L’Ontologia in Heidegger e in Lukács- Fenomenologie e Dialettica

 

di

NICOLAS  TERTULIAN

 

L’ampia letteratura critica su Heidegger e sul posto di riguardo che la sua «ontologia fondamentale» ed il suo pensiero dell’Essere occupano nella filosofia del XX secolo non registra finora alcun confronto con l’impresa simmetrica compiuta da György Lukács di porre l’ontologia al centro della problematica filosofica, edificando a partire da Marx una teoria dell’essere sociale ancorata in un pensiero dell’essere e delle sue categorie. Non soltanto gli heideggeriani hanno ignorato le ultime grandi opere di Lukács, l’Estetica e l’Ontologia dell’essere sociale, ma i numerosi interpreti, talora assai critici, dell’opera heideggeriana, hanno preferito mantenere il silenzio sulle opere dell’ultimo Lukács, privandosi così della possibilità di scoprire ciò che si deve proprio designare come l’antipodo dell’«ontologia fenomenologica» e della Seynsphilosophie heideggeriana. Un confronto del genere sarebbe invece fecondo. Confrontare, ad esempio, l’essere-nel-mondo heideggeriano col realismo ontologico di Lukács, la concezione eminentemente dialettica della relazione soggetto-oggetto di quest’ultimo con la pretesa heideggeriana di avere sconvolto il dualismo soggetto-oggetto e di avere istituito un pensiero radicalmente nuovo della «soggettività del soggetto» permette di misurare la portata delle analisi ontologiche di Lukács, e anche la loro efficacia nella decostruzione del pensiero heideggeriano. Una lettura incrociata dei testi di Lukács e di Heidegger, ma anche di quelli di Ernst Bloch o di Nicolaï Hartmann, non ha nulla di singolare se si tiene conto del fatto che, al di là dei divari e degli antagonismi, esistono delle incontestabili similitudini di problematica tra questi pensatori, che, tutti, si sono proposti di elaborare un’ontologia nelle condizioni specifiche del XX secolo.
Ci sembra evidente, ad esempio, che la volontà di circoscrivere la specificità dell’humanitas dell’homo humanus, il livello ontologico singolare che definisce l’esistenza umana rispetto ad altri tipi d’esistenza, attraversi come un asse centrale tanto la riflessione di Lukács quanto quel- la di Heidegger. Può quindi essere stabilita una certa prossimità tra il «mondo» lukacsiano (la Welthaftigkeit, di cui parla nella sua Estetica, o il «mondo» della quotidianità, su cui ci intrat- tiene il capitolo sull’ideologia della sua Ontologia) e il «mondo» heideggeriano (di cui occorre ricordare che è un esistenziale, una caratteristica consustanziale al Dasein, alla realtà umana)?

Prendiamo come terreno di confronto tra le differenti ontologie la relazione soggetto-oggetto e il concetto di «mondo». Com’è noto, Heidegger rifiuta alla questione dell’autonomia onto- logica del mondo esterno una qualsivoglia valenza filosofica, affermando expressis verbis che il sorgere di un mondo è possibile soltanto con l’emergenza del Dasein (della realtà umana), l’esistente in-sé (das Seiende) che per se stesso è a-mondano (o weltlos, senza mondo). Il sintagma heideggeriano «die Welt weltet», o «es weltet» (il mondo si mondanizza) implica la co-presenza di un soggetto, l’essere-presente (das Vorhandene) irrigidito per la sua a-soggettività in un’inerzia d’esteriorità (secondo l’espressione di Sartre). Lukács fa invece dell’autonomia ontologica del mondo esterno un pilastro della sua riflessione, sottolineando costantemente che senza la considerazione di das Ansichseiende (dell’essere-in-sé), dell’autonomia e della consi- stenza oggettiva del reale, al di là di ogni ingerenza della soggettività, non si può comprendere la genesi della prassi umana.

Heidegger ha protestato vigorosamente – per esempio nel suo ultimo corso a Marburgo nel 1928, dal titolo Metaphysische Anfangsgründe der Logik. Im Ausgang von Leibniz – contro l’idea secondo cui la resurrezione dell’ontologia nella filosofia contemporanea sarebbe sinoni- mo di un ritorno al realismo ontologico. Egli precisa che la reviviscenza dell’ontologia è dovuta alla fenomenologia, anche se tiene ad aggiungere che né Husserl né Scheler hanno misurato la portata di questo processo (1). Dà così ad intendere che soltanto la sua «ontologia fondamentale», più esattamente la sua «ontologia del Dasein», realizza veramente il progetto ontologico. Le frecce avvelenate contro il procedimento realista di Nicolaï Hartmann abbondano durante questo periodo. Si può comprendere quindi perché Lukács, fin dall’inizio dei suoi Prolegomeni all’Ontologia, abbia tenuto a precisare che l’orientamento del suo manoscritto ontologico non aveva nulla a che spartire con la corrente fenomenologica o con l’Existenzphilosophie (2).

Gli anatemi lanciati da Heidegger contro il realismo ontologico, denunciato per aver messo al centro della filosofia la questione dell’«indipendenza dell’essere-in-sé [Ansichseiendes] rispetto al soggetto conoscitivo» e di restare prigioniero di quello che l’autore di Essere e Tempo chiama «lo pseudo-problema screditato [berüchtigtes Pseudoproblem] della realtà del mondo esterno» (3), si appoggiano su di un preteso occultamento del problema della soggettività. È curioso sentire il futuro critico dei travestimenti soggettivistici del pensiero dell’Essere (delle interpretazioni «esistenzialiste» del suo pensiero, prima di tutte quella di Sartre) difendere nei suoi corsi della fine degli anni Venti le prerogative della soggettività nella riflessione ontologica. Nel suo corso del 1927, intitolato I problemi fondamentali della fenomenologia, Heidegger ostentava la propria simpatia per l’idealismo nella disputa idealismo-realismo, e stigmatizzava il realismo come un’attitudine non-filosofica. Indicava perfino dietro l’antagonismo idealismo- realismo un sostrato politico (più precisamente, utilizzava l’espressione «parteipolitisch», e ci si può domandare a che cosa alludesse) (4). Aveva forse di mira gli attacchi anti-idealisti onnipre- senti nei discorsi marxisti di quel tempo. Se fosse così, ciò mostrerebbe come Heidegger non esitasse ad inserire la propria riflessione nelle battaglie ideologiche dell’epoca.

