L’Empirismo asistematico di Fréret
di Aurelia Delfino
N’importe d’où vienne la lumière,
pourvu qu’elle éclaire
Voltaire, 30 novembre 1765
Alla fine del novembre del 1765, scrivendo una breve nota all’amico Damilaville, Voltaire annuncia di aver portato a termine la lettura della Lettre de Thrasybule à Leucippe. In vero lo stile dell’opera gli appare discostarsi da quello usuale dell’autore, il Nicolas Fréret segretario dell’Académie des Inscriptions et des Belles Lettres, scomparso nel 1749. Ma l’appunto di Voltaire (riferito peraltro alla sola forma del testo) nulla può di fronte ai diversi documenti che attestano l’attribuzione e al fatto che, sin dalla sua prima edizione a stampa, la Lettre viene annoverata tra i lavori di Fréret[1].
Prima di conoscere la pubblicazione, l’opera circola per più di un ventennio in forma manoscritta; quello che si presenta come un alacre lavoro di riproduzione lascia a tutt’oggi, nelle biblioteche europee, la traccia di una ventina di esemplari[2]. Uno dei documenti sui quali possiamo far forza per l’attribuzione si sofferma altresì a narrare le circostanze che danno avvio al lavoro dei copisti. La Lettre ci giunge come opera sopravvissuta al deliberato tentativo di occultamento messo in atto da alcuni membri dell’Académie. Subito dopo la morte di Fréret, Louis Racine viene incaricato di mettere ordine nelle carte del segretario. Tra queste si trova anche la Lettre, sottratta al proposito di Racine da un anonimo accademico che, chiedendola in prestito per breve tempo, si impiega nella notte a copiarla. Da qui, la storia del proliferare degli esemplari è presto riassunta, la sorella dell’accademico «a communiqué cette copie, et insensiblement elles se sont multipliées»[3]. Ciò che rimane per noi da esplicitare è la ragione, da una parte della cautela che muove al tentativo di occultamento, dall’altra di un’eguale e corrispondente curiosità. Entrambe trovano origine nel contenuto dell’opera, che discostandosi profondamente dalle posizioni sostenute nella produzione pubblica di Fréret, confuta ogni sistema che ammette l’esistenza di Dio e propone un materialismo ateo. L’intento di questo breve studio è precisamente quello di mettere in luce gli strumenti teorici della confutazione e l’esito cui essa conduce. Esito che, come possiamo sin d’ora anticipare, si mostra nella costruzione di un pensiero ateo e materialista interamente penetrato dalla concezione empiristica della conoscenza.
Una certa cura nel preservare il testo dal confronto con il pubblico (confronto che avrebbe esposto il suo autore alla condanna, se non nuovamente visto rinchiuso alla Bastiglia)[4] è messa dallo stesso Fréret. Così l’accademico Charles Pinot Duclos attesta: «il avait fait un ouvrage qui serait dangereux, s’il était à la portée du commun des lecteurs […] il me marquait dans son billet […] que cet ouvrage n’était que pour des amis interioris admissionis»[5]. All’interno della cerchia di amici l’opera viene diffusa sin dal suo completamento. Duclos, ad esempio, la riceve attorno al 1739; ma per quanto riguarda il periodo della stesura, è possibile collocarlo con sicurezza nel primo quinquennio tra il 1720 e il 1730[6].
Un’altra e ben più sottile forma di cautela è quella che Fréret mette nel carattere stesso dell’opera, che vorrebbe presentarsi come traduzione di un manoscritto steso in lingua greca non più tardi del secondo secolo dopo Cristo[7]. Se ne pretende autore un certo Thrasybule, pensatore antico che intende far riflettere e forse ricredere la sorella Leucippe, nel momento in cui ella si appresta a dedicarsi alla vita religiosa. Se guardiamo alla produzione pubblica di Fréret scorgiamo una tesi che in qualche modo rende ragione della collocazione della Lettre; si tratta di una sorta di soluzione netta, in campo filosofico, della disputa tra antichi e moderni, con la quale il segretario dell’Académie sostiene che i grandi sistemi metafisici della modernità hanno già trovato un’espressione nel pensiero che si formula in un periodo limitato ai primi secoli dell’era cristiana[8]. Tuttavia, dietro la finzione ben condotta non è possibile non scorgere l’origine moderna del testo, che per affrontare alcuni temi della filosofia coeva si trova costretto a forzare il lessico della speculazione antica.
