L’enigma della «moltitudine libera»
François Zourabichvili
1. Il significato di «libera multitudo»
Vorrei partire da un’osservazione che Spinoza fa nel Trattato politico, concludendo l’esposizione delle basi di uno Stato monarchico capace di conservarsi. Quest’osservazione mi ha sempre colpito:
Basti soltanto avvertire che io qui prendo in considerazione quello stato monarchico che è istituito da una libera moltitudine, il solo che può giovarsi di questi princìpi; mentre una moltitudine che si sia abituato a un’altra forma di Stato non potrà, se non con grande pericolo di sovvertimento, sradicare le basi tradizionali dell’intero stato, e cambiarne integralmente la struttura (1).
Quest’osservazione pone un problema già al livello della comprensione letterale. Se «moltitudine libera» si oppone a «moltitudine abituata a un’altra forma di Stato», ne derivano due possibili interpretazioni: o che la moltitudine libera è quella che non ha conosciuto altro regime politico se non la monarchia o che la moltitudine libera è quella che non ha ancora conosciuto lo Stato. Dal momento che gli esempi storici sui quali si poggia la meditazione politica di Spinoza – gli Ebrei, gli Aragonesi – riguardano sempre un’istaurazione e non una restaurazione, la seconda ipotesi appare più probabile. Ma allora la nozione di «moltitudine libera» designa una sorta di stato incondizionato della moltitudine, un momento originario nel quale la vita di questa non è ancora regolata dalle istituzioni. Non si tratterebbe più in effetti dello stato di natura, ma non ancora dello stato civile, o almeno verrebbe a trattarsi del punto di partenza ancora indeterminato dello Stato civile: l’assemblea costituente degli uomini decisi a vivere insieme e che devono decidere sulle modalità del trasferimento dell’autorità dello Stato o, detto altrimenti, del «genere» di forma politica che desiderano. In altri termini, si tratterebbe di un momento incondizionato che non è un punto di partenza assoluto come lo è, in linea di principio, il passaggio originario dallo stato di natura allo stato civile (e che ancor meno è astratto, dal momento che viene illustrato per mezzo di esempi presi dalla storia). È da domandarsi se questa connotazione non vada messa in rapporto con il fatto che Spinoza comincia dalla moltitudine e non da individui isolati. Di conseguenza, il problema generale verso il quale l’interpretazione letterale del testo ci orienta è quello delle condizioni – potremmo dire – nelle quali una moltitudine diviene libera. In mancanza di questo presupposto, il lavoro teorico di Spinoza sarebbe manifestamente privo di possibilità di applicazione, dal momento che non si darebbe mai un punto di inserimento o di intervento nella storia.
E, beninteso, ci si può domandare allora se porre la condizione di un momento incondizionato non manifesti una teoria totalmente sconnessa dalle esigenze della congiuntura olandese, sulla quale tuttavia Spinoza desidera intervenire. Forse l’indipendenza olandese – senz’altro abbastanza recente, ma nondimeno anteriore di diverse generazioni rispetto al periodo in cui viene scritto il Trattato politico – si configura ai suoi occhi come un evento ancora attuale, ancora in parte incompiuto? In effetti, Spinoza scrive in un momento nel quale il suo paese è occupato dalle truppe francesi. Ma, allo stesso tempo, nulla somiglia di meno all’eroismo di un’assemblea costituente dello spettacolo desolante di una folla che massacra selvaggiamente i fratelli De Witt per abbandonarsi ciecamente al potere di uno solo, vale a dire per cacciarsi presumibilmente in una notte politica i cui soli nomi sono Solitudine e Barbarie.
D’altro lato, non possiamo fermarci a questa descrizione della «moltitudine libera». Dobbiamo innanzitutto risalire più indietro nel testo, fino alla definizione della «moltitudine libera» proposta al capitolo (5), così da considerare, in una forma più generale come siano posti, nel corso dell’intero trattato, i rapporti tra moltitudine e libertà. Ora, vi è qui qualcosa di molto interessante e che si potrebbe riassumere come segue. Sarebbe del tutto falso, o non filosofico, con- siderare la nozione di «moltitudine» in generale come un concetto o, almeno, come un concetto completo, di maniera tale che i predicati «libero» e «schiavo» vengano a dividerlo successivamente, vale a dire conseguendo dalla definizione della sovranità come «diritto determinato dalla potenza della moltitudine» (TP, II, 17; TP, III, 2). L’analisi delle forme politiche monarchica e aristocratica mostra, al contrario, che questa definizione, in pratica – in praxi, è il termine impiegato da Spinoza stesso, come vedremo, in un momento critico dell’analisi – non va da sé e che è tormentata, anzi minata dall’interno, dal problema della libertà della moltitudine e che si arriva proprio qui al cuore del problema politi- co così come lo pone Spinoza. Suggerisco dunque di ipotizzare che il concetto di moltitudine è fin dall’origine in rapporto con la coppia critica libertà/schiavitù e che, per questa ragione, è l’espressione completa «moltitudine libera» e non soltanto «moltitudine» a meritare pienamente la qualifica di concetto filosofico, per di più dell’ultimo, forse, dei grandi concetti forgiati da Spinoza.
