Memoria, Caso e Conflitto. Machiavelli nel TTP*

Vittorio Morfino

Nel primo articolo del secolo scorso dedicato all’analisi del rapporto Machiavelli Spinoza, Menzel afferma che nel Trattato teologico- politico non vi è «ancora alcuna traccia di Machiavelli». Tale giudizio dipende naturalmente dall’assenza di qualsiasi riferimento esplicito al nome o all’opera del segretario fiorentino, assenza che naturalmente risalta in modo ancor più netto sullo sfondo dei riferimenti chiari presenti nel Trattato politico. Durante il secolo, a più riprese, è stata mostrata l’infondatezza della tesi di Menzel, più che attraverso una vera e propria confutazione, attraverso brevi cenni che si possono trovare in celebri studi su Spinoza: in Italia nei lavori di Guzzo, Ravà, Droetto, Gallicet Calvetti e Signorile, in Germania di Gebhardt e Strauss, e in Francia di Zac, Balibar, Moreau e Bove (1). La questione tuttavia non è mai stata posta in modo sistematico se non da Carla Gallicet Calvetti, la cui interpretazione generale del pensiero di Spinoza pregiudica però ogni reale comprensione del rapporto di questi con Machiavelli.
Non è ovviamente questo il luogo per un’analisi sistematica della silenziosa presenza di Machiavelli nel Trattato teologico-politico, poiché ciò si risolverebbe in un pedante elenco di passi adatti più ad un’edizione critica che ad un saggio; mi preme invece mostrare alcuni luoghi strategicamente fondamentali di questa presenza silenziosa, allo scopo di metterne in rilievo l’importanza e l’effetto dirompente che essa ha tanto sulla metafisica spinoziana che sulla stessa teoria politica. Non si cita Machiavelli impunemente! La ripetizione di Machiavelli costringe Spinoza a cambiare di posizione in filosofia. Per far questo prenderò in esame tre passaggi fondamentali in cui Machiavelli gioca un ruolo di enorme importanza:

1) l’ontologia della storia del capitolo III costruita attraverso la ripetizione della coppia concettuale virtù fortuna;

2) il capitolo VII in cui è rielaborata la concezione machiavelliana di tempo, memoria e occasione in una teoria materialistica della tradizione;

3) il capitolo XVII in cui Spinoza, sull’esempio fornito da Machiavelli nei Discorsi, decostruisce l’idea del legislatore onnipotente, mostrando la centralità del conflitto e dei suoi effetti aleatori nella costituzione degli Stati.

1. Ontologia della storia

Nel suo progetto di mostrare lo statuto immaginario del concetto di elezione, perno fondamentale della religione ebraica, il capitolo III costituisce uno degli assi essenziali dell’intera opera. Come altrove, Spinoza procede alla defi- nizione dei concetti fondamentali, mettendo in atto con ciò stesso un sovvertimento del terreno immaginario dell’avversario teologico-politico. Si tratta, secondo Spinoza di spiegare il significato dei termini directio Dei, Dei auxilium externum, Dei auxilium internum, electio Dei e fortuna: dalla rete di relazioni che Spinoza stabilisce tra questi termini trasformandone il significato tradizionale Spinoza fa emergere il suo concetto razionale di elezione. La directio Dei, cioè il governo divino, è «l’ordine fisso e immutabile della natura ovvero la concatenazione delle cose naturali [fixum illum & immutabile naturæ ordo, sive rerum naturalium concatenatio]» (2), poiché le leggi univer- sali della natura non sono altro che gli eterni decreti di Dio, che implicano verità e necessità. Posto questo, cioè l’identità della potenza naturale e divina, segue che l’aiuto di Dio interno ed esterno non sono altro che, rispettivamente, il conatus dell’uomo proteso alla conservazione del proprio essere e la spontanea offerta di mezzi per questa conservazione da parte della natura:

Perciò tutto ciò che la natura umana può trarre dalla sola sua potenza [ex sola sua potentia] al fine di conservare il proprio essere, possiamo a ragione chiamarlo aiuto di Dio interno; e invece, tutto ciò che a proprio vantaggio essa trae dalla potenza delle cause esterne [ex potentia causarum externarum], aiuto di Dio esterno (3). La directio Dei è dunque un ordine fisso e immutabile che include tanto il conatus umano (aiuto interno) che le cause esteriori (aiuto esterno). La for- tuna poi non è altro che la stessa directio Dei in quanto questa «regola per mezzo delle cause esterne ed impreviste il corso delle umane vicende [quate- nus per causas externas & inopinatas res humanas dirigit]» (4). Data la definizione di questi concetti in questi termini, il concetto di elezione subisce evi- dentemente un forte mutamento rispetto a quello tradizionale:

Infatti poiché nessuno mai fa alcunché se non secondo l’ordine predeterminato della natura [ex prædeterminato naturæ ordine], e cioè, secondo l’eterna direttiva del decreto di Dio, ne segue che nessuno si sceglie un tenore di vita o opera alcunché, se non in virtù di una singolare vocazione divina [ex singulari Dei vocatione], che lo sceglie a preferenza degli altri al compimento di quell’opera o all’a- dozione di quel modo di vita (5).

Partendo da questa definizione generale Spinoza si approssima alla costruzione del concetto di elezione di una società data, costruzione che è allo stesso tempo una genealogia della sua forma religiosa:
[…] a costituire e a conservare una società sono necessari un ingegno e un impegno [ingenium & vigilantia] non comuni; e perciò, sarà più sicura, più costante e meno esposta alle alternative della fortuna [fortunæ obnoxia], quella società che è fondata e diretta da uomini saggi e attenti [prudentes & vigilantes]; mentre quella composta da uomini dall’ingegno rozzo si trova per la massima parte in balia della fortuna ed è meno stabile. E se, tuttavia, si regge per qualche tempo, ciò è dovuto all’altrui direttiva, e non alla sua; e se, anzi, riesce a superare gravi pericoli e a raggiungere una certa prosperità, essa non potrà non ammirare e adorare in ciò la direzione divina […], poiché nulla le è accaduto se non in maniera del tutto impensata [præter opinionem] e inaspettatta; il che in verità può perfino essere ritenuto un miracolo (6).

Vi è dunque un rapporto inversamente proporzionale tra l’auxilium Dei internum di un popolo e la possibilità che l’auxilium Dei externum ha di influenzarne i destini. Se una società è fondata e diretta da uomini prudenti, sarà meno vulnerabile rispetto ai colpi della fortuna; mentre se essa è costituita da uomini di ingegno rozzo, è abbandonata alle correnti variabili della fortuna come un’imbarcazione senza timone. Tuttavia se queste correnti cospireranno casualmente in modo che questa società superi innumerevoli pericoli e raggiunga un certo grado di benessere materiale, il caso (cioè le «causæ latentes externæ») verrà adorato come segno di un’intenzione divina, cioè come elezione. La concezione teologico-politica dell’elezione non è dun- que altro che l’effetto immaginario di un ripetuto intervento benefico della fortuna a vantaggio di una società: intervento ripetuto che, per la sua estrema improbabilità, può apparire miracoloso.