La categoria di causalità non beneficia di un trattamento di favore nel pensiero heideggeria- no, mentre occupa un posto di riguardo nella riflessione di Lukács e in quella di Nicolai Hartmann. L’egemonia del principio di causalità è per Heidegger sinonimo del trionfo, nell’epoca moderna, del pensiero calcolante (das rechnende Denken), quello che assoggetta il reale agli imperativi della manipolazione e dell’operazionismo. La caccia agli «effetti» è denunciata come il sintomo più vistoso di questa ondata di utilitarismo. Anche il culto dell’«informazione», espressione della riduzione del linguaggio a semplice strumento di comunicazione, diviene sotto la penna di Heidegger oggetto delle critiche più vivaci. Nella conferenza su «Il principio di ragione», tenuta da Heidegger nel 1956 a Brema e a Vienna, la causalità, la cui formulazione teorica è il principio di ragion sufficiente (der Satz vom Grund), è indicata come l’agente di un attacco gigantesco contro la natura, il cui esito necessario sarebbe rappresentato dalla scoperta dell’energia atomica e della sua conseguenza tecnica, la bomba atomica. Il nostro filosofo guarda all’egemonia del principio di causalità soprattutto attraverso il prisma della sua possente relazione col regno della tecnica, attraverso quindi le sue incoercibili nostalgie romantiche di un’età dell’umanità non corrotta dall’espansione dei meccanismi e degli apparecchi tecnici. Non si tratta perciò in Heidegger di una critica speculativa rigorosamente fondata del principio di ragione (sarebbe questo il compito di una vera e propria «ontologia critica»), ma di un pro- cesso istruito contro i suoi pretesi effetti negativi, o addirittura devastanti, nella pratica. L’abilità con cui l’autore di Der Satz vom Grund associa la sua indagine critica della definizione di uomo come animal rationale al quadro cupo dell’era atomica non riesce a mascherare l’insigne debolezza delle sue deduzioni. Imputare i rischi dell’età atomica all’espansione vittoriosa del principio di ragion sufficiente è un’asserzione più che discutibile: la validità ontologica del principio di causalità non è per nulla messa in discussione dall’ipertrofia della manipolazione del reale che caratterizza gli eccessi della tecnica. Quanto alla critica heideggeriana della de- finizione di uomo come animal rationale, anch’essa proviene dalla repulsione che gli ispira la pretesa aggressione contro la natura operata dalla razionalità tecnologica, e s’ispira allo stesso romanticismo regressivo che si propone di chiudere la parentesi della modernità. Si tratta proprio di una fuga nell’irrazionalismo, anche se Heidegger respinge vivacemente una tale attribuzione. Ma come evitarla quando si vede il protagonista dei seminari di Zollikon mettere sotto accusa «una dittatura dello spirito» cominciata col cogito cartesiano e spinta all’estremo dall’espansione della scienza, e la cui conseguenza ultima sarebbe il funesto assoggettamento della natura al dominio del soggetto? (5)
La presunzione e la tracotanza dell’animal rationale nella sua azione senza limiti di conquista della natura sono chiaramente la bestia nera di Heidegger.

Il concetto di «mondo» ha in Lukács una densità incomparabilmente più grande che in Heidegger. Il suo «mondo» si presenta articolato in una rete infinita di catene causali, le cui mol- teplici interazioni conferiscono al concetto di oggettività un contenuto complesso. Pur con- cordando con i commentatori che mostrano che Heidegger ha tratto ispirazione dal concetto aristotelico di praxis per la sua metafisica del Dasein, si deve ammettere che Lukács è assai più prossimo all’autentico spirito aristotelico poiché fonda la propria teoria dell’azione sulla dialettica tra teleologia e causalità, concetti assenti nelle analisi heideggeriane. Heidegger ha parlato a più riprese della «via» radicalmente nuova aperta dal suo libro Sein und Zeit, che avrebbe sconvolto i quadri concettuali della metafisica tradizionale. Tra le acquisizioni rivendicate, figura in buona posizione l’abolizione della dicotomia soggetto-oggetto. C’è da chiedersi quale sia l’effettiva portata di questa pretesa esorbitante. Paragonata alla tesi fondamentale di Lukács sul lavoro come chiave dell’antropogenesi, ci si può domandare che cosa resti della pretesa di Heidegger di avere delimitato una zona originaria dell’esperienza, precedente qualsiasi procedimento riflessivo, quella che definisce «la preoccupazione che si cura del mondo» (das Besorgen), radicata nella dimensione esistenziale della «Cura» (Sorge). Sia Lukács che Heidegger sono animati dalla volontà di risalire verso le situazioni originarie dell’essere-nel-mondo. Ma mentre Lukács fa del lavoro il momento capitale dell’emergenza dell’ominazione (seguendo così da vicino Hegel e Marx), Heidegger non lo evoca come momento costitutivo della sua ontologia del Dasein, e focalizza invece le sue analisi su una disposizione affettiva fondamentale, su un Existenzial (nella fattispecie la Cura, die Sorge), svuotando così la relazione originaria dell’uomo col mondo dei forti momenti oggettivi che la costituiscono. Non si può certo ribattere che nei discorsi di Heidegger pronunciati durante il famoso anno 1933 si trova un elogio insistente del lavoro, per esempio nel (tristemente) celebre Discorso di rettorato, ove il servizio lavorativo (der Arbeitsdienst) occupa un posto di riguardo tra gli obblighi imposti alla gioventù tedesca dal nuovo Stato nazional-socialista (accanto al Wissensdienst, il servizio del sapere, e al Wehrdienst, il servizio militare), poiché questa glorificazione del lavoro è talmente connessa all’esaltazione della Volksgemeinschaft e degli obiettivi della rivoluzione nazional-socialista che non le si può accordare la minima dignità filosofica (6). Occultando il posto centrale del lavoro nella genesi della specificità del genere umano (o, nel linguaggio heideggeriano, dell’ontologia del Dasein), l’autore di Sein und Zeit si priva della possibilità di considerare la dialettica dei rapporti tra le determinazioni del mondo oggettivo e gli atti intenzionali della coscienza, proprio perché il lavoro è il luogo geometrico di queste interazioni, l’attività nella quale la soggettività è per vocazione messa di fronte all’asprezza e alla sostanzialità di una realtà che la trascende. Heidegger svuota il problema della realtà del mondo esterno, e rivendica al tempo stesso, come un titolo di gloria, l’abolizione della dicotomia soggetto-oggetto: si preclude con ciò stesso la possibilità di proporre un’autentica fenomenologia del lavoro. Lukács, invece, si concentra con estrema attenzione su quello che considera l’anello capitale nella transizione verso l’humanitas dell’homo humanus, individuando nel lavoro la chiave di volta per l’intelligibilità dell’essere sociale.