Ci occorrono dunque due linee di indagine molto differenti, due vie che sono necessarie l’una all’altra e altresì complementari, dal momento che la filosofia non è veramente politica che se, nel momento stesso in cui si pone e cerca di risolvere il problema politico, medita sul suo stesso modo di intervento. Anzi, occorre che la posizione stessa del problema sia politica, vale a dire che includa una meditazione sul modo di intervenire.
Ora, beninteso, una tentazione potrebbe essere quella di affermare che la posizione di Spinoza su questo soggetto è espressa in modo molto chiaro. Egli dichiara alla fine dell’introduzione del Trattato teologico-politico che egli si rivolge alla gente istruita e nell’ultimo capitolo di questo libro, come anche in molti passaggi del Trattato politico, si attesa che i cambiamenti dall’alto sono preferibili per lui ai cambiamenti dal basso. Cosicché si ha spesso l’impressione che egli si rivolga agli uomini di Stato per esortarli a riprendere il controllo di sé, a comprendere il loro proprio interesse che è anche, tutto considerato, quello della moltitudine. Ma, in primo luogo, questo schema argomentativo diviene molto meno netto nel caso dell’Aristocrazia, nella quale la questione dell’interesse comune si rivela delicata, e le Province Unite sono uno Stato aristocratico. Inoltre, Spinoza non perde mai occasione per ricordarci che non si può affidare la salvezza dello Stato alla moralità di un uomo, che occorre diffidare degli uomini provvidenziali, e che il compito è, al contrario, di dare una costanza artificiale alla condotta degli uomini di stato attraverso i vincoli delle istituzioni. Per evitare una contraddizione, occorre dunque che Spinoza non si sia limitato all’esortazione, anche se quest’ultima resta presente anche nel Trattato politico. Perciò, quando egli dice di indirizzarsi a moltitudini libere, occorre beninteso vedervi il rischio che il pensiero si lasci chiudere in un circolo pratico («la libertà non è promessa che agli uomini liberi, tanto peggio per gli schiavi!»), ma occorre anche domandarsi, più generalmente, se non vi sia lì l’apertura implicita – o l’indizio dell’apertura, di una questione che riguarda la congiuntura, l’occasione, le condizioni dell’intervento politico. E, tornando alla mia allusione iniziale, occorre ben supporre che queste condizioni abbiano qualcosa a che fare con l’attualità olandese.
In ogni caso, è ben chiaro che, se vi è in Spinoza un concetto che condensa le due facce del problema politico, è proprio quello di «moltitudine libera». E occorrerà dunque non soltanto sviluppare le due linee problematiche indicate, ma anche individuare il loro punto di convergenza.
2. Il desiderio di comunità
Vi è un altro argomento che potrei avanzare a favore dell’idea che il concetto di «moltitudine», in assenza di un rapporto interno alla libertà, non è un concetto completo. Domandiamoci che cosa significhi «moltitudine» per Spinoza. Se «moltitudine» è uno dei concetti che definiscono la sovranità, esso la precede per diritto; in altri termini, la moltitudine è data prima dello stato civile. Ma che cos’è una moltitudine nello stato di natura? Nel ragionamento contrattualista, il dato di partenza sono gli individui. La «moltitudine» è una sorta di concetto intermedio tra gli individui e la comunità istituita. Non si può tuttavia restare fermi a questo dato, perché, in filosofia, il concetto intermedio presenta sempre il rischio di non essere che una chimera (cioè il sogno di oltrepassare il principio di contraddizione effettuando un semplice miscuglio di determinazioni contraddittorie).
Per quale ragione allora la «moltitudine» non è una semplice chimera concettuale? In virtù della tensione naturale degli individui verso la comunità (cioè del loro comune orrore per la solitudine). Se ne conosce la logica: è quella delle «nozioni comuni». La consistenza del concetto di moltitudine in generale non si trova allora se non in questa tensione, che è quella di un desiderio comune. Ed è dunque su questo desiderio comune, come spiega l’inizio del capitolo V, che l’istituzione dello Stato si fonda. In questo senso, l’istituzione civile non è una rottura, o più esattamente «stato di natura» e «stato civile» sono dei concetti relativi l’uno all’altro: lo stato di natura implica un passaggio allo stato civile, mentre lo stato civile implica una minaccia di regressione allo stato di natura. Come si sa, non si è mai puramente nello stato di natura o puramente nello stato civile.