Su queste basi Spinoza conclude:

Le nazioni […] si distinguono tra loro soltanto in rapporto al tipo di società e alle leggi [ratio societatis & leges] sotto le quali vivono e sono governate; onde concludiamo che la nazione ebraica fu eletta da Dio tra le altre non riguardo all’in- telletto o alla tranquillità dell’animo, ma riguardo all’ordinamento sociale e alla fortuna [ratio societatis et fortuna] con la quale conquistò e mantenne per tanti anni un impero (7).
Il discorso spinoziano procede a una singolare sovversione del significato tradizionale dei termini. Attraverso l’identificazione del concetto ebraico di elezione con quello pagano di fortuna, Spinoza, ad un tempo, produce una neutralizzazione del contenuto immaginario di entrambi, e costruisce un nuovo concetto che gli permette di pensare la storia dei popoli come l’incon- tro della «ratio societatis» e dell’ordine delle cause esterne.

Ora, nel proporre questa operazione concettuale egli fa proprie, mi sembra, alcune mosse teoriche di Machiavelli, in particolare le riflessioni su virtù e fortuna del capitolo XXV del Principe:
È non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che gli uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbono iudicare che non fosse da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte. Questa opinione è suta più creduta ne’ nostri tempi, per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora di ogni umana coniettura. A che pensando, io, qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato alla opinione loro. Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. E assomiglio quella a uno di quei fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e’ piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra, ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all’ impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti, e con ripari e argi- ni, in modo che, crescendo poi, o egli andrebbono per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né sì licenzioso né si dannoso. Similmente interviene della fortuna: la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle; e quivi volta li sua impeti dove la sa che non sono fatti gli argini e li ripari a tenerla (8).

Machiavelli ci propone dunque una teoria della storia concettualizzata attraverso la coppia di termini virtù-fortuna, di cui il primo termine, ch’egli denomina «libero arbitrio», non è in realtà null’altro che la necessaria inclinazione dell’agente e il secondo è «una variazione fuori da ogni umana coniettura». La potente metafora del fiume rappresenta la fortuna come una forza che talvolta scorre parallela alle vicende umane e talvolta le investe modificandone con violenza la forma, mentre la virtù non è altro che la resistenza di un individuo o di un popolo che si oppone a queste violente irruzioni al fine di mantenere la propria forma: le cose singolari, in una natura acentrica e asistematica, esistono nel conflitto sempre aperto tra la continua variazione dei tempi e lo sforzo che l’individuo oppone a questa variazione per perseverare nel proprio essere.

L’incontro tra questi due ordini rende inutilizzabile per il sapere storico il modello di causalità transitiva: infatti, poiché l’azione umana si esercita su tempi in continua variazione, qualitativamente differenti, e non su una vuota omogeneità, uno stesso comportamento può portare tanto al successo quanto alla rovina e due comportamenti antitetici possono portare entrambi al successo, come scrive Machiavelli nei Ghiribizzi a Soderini. La sola regola consiste nel conformare la propria azione «alla qualità dei tempi». La storia dunque è la congiunzione di due necessità: la necessità della virtù e quella dei tempi, che nel loro incessante variare, sono presentati da Machiavelli sotto la forma dell’antica divinità pagana, la fortuna, che tuttavia egli libera da ogni idea di regolarità distributiva.

L’abbozzo spinoziano appare dunque come una traduzione su un piano ontologico dello teoria politica machiavelliana. Ed proprio la traduzione in chiave ontologica di Machiavelli che permette a Spinoza di ripensare il concetto di elezione. E di più! Su questo punto preciso Machiavelli fornisce un preciso modello: nel libro II dei Discorsi egli contesta la tesi di Plutarco, esposta nel De fortuna Romanorum, secondo cui le vittorie del popolo romano sarebbero dovute piuttosto al favore della fortuna che alla sua virtù, dove per fortuna Plutarco intende una divinità sensibile all’adulazione («avendo quello [il popolo romano] edificati più templi alla Fortuna che ad alcun altro iddio») (9).
Scrive Machiavelli:
Perché, se non si è trovata mai repubblica che abbi fatti i profitti che Roma, è nato che non si è trovata mai repubblica che sia stata ordinata a potere acquistare come Roma. Perché la virtù degli eserciti gli fecero acquistare lo imperio; e l’ordine del procedere, ed il modo suo proprio, e trovato dal suo primo latore delle leggi gli fece mantenere lo acquistato (10).

Machiavelli contesta in questo caso preciso una concezione della storia che sovrappone un piano trascendente ai rapporti di forza immanenti di virtù e fortuna; la fortuna non è dunque la divinità personificata che dirige gli eventi mondani, ma è la continua variazione dei tempi nel cui seno si producono sempre nuovi incontri con la virtù e da essi nuove congiunture. Il corollario di questo materialismo della congiuntura è che le nazioni differiscono tra di loro per il loro ordinamento socio-politico e non per un privilegio divino che gli sarebbe stato accordato. Di conseguenza non esiste alcuna gerarchia tra le società che sia definitiva, poiché questa deriva dal rapporto instabile e complesso tra la potenza della costituzione materiale e spirituale d’uno Stato (il suo ordinamento, le sue leggi e i suoi costumi) e la potenza delle cause che gli sono esteriori: affrontando il problema teologico-politico per eccellenza dell’elezione (che in fondo è l’archetipo del concetto di patria), Spinoza ritrova Machiavelli nell’affermazione dell’immanenza assoluta del politico e della sua indipendenza dal campo teologico, cioè da un ordine che, allo stesso tempo, trascenda e ipostatizzi i rapporti di forza.

2. Teoria materialistica della tradizione

 Passiamo ora da quella che abbiamo chiamato una fondazione di una ontologia della storia ad una teoria materialistica della tradizione. Anche in questo caso il riferimento fondamentale è a Machiavelli, al celebre capitolo 5 del II libro dei Discorsi, in cui troviamo la sua concezione della storia sotto forma di una riflessione sulle memorie del genere umano: «che la variazione delle sette e delle lingue, insieme con l’accidente de’ diluvii e della peste, spegne le memorie delle cose». La teoria della storia proposta in Discorsi, II, 5 potrebbe apparire a pieno titolo come una filosofia della storia dell’umanità, se non fosse precisamente l’aperto rifiuto della totalizzazione dei dati della memoria.

L’incipit del capitolo è secco, anche se apparentemente difficile da interpretare:
A quegli filosofi che hanno voluto che il mondo sia stato eterno, credo che si potesse replicare che, se tanta antichità fusse vera, e’ sarebbe ragionevole che ci fussi memoria di più che cinquemila anni; quando e non si vedesse come queste memorie de’ tempi per diverse cagioni si spengano: delle quali, parte vengono dagli uomini, parte dal cielo (11).
Machiavelli afferma qui attraverso una costruzione sintattica complessa, due tesi filosofiche estremamente semplici:

1) il mondo è eterno;
2) esistono delle cause che cancellano la memoria delle cose.

La potenza filosofica della prima tesi è evidente: essa riprende a chiare lettere la tesi avicenniana e averroista, che dall’illuminismo arabo ha attraversato come un fiume sotterraneo il tardo medioevo e l’umanesimo cristiano, opponendosi ovunque alla filosofia dominante. Si tratta di una tesi che si oppone tanto al platonismo (Timeo) che al cristianesimo. La seconda tesi ha gli stessi obiettivi polemici: essa colpisce tanto la teoria platonica della memoria intesa come anamnesi quanto la Sacra Scrittura come memoria della storia dell’umanità dalla sua origine (i 5000 anni che menziona Machiavelli corrispondono precisamente all’antichità del mondo di cui parla la Genesi).