La trascendenza del Dasein è per Heidegger sinonimo di apertura all’Essere, della capacità della realtà umana di emanciparsi dalla tutela dell’essente e di aprirsi alla «superpotenza» (Übermacht) di una luce trascendente. Si può certo trovare in Lukács un equivalente «profano» della trascendenza del Dasein; si può, in effetti, ritenere che il «distacco» rispetto all’immedia- to, che Lukács designa come un’acquisizione dell’atto del lavoro, la capacità di superamento della situazione data, siano analoghi ai processi concepiti da Heidegger sotto la denominazione di «trascendenza». Si possono certo accostare la definizione heideggeriana del Dasein come un essere «ekstatico» o «ex-centrico», che trascende il dato proiettandosi verso il futuro, ed il forte accento messo da Lukács sul «distacco» e soprattutto sull’emergere del «Sollen», del dover- essere, come attributo consustanziale alla realtà umana. Ma ci sembra assai più significativo risaltare la distanza abissale che separa i due procedimenti. Il «distacco» rispetto all’immediato e il «dover-essere» (il Sollen) si presentano in Lukács intimamente connessi al sorgere del lavoro, in quanto attributi inerenti agli atti di modellazione della natura. Il suo metodo ontologico- genetico lo spinge a stabilire le mediazioni tra l’attività del soggetto e le necessità dell’oggetto, seguendo la concrescenza dei due piani all’interno dell’architettura interna alla soggettività: può così mostrare in concreto la genesi delle «illuminazioni» della coscienza e abbozzare una genesi intra-mondana della libertà. Questo metodo dialettico è profondamente estraneo ad Heidegger, che stabilisce i suoi «Existenzialien» con un metodo più vicino alla «deduzione trascendentale» o all’apriorismo fenomenologico. Al fine di fondare la sua designazione dell’uomo come un essere «ekstatico» o come un «essere della lontananza» (ein Wesen der Ferne), formula che ha segnato molto Sartre, fa appello alla differenza tra l’essere e l’essente, poiché, una volta che si è svuotata la ricerca delle mediazioni dialettiche tra il lavoro della soggettività e le esigenze dell’oggettività, non resta altro che cercare in un’enigmatica «apertura all’Essere» la fonte della luce che il Dasein proietta sul mondo.

Il punto cruciale di discrimine tra le posizioni di Lukács e quelle di Heidegger si trova nel- le sentenze dell’autore di Sein und Zeit sul carattere incommensurabile dell’esistenza umana rispetto a qualsiasi approccio genetico e causale: la libertà, fondamento della trascendenza del Dasein, viene sottratta a qualsiasi tentativo di approccio scientifico. Si tratta proprio di un mistero ontologico, di cui Heidegger sottolinea con forza l’inaccessibilità al regno della causalità. Ma la sua diffidenza innata nei confronti della «scienza» si fonda su di un’interpretazione riduttiva del concetto di «determinismo». Il metodo genetico-causale d’approccio ai fenomeni avrebbe accesso, secondo Heidegger, soltanto a ciò che è «misurabile», all’aspetto quantitativo delle cose, oggetto di manipolazione, ma sarebbe impotente di fronte alla loro natura profonda. Heidegger si compiace di assicurarci che la «radura» dell’Essere (die «Lichtung») è inaccessibile a qualsiasi approccio scientifico («wissenschaftliche» Erörterung), ed avanza l’argomento dell’impotenza insita nell’accostarsi ad un’opera come la Montagna di Santa Vittoria dipinta da Cézanne col metodo delle equazioni differenziali7. Sia detto per inciso: ci si domanda quale «scientismo» elementare abbia mai avuto l’ambizione di spiegare Cézanne attraverso un calco- lo operazionale. Ad ogni modo, Heidegger prende fermamente le distanze da un approccio rigorosamente antropologico, quindi puramente «scientifico», della genesi dell’umanità dell’homo humanus in generale, e della genesi della libertà in particolare, quale quello sviluppato dalla filosofia di Arnold Gehlen: sottolinea che l’«apertura al mondo» (die «Weltoffenheit») di cui parla l’autore di Der Mensch (l’opera fondamentale di Gehlen apparsa nel 1940 e riedita varie volte in una versione modificata dopo la guerra) non ha niente in comune con l’«apertura» associata alla Lichtung (alla «radura» dell’Essere). È una precisazione significativa, proprio perché mette in luce l’opposizione tra, da una parte, un procedimento che si proponeva di mostrare per una via strettamente biologica la genesi delle facoltà specificamente umane, in particolare della libertà e dell’«apertura al mondo», e, d’altra parte, il procedimento heideggeriano, che rifiuta alla «scienza» la capacità di circoscrivere la «Weltoffenheit», il cui approccio è riservato alla visione «fenomenologica». La meta della Lichtung è appannaggio di questa strada privilegiata, e l’antropologia di Gehlen è respinta per inadeguatezza ontologica.

Heidegger ritiene che la trascendenza del Dasein appartenga ad una regione ontologica in cui le «prove» e le «dimostrazioni» non hanno alcun diritto di cittadinanza, ed il «circolo ermeneutico» sarebbe il solo metodo adatto alla specificità dell’esistenza umana. Lukács, da parte sua, rifiuta la famosa antinomia tra «spiegazione» e «comprensione», tra Erklären e Verstehen, fondamento della circolarità dell’ermeneutica heideggeriana, mostrando che i due procedimenti sono complementari. Tracciare la genesi degli atti intenzionali, comprese le forme più comples- se e raffinate d’«instaurazione teleologica», implica, per lui, la considerazione delle molteplici mediazioni che li collegano alla pratica quotidiana: la fenomenologia dei bisogni è preliminare all’emergere dei progetti, e la comprensione dei secondi passa per una spiegazione attraverso il sorgere dei primi, das Verstehen e das Erklären formano un’unità.

È il momento di prendere in considerazione la posizione assai critica dell’autore dell’Estetica e dell’Ontologia dell’essere sociale nei confronti delle correnti della psicologia e della filosofia moderna che sostengono la preminenza della «comprensione» sulla «spiegazione», l’autonomia della «totalità» rispetto alle sue componenti (i suoi «elementi»), e giungono a delle costruzioni speculative assai prossime ai miti romantici. Queste correnti, per lui, sfidano il concatenamento reale delle categorie: è segnatamente il caso dell’opposizione stabilita da Dilthey tra la beschreibende Psychologie (la psicologia descrittiva fondata sulla «comprensione») e l’erklärende Psychologie (la psicologia esplicativa), della celebrazione della priorità della «struttura» rispetto ai suoi elementi nella «psicologia della forma» (nel gestaltisme), della mitizzazione dell’inconscio praticata dalle diverse varianti della «psicologia del profondo».