Di qui si coglie bene che non vi è moltitudine che per la libertà. Prova a contrario: ciò che gli uomini fuggono è la solitudine e la solitudine è precisamente il tema che presiede alla divisione tra «moltitudine libera» e «moltitudine asservita» nel capitolo V (la dipendenza reciproca stato di natura/stato civile ricompare in queste due maniere inverse di pensare una solitudine che non è una: gli uomini nello stato di natura, i quali tendono sempre già alla comunità, e la comunità paradossale dell’assolutismo regio che riduce gli uomini alle loro sole funzioni biologiche). Ora, se vi è un concetto chimerico o, ciò che è lo stesso in Spinoza, il concetto di una cosa chimerica, di una non-cosa, è proprio quello della «moltitudine asservita» – vale a dire di un regime di comunità che avrebbe per nome «solitudine». «Moltitudine asservita», ecco un concetto limite, come il suicidio, e perciò Spinoza descrive il governo tirannico come un comportamento suicida («venir meno a se stessi», sibi deficere: TP, IV, 4).
Beninteso, mi si potrebbe obiettare che la «moltitudine» non è dopo tutto che il concetto di un numero, di un numero indeterminato, e non il concetto di una sorta di pre-comunità che la «moltitudine» è un concetto soggettivo, il concetto di un puro aggregato dato arbitrariamente a uno sguardo dall’esterno e del quale non si suppone che abbia una consistenza ontologica propria. L’obiezione può inoltre appoggiarsi sul § 19 del capitolo VIII, che evoca un coetus multitudinis inordinatae in opposizione alla moltitudine unita. Ma quest’obiezione, evidentemente, non tiene. Essa trascura quel momento specifico della tensione contraddittoria nel quale gli uomini convengono in natura pur restando divergenti nei loro ingenia individuali, il momento proprio della «moltitudine», nel punto di passaggio tra dissoluzione e formazione.
Allora ciò che mi domando è come Spinoza possa fare della moltitudine un soggetto, se è vero che essa precede radicalmente la nozione di comunità, vale a dire il momento della nozione comune. Ora, lo si vedrà di qui a poco, non vi è affatto bisogno di un’integrazione statuale o politica perché la moltitudine si manifesti come un soggetto, anche se si tratta di uno strano soggetto, per nulla unificato, un soggetto inquietante, spaventoso, che prende allora il nome romano di plebs – e si vedrà che la definizione stessa di sovranità si troverà allora in stato di crisi. In breve, un soggetto grammaticale per un’entità informe la quale, nello stesso tempo, aspira alla forma e cospira contro di essa (cfr. l’espressione in unum conspirare TTP, XVI; TP, III, 9).
Inoltre – altra ragione, e decisiva, per respingere l’obiezione che si abbia a che fare con un concetto soltanto soggettivo – i §§ 13 e 16 del capitolo II, che precedono immediatamente la definizione di sovranità, la preparano per mezzo di una vera e propria genesi del concetto di moltitudine. L’idea è che, se due individui convengono tra loro e uniscono le loro forze, allora il loro diritto nella natura si accresce in modo proporzionale. E, in generale, «quo plures necessitudines, sic junxerint suas, eo omnes simul plus juris habebunt» (TP, II, 13). Qui la moltitudine viene definita non soltanto attraverso il numero, ma anche, inseparabilmente, attraverso il suo principio intrinseco di unificazione (la convenienza). Ciò che importa è il legame stabilitosi tra simul e jus. È lecito concluderne che, all’inizio del capitolo VI, la nozione di una moltitudine naturaliter conveniens è ridondante: il solo punto di differenziazione è se questa convenienza prevalga o meno sulla discordanza. Aggiungo che, sempre nel capitolo II, il paragrafo 15 sviluppa la tesi del legame tra mol- titudine e aumento di diritto, spiegando che il mutuo aiuto è la condizione attraverso la quale gli uomini possono vitam sustentare & mentem colere, il che sarà letteralmente, nel capitolo V, ciò che definisce la moltitudine detta «libera». Darò dunque per assodato che la problematica del molteplice non emerge in Spinoza senza un rapporto intrinseco con la questione di un sup- plemento giuridico, di un sovrappiù di libertà.
3. La moltitudine e la guerra
A questo punto è possibile arrivare alla vera e propria definizione di «moltitudine libera», nel capitolo V. Mi scuserete se procedo così rapidamente, ma vado direttamente a ciò che mi colpisce. Si tratta di due cose. La prima è il modo attraverso il quale Spinoza arriva alla sua definizione: il contesto è quello di una presenza della guerra in filigrana. Spinoza inizia a «trattare del migliore regime per ogni Stato». Questo regime è la Concordia, vale a dire il regno tranquillo del Diritto. Ora, la Concordia non la si ottiene attraverso la violenza – ed ecco comparire in germe la divisione del concetto di moltitudine, a seconda che si tratti di vera pace o di falsa pace. Ora, guardiamo ai due esempi corrispondenti: Annibale, eroe antiromano di Spinoza, vale a dire un successo nel campo della disciplina militare e un popolo (un caso generico, piuttosto che un esempio) che non si rivolta per la sola ragione che è terrorizzato. Presenza della guerra in filigrana, dunque: non diciamo di più, per il momento.