La combinazione di queste due tesi conduce ad una nuova concezione della conoscenza storica; essa si presenta non come duplicazione concettuale della totalità storica, ma come frammento risparmiato dalle potenti cause di distruzioni della memoria umana. Questo frammento di memoria non è in alcun modo l’espressione della totalità: nessuna ragione (intesa come Senso) presiede alla sua sopravvivenza; essa non è che ciò che resta degli incontri tra le forze della natura e la società umana e degli incontri tra le differenti società tra loro. Ora, l’errore del platonismo e del cristianesimo, di cui Hegel porterà a compimento una prodigiosa sintesi, consiste precisamente nella proiezione del frammento sulla totalità, errore che finitizza il mondo e instaura la potente alleanza, che è in se stessa fondatrice del grande continente dell’idealismo, tra memoria e verità.

Consideriamo ora la ripartizione machiavelliana delle cause dell’oblio. Machiavelli comincia la sua esposizione da quelle «che vengono dagli uomi- ni», cioè le cause sociali:

Perché, quando e’ surge una setta nuova, cioè una religione nuova, il primo studio suo è, per darsi riputazione, estinguere la vecchia; e, quando gli occorre che gli ordinatori della nuova setta siano di lingua diversa, la spengono facilmente. La quale cosa si conosce considerando i modi che ha tenuto la setta Cristiana contro alla Gentile; la quale ha cancellati tutti gli ordini, tutte le cerimonie di quella, e spenta ogni memoria di ogni antica teologia. Vero è che non gli è riuscito spegnere in tutto la notizia delle cose fatte dagli uomini eccellenti di quella: il che è nato per avere mantenuta quella la lingua latina: il che feciono forzatamente, avendo a scrivere questa legge nuova con essa. Perché, se l’avessono potuta scrivere con una nuova lingua, considerato le altre persecuzioni gli feciono, non ci sarebbe ricordo alcuno delle cose passate. E chi legge i modi tenuti da San Gregorio, e dagli altri capi della religione cristiana, vedrà con quanta ostinazione e’ perseguitarono tutte le memorie antiche, ardendo le opere de’ poeti e degli istorici, ruinando le imagini, e guastando ogni altra cosa che rendesse alcun segno della antichità. Talché, se a questa persecuzione egli avessono aggiunto una nuova lingua, si sarebbe veduto in brevissimo tempo ogni cosa dimenticare. È da credere, pertanto, che quello che ha voluto fare la setta Cristiana contro alla setta Gentile, la Gentile abbia fatto contro a quella che era innanzi a lei. E perché queste sètte in cinque o in seimila anni variano due o tre volte, si perde la memoria delle cose fatte innanzi a quel tempo; e se pure ne resta alcun segno, si considera come cosa favolosa, e non è prestato loro fede: come interviene alla istoria di Diodoro Siculo, che, benché e’ renda ragione di quaranta o cinquantamila anni, nondimeno è riputato, come io credo, che sia cosa mendace (12).

Le tesi enunciate da Machiavelli sono di grande portata filosofica:

1)  la religione cristiana non è nient’altro che una «setta» tra le altre (13) ;

2)  le sette religiose sono dei dispositivi temporali di potere (14)  che tendono per natura all’egemonia (cioè che cercano di distruggere le istituzioni e i riti delle altre sette): la logica dei rapporti tra le sette sulla scena del mondo è dunque una logica di guerra;

3)  la memoria della cultura spirituale di un’ epoca risiede tutt’intera nella materialità della lingua che l’esprime; la lingua non ha la centralità espressiva d’un soggetto e, dunque, non può essere sottoposta a un controllo assoluto (15); di conseguenza, una lingua può essere interamente distrutta, ma nel caso in cui resista alla distruzione, sfugge ai tentativi di controllo del potere: la sua materialità è la garanzia de facto della sua acentricità e della sua asistematicità strutturata.

La combinazione di queste tre proposizioni filosofiche disegna l’abbozzo di una teoria della storia nella quale la memoria, lungi dal costituire lo strumento di conoscenza più potente, è la posta in gioco delle lotte tra le differenti sette: il vincitore tenta di distruggere la memoria del vinto e impone il suo proprio racconto del mondo come il solo vero (tentativo che può riuscire solamente se la memoria del vinto è distrutta sin nelle sue radici materiali, il linguaggio).

Consideriamo adesso il passaggio nel quale Machiavelli espone «le cause che vengono dal cielo», cioè le cause naturali della distruzione della memoria: Quanto alle cause che vengono dal cielo, sono quelle che spengono la umana generazione, e riducano a pochi gli abitatori di parte del mondo. E questo viene o per peste o per fame o per un’inondazione d’acque: e la più importante è questa ultima, sì perché la è più universale, sì perché quegli che si salvano sono uomini tutti montanari e rozzi, i quali, non avendo notizia di alcuna antichità, non la pos- sono lasciare a’ posteri. E se infra loro si salvasse alcuno che ne avessi notizia, per farsi riputazione e nome, la nasconde, e la perverte a suo modo; talché ne resta solo a’ successori quanto ei ne ha voluto scrivere, e non altro (16).

Ecco le tesi filosofiche che possono essere tratte da questo passaggio:

1)  la storia del genere umano è profondamente radicata nella natura, la cui potenza può brutalmente far scomparire intere civiltà; di conseguenza, la continuità del racconto della memoria non è nient’altro che la continuità di un frammento, di un’isola che emerge sperduta al di sopra del diluvio dell’oblio;

2)  la memoria non permea uniformemente la società: v’è una stratificazione della memoria all’interno della società che esclude il modello della causalità espressiva e della pars totalis;

3)  la memoria è assai più strumento di potere e, dunque, perversione della verità per un fine politico, che conoscenza adeguata del passato.

Per Machiavelli, al contrario di Platone che usa nel Timeo a questo scopo i disastri naturali, non v’è alcuna saggezza originaria perduta, ma solamen- te scomparsa per sempre della memoria o mistificazione politica della memoria. Machiavelli traccia i contorni di una teoria della storia in cui l’endiadi metafisica Origine-Fine è eliminata, mentre viene affermata l’aleatoria necessità degli incontri, incontri tra virtù e fortuna, sotto forma di potenze materiali molteplici: materialità degli apparati di potere religioso, della guerra, materialità delle lingue, della fame, delle malattie, dei disastri naturali, della stratificazione culturale della società. La memoria di una civiltà non è dunque che un fragile frammento di materia di fronte alla smisurata potenza della natura, che non ha alcun rispetto teleologico verso di essa: può sopravvivere qualche tempo a questa dismisura e immaginarsi eterna, proiettandosi sulla totalità del tempo, ma il suo destino è malgrado tutto l’oblio.

