facili quanto illusori sincretismi che, dietro un apparentemente pacifico ecumenismo, finiscono con lo sminuire – per non dire con il neutralizzare – la portata delle singole voci ed esperienze di pensiero.

8       L.V. Arena, Il pensiero indiano cit., pp. 359-360 nota 5.

9       SK2 (p. 30).

10     G6 (p. 37) e SK20 (p. 57).

11     G37 (p. 75).

12     SK8 (p. 38).

13     G9 (p. 40): «poiché viene prodotto solo l’esistente, il manifesto risulta implicito nella natura anteriormen- te alla sua nascita».

14     G10 (p. 43).

15     G8 (p. 39).

16     G11 (p. 45).

17     L’etere (ākāśa) non va inteso nello stesso significato della fisica occidentale, in quanto, nella cosmologia indiana, esso viene concepito come quell’elemento che costituisce la base «grossa» del suono e, in un certo senso, lo «supporta», cfr. L.V. Arena, Il pensiero indiano cit., pp. 55-56.

18     G27 (p. 65). Aurobindo traduce manas con «mente sensoria, che sintetizza le sensazioni e le trasforma in percezioni», cfr. S. Aurobindo, Lo yoga della Bhagavad gītā cit., p. 404.

19     S. Aurobindo, «Sānkhya e Yoga», in Id., Lo yoga della Bhagavad gītā cit., pp. 57-58. Cfr. anche L.V. Are- na, Il pensiero indiano cit., p. 40: «Sembra singolare che il manifesto consista nella individualità, quindi nel senso dell’io, di per sé non evidente, mentre l’immanifesto, il mondo naturale, è detto invisibile […]. In effetti, si allude a una natura che include in sé tutto il suo sviluppo o la successiva evoluzione (parinà- ma), qualcosa che non è ancora percettibile e che pure esiste, mentre l’individualità ha già dischiuso tutte le proprie potenzialità». Cfr. anche M. Vinti – P. Scarabelli, «Introduzione» a Sāmkhyākarikā cit., p. 22:
«buddhi non è, in sé, un principio intelligente ma un organo composto da materia allo stato sottile […], ma pur sempre materia priva di coscienza (a-cetana), essendo questa anche una caratteristica della sua causa (Prakriti)».

20     SK11 (p. 43), «naturato» è probabilmente una scelta del traduttore che si serve di un lessico spinoziano: il mondo fenomenico corrisponderebbe alla natura naturata di Spinoza, così come Prakriti corrispondereb- be alla natura naturans. Cfr., però, Sāmkhyākarikā cit., p. 68, in cui si traduce, forse più prudentemente, con «caratterizzato».

21     G24 (p. 63).

22     S. Aurobindo, «Sānkhya e Yoga» cit., pp. 56-57. A volte la natura nello stato di equilibrio – ossia prima della manifestazione – viene chiamata Pradhāna.

23     SK12 (p. 46).

24     G12, (p. 46).

25     SK11 (p. 43).

26     G11 (p. 44).

27     G11 (p. 45).

28     R. Descartes, L’uomo, in Id., Opere, a cura di G. Cantelli, Milano, Mondadori, 1986, p. 77.

29     Ivi, pp. 95-96.

30     SK57 (p. 96).

31     «Nella mano infatti son presenti suono, tatto, colore, sapore, odore», G34 (p. 73).

32     SK27 (p. 65).

33     G27 (p. 66). Ricordiamo che i sensi sono undici perché comprendono i cinque sensi mentali, i cinque sensi dell’azione, più il senso interno (manas). In SK32 (p. 71) si afferma che i sensi sono tredici, perché includono, oltre ai suddetti, anche l’intelletto e il senso dell’io i quali, quindi, non hanno nessuna natura né funzione trascendente rispetto alla sfera empirica. Non v’è intelletto, né senso dell’io, laddove non vi sia percezione.

34     G27 (p. 66).

35     Ibidem.

36     Ibidem. Né dio né l’anima possono essere causa di fenomeni che si producono nel mondo naturale. Il Sāmkhya, come detto, postula la coessenzialità di causa ed effetto. Se dio o l’anima fossero causa dei fenomeni – tra cui va incluso il fatto della sensazione – essi sarebbero composti di quegli stessi elementi costitutivi che ritroviamo nei fenomeni; cfr. G61 (pp. 99-100): «Essendo Dio privo degli elementi costi- tutivi non è possibile, dunque, che i mondi, ai quali viceversa sono connaturati i tre elementi costitutivi, nascano da lui. Col che è illustrata anche la possibilità che ad esser causa sia l’anima […]: la natura è l’unica causa e non se ne dà altra all’infuori di essa».