Veniamo alla seconda cosa che mi colpisce. Voi tutti conoscete gli accenti in qualche modo pre-nietzscheani che caratterizzano la divisione del concetto di moltitudine in «moltitudine libera» e «moltitudine asservita» (perché si tratta di una differenziazione qualitativa interna rispetto allo sforzo di conservazione: è già la problematica di ciò che Nietzsche chiamerà «volontà di potenza»). In primo luogo, tutto dipende da quale lato penda la bilancia della speranza e della paura; in seconda istanza, se vi sia cultura della vita o soltanto fuga dalla morte. Ma ciò che è importante o strano è che tutto ciò è inquadrato per mezzo dell’opposizione tra una moltitudine indipendente, che si è istituita essa stessa in Stato, e che per conseguenza appartiene a se stessa, e una moltitudine conquistata e colonizzata nella quale gli uomini sono degli schiavi piuttosto che dei sudditi. Questo dettaglio è molto importante, perché ciò vuol dire che la solitudine dell’assolutismo regio è il caso di un popolo che è governato da uno dei suoi come una colonia straniera e, in aggiunta, si vedrà che, nel contesto dell’analisi della forma aristocratica, la logica delle cose vuole che la moltitudine, divenuta plebe, sia trattata come una massa di stranieri, così che l’aristocrazia è precisamente il caso nel quale il rapporto tra moltitudine e libertà raggiunge la soglia più critica.
Che vi è di così strano in tutto ciò? In primo luogo, vi è la circolarità apparente del discorso: la moltitudine libera è quella che vive sotto un regime politico istituito dalla moltitudine libera. Ma questa circolarità è soltanto, credo, l’indizio o la manifestazione esteriore di un problema più profondo, quello del carattere circolare della fondazione. Cerchiamo di esplicitarlo. Se lo Stato, il cui fine è la concordia, è istituito da una moltitudine libera, ciò vuol dire che si suppone che questa sia libera già da prima, vale a dire che la libertà di que- sta moltitudine non è effetto dell’istituzione. Il contenuto di tale libertà, lo conosciamo già e sta nel fatto che l’ordine che essa presuppone non deriva da una sottomissione. Ma allora come si può spiegare il fatto che questa moltitudine sia nella necessità di dover fondare uno Stato? Come mai non ne ha già uno? Ma non si troverà allora nello stato di natura? Ma abbiamo appena finito di dire che non vi è, a parlare rigorosamente, alcuno stato di natura… O ancora si deve pensare che la moltitudine abbia deciso di cambiare la forma dello Stato, di trasformare lo Stato, di fare la rivoluzione? Ma in Spinoza non si verifica mai che la rivoluzione arrivi a trasformare lo Stato: si mozza la testa del tiranno senza infrangere l’habitus sociale della tirannia; occorrerebbe un’amnesia collettiva per fare riuscire una rivoluzione (a imitazione del poeta spagnolo di Ethica che si trasforma in un altro individuo).
E allora? Allora resta un solo caso possibile: quello di una moltitudine che si è appena affrancata. I rari esempi di fondazione riuscita di uno Stato, in Spinoza, riguardano popoli che hanno conquistato la loro indipendenza: ancora una volta gli Ebrei, fuggendo dall’Egitto, nonché gli Aragonesi, quando scuotono il giogo musulmano (il caso degli Olandesi è problematico, dovremo tornarci). Ora, ecco la difficoltà: da dove deriva l’affrancamento, l’habitus libero, dal momento che si suppone che la moltitudine abbia vissu- to sotto il giogo, sia stata sottomessa, sia stata di conseguenza una «moltitudine asservita»? Quale alchimia è capace di produrre questa metamorfosi?
4. Moltitudine e forme di potere
Prima di rispondere, consideriamo l’altro versante del problema, vale a dire quei rapporti tra moltitudine e libertà che Spinoza incontra nel corso del suo lavoro tendente a istituire veramente la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia: si tratta ogni volta di un tipo di rapporto specifico che attribuisce a ciascuno dei tre «generi» politici il suo proprio problema. Il divenire-libera o schiava della moltitudine è ora interiorizzato: noi non abbiamo più a che fare con il caso di una moltitudine sottoposta a una forza estranea colonizzatrice, la differenza tra appartenenza e estraneità passa all’interno stesso di uno Stato sovrano. Allo stesso tempo, questa differenza mette alla prova la definizione stessa di sovranità come potere o diritto «determinato dalla potenza della moltitudine». Se la differenza è interiorizzata, è a causa del raddoppiamento che si opera tra sovrano e moltitudine dopo il trasferimento del potere.
Primo punto da segnalare: il rapporto tra moltitudine e libertà non deve dunque essere ritenuto problematico nel caso della democrazia, nel quale la moltitudine radunata costituisce essa stessa il sovrano. Nondimeno, Spinoza evoca l’incapacità della moltitudine di inter ipsam convenire (TP, VII, 5), senza che si sappia molto bene se questa spiegazione del trasferimento del potere al re sia una proposizione di fatto o di diritto (2).