Questo quadro teorico permette di spiegare il reale significato del riferimento machiavelliano alla storia romana, che gioca apparentemente il ruolo dell’origine in una filosofia della storia in cui il cristianesimo costituirebbe il momento della perdita, della crisi, e l’Italia futura il momento della rinascita dell’antica virtù. In realtà, il popolo etrusco, più antico di quello romano, avrebbe potuto anch’esso avere il ruolo di punto di riferimento originario. Ed è proprio per prendere in contropiede questa possibile obiezione (si tratta in realtà dell’opinione di Salutati e Bruni) che Machiavelli evoca gli Etruschi nelle ultime righe del capitolo 4 del II libro dei Discorsi, che innescano il capitolo seguente dedicato all’oblio:

E quando la imitazione de’ Romani paresse difficile, non dovrebbe parere così quella degli antichi Toscani, massime a’ presenti Toscani. Perché, se quelli non poterono, per le cagioni dette, fare uno Imperio simile a quel di Roma, poterono acquistare in Italia quella potenza che quel modo del procedere concesse loro. Il che fu, per un gran tempo, sicuro, con somma gloria d’imperio e d’arme, e massime laude di costumi e di religione. La quale potenza e gloria fu prima diminuita  da’ Franciosi, dipoi spenta da’ Romani: e fu tanto spenta, che, ancora che, duemi- la anni fa, la potenza de’ Toscani fusse grande, al presente non c’e n’è quasi memoria. La qual cosa mi ha fatto pensare donde nasca questa oblivione delle cose (17).

E alla fine del capitolo sulle cause della distruzione della memoria, Machiavelli aggiunge:

Era dunque, come di sopra è detto, già la Toscana potente, piena di religione e di virtù; aveva i suoi costumi e la sua lingua patria: il che tutto è suto spento dalla potenza romana. Talché, come si è detto, di lei ne rimane solo la memoria del nome (18).

Roma dunque non è la Ursprung d’una filosofia della storia che pensa la propria memoria in termini di destino (Schicksal), ma un frammento mate- riale del passato che ha resistito alle ingiurie del tempo, che può giocare nel presente il ruolo politico di modello contro il modello cristiano dominante: il modello etrusco avrebbe potuto essere altrettanto valido, ma non resta di quel popolo potente e virtuoso altro che il suo nome.

Ora, a mio avviso l’analisi spinoziana della Scrittura si trova in questo orizzonte teorico. In effetti, Spinoza sulla scorta di Machiavelli, considera la Bibbia non come vera memoria dell’origine e della storia del mondo, ma come il ricordo immaginario (19) della storia reale:

Nella Scrittura infatti sono raccontati come reali e come tali anche erano creduti, molti fatti che tuttavia non furono che semplici rappresentazioni e cose immagi- narie [In Scriptura enim multa, ut realia narrantur, et quæ etiam realia esse credebantur, quæ tamen non nisi repræsentationes, resque imaginariæ fuerunt] (20).

Questa memoria immaginaria, questo passato immaginato attraverso opi- nioni rudimentali, non è una semplice conoscenza errata della storia; essa invece prende parte alla storia svolgendo un ruolo politico: la memoria è disciplina del corpo attraverso l’obbedienza che i riti inscrivono nella quoti- dianità delle azioni del popolo. La memoria dei tempi antichi svolge dunque una funzione che è disarticolata dal legame con la verità, ed è invece articolata da una parte con lo spontaneo pregiudizio finalistico dell’immaginazione e dall’altra con l’inscrizione nel corpo di un codice di comportamento conforme alla vita sociale.

Ma veniamo al capitolo VII, in cui Spinoza espone il suo metodo di lettura della Sacra Scrittura. Qui Spinoza enuncia la regola metodologica che separa à jamais la sua lettura dalla tradizione:

Per dirla in breve, il metodo di interpretazione della Scrittura [methodus interpretandi Scripturam] non differisce dal metodo di interpretazione della natura, ma concorda in tutto con questo. Come il metodo di interpretazione della natura, infatti, consiste essenzialmente nel descrivere la storia della natura stessa, per ricavarne, come sulla scorta di dati certi, le definizioni delle cose naturali, così, per interpretare la Scrittura è d’uopo ricostruire la storia genuina [sincera] della Scrittura stessa, per dedurre poi da questa, come legittima conseguenza di princìpi e dati certi, il pensiero [mens] dei suoi autori (21). L’interpretazione della Sacra Scrittura deve dunque fondarsi sulla ricostru- zione della sua storia a partire da una conoscenza esatta della natura e delle proprietà della lingua ebraica, da una raccolta degli enunciati di ogni libro e della loro riduzione ai punti principali, così come della annotazione di quelli che sono oscuri, ambigui e contraddittori, e infine dalla raccolta di tutte le informazioni concernenti i libri profetici di cui ci è stata trasmessa la memoria.

È dunque evidente che la questione che si deve porre alla Scrittura non è quella della verità, ma quella del suo senso («De solo enim sensu orationum, non autem de earum veritate laboramus» (22). Il senso di questo testo ci si offre come il tessuto complesso di durate multiple, irriducibile al modello lineare del Logos. Questo senso è in primo luogo legato alla materialità di una lingua di cui la struttura è, a causa della sua costituzione singolare, fonte d’ambiguità; è ugualmente legato ai costumi e alla struttura singolare di ogni autore, così come alle circostanze della sua scrittura, cioè alle modalità dell’incontro dell’autore con il suo tempo; infine è indissociabile dagli incontri successivi, cui il flusso temporale sottopone i libri scritti, con altre strutture singolari e con gli apparati di potere.

Secondo Spinoza, la ricostruzione di questo senso deve fondarsi sulla memoria materiale della lingua, che il popolo conserva nel suo seno, poiché il significato delle parole è incardinato nell’agire comunicativo quotidiano del popolo: infatti, pretendere che tutto un popolo che attribuisce un determinato significato ad una parola, gliene riconosca un altro del tutto differente, sarebbe del tutto impossibile. Si deve invece diffidare delle tradizioni interpretative come quella dei Farisei o della Chiesa romana, che hanno degli interessi politici a modificare il senso del discorso della Scrittura:
Abbiamo così il modo di interpretare la Scrittura, e insieme abbiamo dimostrato anche che questa è anche l’unica via da seguirsi nella ricerca del suo vero significato [verus sensus]. Ammetto bensì che di questo significato possano essere al corrente coloro (se pur ne esistono) che ne ricevettero la certa tradizione e la vera spiegazione dagli stessi profeti, come presumono i Farisei, o che hanno un ponte- fice che non può sbagliare nell’interpretazione della scrittura, come millantano i Cattolici romani. Ma, siccome non possiamo essere certi né di quella tradizione né dell’autorità di questo pontefice, nemmeno possiamo fondare su questi motivi una certezza: l’una infatti fu negata dai più antichi Cristiani, e l’altra dalle più antiche sette giudaiche; e, se poi, per tacer d’altro, badiamo alla serie degli anni [ad seriem annorum] che, secondo il calcolo trasmesso ai Farisei dai loro rabbini, fa risalire questa tradizione fino a Mosè, troviamo che essa è falsa […]. Onde tale tradizione deve esserci assai sospetta [Quare talis traditio nobis admodum debet esse suspecta]; e, sebbene in base al nostro metodo sia d’uopo a noi di supporre a nostra volta la continuità di una certa tradizione giudaica, ossia di quella che sta nel significato delle parole della lingua ebraica [significatio verborum linguæ Hebraicæ] a noi pervenuto, tuttavia non abbiamo motivo di dubitare di questa, come l’abbiamo invece di quell’altra.
Nessuno, infatti, ha mai potuto trarre giova- mento dal mutare significato delle parole [verbi significatio], non di rado invece dal mutare il senso di un discorso [sensus orationis]. In verità è difficilissimo mutare il senso di una parola, perché colui il quale tentasse di farlo, sarebbe costretto contemporaneamente a spiegare secondo l’indole e l’intenzione [ingenium vel mens] di ciascuno tutti quanti gli scrittori che scrissero in quella lingua e che usarono quella parola nel senso comunemente accettato; oppure travisarla con estrema cautela. E poi, a conservare la lingua concorre con i dotti anche il volgo, mentre il senso dei discorsi e i libri sono conservati unicamente dai dotti, i quali, come facilmente possiamo comprendere, hanno potuto modificare o alterare il senso di un passo di un libro rarissimo in loro possesso, ma non quello delle parole; senza contare che, chi volesse modificare il significato usuale di una paro- la, non potrebbe poi senza difficoltà mantenere tale modifica nel parlare e nello scrivere. Questi e altri simili motivi sono sufficienti a convincerci che nessuno può avere pensato di corrompere una lingua, mentre spesso si è potuto travisare il pensiero di uno scrittore, alterandone il discorso o interpretandolo arbitrariamente (23).