Due esempi sono necessari per illustrare questa operazione; essi riguardano il modo in cui vengono esposti il pensiero dei platonici e quello degli stoici. In questi sistemi, Thrasybule-Fréret vede due forme diverse di teismo, dove con questo termine si indica ogni speculazione che risolve il problema della progressione infinita delle cause ponendo all’origine della catena una prima causa universale di tutto ciò che esiste[9]. A partire da questa idea «les platoniciens ont prétedu que cette Cause devoit absolument être distinguée de l’univers, puisqu’elle l’avoit produit, et que la production et l’existence de tous les êtres est l’effet de son action et de sa volonté»[10]. La forzatura da evidenziare consiste nell’attribuzione al pensiero platonico dell’idea della creazione dal nulla. Sul fatto che a questo genere di produzione lo scritto si riferisca non può esserci dubbio. A riprova di ciò, ci sarà consentito citare ancora per breve tratto il brano che segue e che svela l’infondatezza di questa idea, attraverso l’esplicitazione del solo modo in cui le conoscenze umane veraci possono formarsi: «comme nous n’en avons jamais vu passer du néant à l’être, nous ne pouvons comprendre comment cela se fait, ni même que cela se fasse»[11]. Inoltrandoci ancora nell’esposizione del platonismo possiamo scorgere anche i tratti che tendono a rappresentare in esso le posizioni malebranchiane. La descrizione del rapporto tra azione della causa prima e percezioni umane è condotta nei termini che non possono non richiamare l’occasionalismo:
C’est de cette Cause infinie que nous tenons, non seulement notre existence, mais encore les affections ou modifications de cette existence. C’est par son action que nous recevons toutes nos impressions et nos perceptions, puisque les objets n’ont pas la force d’exister par eux-mêmes, loin d’avoir celle d’agir sur nous[12].
In modo diverso, ma con eguale intento, l’esposizione dello stoicismo sembra rappresentare la moderna posizione spinoziana. Il Fréret puntuale studioso di Bayle torna qui, nei fatti, a concordare con la tesi che nel Dictionnaire vede il sistema di Spinoza come riproposizione del panteismo antico. Per quanto riguarda l’occasionalismo, invece, lo si vuole ricordare per cenno, Bayle lo ritiene un prodotto originale della speculazione seicentesca. Nell’occuparsi di questa seconda forma di teismo, la Lettre insiste sullo statuto degli esseri particolari, la cui esistenza risulta à la fois objective e necessaria:
Si Dieu est cette Cause universelle, les êtres particuliers qu’il produit n’ont qu’une existence objective, c’est-à-dire qu’ils partecipent de celle de Dieu, dont ils sont autant d’attributs, de propriétés et de parties; en sorte que Dieu n’est autre chose que l’assemblage de tous les êtres particuliers que l’univers enferme. Opinion soutenue par un grand nombre de nos philosophes, surtout par les stoïciens […] les corps et la matière existent par eux-mêmes et par leurs propres forces, et [que] leur existence est nécessaire[13].
I due teismi si differenziano dunque nell’attribuzione della posizione metafisica alla causa prima: nel caso del platonismo essa è trascendente, per lo stoicismo immanente. L’obiettivo di Fréret è quello di confutare entrambe le costruzioni, con un’argomentazione che passa attraverso la riduzione dell’una all’altra. Ulteriore elemento della critica è costituito dalla teoria dell’immaginazione che sembra non poco debitrice nei confronti della dottrina spinoziana. Il nostro intento è quello di seguire il procedimento della Lettre, non senza anticipare ch’essa non propone un sistema metafisico alternativo a quello della causa universale, ma mostra la sua avversione nei riguardi di ogni costruzione dogmatica conchiusa.
Il primo passo verso la confutazione del platonismo ribadisce l’impossibilità di ammettere qualcosa come la creazione dal nulla. Senza dilungarsi il testo risolve la questione nella ferma, quanto implicita riproposizione di un non sequitur: «ces termes de production des êtres et de commencement de leur existence ne sont accompagnés d’aucune idée»[14]. L’affermazione, ancora una volta, fa agire la rigida concezione della derivazione delle idee dalla sola esperienza. Ciò che preme sottolineare è tuttavia la scelta per la seconda opzione che compie la riconduzione del primo al secondo sistema. Se l’uomo non è in grado di sopportare la propria ignoranza sui modi dell’origine dell’universo: «Il vaudroit donc mieux dire […] que les corps et la matière existent par eux-mêmes et par leurs propres forces et que leur existence est nécessaire; ce que nous ramène au système des stoïciens».[15] L’elemento forte dell’argomentazione di Fréret si fonda sull’ineluttabilità del giudizio che stabilisce la necessità dell’esistenza dei particolari. Ad esso, mirabilmente, conduce anche la critica del concetto di una volontà divina, onnipotente, che viene progressivamente mostrato come contraddittorio.