Ci si può domandare se questo dilemma non sia da mettere in rapporto con la primissima occorrenza della parola multitudo, allorché Spinoza dichiara che una moltitudine condotta dalla ragione non è che una favola, vale a dire non è un concetto (TP, I, 5). In sintesi, la moltitudine non può essere libera se non producendo, attraverso il trasferimento del potere, un’istanza sovrana esterna ad essa, anche se posta in un rapporto interno con essa, dal momento che non vi è altra sovranità di quella determinata dalla moltitudine. Questa tensione propria a una relazione al tempo stesso esterna ed interna è essenziale e deve essere preservata: basta che il rapporto divenga puramente esterno ed eccoci alla servitù.
Come si pone il problema della libertà della moltitudine nel caso della Monarchia? La questione è quella delle condizioni di un «trasferimento libero» (TP, VII, 5). Si direbbe che la monarchia è abitualmente minata, resa instabile dall’oscillazione tra due poli che rivendicano ognuno per proprio conto la sovranità assoluta: polo monarchico e polo democratico. Vale a dire che, nel faccia a faccia tra il re e la moltitudine, non si sa mai veramente da quale lato stia la sovranità. O, con più esattezza: in tempo di guerra, l’ago della bilancia pende dalla parte del re; in tempo di pace dalla parte della moltitudine (non si può non pensare qui all’instabilità che inerisce al regime olandese, con la polarità tra Stathouder e Gran Pensionario, anche se l’assemblea dei Reggenti non è certo un’assemblea democratica – ma qui vi è forse un’ambiguità specifica di Spinoza). Detto in altri termini, la moltitudine è sempre libera senza esserlo mai. È per questa ragione che Spinoza dice che «il volgo, peraltro, non ha il senso della misura ed è terribile se non viene tenuto nel terrore: non si mischiano infatti facilmente libertà e servaggio» (TP, VII, 27) (3).
La ragione di questa oscillazione ci dà anche la chiave di un regime monarchico equilibrato, vale a dire che la moltitudine, in fondo, ha soltanto bisogno di trasferire il potere di prendere decisioni, in particolare quando ciò che deve essere fatto è urgente. Questo è il criterio del «libero trasferimento».
Ma l’oscillazione tra i due poli ha anche un altro aspetto: la mortalità del re. Quando il re muore, la sovranità ritorna alla moltitudine (VII, 25). Si tratta dunque di un regime che ha una rivoluzione periodica, se non permanente. Vi è dunque una seconda condizione di equilibrio: che il trasferimento si faccia una volta per tutte. Ma, a questo proposito, Spinoza precisa: «si fieri potest». La Monarchia resta dunque intrinsecamente fragile. Infine, bisogna rilevare che Spinoza drammatizza, evidentemente per ragioni di attualità, e fin dall’inizio dell’analisi della Monarchia, l’antagoni- smo dei due poli: la dualità della «moltitudine serva» e della «moltitudine libera» viene a coprire questo antagonismo, come per mostrare al pubblico olandese che si trova davanti a un’alternativa storica (si vede risorgere lo spettro della solitudine: TP, VI, 4). Questo vuol dire que non vi è, per Spinoza, una differenza concettuale tra la vita sotto un monarca sedicente assoluto e la vita di un popolo sottomesso a una potenza straniera. E questo è da mettere in rapporto con la logica suicida invocata nel capitolo IV per descrivere la tirannia: per il sovrano, trattare come straniero il principio della sua propria determinazione è entrare in un rapporto estraneato con se stesso, non riconoscersi più (essere tiranno, secondo le parole stesse di Spinoza, è volere fare mangiare l’erba a una tavola): ma così il trasferimento è tolto e la situazione rientra nel caso del diritto di guerra.
Quando si passa all’analisi dell’aristocrazia, si scopre un contesto del tutto diverso. Non vi è più faccia a faccia tra il sovrano e la moltitudine, soprattutto perché il pericolo del ritorno del potere nelle mani della moltitudine non esiste più, dal momento che – a differenza del re – l’assemblea è eterna. Tuttavia, il pericolo della restituzione del potere alla moltitudine è stato appena tolto che ne sorge già un altro. E questo nuovo pericolo, senza dubbio, non è certamente meno grave, se si pensa che il Trattato politico deve la sua origine al massacro dei fratelli De Witt, il quale non è nient’altro se non la concretizzazione di questo pericolo. Innanzitutto vi è la proprietà enunciabile del regime aristocratico che, essendosi effettuato il trasferimento del potere una volta per tutte, esso si avvicina alla sovranità assoluta. Ma Spinoza aggiunge immediatamente (§ 4) che, in pratica (in praxi), le cose non vanno così: si delinea uno scarto tra la teoria e la pratica, dunque anche tra il Diritto che è stato instaurato e il Diritto positivo. Qui lo spettro non è più la morte del re, ma il jus multitudinis (§ 5) posto a fianco del jus imperii. Bisogna misurare ciò che l’espressione jus multitudinis ha di impressionante e di mostruoso. Innanzitutto, se è vero che diritto e libertà sono in una relazione di equivalenza, non vi è espressione più vicina a libera multitudo. Ma, nello stesso tempo, è come se la moltitudine, sotto il regime aristocratico, non potesse essere libera che lateralmente rispetto allo Stato. Il che costituisce una trasgressione minacciosa del principio di contraddizione: quando Spinoza scrive che la moltitudine conserva una certa libertà «tacita, tacitamente, e non in virtù di una legge espressa», indica una zona giuridicamente confusa di diritti che non lo sono, una indistinzione e un rincorrersi inquietanti di diritto e non diritto.