La conoscenza del senso della Scrittura passa dunque attraverso la cono- scenza della lingua ebraica, conoscenza fondata sulla continuità materiale della lingua e non sulla continuità spirituale della verità, poiché essa è impermeabile al tentativo di modificare il significato delle parole ai fini di un utilizzo politico; tale conoscenza si deve invece guardare dall’autorità di tutte quelle tradi- zioni interpretative che possono avere un interesse politico a modificare il senso del discorso, come la tradizione farisaica o romana. Questa analisi corrisponde allo schema fondamentale dell’argomentazione teorica machiavelliana sulla memoria: da una parte, la memoria materiale del linguaggio che appartiene al popolo («Deinde vulgus linguam cum doctis servat») e che sfugge a ogni tentativo di polizia semantica, in cui risiede invece l’utopia hobbesiana, e dall’altra parte l’alterazione e la perversione della memoria a fini politici, che deve in ogni caso fare i conti con questa materialità.
Il metodo di interpretazione della Sacra Scrittura proposto da Spinoza richiede, per chiarire il senso di ciascun libro, una conoscenza perfetta della lingua ebraica e della «historia casuum omnium librorum Scripturæ». A proposito della difficoltà di restituire queste storie Spinoza reintroduce un altro tema machiavelliano, quello della distruzione della memoria a causa di eventi naturali e politici. In primo luogo il tempo ha eroso la memoria stessa della lingua:
Una grave difficoltà nasce in primo luogo dal fatto che esso [il metodo] esige una perfetta conoscenza [integra cognitio] della lingua ebraica. Ma questa, donde attingerla, ormai? Gli antichi cultori della lingua ebraica non hanno trasmesso alla posterità nessuno dei fondamenti né la dottrina di essa; noi, almeno, non ne abbia- mo ricevuto alcuno: non un dizionario, non una grammatica, non una retorica: la nazione ebraica, d’altra parte, ha perduto ogni lustro ed importanza (né la cosa stu- pisce, dopo tutte le sconfitte e persecuzioni [clades & persecutiones] subite) e non ha conservato che pochi frammenti della lingua e della letteratura; quasi tutti i nomi di frutti, di uccelli, di pesci e molti altri perirono per la calamità dei tempi [temporum injuria]. Il significato poi di molti nomi e di molti verbi, che ricorrono nella Bibbia, o si ignora del tutto o è oggetto di discussione. Per di più ci manca anche la fraseologia di questa lingua, poiché le sue frasi e locuzioni, peculiari alla natione ebraica furono quasi completamente cancellate coll’andar del tempo dalla memoria degli uomini [omnes fere tempus edax ex hominum memoria abolevit] (24).
Il senso del discorso («orationis sensus») non potrà dunque essere ricostruito ex linguæ usu, e rimarrà perduto per sempre. Le cause di questa per- dita, la cui teorizzazione implica la rottura con un dogma fondamentale di ogni filosofia della storia, la credenza nella continuità del senso, del Logos, sono al tempo stesso politiche e naturali: da una parte la disintegrazione del- l’unità politica (la diaspora), le sconfitte, le persecuzioni, dall’altra le ingiurie del tempo, le calamità naturali. Questi due tipi di causalità sono riassunte in quella straordinaria espressione conclusiva che, portando nuova linfa al mito greco di Cronos, rende visibile con un’immagine icastica la potenza distruttri- ce del tempo: tempus edax, «il tempo che tutto divora», che Droetto sorprendentemente rende con il neutro «andar del tempo» (25).

La lingua, dunque, essendo legata alla pratica quotidiana del popolo, costituisce il mezzo di una trasmissione che non può essere assoggettata al controllo politico; tuttavia essa è continuamente erosa dalla potenza divorante del tempo, che si manifesta come distruzione materiale di quella comunità che conserva la lingua, sotto forma di sconfitte, persecuzioni, calamità naturali. Spinoza inscrive il concetto stesso di tradizione in limiti materiali ben precisi: essa sfugge alla logica lineare della serie ed è invece sottoposta alla logica complessa dell’intreccio, della trama che è perdita e trasformazione continua del senso, la cui origine non è nulla più che una genesi materiale, un incontro la cui aleatoria necessità lo libera da ogni significato assiologico. La seconda difficoltà sollevata dall’interpretazione della Sacra Scrittura, cioè l’ignoranza delle circostanze nelle quali sono stati scritti i testi e chi ne sono gli autori, pone allo stesso modo l’accento sul problema della genesi materiale:
Un’ulteriore difficoltà nasce dal fatto che questo metodo esige la conoscenza di tutte le vicende dei Libri Sacri: che invece noi per massima parte ignoriamo. Di molti libri noi ignoriamo del tutto gli autori, o, se si preferisce, gli scrittori; oppure ne abbiamo una dubbia conoscenza […]. Inoltre non sappiamo nemmeno in quale occasione né quando [qua occasione, neque quo tempore] siano stati scritti questi libri di cui ignoriamo gli scrittori. Non sappiamo in quali mani siano capi- tati, in quali esemplari siano apparsi le molteplici lezioni [variæ lectiones] sco- perte, e neppure se ne esistessero altrove parecchie altre. […] Se leggiamo un libro che contiene cose incredibili o incomprensibili, oppure scritto in termini del tutto oscuri, e non ne conosciamo l’autore, né il tempo, né l’occasione in cui fu scritto, cercheremo invano di intendere il vero significato. Ignorando tutto ciò, infatti, non possiamo sapere che cosa l’autore avesse o potesse avere in mente; mentre, cono- scendo bene quelle cose, ordiniamo i nostri pensieri in modo da non sottostare ad alcun pregiudizio, attribuendo all’autore o a colui per il quale l’autore scrisse, più o meno di quel che è giusto, o facendoci idee diverse da quelle che l’autore poté avere in mente ai suoi tempi e nelle sue condizioni (26).

La Sacra Scrittura non costituisce dunque la vera memoria del passato, la tradizione come trasmissione di un senso continuo da Dio alle generazioni successive del popolo ebraico (tradizione che si identifica con la totalità stessa della storia), ma la memoria immaginaria di un frammento il cui senso è perduto per sempre con il ricordo della congiuntura che l’ha visto sorgere: non è un caso che Spinoza riprendendo Machiavelli usi a più riprese il termine «occasio» (27): proprio su questo concetto machiavelliano fonda una teoria materialistica della tradizione secondo cui nella storia, per dirla con Althusser, «non parla la voce di un Logos, ma l’inaudibile e illeggibile traccia di una struttura di strutture» (28).