Quando si trattava, per esempio, di determinare l’intenzionalità estetica di un’opera, d’identificare e di aderire al suo movimento interiore, quando si trattava dunque della sua «comprensione» (nel senso del Verstehen diltheyiano), Lukács si rifiutava di dissociarla dallo sfondo socio-storico della sua genesi, dall’indagine sulle condizioni della sua produzione, quindi dalla dialettica tra interiorità ed esteriorità. Comprensione e spiegazione gli apparivano complemen- tari. Gli era, ad esempio, inconcepibile analizzare l’Iperione di Hölderlin senza considerare la Weltanschauung del poeta, la sua inflessibile fedeltà all’ideale republicano della democrazia ateniese, il suo giacobinismo e la tragedia che derivava dal carattere utopistico delle sue nostalgie rivoluzionarie (10). Le interpretazioni di Heidegger, che svuotano completamente queste forti implicazioni socio-storiche dell’opera di Hölderlin, erano oggetto del suo vivace sarcasmo: Lukács diceva chiaro e tondo che Heidegger aveva «maltrattato il povero Hölderlin» con le sue «analisi sul linguaggio». Heidegger, a sua volta, ha opposto un rifiuto categorico ad ogni discorso sul «giacobinismo» di Hölderlin, come risulta da una lettera del 1976 a Imma von Bod- mershof (11), rivelando così quanto le interpretazioni come quelle di Lukács e di Pierre Bertaux, le prime ad aver posto la questione del giacobinismo al centro del loro approccio all’opera del poeta, gli fossero estranee e anzi lo ripugnassero profondamente.

Si prenda uno dei pilastri della metafisica heideggeriana del Dasein, la tesi dell’uomo come gettatezza». Quali sono le ragioni del costante rifiuto manifestato da Lukács nei confronti di questo modo di concepire la conditio humana? Nella sua descrizione della Geworfenheit (12), Heidegger insiste sulla duplice eteronomia di cui la realtà umana sarebbe in balia: l’influenza di un esistente che essa non è e che non domina, e le potenze che giacciono nel suo stesso Io e il cui dominio le sfugge.
L’accento è messo sullo stato di «abbandono» dell’uomo rispetto a delle realtà che lo trascendono (sulla Preisgegebenheit), sul fatto che la realtà umana è «attraversata» (durchwaltet) da forze che le sfuggono, poiché in balia della «superpotenza» (Übermacht) di questa duplice eteronomia (è il senso preciso della «gettatezza», della Geworfenheit), e l’Io può soltanto registrare questa situazione primordiale attraverso le proprie tonalità affettive (la propria Befindlichkeit, il proprio stato affettivo, le proprie Stimmungen), senza poter nutrire  l’illusione che una condotta razionale, orientata da uno scopo (un «Wohin?» trasparente) gli possa permettere di sfuggirvi. Lukács non poteva condividere una tale visione delle cose; la sua antropologia filosofica, che cercava nel lavoro la situazione originaria dell’essere-nel-mondo, metteva in luce la presenza di una mescolanza inestricabile di autonomia e di eteronomia all’interno di quella forma principale della relazione soggetto-oggetto che è l’atto del lavoro. Il soggetto, nel senso di Lukács, se è «paralizzato», come l’Io heideggeriano, dalle potenze dell’esistente, non si concepisce come abbandonato alla loro «superpotenza», ma in esse investe se stesso assoggettandovisi, si sente co-responsabile della loro azione, utilizza le reti causali oggettive per inscrivere in esse la teleologia dei suoi scopi, e impone così il marchio della propria autonomia nel gioco delle forze eteronome. Lukács rifiuta energicamente la tesi heideggeriana secondo cui il «da dove» (il «Woher») e il «verso dove» (il «Wohin») sarebbero avvolti nell’oscurità (14), poiché la sua descrizione del tragitto dell’uomo è fondata su una dialettica della teleologia e della causalità che implica la trasparenza delle due estremità della catena, del punto di partenza e del punto di arrivo.

Le prese di distanza di Heidegger nei confronti dell’eredità di Kant e di Hegel si sono mosse attorno al tema della «finitudine» (die «Endlichkeit»), motivo fondamentale del suo pensiero, intimamente associato a quello della gettatezza, la Geworfenheit. Si può ricordare, in questo senso, che l’analisi principale di Kant e il problema della metafisica (1929) culminava nell’idea secondo cui Kant avrebbe indietreggiato davanti alla sua stessa scoperta geniale, esposta nella prima edizione della Critica della ragion pura, l’immaginazione trascendentale come fonte del- la fondazione della metafisica, che avrebbe infine sacrificato, nella seconda edizione dell’opera, al pregiudizio della superiorità dell’«intelletto», eludendo così il tema della finitudine in favore di una facoltà che apre all’uomo la prospettiva rassicurante dell’accesso all’infinito. Non si è abbastanza insistito sulle pagine in cui Heidegger formula i suoi rimproveri a Kant e ad Hegel sul tema della finitudine. Questa animosità contro i concetti fondanti dell’idealismo classico tedesco è uno dei punti in cui la differenza con il pensiero di Lukács, grande erede della tradizione classica, si manifesta in modo particolarmente evidente. Se il motivo della «finitudine» ci sembra da associare a quello della Geworfenheit, è perché la profonda diffidenza di Heidegger nei confronti delle forme di pensiero che si affidano alla capacità dell’uomo di trasgredire i limiti che gli sono assegnati e di appropriarsi delle possibilità attinte all’infinito del reale mostra tutto ciò che lo separa dall’idealismo classico e lo pone all’interno della corrente opposta, quella di Kierkegaard e del pensiero di carattere teologico.