In sintesi, se apparentemente non vi è più faccia a faccia è semplicemente perché si è fatta tacere la moltitudine. In realtà, il faccia a faccia rinasce in un altro modo, perché la moltitudine è diventata muta e tanto più terri- bile quanto più muta (nel § 4, Spinoza dice: formidolosa: spaventosa!). Questa contraddizione originaria del regime aristocratico si esprime anco- ra in un altro modo, quando Spinoza scrive che la salvezza dell’aristocrazia ha per condizione che la moltitudine non abbia altra libertà che attraverso il jus imperii, mentre ciononostante i nobili «conservino il loro proprio diritto» – come diritto appartenente a loro, ai nobili (sempre secondo lo stupefacente § 4)! Il tentativo terribile degli aristocratici è di fare rientrare il diritto paradossale degli ineguali nel Diritto affinché la moltitudine non resti all’esterno dello Stato, affinché non abbia dei diritti che attraverso il Diritto. Insomma, il Diritto, per mezzo di una costituzione appropriata, deve pervenire a interiorizzare l’ineguaglianza.
Dal momento che il problema dei rapporti libertà-moltitudine è posto in termini di esteriorità, deve darsi una soglia critica, un momento più rivelativo, che è quello in cui è in gioco lo stesso Sé politico. È l’organizzazione dell’esercito, la difesa, la guerra. Perché, come dice in sostanza il § 17 del capito- lo VII, il trasferimento del potere non è mai assoluto, dunque alienante, se non quando si è affidata a qualcun altro la difesa del territorio. Per esempio, nel caso della monarchia chiamata assoluta, l’alternativa è tra un esercito di mercenari (dunque di estranei remunerati) e un esercito nazionale professionale (nel quale i soldati formano una sorta di nobiltà militare) composta di una frazione della moltitudine: nei due casi l’esercito resta esterna alla moltitudine, si ha la solitudine o la schiavitù, uno stato di guerra perpetua (VII, 16-17 e 22). La situazione particolare dell’aristocrazia conduce al ragionamento inverso: conviene integrare la plebe nell’esercito, non ricorrere a mercenari ma integrarla in quanto mercenaria essa stessa!
I cittadini debbono essere tenuti per stranieri e, conseguentemente, ingaggiati come mercenari autoctoni (il che corrobora a contrario l’ipotesi sull’origine del regime aristocratico, vale a dire l’immigrazione seguita da assimilazione: cfr. TP, VIII, 12). Non si saprebbe enunciare meglio il fatto che la differenza tra appartenenza e estraneità si è inserita all’interno dello Stato stesso, non più in un modo suicida ma in un modo cinico. Se la riflessione sul regime monarchico conduce a una soluzione che rafforza la comunità (come vedremo di qui a poco), altrettanto, nel caso dell’aristocrazia, la soluzione si direbbe la fuga in avanti di un regime che, fin nel suo principio, mette in pericolo la libertà della moltitudine.
5. La guerra di liberazione
Vengo dunque, per finire, alla questione lasciata in sospeso: quale alchimia è capace di trasformare una «moltitudine serva» in una «moltitudine libera»? La soluzione è evidente anche se inattesa e apparentemente paradossale: la guerra. Spinoza lo dimostra nel passo nel quale rifiuta la dottrina militare dell’assolutismo regio a vantaggio di quella che deriva dalla comprensione piena dell’interesse reciproco sussistente tra re e soggetti:
Ma ai militari, abbiamo detto, non deve essere attribuito stipendio alcuno, poiché la più alta ricompensa per il servizio militare è la libertà. In effetti nello stato di natura ciascuno si sforza più che può di difendersi avendo per unico scopo la libertà, e non si aspetta altra ricompensa al valore nel combattimento, se non l’essere autonomo; ora nello stato di civiltà i cittadini tutti nel loro insieme sono da considerarsi alla stregua di un uomo allo stato di natura, e dunque, allorché tutti prestano servizio militare per tale stato di civiltà, badano a se stessi e per se stessi lavorano. Ma i consiglieri, i giudici, i pretori eccetera, lavorano più per gli altri che per se stessi, perciò è giusto che al loro lavoro sia riconosciuta una retribuzione. Si aggiunga che in guerra non vi può essere stimolo alla vittoria più onorevole e più grande dell’immagine della libertà (libertatis imago)… (TP, VII, 22) (4).