In primo luogo la Lettre suggerisce la sussidiarietà di questo concetto; esso è travestito di un contenuto conoscitivo che in realtà non possiede. All’uomo, infatti, il fatto di aggiungere alla propria esperienza del mondo l’idea di una volontà onnipotente che solo così lo vuole non fa più che restituire quella stessa esperienza immutata. Anche riconoscendo in essa l’azione di un’intenzione orientata verso il bene, nel momento in cui la si descrive come assolutamente buona non si otterrà nulla di diverso da una forma variante (forse solo nei termini) della necessità; vale a dire che se l’universo è come ci si presenta perché creato da una tale volontà, allora dovrà essere necessariamente com’è[16].
In seconda istanza viene affrontato il problema del rapporto tra la presunta volontà assolutamente orientata al bene e l’effettiva sussistenza del male. L’analisi è tesa a mostrare la contraddittorietà di un concetto di fronte a un fatto: la possibilità reale delle azione malvagie degli uomini. Il rigore del ragionamento ci costringe a concludere che la volontà divina o non possiede nemmeno il potere della nostra, particolare, o non è buona:
Cette Cause prête-t-elle son action, concourt-elle avec notre volonté? En ce cas, elle y donne son consentement ou elle le refuse; si elle y consent, elle est complice de toutes les actions de notre volonté; si elle n’y consent pas, elle est moins puissante que cette même volonté particulière, puisque contre son gré elle obéit à ses loix[17].
Il tono con cui la Lettre affronta le grandi questioni della teodicea è di estrema semplicità, esso assume la forma del dialogo che ripercorre i modi della comunicazione verbale, nutrita di esempi e brevi comparazioni. In questa prima critica al teismo platonico, le armi retoriche assolvono al loro compito con una certa eleganza; di diverso impegno è invece la confutazione dello stoicismo, che attraversando le paludi di un’argomentazione lacunosa conduce poi alle felici esposizioni della teoria della conoscenza e dell’immaginazione. Entrambe divengono nuovi elementi di decostruzione dei teismi, ma fin qui dobbiamo seguire la volontà dell’autore che si sofferma sulle contraddizioni interne ai due sistemi.
Il caso dello stoicismo costringe ad affidarsi per lungo tratto al testo. Come primo passo è necessario riprendere una descrizione generale dei teismi. Thrasybule-Fréret si esprime senza indugio:
Que leur hypothèse est contradictoire, il est facile de le montrer. Dans tous les systèmes, la dernière cause à laquelle il faut remonter, soit qu’on la nomme Destin, Nécessité, Nature, Cause universelle, Dieu suprême, est confondue avec les êtres particuliers; car, enfin, si la volonté permanente et perpétuellement agissante de cette Cause produit l’existence des êtres et de leurs propriétés, si cette existence n’est autre chose que l’effet de la volonté de cette Cause, ce n’est qu’un acte de sa volition, qu’un attribut, qu’une propriété, qui n’est pas distinguée d’elle autrement que nos pensées le sont de nous, que la couleur l’est du corps coloré, l’action du corps agissant. Si Dieu est cette Cause universelle, les êtres particuliers […] n’ont qu’une existence objective […] en sorte que Dieu n’est autre chose que l’assemblage de tous les êtres particuliers que l’univers enferme[18].
Di seguito, gli ultimi elementi che descrivono un sistema particolare vengono identificati come quelli che caratterizzano il pensiero degli stoici. Ma per dedurre in quali forme Fréret accenna alla contraddittorietà di quest’ultimo dovremo attenerci al brano citato, precisando che quella che offriamo è solo un’ipotesi interpretativa[19].
La prima parte del testo mostra in maniera interessante un primo passaggio verso la riconduzione dei teismi alla forma del necessarismo. L’argomentazione è ancora condotta utilizzando il termine volontà, riferito a Dio, mentre il completamento dell’operazione dovrà affermare anche il rigido determinismo.