3. Decostruzione del legislatore onnipotente e centralità del conflitto

Veniamo ora alla decostruzione del legislatore onnipotente riflesso speculare sul piano politico del Dio autore della Scrittura sul piano teologico. È ancora Machiavelli il riferimento fondamentale. In questa prospettiva, è necessario prendere in mano le pagine del capitolo 2 del I libro dei Discorsi in cui Machiavelli descrive il movimento ciclico che regola lo sviluppo storico di ogni forma di potere. Il capitolo è dedicato a una interrogazione sulla forma particolare della Repubblica romana in rapporto alla tipologia platonico-aristotelico. Machiavelli, dopo aver descritto le sei forme di governo e la dialettica passionale e generazionale (la prima generazione è sempre virtuosa e la seconda è sempre corrotta), che provoca il passaggio da una forma di potere a un altra, mette in evidenza il carattere astratto di questa successione seriale di forme una volta che esso sia messo in relazione con il piano concreto delle relazioni storiche:

E questo è il cerchio nel quale girando tutte le republiche si sono governate e si governano: ma rade volte ritornano ne’ governi medesimi; perché quasi nessuna republica può essere di tanta vita, che possa passare molte volte per queste muta- zioni, e rimanere in piede. Ma bene interviene che, nel travagliare, una republi- ca, mancandole sempre consiglio e forze, diventa suddita d’uno stato propinquo, che sia meglio ordinato di lei: ma, posto che questo non fusse, sarebbe atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi (29).

La temporalità seriale della successione delle forme di potere appare come un’astrazione dell’immaginazione di fronte alla realtà delle complesse relazioni storico-politiche: non esiste legge di sviluppo delle forme di potere di una società indipendentemente dai rapporti di forza che li oppone e li lega ad altre società. Di conseguenza, l’intersezione delle differenti linearità cicliche produce una temporalità nient’affato lineare, ma anzi attraversata da rotture e discontinuità. Ma, la presa di distanza dalla teoria dell’anacyclosis è ancor più radicale: Machiavelli infatti non si limita ad una complessificazione del quadro ereditato da Polibio. Nel momento in cui affronta il suo oggetto, la forma specifica della Repubblica romana, si disfa di tutti gli strumenti concettuali della teoria dell’anacyclosis, per studiarlo nella sua complessità singolare e duratura. È proprio la questione della durata delle Repubbliche che permette a Machiavelli di prendere le distanze da una teoria ciclica della storia:

Dico, adunque, che tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne’ tre buoni, e per la malignità che è ne’ tre rei. Talché, avendo quelli che prudentemente ordinano le leggi, conosciuto questo difetto, fuggendo ciascuno di questi modi per se stesso, ne elessero uno che partecipasse di tutti, giudicandolo più fermo e più stabile; perché l’uno guarda l’altro, sendo in una medesima città il Principato, gli Ottimati, e il Governo Popolare (30).

Quando si comincia ad analizzare gli oggetti singolari della storia, cioè gli Stati durevoli, la filosofia della storia deve essere abbandonata a vantaggio di uno studio delle leggi e delle istituzione («leggi e ordini», secondo il linguaggio di Machiavelli), che hanno permesso a uno Stato di regolare e stabilizzare i rapporti di forza tra le componenti della società. Machiavelli ricorda a questo proposito l’esempio di Licurgo, che diede a Sparta una costituzione, assicurandole stabilità politica per ben otto secoli, e il contro-esempio di Solone, le cui leggi hanno stabilito una forma di potere precaria, ben presto trasformatasi in tirannia:
Intra quelli che hanno per simili costituzioni meritato più laude, è Licurgo; il quale ordinò in modo le sue leggi in Sparta, che, dando le parti sue ai Re, agli Ottimati e al Popolo, fece uno stato che durò più che ottocento anni, con somma laude sua e quiete di quella città. Al contrario intervenne a Solone, il quale ordinò le leggi in Atene; che, per ordinarvi solo lo stato popolare, lo fece di sì breve vita, che, avanti morisse, vi vide nata la tirannide di Pisistrato: e benché, dipoi anni quaranta, ne fussero gli eredi suoi cacciati, e ritornasse Atene in libertà, perché la riprese lo stato popolare, secondo gli ordini di Solone, non lo tenne più che cento anni, ancora che per mantenerlo facessi molte costituzioni, per le quali si reprimeva la insolenzia de’ grandi e la licenza dell’universale, le quali non furono da Solone considerate: nientedimeno, perché la non le mescolò con la potenza del Principato e con quella degli Ottimati, visse Atene, a rispetto di Sparta brevissimo tempo (31).

A proposito dei due esempi scelti da Machiavelli devono essere messi in evidenza due conseguenze teoriche, che restano in realtà implicite: da una parte, il carattere mitico del personaggio di Licurgo, che occupa nel testo machiavelliano la funzione esemplare del legislatore «ad uno tratto» (in contrapposizione alle legislazioni effetto del caso) suggerisce che ogni forma di causalità prima non sarebbe in realtà che una forma di mitologia dell’origine (e l’ironia sul precettore di Mosè mi sembra rafforzare quest’ipotesi); d’altra parte, la storia ateniese invalida la teoria dell’anacyclosis: si passa in effetti da una democrazia a una tirannia, poi di nuovo a una democrazia e infine a una oligarchia dopo la sconfitta inflittagli da Sparta nel 404 a.C.
Così la storia di Roma deve essere analizzata indipendentemente dalla credenza nella onnipotenza di un legislatore come da quella di uno sviluppo storico predeterminato: la storia è il luogo degli incontri aleatori di forze all’interno e all’esterno dello Stato ed è proprio la regolazione continua di queste forze che rende possibile la durata d’uno Stato. La descrizione a grandi linee dell’oggetto singolare della teoria della storia nei Discorsi (la storia del popolo romano) appare dunque come una presa di distanza di fronte a due idee fondamentali della filosofia classica: quella del legislatore «ad uno tratto» e quella d’un tempo ciclico, eterno ritorno dell’eguale. Ecco il lungo passaggio che chiude il capitolo:
Ma vegnamo a Roma; la quale, nonostante che non avesse uno Licurgo che la ordinasse in modo, nel principio, che la potesse vivere lungo tempo libera, nondimeno furono tanti gli accidenti che in quella nacquero, per la disunione che era intra la Plebe ed il Senato, che quello che non aveva fatto uno ordinatore, lo fece il caso. Perché, se Roma non sortì la prima fortuna, sortì la seconda; perché i primi ordini suoi, se furono difettivi, nondimeno non deviarono dalla diritta via che li potesse condurre alla perfezione. Perché Romolo e tutti gli altri re fecero molte e buone leggi, conformi ancora al vivere libero: ma perché il fine loro fu fondare un regno e non una republica, quando quella città rimase libera, vi mancavano molte cose che era necessario ordinare in favore della libertà, le quali non erano state da quelli re ordinate. E avvengaché quelli suoi re perdessono l’imperio, per le cagioni e modi discorsi; nondimeno quelli che li cacciarono, ordinandovi subito due Consoli che stessono nel luogo de’ Re, vennero a cacciare di Roma il nome, e non la potestà regia: talché, essendo in quella republica i Consoli e il Senato, veniva solo a essere mista di due qualità delle tre soprascritte; cioè di Principato e di Ottimati. Restavale solo a dare luogo al governo popolare: onde, sendo diventata la Nobiltà romana insolente per le cagioni che di sotto si diranno, si levò il Popolo contro di quella; talché, per non perdere il tutto, fu costretta concedere al Popolo la sua parte, e, dall’altra parte, il Senato e i Consoli restassono con tanta autorità, che potessono tenere in quella republica il grado loro. E così nacque la creazione de’ Tribuni della plebe, dopo la quale creazione venne a essere più stabilito lo stato di quella republica, avendovi tutte le tre qualità di governo la parte sua (32).