Vi sono almeno due rilievi essenziali da fare su questo testo. Il primo è che vi si ritrova, in maniera inattesa, una variante dell’ultima proposizione di Ethica («La beatitudine è la virtù stessa, e non la ricompensa della virtù»). Mi si dirà che è vero il contrario, che sto cadendo in un controsenso grossolano. Ma se si legge bene il testo, le due formule del Trattato politico – «La più alta ricompensa del servizio militare è la libertà», «non aspettarsi altra ricompensa al valore nel combattimento che l’essere autonomi» – non si oppongono che in apparenza a quella di Ethica. Infatti, l’intero passo attesta che si tratta di una ricompensa immanente: non la libertà come risultato ottenuto per mezzo della guerra (l’indipendenza giuridica), ma la libertà come rapporto sociale prodotto nella guerra stessa e attraverso di essa (la libertà come habitus). La guerra d’emancipazione riesce là dove la rivoluzione fallisce: essa non lascia intatta la memoria collettiva, produce una ridistribuzione delle carte.
Tre indizi giocano a favore di questa interpretazione: 1) virtù e libertà pos- sono essere difficilmente dissociati (ricordiamoci che Ethica li identifica: pura omonimia? Ma l’espressione virtus bellica ricorda la virtù guerriera celebrata dall’antico Catone come il crogiuolo della Repubblica e della libertà del popo- lo romano); 2) questo testo è il solo nel quale la metafora della comunità come individuo non sia accompagnata da un veluti restrittivo, come avviene nell’e- spressione una veluti mente ducitur; 3) l’evocazione dell’esercito di Annibale come figura esemplare di vera concordia perde di colpo il suo aspetto bizzarro e diviene intelligibile. Allo stesso modo, sarei tentato di sostenere che l’imago libertatis che attizza il valore dei combattenti si formi nel cuore stesso della lotta, più che essere già data in partenza. Il suo contenuto è dato a chiare lettere nel testo: «i cittadini, tutti nel loro insieme sono da considerarsi alla stregua di un uomo allo stato di natura». Tutti come un solo uomo: questa immagine, prodotta dalla guerra d’indipendenza o di salvezza nazionale, non è uniformazione, ma unione.
La soluzione è dunque la guerra, ma – lo si vede – non una qualunque guerra. Spinoza è come Catone: le sole guerre necessarie sono quelle attraverso le quali una moltitudine conquista o difende la sua indipendenza. E, per com- prenderlo, come si è appena visto, noi dobbiamo evitare di confondere due dimensioni della libertà: quella giuridica e quella etica. La politica le implica inseparabilmente entrambe, come nell’espressione antica leges et mores. Si può dunque dire: la guerra d’indipendenza non rende possibile l’istituzione di uno Stato (libero) se non a condizione di produrre da se stessa un habitus di libertà nella moltitudine (5).
Non si creda che si tratti di un’idea triviale. Ciò che è triviale e anche molto ripugnante è l’idea pessimista secondo la quale noi avremmo bisogno di un pericolo, capitato al momento giusto, per risvegliare il nostro sentimento della libertà. Ciò che Spinoza dice è un’altra cosa: la guerra di emancipazione o di conservazione produce il desiderio di libertà, che non è, come lo è per l’individuo vero e proprio, un dato originario. La cosa merita di essere notata: abitualmente, gli affetti comuni evocati da Spinoza sono la paura, l’odio o l’indignazione (TP, III, 9; TP, VI, 1 – nel Trattato teologico-politico, l’odio verso lo straniero). Qui si tratta dell’amore per la libertà. Spinoza diceva già la stes- sa cosa a proposito degli Ebrei nel capitolo XVII del Trattato teologico-poli- tico (ed. Gebhardt, 2, p. 199). Vi si trova due volte l’espressione libertas militum concivium, «libertà dei soldati concittadini», in rapporto con la virtus.
6. Le condizioni storiche di una moltitudine libera
Resta da discutere dell’attualità, della questione del carattere di intervento del testo che avevo posto all’inizio. Quale giudizio Spinoza formula sulla Repubblica delle Province Unite? Nel Trattato teologico-politico, capitolo XVIII, l’emersione rivoluzionaria del regime aristocratico olandese veniva spiegata a partire dallo sforzo di conservazione dell’Assemblea degli Stati Generali nei confronti del tentativo del Conte di accaparrarsi la sovranità secondo il modello della monarchia assoluta. Poi, dopo il trionfo orangista del 1672 e la manifestazione letteralmente selvaggia di un impro- babile jus multitudinis strumentalizzato, Spinoza prosegue l’analisi spiegando che gli Olandesi hanno commesso l’errore di non «riformare» (reformare) il regime dopo aver deposto il Conte. Si sono contentati di un regime «difforme» (deformis). Contrariamente all’apparenza, dunque, è il Principe di Orange che, ripetendo il primo gesto d’usurpazione, trasforma lo Stato, laddove i Reggenti volevano soltanto conservarlo – e, per farlo, avrebbero dovuto riformarlo.