Nel riportare i fondamenti dello stoicismo, l’autore si concentra su due aspetti di questa metafisica: innanzitutto quello che toglie ai particolari uno statuto di esistenza autonoma e specularmente quello dell’immanenza della causa prima, che implica la dissoluzione di Dio nel mondo. La descrizione, come abbiamo rimarcato, è introdotta dalla dichiarazione sulla contraddittorietà del sistema, dunque la nostra idea è che tale contraddittorietà venga identificata proprio nella convivenza delle due caratteristiche. Per chiarire l’ipotesi è necessario soffermarsi sui termini in cui, in maniera diversa, i due aspetti pongono il rapporto tra Dio e il mondo. Secondo il primo, la realtà compete alla sola causa universale, mentre gli esseri particolari sono relegati ad una forma di esistenza dipendente, garantita solo dalla partecipazione a quella della causa. Il rapporto tra Dio e mondo viene dunque posto in questi termini: un principio primo di natura radicalmente diversa da quella delle cose particolari è l’unica ragione della sussistenza di queste ultime. Ma l’idea della dissoluzione di Dio nel mondo propone un modello di relazione differente, che crediamo che Fréret indichi come contraddittorio rispetto al primo. Se la causa universale si identifica con l’insieme di tutti i particolari, dovremo ammettere che la mera somma delle existences objectives si tramuti in una sola esistenza necessaria; o altrimenti che la sola esistenza reale si frantumi nelle innumerevoli esistenze dipendenti. L’idea è che Fréret possa aver indicato in questo secondo passaggio la negazione di ciò che è implicato dal primo: se Dio è immanente, o egli perde la natura di unico ente reale, o, contro la prima descrizione, si dovrà dire che i particolari non hanno affatto un’existence objective. Ora, se poniamo attenzione al modo in cui i principi dello stoicismo vengono presentati, quest’ultimo appare proprio l’esito del sistema: «les corps et la matière existent par eux-mêmes […] leur existence est nécessaire»[20]. Ma in questo modo la metafisica stoica si pone in contraddizione con quello che secondo la Lettre è il principio implicito in tutti i teismi: essi conferiscono inevitabilmente ai particolari un’esistenza dipendente dalla causa universale.
Dal punto di vista teoretico, dunque, la decostruzione dei due sistemi appare definitivamente avviata; ma a onor dell’attenzione di un Fréret che sa guardare all’esistenza di fatto del fenomeno religioso, intendiamo riferire ancora qualche sua riflessione. L’unico teismo sostenibile, nel campo della pratica, viene identificato con quello stoico. Esso possiede l’incomparabile pregio di rifiutare un’idea talmente infondata come quella della creazione ex nihilo. Allo stesso modo, tuttavia, viene ironicamente evidenziato il fatto che il solo sistema che si potrebbe abbracciare porta con sé la dissoluzione di ogni forma di culto. Il rigido determinismo che lo caratterizza, infatti, non permette all’uomo di pensare che le cose potrebbero accadere in modo diverso da come accadono; conoscenza che non lascia il minimo spazio alla preghiera, all’offerta sacrificale e ad altre pratiche esteriori tese a indirizzare la divinità[21]. In quella che appare una dissertazione di raccordo, poi, la Lettre si dilunga nell’analisi delle prescrizioni morali dei culti. L’occasione fornisce la definizione della ragione, che va presto a completare il quadro di un materialismo ateo di squisita derivazione empiristica: «la raison consiste dans la comparaison de ces différens degrés d’impressions et dans le choix des moyens que nous employons pour parvenir au plaisir et pour éviter la douleur»[22]. I precetti imposti da ciascuna religione vengono giudicati in base a un’eventuale utilità nella ricerca del piacere e nell’allontanamento dal dolore; l’azione dell’uomo che tende a questo obiettivo è dettata da una «loi gravée dès le premier insant de son existence»[23]. Si tratta dunque di una legge assoluta cui ciascuno è naturalmente assoggettato e la cui conoscenza non dipende in alcun modo dal raggiungimento della verità dell’ateismo. Secondo Fréret questa verità non è alla portata del volgo, ma le religioni che impongono regole ragionevoli possono dimostrarsi giovevoli al singolo e buone alleate della pace sociale.
La teoria della conoscenza sostenuta dalla Lettre, come già anticipato, si fonda sull’assunto empiristico della derivazione delle idee dalla percezione sensibile. Il primo passo dell’esposizione consiste nel rifiuto dell’innatismo. La sola propensione che sin dalla nascita caratterizza l’uomo è quella verso la conoscenza, che si manifesta come disposizione a «sentir et appercevoir les impressions que nous recevons des autres êtres lorsqu’ils agissent sour nous»[24]. La formazione delle cognizioni è un processo di acquisizione successiva; le idee tuttavia possono sorgere sia dalla percezione, che dalla riflessione su ciò che si è sentito[25]. Un’ulteriore distinzione viene introdotta tra le impressioni. Tutte, si sostiene, presentano due aspetti, l’uno è quello della percezione dell’oggetto, l’altro riguarda il sentimento che la cosa provoca in noi. I due lati dell’esperienza non sono scindibili, tuttavia si possono considerare diversi in questi termini: la percezione indirizza l’attenzione dell’uomo prevalentemente sull’oggetto, mentre il sentimento lo fa concentrare prima di tutto su di sé. I sentimens e le perceptions si articolano a loro volta in due classi [26]. I sentimenti vengono distinti in sensation e sentiment intérieur. La prima è quel sentimento accompagnato dalla percezione di un oggetto distinto dall’uomo e che agisce sul suo corpo; il secondo è invece caratterizzato dalla percezione preponderante del cambiamento di stato interiore nell’individuo. In egual maniera, sebbene tutte le perceptions siano accompagnate da un movimento degli organi del corpo, i due generi sono distinguibili poiché in alcuni casi il movimento è causato da oggetti esterni, in altri da agenti interni. Attraverso la comparazione, la considerazione attenta delle diverse impressioni fornite dall’oggetto, si giunge all’ultimo grado di certezza che l’autore identifica nella certitude géométrique.