La negazione della causa prima incarnata dal legislatore-fondatore, che occupa nello spazio della politica il posto del Dio della cosmologia cristiana porta con sé, con la stessa mossa teorica, la negazione della serie delle cause transitive che ne derivano: il centro ed il motore della politica non è il piano, l’ordine stabilito ab origine, ma il conflitto ed i suoi effetti aleatori («furono tanti gli accidenti che in quella nacquero, per la disunione che era intra la Plebe ed il Senato, che quello che non aveva fatto uno ordinatore, lo fece il caso»).
Non il conflitto come immane potenza del negativo, la contraddizione di stampo hegelo-marxista il cui esito è sempre già deciso in anticipo, ma il conflitto nella sua complessa e aleatoria positività che offre l’occasione per l’emergenza di nuove istituzioni.
L’essenza dello Stato romano non risiede dunque in una forma di potere (la forma mista, che Polibio evocava già a proposito di Roma) imposta a una materia informe, il popolo romano, ma nei rapporti di forze tra gli elementi fondamentali del popolo (il re, i nobili e la plebe), il cui incontro conflittuale ha fornito l’occasione (solamente l’occasione, il cui concetto mi sembra essere la decostruzione implicita di ogni forma di teleologia) di creare nuove istituzioni e nuove leggi, in vista di una regolazione continua senza la quale lo Stato non potrebbe durare. Così lo studio della logica specifica dell’oggetto specifico porta Machiavelli a disfarsi tanto del mito del legislatore «a uno tratto» che istituisce l’ordine per tutto il popolo, quanto della filosofia della storia fondata su un movimento ciclico delle forme di potere. In questo senso Machiavelli elabora una teoria dell’individuo (dell’individualità in fieri del popolo romano) come antifilosofia della storia, cioè rifiuta di inscrivere la società romana in un racconto totalizzante.

Questo stesso rifiuto del racconto totalizzante troviamo nella storia spinoziana del popolo ebraico. La negazione d’un senso originario, il Logos divino che sarebbe stato trasmesso intatto alle generazioni successive (il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe ecc.) è infatti anche la negazione, sul piano politico, di una prima causa mitica che si presenta con i tratti di un legislatore ispirato da Dio che stabilisce l’eterno ordine di una società (ma anche, e sim- metricamente, dell’inefficacia del modello del patto per pensare il complesso intreccio storico che la costituisce). Si tratta, attraverso l’analisi della storia singolare del popolo ebraico, di sbarazzarsi dell’idea di un Dio legislatore: questa storia mette in effetti in evidenza lo statuto immaginario di un Dio che trasmette al popolo le leggi. Dopo l’Esodo, non essendo più sottoposti alle leggi di un’altra nazione, gli ebrei, di nuovo in possesso del loro diritto naturale, ebbero la possibilità di instaurare delle nuove leggi e occupare nuove terre. In queste condizioni, essi optarono per stringere un patto con Dio:
Trovandosi, dunque, in questo stato di natura, essi deliberarono, su consiglio di Mosè nel quale avevano la massima fiducia, di non trasferire ad alcun uomo, ma a Dio soltanto il proprio diritto, e senza indugio promisero tutti ad una voce [omnes æque uno clamore promiserunt] di obbedire in modo assoluto a tutti i comanda- menti divini e di non riconoscere altro diritto all’infuori di quello che Dio stesso avesse dichiarato tale per mezzo della rivelazione profetica (33).
Lo Stato degli ebrei aveva dunque la forma di una teocrazia di cui Dio era il monarca unico. Tuttavia Spinoza aggiunge subito dopo che «in verità, però, tutto ciò era piuttosto un’opinione che una realtà di fatto [Verum enimvero haec omnia opinione magis, quam re constabant]» (34). La trasmissione divina della legge al popolo è dunque altrettanto immaginaria che l’idea di un legi- slatore «a uno tratto», di cui del resto il patto del popolo con Dio sottoscritto «uno clamore» è la forma speculare. In effetti, nella ricostruzione dello Stato di Israele, Spinoza mostra in che cosa la sua costituzione dopo Mosè sfugge alla tipologia classica:
[…] Mosè […] lasciò da amministrare ai suoi successori un governo che non poteva dirsi né popolare, né aristocratico, né monarchico, ma teocratico. Il diritto di interpretare le leggi, infatti, e di comunicare i responsi divini spettava ad uno, mentre il diritto e il potere di amministrare la cosa pubblica secondo le leggi già interpretate e i responsi comunicati spettava a un altro (35).
Questa costituzione dello Stato non corrisponde al piano iniziale di Mosè, ma è la conseguenza dell’adorazione del vitello d’oro da parte del popolo, che portò Mosè a escludere i primogeniti dal sacro ministero per consegnarlo alla tribù dei Leviti. Il passo biblico mostra come la nuova costituzione lungi dall’essere il frutto di una pianificazione razionale, ebbe origine dall’esercizio di una violenza inaudita che instaurò un nuovo rapporto di forze all’interno della società:
Mosè si pose alla porta dell’accampamento e disse: «chi sta con il signore venga con me!». Gli si raccolsero intorno tutti i figli di Levi. Gridò loro: «Dice il Signore, il Dio d’Israele: Ciascuno di voi tenga la spada al fianco. Passate e ripassate nel- l’accampamento da una porta all’altra: uccida ognuno il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio parente». I figli di Levi agirono secondo il comando di Mosè, e in quel giorno perirono circa tremila uomini del popolo. Allora Mosè disse: «ricevete oggi l’investitura del Signore; ciascuno di voi è stato contro suo figlio e contro suo fratello, perché oggi Egli vi accordasse una benedizione» (36).
Questa esclusione del popolo dal sacro ministero genererà uno stato di sedizione permanente, che condurrà alla dissoluzione dello Stato reso fragile e incapace di resistere ai colpi della fortuna (37). Spinoza decostruisce qui il mito dell’onnipotenza del legislatore, dimostrando che l’azione legislatrice si inscrive nei rapporti di forza di una congiuntura, all’interno di un orizzonte conflittuale la cui materialità le offre l’occasione e allo stesso tempo la limita. Come già Machiavelli a proposito della storia romana, anche Spinoza, appros- simandosi all’oggetto singolare del suo studio, abbandona l’idea di una causa prima da cui sgorga un tempo lineare, per analizzarlo nella sua singolarità, nell’intreccio conflittuale che ha costituito la sua forma politica non «a uno tratto» ma «a caso, ed in più volte, e secondo li accidenti», cioè, attraverso l’assommarsi di provvedimenti parziali determinati dalle circostanze (38).