37     SK28 (p. 67).

38     G28 (p. 67).

39     SK5 (p. 35).

40     G5 (p. 35).

41     G26 (p. 64).

42     SK32 (p. 71). Rispettivamente, prendere e ritenere sono funzioni dei sensi d’azione, mentre manifestare è la funzione dei sensi mentali.

43     G33 (p. 73).

44     G36 (p. 74).

45     G30 (p. 70).

46     Ibidem.

47     SK23 (p. 61). In Sāmkhyākarikā cit., anziché «la sua natura è costituita di…», si legge: «(La funzione di) buddhi consiste nell’accertamento della realtà; virtù, conoscenza, distacco e forza di volontà sono le sue forme di manifestazione…» (p. 81, corsivo mio).

48     Inutile dire che non c’è mai un «intelletto in sé», ossia non modificato dai guna.

49     G23 (p. 61).

50     G43 (p. 82).

51     O «caratterizzato dalle disposizioni (bhāva)», Sāmkhyākarikā cit., p. 96.

52     G40 (p. 79): «privo di fruizioni […] il corpo sottile diviene capace di fruizioni poiché mutua la caratteri- stica dell’attività di aggregazione del corpo esterno nato da padre e madre».

53     SK41 (p. 79).

54     SK62 (p. 100).

55     G42 (p. 81).

56     Non è il solo riferimento allo spettacolo che compare nel testo. Poco dopo, come vedremo, la natura stessa verrà paragonata ad una ballerina. Ma le due figure – l’attore e la ballerina – non vanno sovrapposte, perché assumono significati ben diversi. Se in entrambi i casi lo sfondo comune è l’esibizione, appunto lo spettacolo, nel caso dell’attore il tratto distintivo è l’assunzione di differenti maschere, che non sono tanto finzioni, quanto, appunto, vestiti e ruoli. Si tratta di un’altra maniera per definire le diverse combinazioni degli stessi fattori.

57     G52 (p. 92).

58     M. Vinti – P. Scarabelli, «Introduzione» a Sāmkhyākarikā cit., p. 12; cfr. anche ivi, p. 29: «Sappiamo che l’intelletto (buddhi) è il deposito dei samskāra, vere e proprie impronte impresse dal corpo sottile dalle azioni, dalle situazioni, dalle emozioni e dai pensieri vissuti dall’individuo nel corso delle sue esistenze». Vi sono due categorie di samskāra: la prima include i vāsanā, ossia «impressioni lasciate a livello sottile dagli avvenimenti passati», per le quali «ogni individuo ha una tendenza inconscia ad agire in un deter- minato modo, una predisposizione innata che lo induce, nel bene come nel male, ad un comportamento analogo a quello tenuto in passato»; la seconda è dharmādharma, che «comprende l’insieme dei meriti e demeriti delle azioni compiute in passato con il corpo, la parola e la mente» (ivi, pp. 29-30). Questo tema è trattato, in particolare, nei commentari allo Yoga sūtra di Patanjali, cfr. la tr. it. a cura di M. Vinti – P. Scarabelli, Milano, Mimesis, 20073, in part. il commento a III, 18 (pp. 131-132).

59     A. Coomaraswamy, con riferimento alle Upanishad, descrive la «ruota del divenire, o della nascita» come un insieme di cerchi concentrici che, nello stesso tempo, confluiscono gli uni negli altri in un movimento unico e globale: «Il movimento collettivo di tutte le ruote all’interno di ruote – ognuna ruotante intorno a un punto privo di posizione e uguale per tutte – […] viene chiamato ‘confluenza’ (samsāra), ed è in questo ‘tempestoso fluire del mondo’ che il nostro ‘sé elementare’ (bhūtātman) è fatalmente immerso: fatalmente perché quanto ‘noi’ siamo naturalmente destinati a sperimentare in questo mondo è la conse- guenza ineluttabile dell’azione ininterrotta, sebbene invisibile, delle cause mediate (karma, adŗşţa)», cfr. A. Coomaraswami, Induismo e budddhismo, Milano, SE, 2005, pp. 38-39. Egli sottolinea la falsità della tesi secondo cui sarebbe una coscienza individuale o un’anima individuale a trasmigrare da un corpo all’altro, nonché la continuità, su questo punto, tra il brahmanesimo – in particolare nella sua versione vedantina – e il buddhismo: «Gli esseri sono gli eredi delle loro azioni, ma non si può propriamente dire che ‘io’ raccolgo ora la ricompensa di quanto ‘io’ ho fatto in una precedente dimora […]. Il Vedānta e il buddhismo concordano quindi pienamente sul fatto che, pur essendovi trasmigrazione, non sono però gli individui a trasmigrare», ivi, p. 93. L’assurdità, ai nostri occhi, di una dottrina del genere, viene meno non appena si abbandonano i paradigmi propri della tradizione filosofica occidentale e si smette di leggere il samsāra nei termini, di origine platonica, della re-incarnazione di una sostanza spirituale individuale che definirebbe la sola ed autentica essenza dell’uomo, e che sarebbe in grado di ricordarsi le sue vite precedenti.