Sulla dialettica della finitudine e dell’apertura all’infinito (Cassirer aveva già respinto vivacemente la posizione di Heidegger al riguardo in occasione del famoso dibattito di Davos e nel suo articolo su Kant e il problema della metafisica), Lukács non poteva che mostrarsi fedele alla tradizione del grande idealismo tedesco, non soltanto a quella di Kant e di Hegel, ma anche a quella di Schiller e di Goethe (15). Il superamento della pura «particolarità» è un leitmotiv del pensiero dell’ultimo Lukács, che rimprovera alle società del capitalismo moderno di irrigidire gli individui nello stato di pura particolarità, coltivando l’evanescente, l’usa-e-getta, gli hobbys. La scissione tra l’individuo e il cittadino esprime questo pensiero. Si può quindi comprendere la vivacità della reazione negativa di Lukács davanti alla fissazione heideggeriana per lo stato di pura contingenza: la pagina di Essere e tempo in cui Heidegger focalizza l’analisi in termini particolarmente eloquenti sul puro Da del Dasein (il puro «ci» dell’«esserci»), su una realtà umana votata al «che» della sua esistenza (alla sua pura Dassheit), privata dei punti di riferi- mento del «da dove» e del «verso dove», in cui parla dell’unerbittliche Rätselhaftigkeit (dello spietato enigma) in cui questa nuda esistenza è irrigidita, giustifica, per gli stessi termini che usa, il rimprovero d’irrazionalismo.

È vero che Heidegger si è adoperato a più riprese a rifiutare l’accusa d’irrazionalismo, sconfessando in particolare coloro che cercavano di stabilire una relazione tra la sua valorizzazione di aspetti piuttosto «negativi» della conditio humana e il pessimismo di uno Schopenhauer o il contenuto dell’antropologia cristiana. La sua irritazione si rivolgeva contro chi opponeva alle sue cupe descrizioni la «serenità» dell’etica di un Goethe, e, non senza abilità, dileggiava gli spiriti «onesti» e «benpensanti», i «philosophische Biedermänner», che si permettevano di rammentare che nella sua metafisica del Dasein non c’era posto per l’«amore» (16).

L’animosità di Heidegger contro il pensiero tranquillizzante, contro i discorsi filosofici giudicati dei lenitivi perché tesi a sottrarsi alla pericolosità e al terrore, contro gli spiriti infettati dalla «leggerezza» (Leichtigkeit) e dall’edonismo (la Genussfähigkeit è indicata in Essere e tempo tra le forme d’esistenza inautentica (17) trova una delle sue espressioni più forti nelle pagine del corso del 1929-1930 in cui Heidegger si scatena contro la situazione della società di Wei- mar, finendo per celebrare in modo premonitore «la durezza» e «la pesantezza»(18). Il vocabolario utilizzato da Heidegger in questo momento decisivo del suo percorso intellettuale traduce una disposizione di spirito familiare a tutti coloro che hanno studiato la genesi dei movimenti di estrema destra in Germania, in Italia o altrove: le invettive contro coloro che si compiacevano del confort e dell’edonismo, contro la mediocrità dell’esistenza tranquillizzante, la rivendicazione dell’esperienza capitale della guerra (Heidegger vi ci si riferisce espressamente dopo il suo singolare elogio dello «spavento» (19), la celebrazione del «sacrificio» come costitutivo della «storicità originaria» (ureigene Geschichtlichkeit)20, e soprattutto l’appello all’assunzione del «fardello»21, della «pesantezza» e della «durata», dello stato d’urgenza (la scomparsa di questo sentimento d’urgenza – das Ausbleiben der Bedrängnis – è designata come il più grande pericolo (22) – questo insieme di nozioni intorno a cui si articola il discorso heideggeriano mostra che la formula di «prefascismo», scelta da Lukács per la collocazione storica del pensiero del primo Heidegger (23), lungi dall’essere un semplice espediente polemico, coglie effettivamente un aspetto essenziale della sua funzione ideologica.

Ma l’interesse principale delle considerazioni di Lukács ci sembra risiedere nel fatto che esse orientano l’analisi verso la struttura interna del pensiero heideggeriano, aprendo la strada per rispondere a delle questioni che continuano a tormentare l’ampia letteratura critica su questa filosofia: uno dei principali obiettivi delle analisi lukacsiane è effettivamente quello di mostrare come il pensiero di Heidegger si sia costituito come una replica ai teoremi fondatori del razionalismo classico e moderno, assottigliando ed erodendo le basi di questo pensiero, fino ad elaborare un’«ontologia» ed un pensiero dell’Essere che non è altro, per Lukács, che un’antropologia filosofica travestita, e soprattutto una «teologia senza Dio» (Lukács usa spesso il sintagma «ateismo religioso»), la cui funzione ideologica è quella di fornire una contropartita all’ascesa del pensiero dialettico e un surrogato alla crisi delle religioni tradizionali. La strut- tura «teologica» del pensiero heideggeriano, ed in particolare la sua origine kierkegaardiana, occupano un posto di riguardo nelle analisi lukacsiane.

Prima di affrontare la controversa questione del rapporto del pensiero di Heidegger con la religione, occorre rammentare che Lukács ha potuto scoprire negli scritti di Heidegger (so- prattutto in Sein und Zeit) un insieme di motivi e di temi di riflessione che gli erano familiari, poiché si trattava della concettualizzazione di esperienze e di situazioni esistenziali che lui stesso, mutatis mutandis, aveva attraversato in certi periodi del suo percorso intellettuale, anche se la loro interpretazione doveva prendere una direzione completamente opposta. Se si pen- sa, ad esempio, al famoso concetto di transzendentale Obdachlosigkeit (l’essere-senza-riparo trascendentale) formulato ne La teoria del romanzo e volto a rappresentare lo spaesamento esistenziale e la perdita dei rassicuranti legami dell’uomo moderno, non si può non richiamare l’esperienza descritta da Heidegger con la denominazione di «Un-zuhause» («essere-fuori-da- casa-propria»), correlata allo «spaesamento» (Unheimlichkeit), caratteristiche dell’esistenza «inautentica» (del si), o la situazione di «Heimatlosigkeit» («assenza di patria») su cui si soffermava La Lettera sull’«umanismo». È inutile insistere sulla forte presenza comune, negli scritti di Heidegger e di Lukács, dei concetti di alienazione o di reificazione24. Ma anche prima della comparsa di questi concetti, nei loro scritti del periodo 1919-1923, si può segnalare l’importan- za, nei due manoscritti di gioventù che Lukács dedica alla sua estetica – quella del 1912-1914 intitolata Philosophie der Kunst, e soprattutto l’«estetica di Heidelberg», datata 1916-1918, nel capitolo «Das Wesen der ästhetischen Setzung» –, del concetto di Erlebniswirklichkeit («realtà dell’esperienza vissuta»), che può essere considerato come un’anticipazione diretta del concetto di «vita quotidiana», che giocherà un ruolo di primo piano nella grande Estetica e nell’Onto- logia dell’ultimo Lukács, così come, con la denominazione di Alltäglichkeit (quotidianità), in Essere e tempo di Heidegger.