4. Conclusione

Questa silenziosa ripetizione machiavelliana in alcuni dei punti chiave del Trattato teologico-politico non è senza conseguenze dal punto di vista teorico: essa contribuisce a mettere in crisi alcune forme del pensiero spinoziano e ad aprire nuove soluzioni:
1) entra in crisi su un piano ontologico il modello della causalità seriale che dipende da Dio pensato come causa prima, modello ancora del tutto dominante nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto. L’Etica, introducendo il concetto di causalità immanente, penserà le res singulares non come elementi di una series, ma come connexiones, intrecci. Ed in questo senso lo stesso concetto di legge naturale dovrà essere ripensato attraverso l’immanenza: non potrà essere la trascendente lex seriei, ma piuttosto la necessità della complessità dell’intreccio.
2) Su un piano politico entra invece in crisi il modello del patto pensato come effetto di un calcolo dei singoli individui e la democrazia pensata come causa transitiva dello Stato, ancora al centro del capitolo XVI del Trattato teologico-politico. Nel Trattato politico scomparirà il termine pactum (e la sola occorrenza di contractus è al plurale, come ha mostrato Cristofolini) e il potere politico si fonderà sulla potenza della multitudo che non è soggetto ma trama di relazioni, dunque causalità immanente e non transitiva. E in questo senso, mi pare, debba essere letta la proposta interpretativa di Caporali secondo cui la teoria politica del Trattato teologico politico non sarebbe del tutto coerente con la metafisica spinoziana della causa sui, con cui sarebbe invece del tutto consonante la teoria del Trattato politico (39).

Se dunque tra gli utopisti del primo paragrafo del Trattato politico può essere classificato Hobbes, come ha acutamente suggerito Matheron, può forse essere classificato tra di essi anche lo Spinoza del capitolo XVI, secondo cui la società nasce da un calcolo degli individui che prende la forma di un patto. Utopia non tanto del patto, poiché Spinoza già critica il giusnaturalismo vincolando il rispetto del patto all’utilità del singolo, ma come utopia dell’individuo che calcola vantaggi e svantaggi dello stare in società. Potenziando le riflessioni machiavelliane attraverso il suo proprio percorso metafisico, Spinoza pensa la società umana come intreccio di virtù e fortuna, di memoria e oblio, di potere e agire comunicativo, di violenza, conflitti e rapporti di forza che attraversano sempre-già l’individuo, concetto che del resto l’Etica farà esplodere nel suo significato etimologico. In questo senso la libertà non può essere pensata secondo la tradizione hegelo-marxista come duplicazione concettuale della causa transitiva (la democrazia come origine della società, perduta e ritrovata, secondo il celebre movimento di alienazione e disalienazione), ma come tentativo immanente e congiunturale della ragione di trasfor- mare lo scontro delle passioni in libertà politica, tentativo mai garantito nel suo successo e che deve continuamente rinnovarsi, poiché si esaurisce, secon- do l’espressione di Althusser, nel vuoto di una distanza presa.

 

Note
*  Sigle utilizzate

P = Il Principe

D = I discorsi sopra la prima deca di Tito Livio

G = edizione delle opere di Spinoza di Gebhardt

TO = edizione delle opere di Machiavelli di Martelli

1     Per  una  bibliografia  completa  sull’argomento  rinvio  al  mio  Il  tempo  e  l’occasione. L’incontro Spinoza Machiavelli, Milano, LED, 2002.

2    TTP, III, in G, Bd. III, pp. 45-46, tr. it. di A. Droetto – E. Giancotti, Torino, Einaudi, 1972, p. 81.

3    TTP, III, p. 46, tr. it. cit., p. 81.

4    TTP, III, p. 46, tr. it. cit., p. 81.

5    TTP, III, p. 46, tr. it. cit., p. 81.

6    TTP, III, p. 47, tr. it. cit., pp. 82-83.

7    TTP, III, p. 47, tr. it. cit., p. 83.

8    P, XXV, in TO, p. 295.

9    D, II, 1, p. 146.

10    D, II, 1, p. 146 (corsivo mio).

11     D, II, 5, p. 154.

12     D, II, 5, p. 154.

13     Questa tesi è evidentemente alla base delle argomentazioni usate da Spinoza contro Albert Burgh (cfr. Epistola LXXVI, in G, IV, pp. 316-324).

14     Cfr. questo passo della lettera di Spinoza a Burgh: «Ordinem Romanæ Ecclesiæ, quem tantopere laudas, politicum […] esse fateor» (G, IV, p. 322).

15     Cfr. sul conatus del linguaggio della multitudo come resistenza ai tentativi di distorsione del potere F. Del Lucchese – V. Morfino, Parole mostruose. Natura umana e politica in Spinoza, «Forme di vita» 4 (2005), pp. 50-64.

16     D, II, 5, p. 154.

17     D, II, 4, p. 154.

18     D, II, 5, p. 155 (corsivo mio).

19     Daniela Bostrenghi sottolinea la rarità dell’utilizzo del termine «imaginarius» in Spinoza in rapporto alla frequenza di termini come «imago», «imaginatio», «immaginari» (3 volte nell’Etica e 6 volte nel TTP): «l’aggettivo indica, quindi, una privazione di realtà (imma- ginario=ciò che non è reale), che non pregiudica, tuttavia una funzione costitutiva e strut- turante della stessa imaginatio profetica» (D. Bostrenghi, Forme e virtù della immagi- nazione in Spinoza, Napoli, Bibliopolis, 1997, p. 107, nota 1).

20    TTP, VI, pp. 92-93, tr. it. cit., p. 164.

21     TTP, VII, p. 98, tr. it. cit., pp. 186-187.

22    TTP, VII, p. 100.

23    TTP, VII, pp. 105-106, tr. it. cit., pp. 194-195 (corsivo mio).

24    TTP, VII, p. 106, tr. it. cit., p. 195.

25    Molto meglio Fergnani, che traduce con «voracità del tempo» (B. Spinoza, Etica-Trattato teologico-politico, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, Milano, TEA, 1972, p. 407).

26    TTP, VII, p. 109, tr. it. cit., pp. 198-199.

27    L’indicizzazione informatica del TTP ci segnala ben 16 occorrenze del termine «occasio» (cfr. G. Totaro – M. Veneziani, «Indici e concordanze del Tractatus Theologico-politicus di Spinoza», «Lexicon Philosophicum» 6 (1993), pp. 51-204). Solo nel capitolo VII Spinoza lo usa 5 volte e sempre in coppia con il termine tempus (pp. 101, 102, 109, 110).

28    L. Althusser, «Du Capital à la philosophie de Marx», in AA.VV., Lire Le Capital, Paris, PUF, 19963, tr. it. a a cura di R. Rinaldi e V. Oskian, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 17.

29    D, I, 2, p. 80 (corsivo mio).

30    D, I, 2, p. 80.

31     D, I, 2, pp. 80-81.

32    D, I, 2, p. 81 (corsivo mio).

33    TTP, XVII, p. 205, tr. it. cit., p. 417.

34    TTP, XVII, p. 206.

35    TTP, XVII, pp. 207-208, tr. it. cit., p. 421.

36    Esodo, 32, 26-29.

37    TTP, XVII, pp. 219-220, tr. it. cit., pp. 436-437.

38    Per un’analisi comparata del tema del conflitto in Machiavelli e Spinoza cfr. le importan- ti analisi di F. Del Lucchese, Tumulti e indignatio. Conflitto, diritto e moltitudine in Machiavelli e Spinoza, Milano, Ghibli, 2004.

39    Cfr. R. Caporali, La fabbrica dell’imperium, Napoli, Liguori, 2000.