60     Sulla composizione del corpo cfr. SK39 (p. 77) e il commento. Cfr. anche l’analisi del commento di

Gaudapāda in M. Vinti – P. Scarabelli, «Introduzione» a Sāmkhyākarikā cit., p. 27.

61     S. Aurobindo, «Sānkhya e Yoga» cit., p. 56.

62     L.V. Arena, Il pensiero indiano cit., p. 42. «Astratto» significa, naturalmente, «separato» (dalla natura), oltre che «indeterminato».

63     SK18 (p. 55).

64     G18 (p. 55).

65     SK19 (p. 56).

66     G19 (p. 56).

67     G11 (p. 45).

68     G21 (p. 58).

69     G11 (p. 44).

70     G6 (p. 37).

71     SK20 (p. 57). Stefano Castelli preferisce, al termine «unione», quello di «associazione», che meglio renderebbe il sanscrito samyoga che «per la scuola filosofica del Nyāya indica un contatto diretto tra due materie che rimangono distinte (come quando il riso viene a contatto con i semi di sesamo), diverso da altri tipi di contatto (per esempio quando il latte si mescola all’acqua, in cui le particelle si fondono e si confondono insieme). Il termine si applica anche ai rapporti sessuali e ai matrimoni», cfr. S. Castelli, Il genio e la ballerina. Psicologie e filosofie dell’India, Roma, Editori Riuniti, 1994, p. 146.

72     G10 (p. 43).

73     G11 (p. 45).

74     G66 (p. 103).

75     G20 (p. 57).

76     G20 (pp. 57-58).

77     G43 (p. 82).

78     SK19 (p. 56).

79     G19 (p. 57).

80     SK28 (p. 67).

81     G11 (p. 45).

82     Per quanto riguarda l’autocoscienza valgono le considerazioni svolte da Hegel: autocoscienza è il sapere di sé stessi in relazione al sapere di altro; la coscienza-di-qualcosa è nello stesso tempo l’esperienza che la coscienza ha di se stessa. Così, «L’Io è il contenuto del rapporto, nonché il rapportare medesimo […]. La coscienza ha …, come autocoscienza, un duplice oggetto: l’uno immediato, l’oggetto della certezza sensibile e della percezione […]; e il secondo oggetto è se stessa, oggetto che è la vera essenza», G. W. F. Hegel, Fe- nomenologia dello spirito, I vol., tr. it. a cura di E. De Negri, Scandicci, La Nuova Italia, 1973, pp. 144-145; cfr. anche J. Hyppolite, Genesi e struttura della Fenomenologia dello spirito di Hegel, Scandicci, La Nuova Italia, 1972, p. 175: «Nel sapere la natura l’intelletto sa dunque se stesso; il suo sapere l’Altro è un sapere sé, un sapere il sapere, e il mondo è il ‘grande specchio’ in cui la coscienza scopre se stessa».

83     SK55 (p. 94).

84     G21 (pp. 58-59).

85     S. Aurobindo, «Sānkhya e Yoga» cit., p. 58.

86     Ricavo questo suggerimento da un’osservazione analoga di David Bohm: «noi diciamo che non ci sono oggetti che si muovono sullo schermo, ma che l’unico movimento reale è quello del proiettore», in: J. Krishnamurti, Sulla mente e il pensiero, Roma, Ubaldini, 2004, p. 111.

87     Prendo questo concetto da G. Deleuze, Cinema 1. l’immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 1984, pp. 14-15: «Il cinema procede con fotogrammi, cioè con sezioni immobili […]. Ma quanto ci mostra, lo si è spes- so notato, non è il fotogramma, bensì un’immagine media alla quale il movimento non si aggiunge, non si addiziona: il movimento appartiene invece all’immagine media come dato immediato […]. Insomma, il cinema non ci dà un’immagine alla quale aggiungerebbe movimento, ci dà immediatamente un’immagine-movimento. Ci dà certo una sezione, ma una sezione mobile, e non una sezione immobile+movimento astratto».