L’Ontologia di Lukács rende possibile una teoria della genesi degli affetti, perseguendo la fenomenologia della soggettività fino a una teoria della genesi dei valori, con l’obiettivo di circoscrivere la specificità dell’attività etica, la cui vocazione, per lui, è quella di organizzare il mondo degli affetti, di gerarchizzarli e di renderli coerenti. La catarsi è un motivo comune al suo pensiero estetico e alla sua etica. Heidegger, da parte sua, si vanta di avere sovvertito i concetti d’«individualità», di «persona», di «genio», di «spirito», in una parola il pensiero della soggettività, affidando il Dasein alla «superpotenza dell’Essere».

Il pensiero estetico ed etico dell’ultimo Lukács è centrato sulle transizioni dallo stato di pura «particolarità» (gli individui rinchiusi nella loro singolarità, senza legami col destino del genere) verso uno stato in cui le azioni individuali recano il sigillo della formula tua res agitur, e s’inscrivono nella storia della comunità del genere, acquistando così il suggello di un’humani- tas implicata nell’emancipazione o nella decadenza della specie umana in quanto tale. L’uomo come «nocciolo», opposto all’uomo come «scorza» (per riprendere la metafora goethiana), è colui che giunge a far valere la «nuclearità» (Kernhaftigkeit) della sua personalità, questa zona profonda in cui l’individuo singolo raggiunge la qualità del genere: l’ex teorico dell’«io tragico», che nel suo saggio di gioventù su La metafisica della tragedia (1910) si appoggiava all’«io intelligibile» di Kant, e nel suo dialogo Sulla povertà di spirito (1912), si appoggiava a delle figure esemplari quali l’Abramo di Kierkegaard o il principe Myškin di Dostoievskji, è rimasto fedele al suo elogio della tragedia, che incarna per lui il mondo delle essenze, la soggettività spinta al parossismo della sua auto-affermazione.

Una filosofia come quella di Heidegger consacratasi ad annientare e distruggere le stesse basi di una filosofia della soggettività, col pretesto che questa non rende giustizia alla vera humani- tas dell’homo humanus, non poteva che sbarrare la strada ad ogni tentativo di elaborazione di un’etica, inconcepibile al di fuori di un’ontologia della coscienza. Un pensiero dell’Essere, che testimonia di un accecamento non soltanto rispetto alla vera natura dell’essere biologico, ma anche e soprattutto rispetto alla costituzione dell’essere sociale (abbiamo visto quanto i concet- ti di «popolo», di «destino» o di «commiato del destino», di «storia dell’Essere», difettino di un reale ancoraggio socio-storico), non poteva che cercare appoggio nelle speculazioni su «il conflitto della Terra e del Mondo», su das Geviert (il Quadripartito) o sul passaggio dell’«ul- timo Dio». Se si pensa, ad esempio, alla forte presenza della Terra (die Erde) nel pensiero di Heidegger a partire dal suo testo su L’Origine dell’opera d’arte e al significato che occorre attribuire al confronto enigmatico tra il Mondo e la Terra (der Streit der Welt und der Erde), che ritorna come un leitmotiv nei Beiträge, ci si domanda quale contenuto si debba attribuire alle forze telluriche alle quali ci rimanda il concetto di die Erde e quale pensiero sulla storia si lasci costruire a partire da questo misterioso combattimento tra il Mondo e la Terra. Al tempo stesso, non bisogna dimenticare che l’offensiva heideggeriana contro l’autonomia e l’autode- terminazione del soggetto (già presente nell’esplicitazione del concetto della gettatezza), il cui termine correlativo è «la superpotenza dell’Essere», si accompagna ad un forte rifiuto della dialettica, stigmatizzata dall’autore di Essere e Tempo, in termini di particolare virulenza, come «la dittatura dell’assenza di questione» (Diktatur der Fraglosigkeit), nella cui rete «è soffoca- ta ogni questione» (in ihrem Netz erstickt jede Frage)25. La Hegel-Renaissance suscita le più vivaci preoccupazioni del filosofo, che indirizza le sue frecce avvelenate contro la «metafisica di Hegel» e soprattutto contro la «dialettica marxista»: a sentir lui «il metodo della mediazione dialettica […] scivola furtivamente a lato dei fenomeni», incapace di comprendere l’«essenza della tecnica moderna», quindi della «società industriale»26, bestia nera di un pensatore che sogna di abolire il regno della modernità. A partire da questi filosofemi, la «democrazia», e anche il «liberalismo», escrescenze del regno della soggettività, non potevano che essere aborrite: Heidegger non aveva abbandonato la sua vecchia battaglia degli anni Trenta-Quaranta contro l’«americanismo» e il «bolscevismo».

La forte ostilità verso la «società industriale» (un brano dei Beiträge mette «industrialismo», «capitalismo» e «marxismo» sotto lo stesso segno), il rifiuto della «dialettica soggetto-oggetto» (l’idealismo classico tedesco è messo alla gogna come promotore di una tale dialettica27), l’ossessione del marxismo, giustificano la collocazione di Heidegger nella tradizione della critica romantica della modernità, e richiamano alla mente inevitabilmente i severi giudizi di pensatori come Croce o Lukács sulla grande responsabilità storica della corrente romantica e della sua critica conservatrice della modernità nell’emergere, nel XX secolo, di correnti come il fascismo o il nazional-socialismo. Non è inutile stabilire un parallelo tra la reazione contro la Rivoluzione francese e contro il pensiero illuministico, o la frenesia nazionalista pangermanista, dei grandi romantici come Görres, von Arnim, Adam Müller, e il rifiuto della concezione del progresso, chiaramente soprattutto di quelle dell’Aufklärung e del marxismo, in filosofi come Klages, Heidegger, Gehlen o Baeumler, i quali si sono appoggiati, tutti, sulla tradizione roman- tica per dar validità al loro sostegno al nazionalsocialismo. Se si lasciano le alte speculazioni sul Dasein e sulla differenza ontologica per scrutare la fisionomia dei personaggi che, nella concretezza storica, hanno goduto del favore di Heidegger, non si può evitare di trarre certe conclusioni dall’elogio attribuito a figure come Albert Leo Schlageter o Horst Wessel, entrambi membri del partito nazista, canonizzati dal loro movimento, o dal giudizio positivo sulla «pro- fonda serietà» di una figura come Christoph Steding, un suo ex studente, autore di un libro sul Reich, apparso nel 1938, che si atteggiava a «metafisica del nazionalsocialismo» (secondo la formula di Günther Anders)28. La lettura del discorso pronunciato il 26 maggio 1933 dal ret- tore Heidegger per celebrare la figura eroica del vecchio membro dei Freikorps, caduto sotto i colpi degli occupanti francesi della Ruhr, Albert Leo Schlageter, permette forse di scorgere una risposta alla questione del come sia da intendersi l’elogio heideggeriano della Terra, vecchio motivo romantico riattualizzato potentemente dal pensatore del «radicamento» (della Boden- ständigkeit) . «Studente di Friburgo – così s’indirizzava il rettore alla folla – lascia che nella tua volontà si diffonda la forza che scaturisce dalle montagne natali di questo eroe! […] di roccia primaria e di granito sono le montagne tra cui è cresciuto questo giovane figlio di contadini. Da lungo tempo esse concorrono alla durezza della volontà» (29).