Rileviamo innanzitutto che il regime iniziale assomiglia molto a quello degli Aragonesi. Ma, soprattutto, domandiamoci se, tenendo conto del pessimismo di Spinoza sulla deriva funebre dell’assolutismo regio in generale e tenendo conto inoltre dell’ombra romana che gravita sull’Olanda nel Trattato politico, permanga in tale contesto uno spazio per il possibile o per la speranza. In termini un po’ pomposi, la filosofia spinoziana della storia è un pessimismo? Ci si potrebbe certamente domandare se un pessimismo siffatto non sia contraddittorio con il sistema di Ethica. Ma teniamoci alla situazione: «Poiché, se è vero che, mentre i Romani deliberano Sagunto cade, è vero d’altro canto che, laddove pochi decidono tutto sotto i propri impulsi passionali, cadono la libertà e il bene comune» (TP, IX, 14) (6).
Quale senso politico potrebbe avere quest’ultima invocazione di libertà, se i giochi fossero ormai del tutto fatti?Ricordiamoci: 1) che l’assolutismo regio è un po’ come il giogo di una potenza straniera (suicidio e schiavitù); 2) che Spinoza sta scrivendo in un paese occupato e che questa occupazione presenta appunto l’ambiguità di occultare all’occupato il regime che gli è appropriato e che, al tempo stesso, è chiamato a prendere la testa della resistenza nazionale (in questo contesto, la smentita opposta alla formula di Tito Livio, proprio prima di evocare l’Olanda, vale come denuncia dell’impostura orangista che, sotto la maschera di resistenza nazionale, partecipa soprattutto del movimento di espansione dell’assolutismo regio in tutta l’Europa); 3) che l’Olanda stessa, il cui Stato iniziale non può più sussistere quale era, si trova di fronte all’alternativa tra riforma (che non potrebbe essere compiuta che da una moltitudine libera) e trasformazione (alla quale non acconsente e non partecipa che una moltitudine divenuta schiava).
Si può suggerire allora un’ipotesi, sicuramente piena di lacune ma, spero, non priva di effetti chiarificatori. Abbiamo visto che le condizioni necessarie per una vera fondazione, vale a dire quelle della creazione di un habitus libero nella moltitudine, o ancora di un’amnesia della vita servile (7), sono quelle di una lotta da condurre per la conquista o la salvaguardia dell’indipendenza nazionale. Queste condizioni, nell’Olanda invasa da Luigi XIV, sono attualmente date. Forse è la guerra di difesa nazionale, più che una riscossa del par- tito sconfitto dei Reggenti del quale si può ormai soltanto rimpiangere che al momento giusto non abbia saputo aprirsi a una parte più ampia della moltitudine (TP, IX, 14), a costituire agli occhi di Spinoza la sola vera possibilità di salvare l’habitus della libertà? Termino con questo interrogativo, ma domandandomi se non era anche quello di Spinoza.
Note
1 TP, VII, 26. D’ora in poi il Trattato politico sarà indicato con TP [La versione italiana del testo segue, qui come altrove, la traduzione italiana di P. Cristofolini, Pisa, Ets,1999, pp.139-141, modificata però, per rispettare la scelta di Zourabichvili, laddove Cristofolini tra- duce «multitudo» con «popolo» (N.d.T.)].
2 Argomento a favore dell’ipotesi che sia una proposizione di fatto: la sconfitta della Repubblica delle Province Unite proviene dalla debolezza delle sue istituzioni, non dalla lunghezza delle deliberazioni (TP, IX, 14 – è una risposta alla propaganda orangista).
3 Ed. Cristofolini, p. 141 (N.d.T.).
4 Ed. Cristofolini, pp. 133-135 (N.d.T.).
5 Ci si domanderà allora quale sia la condizione primaria della possibilità di sollevazione, come nasca una relativa identità comune all’interno della moltitudine che si solleva, facendone una sorta di Stato nello Stato. Sembra che la differenza linguistica sia sufficiente, eventualmente rafforzata da una memoria religiosa. L’analisi ci rinvia qui a quello che si diceva all’inizio sullo statuto della moltitudine in quanto tale: vale a dire il suo momento costitutivo nello stato di natura. Se fossi Alexandre Matheron, oserei proporre uno scena- rio immaginario che andrebbe più o meno come segue: degli esseri umani vivono fianco a fianco sullo stesso territorio, nello stesso ambiente naturale (al livello minimale, un uomo e una donna, come è precisato in uno scolio di Ethica); delle nozioni comuni si formano, in funzione non solamente di una somiglianza biologica, ma di una esperienza comune, dunque di una memoria comune, dunque anche di un sistema comune di segni (la lingua). A partire di qui, o questa moltitudine, resa identificabile nello spazio e nel tempo dalla vita, si dota primitivamente di uno Stato o invece la sua tendenza viene inizialmente fuorviata dall’assoggettamento allo Stato di un’altra moltitudine e la fondazione abbisogna di una guerra. È inutile precisare, anche se i due schemi sono presenti entrambi in Spinoza, quale dei due corrisponda all’attualità. Vi dedicherò le osservazioni conclusive.
6 Ed. Cristofolini, p. 217 (N.d.T.).
7 Il che non significa una trasformazione del popolo stesso, dal momento che questa vita servile era, per riprendere una metafora del Breve Trattato, una vita impossibile posta in un elemento estraneo, in breve un’alienazione di sé.