88     La distinzione tra «causa» e «motivo» è al centro della riflessione di Max Weber e del suo tentativo di spiegare l’azione con criteri non desumibili dalle scienze naturali. È inutile dire che la dicotomia tra movimento e azione non compare nel Sāmkhya, se non come illusione dalla quale liberarsi.

89     J. Krishnamurti, Riflessioni sull’io, Roma, Ubaldini, 2009, pp. 167-168.

90     Intendo, in modo assai generico, con «epistemologia», la formulazione della questione della verità a partire da quella relativa al nostro modo di conoscerla. Nel mondo antico la gnoseologia si sviluppa, per lo più, indipendentemente da questo problema, che emerge pienamente con la modernità. È solo a partire da allora che la ricerca filosofica della verità vede subordinare la conoscenza del reale al problema cono- scitivo, concependo quest’ultimo come sovrapponibile all’indagine sulla natura umana.

91     SK21 (p. 58).

92     G62 (pp. 100-101).

93     G55 (p. 95).

94     SK21 (p. 58).

95     SK64 (p. 101). Gaudapāda traduce l’espressione «Questo non sono io» con: «sono privo del senso dell’io» (ivi, p. 102).

96     SK56 (p. 95).

97     G56 (pp. 95-96).

98     Si ricordi la definizione di causa finale proposta da Aristotele: essa è lo scopo e il fine delle cose; per esempio lo scopo del passeggiare è la salute. «Infatti per quale ragione uno passeggia? Rispondiamo: per essere sano. E, dicendo così, noi riteniamo di aver addotto la causa del passeggiare». Metafisica, Δ 2 1013b, tr. it a cura di G. Reale, Milano, Rusconi, 1993, p. 191. Nel libro Λ, 7 1072b 1-5, Dio appare come motore immobile in grado di muovere a sé il mondo naturale, ossia come causa finale del movimento:

«Che … il fine si trovi tra gli esseri immobili, lo dimostra la distinzione (dei suoi significati): (a) qualcosa a vantaggio di cui e (b) lo scopo stesso di qualcosa […]. Dunque (il primo motore) muove come ciò che è amato, mentre tutte le cose muovono essendo mosse», ivi, p. 563.

99     SK60 (p. 98).

100  G56 (p. 96).

101  G58 (p. 97).

102  SK59 (p. 97).

103  L’inconsistenza dell’agente di contro alla produttività della natura – credo in piena congruenza con il Sāmkhya – viene attestata in più passi della Bhagavad gītā; cfr. Bhagavad gītā. Saggio introduttivo e commento di S. Radhakrishnan cit., in part. III, 27: «Le opere di ogni genere sono compiute dai modi della natura; (ma) colui che è traviato dal sentimento del proprio ego pensa: ‘sono io colui che fa’» (p. 174); V, 8-9: «‘Io non faccio in realtà cosa alcuna’: così può pensare colui che ha raggiunto l’unità con il divino e che conosce la verità delle cose; vedendo, udendo, avvertendo sensazioni tattili, percependo odori, gu- stando sapori, camminando, dormendo, respirando, parlando, respingendo, afferrando, aprendo gli occhi, chiudendoli, pur nell’atto di far tutto ciò, si rende conto del fatto che sono i sensi a volgersi attorno agli oggetti dei sensi» (ivi, p. 215

104  Riprendo liberamente questa espressione da R. Panikkar, Il dharma dell’induismo cit., passim, ma mi appoggio anche alle osservazioni di Tucci, Storia della filosofia indiana cit., p. 13, secondo il quale l’ «esposizione dialettica e teorica è di fatto l’introduzione all’esperienza che si vuole conseguire […]. Il darçana fornisce i mezzi logici per conoscere la verità e farci di quella persuasi, ma viene il momento in cui queste argomentazioni razionali debbono cedere il posto all’esperienza, anubhava, onde quella verità diventa vita».

105  M. Eliade, Tecniche dello yoga, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, p. 44.

106  Ivi, p. 45.

107  SK67 (p. 104).

108  G67 (p. 104).

109  G68 (p. 105).

110  Bhagavad gītā. Saggio introduttivo e commento di S. Radhakrishnan, V, 19-20 cit., p. 198.

111   Ivi, V, 4, p. 213.