Si possono così cercare nella tradizione romantica le origini di quell’attaccamento ad un certo particolarismo nazionale che spingeva Heidegger a stabilire nel periodo successivo al 1933 delle nette divisioni tra gli «spazi» dei differenti popoli e culture; e se ciò ricorda inevita- bilmente le tesi di Spengler o la païdeuma di Frobenius, rinvia anche alla dottrina che Carl Sch- mitt svilupperà qualche anno più tardi col nome di Grossraum gegen Universalismus (Grande spazio contro l’universalismo). La frase seguente, tratta dal verbale del seminario dato da Heidegger durante l’inverno 1933-1934 col titolo Über Wesen und Begriff von Natur, Geschichte und Staat, rivela la sua ricettività per la tesi dell’eterogeneità degli spazi di vita e di cultura (la distinzione popolo slavo/spazio germanico acquisterà in seguito delle risonanze sinistre), ma soprattutto è latrice di una riflessione sulla storia ebraica, che non può che aggravare i sospetti sui suoi pregiudizi antisemitici: «A un popolo slavo la natura del nostro spazio tedesco si ma- nifesterebbe diversamente che a noi, al nomade semita essa certo non si manifesterebbe mai» (30).

Se teniamo presenti le recriminazioni di Heidegger contro l’idea di una «ragione logica universale» (allgemeine logische Weltvernunft)31 e la sua poca simpatia per «la corrente dello spirito dell’Illuminismo e della massoneria quali si manifestano oggi» (32), si comprende come la filiazione stabilita da Lukács e anche da Croce tra la tradizione romantica e un certo anti- universalismo dell’irrazionalismo tedesco moderno si riveli del tutto fondata (33). Anche su questo punto l’opposizione tra i pensieri di Lukács e di Heidegger si manifesta fulgidamente. Il fatto che il pensiero dell’ultimo Lukács culmini in un elogio della Gattungsmässigkeit (della specificità del genere umano) esprime con forza questo contrasto.

 

[Traduzione dal francese di Marco Vanzulli]

 

Note

1       Cfr. M. Heidegger, Metaphysische Anfangsgründe der Logik. Im Ausgang von Leibniz, in Id., Gesamt- ausgabe, Frankfurt am Main, Klostermann, Band 26, hrsg. von K. Held, 1978, p. 190. Poco tempo dopo, nel suo saggio Vom Wesen des Grundes, apparso nel 1929 nel volume per il settantesimo compleanno di Husserl, Heidegger ribadisce, con una virulenza ancora maggiore, il suo disconoscimento del realismo ontologico, cfr. M. Heidegger, Vom Wesen des Grundes, in Id., Wegmarken, 1967, Frankfurt am Main, Vittorio Klostermann, p. 30, nota.

2       Cfr. G. Lukács, Prolegomena zur Ontologie des gesellschaftlichen Seins, in Zur Ontologie des gesell- schaftlichen Seins, Halbband I, Neuwied und Berlin, Luchterhand, 1984, pp. 7-8.

3       M. Heidegger, Metaphysische Anfangsgründe der Logik. Im Ausgang von Leibniz cit., p. 191.

4       Cfr. M. Heidegger, Die Grundprobleme der Phänomenologie, in Id., Gesamtausgabe cit., Band 24, hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1975, p. 238.

5       Cfr. M. Heidegger, Zollikoner Seminare. Protokolle, Gespräche, Briefe, hrsg. von M. Boss, Frankfurt am Main, Klostermann, 1987, p. 139.

6       Si trovano nella raccolta di G. Schneeberger, Nachlese zu Heidegger (Dokumente zu seinem Leben und Denken), stampata a spese dell’autore a Berna nel 1962, numerosi testi di discorsi pronunciati da Heideg- ger durante il periodo del suo rettorato, in cui le ingiunzioni al lavoro al fine di edificare l’ordine nuovo ritornano come un leit-motiv. Anche nel corso sulla «Logica» tenuto nel semestre estivo del 1934 c’è un elogio insistente del lavoro, ma la retorica heideggeriana, che descrive il lavoro come un’azione abban- donata all’inaggirabilità dell’Essere (Unumgänglichkeit des Seins), mentre parla del «carattere incondi- zionato del Servizio» (Unbedingtheit des Dienstes), di una «risoluzione» sinonimo dello «scardinamento di ogni soggettività» (Sprengung aller Subjektivität), e conclude con un elogio dello Stato e della sua potenza come incarnazione dell’essere storico del popolo, è così impregnata dello spirito del tempo che non la si può che considerare come distante anni-luce dall’ontologia del lavoro sviluppata da pensatori quali Nicolai Hartmann o Lukács. Cfr. M. Heidegger, Gesamtausgabe cit., Band 38, «Logik als die Frage nach dem Wesen der Sprache», hrsg. von G. Seubold, 1998, pp. 115 e 160-169; N. Hartmann, Teleologi- sches Denken, Berlin, Walter de Gruyter & Co., 1951, pp. 68-71, e il capitolo sul lavoro con cui comincia il secondo volume dell’opera di Lukács Zur Ontologie des gesellschaftlichen Seins.

7       Cfr. la lettera di Heidegger a Medard Boss del 3 febbraio 1966, in M. Heidegger, Zollikoner Seminare. Protokolle, Gespräche, Briefe cit., p. 344.

8       Cfr. ivi, p. 268. Sull’atteggiamento di Heidegger nei confronti di Gehlen (ricordiamo che anche quest’ultimo ha aderito al nazional-socialismo, svolgendo perfino delle funzioni nell’establishment intellettuale nazista, ma la sua traiettoria è stata diversa da quella di Heidegger), si può trovare una testimonianza am- bivalente in una lettera dell’8 gennaio 1956 a Elisabeth Blochmann. Heidegger qui precisa che l’orientamento «antropologico-sociologico» di Gehlen non è «affatto di suo gusto», ma, sugli altri piani, ha piena fiducia in lui, e lo caratterizza come una figura «eminente», suscettibile di apportare «un altro spirito» se sarà nominato professore a Marburgo, cfr. M. Heidegger – E. Blochmann, Briefwechsel 1918-1969, hrsg. von J. Storck, Marbach am Neckar, Deutsche Schillergesellschaft, 1989, pp. 106 e 103.

9       Cfr. G. Lukács, Die Eigenart des Ästhetischen, 2.Halbband, Neuwied und Berlin, Luchterhand, 1963, p.

12.

10     Cfr. G. Lukács, Hölderlins Hyperion, in Werke, Neuwied und Berlin, Luchterhand, Band 7, «Deutsche

Literatur in zwei Jahrhunderten», 1964, pp. 164-186.

11    Cfr. la lettera di Heidegger a Imma von Bodmershof del 10 febbraio 1976, in M. Heidegger – I. von Bodmershof, Briefwechsel 1959- 1976, hrsg. von B. Pieger, Stuttgart, Klett-Cotta, 2000, pp. 143-144.

12     Le pagine più eloquenti su questo esistenziale heideggeriano possono essere trovate nel corso tenuto nel semestre invernale 1928-1929 dal titolo Einleitung in die Philosophie, pubblicato come Band 27 della Gesamtausgabe cit., hrsg. von O. Saame und I. Saame-Speidel, 1996, e naturalmente nei paragrafi corri- spondenti di Essere e tempo, in particolare il 29 e il 38.

13     Cfr. M. Heidegger, Einleitung in die Philosophie cit., p. 326.

14     «Das pure ‘dass es ist’ zeigt sich, das Woher und Wohin bleiben im Dunkel» (M. Heidegger, Sein und Zeit, unveränderte 5. Auflage, Halle a.d. S., Max Niemeyer Verlag, 1941, p. 134).

15     I celebri versi di Schiller: «aus dem Kelche dieses Geisterreiches / schäumt ihm seine Unendlichkeit» [dal calice di questo regno degli spiriti / spumeggia la sua infinità], scelti da Hegel in guisa di conclusione della sua Fenomenologia dello spirito, sono citati in buona posizione nel libro su Il giovane Hegel, cfr. G. Lukács, Der junge Hegel, Berlin, Aufbau Verlag, 1954, pp. 514 e 622. Quanto a Goethe, il suo apoftegma: «Willst du ins Unendliche schreiten, geh nur im Endlichen nach allen Seiten» [Se vuoi camminare nell’in-finito, percorri il finito in tutti i sensi], non poteva che suscitare la piena adesione del dialettico Lukács.

16     Cfr. M. Heidegger, Einleitung in die Philosophie cit., p. 327.

17     Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit cit., p. 43.

18     Winfried Franzen ha mostrato per primo il rapporto tra queste pagine e l’impegno di qualche anno dopo a favore del nazionalsocialismo, cfr. il suo testo Die Sehnsucht nach Härte und Schwere. Über ein zum NS-Engagement disponierendes Motiv in Heideggers Vorlesung «Die Grundbegriffe der Metaphysik» von 1929/30, in A. Gethmann-Siefert und O. Pöggeler (hrsg.), Heidegger und die praktische Philosophie, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1988, pp. 78-92.

19     Cfr. M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik, in Gesamtausgabe cit., Band 29, hrsg. von F.-W. von Herrmann, 1983, pp. 255-256.

20     Ivi, p. 259.

21     Ivi, pp. 248 e 255.

22     Ivi, p. 254.

23     Cfr. G. Lukács, Heidegger redivivus, in Existenzialismus oder Marxismus?, Berlin, Aufbau Verlag, 1951, p. 160; Id., Die Zerstörung der Vernunft, Berlin, Aufbau Verlag, 1955, pp. 407, 412, 416.

24     Cfr. su questo tema i miei due testi: Le concept d’aliénation chez Heidegger et Lukács, «Archives de Philosophie» 56 (1993), pp. 431-443, e Aliénation et désaliénation: une confrontation Lukács-Heidegger, «Actuel Marx» 39 (2006), pp. 29-54.

25     M. Heidegger, Zeichen [1969], in Denkerfahrungen 1910-1976, Frankfurt am Main, Klostermann, 1983, pp. 151-152.

26     Ibidem.

27     Cfr. M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), in Gesamtausgabe cit., Band 65, hrsg. von F.W. von Hermann, 1989, paragrafo n. 104 «Der deutsche Idealismus», p. 203.

28     L’ammirazione per Horst Wessel è espressa nella lettera di Heidegger a Maria Scheler, la vedova di Max Scheler, del 7 marzo 1933, lettera scoperta dallo statunitense Iain D. Thomson e riprodotta nel suo libro Heidegger on Ontotheology, Cambridge, Cambridge University Press, 2007, p. 144. La valutazione su Christoph Steding si trova nella lettera di Heidegger alla propria moglie del 29 gennaio 1939, in «Mein liebes Seelchen!», Briefe Martin Heideggers an seine Frau Elfriede 1915-1970, hrsg. von G. Heidegger, München, Deutsche Verlags-Anstalt, 2005, p. 203.

29     M. Heidegger, Schlageterfeier der Freiburger  Universität, in G. Schneeberger, Nachlese zu Heidegger Nachlese zu Heidegger (Dokumente zu seinem Leben und Denken) cit., p. 48.

30     Questa frase è citata da Frédéric Postel in uno dei suoi interventi riprodotti nel dossier «Heidegger, politique et philosophie», in «Cahiers Philosophiques» 111 (2007), p. 87.

31     Cfr. il resoconto inviato all’università di Monaco di Baviera sul filosofo neokantiano Richard Hönigswald, datato 25 giugno 1933, in Gesamtausgabe cit., Band 16 «Reden und andere Zeugnisse eines Lebensweges (1910-1976)», hrsg. von H. Heidegger, 2000, p. 132.

32     M. Heidegger, Hölderlins Hymne «Der Ister», Sommersemester 1942, in Gesamtausgabe cit., Band 53, «Holderlins Hymne ‘Der Ister’», hrsg. von W. Biemel, 1984, pp. 108-109.

33     Sulle origini romantiche di certi motivi del pensiero heideggeriano, cfr. P. Lacoue-Labarthe, Heidegger. La politique du poème, Paris, Galilée, 2002, p. 164 sgg.