A questo punto, distinti esaustivamente tutti i tipi delle nostre idee, il testo introduce una riflessione di massima rilevanza; poiché «ce qui apperçoit n’est pas la même chose que ce qui est apperçu»[27], sarà necessario indagare anche quello che possiamo chiamare il valore rappresentativo delle percezioni. In tal modo si giunge alla definizione dell’immaginazione:
Les perceptions représentatives d’un objet distingué de nous sont encore de différentes espèces. Si elles nous représentent les objets comme absens et comme ayant été autrefois présens à notre esprit, c’est ce que l’on nomme mémoire, souvenir. Si elles nous offrent les objets sans nous avertir de leur absence, alors c’est ce qu’on nomme imagination. Et cette imagination est la source de la plupart de nos erreurs [28].
A partire dai termini di questa definizione, si apre per noi la possibilità di introdurre un breve confronto con la teoria spinoziana. La convergenza tra i due autori si riscontra nell’individuazione del modo in cui l’immaginazione lavora: essa offre alla mente la rappresentazione di oggetti non realmente esistenti, in quel momento, al di fuori del pensiero. In Spinoza l’esposizione si avvale dalla precisazione che stabilisce «che le immaginazioni della Mente considerate in sé, non contengono nulla di erroneo, ossia che la Mente non cade in errore per il fatto che immagina; ma soltanto in quanto la si considera priva dell’idea che esclude l’esistenza di quelle cose che immagina come a sé presenti»[29]. Per Fréret, invece, nonostante l’espressione che vede nell’immaginazione solo la fonte dell’errore, il prodotto di quest’ultima viene di per sé identificato con l’errore. Ammesso che ci sia consentito di prendere a prestito le parole spinoziane, la sintetica esposizione del testo clandestino sembra dunque suggerire che la mente, nel momento in cui immagina, deve sempre essere considerata priva dell’idea che esclude l’esistenza di ciò che immagina.
Prima di mettere all’opera la teoria nella definitiva confutazione del teismo la Lettre si trova impegnata a indagare le operazioni dell’immaginazione. A tal scopo si fa necessario introdurre una nuova distinzione tra le idee; di esse si considera il contenuto conoscitivo relativo al modo di esistenza degli oggetti che descrivono. Il primo gruppo di idee si definisce in base al principio di non contraddizione. Un sentimento, ad esempio, non può essere piacevole e contemporaneamente spiacevole, un corpo non più esteso e nello stesso tempo meno esteso di un unico altro che si scelga a paragone. D’altro canto ci sono invece idee la cui simultanea sussistenza non comporta contraddizione; così se un corpo cambia colore o se un uomo prova in successione dei sentimenti diversi, è pur chiaro che sia l’oggetto che l’individuo rimangono i medesimi. Ciò che rimane da chiarire è il tipo di esistenza che queste distinzioni denotano. Lasciamo la parola al testo che riprende dalla seconda:
Cette distinction est celle que je nomme objective ou imaginée, à la différence de celle qui se trouve entre les choses qui ne peuvent subsister ensemble, que je nomme réelle ou exclusive. Les choses entre lesquelles cette dernière distinction se trouve ont une existence propre, que je nomme réelle ou exclusive; au lieu que les autres n’ont qu’une existence objective ou imaginée, par laquelle les choses existent seulement dans notre esprit[30].
Uno degli errori che l’immaginazione produce è proprio quello che consiste nel conferire agli oggetti che non la possiedono, attraverso i predicati con cui li si designa, un’esistenza reale. In questa operazione, ad esempio, l’immaginazione è impegnata quando descrive le modalità del nostro essere, per presentarle erroneamente come facoltà distinte[31]. Ma un’altra e più importante applicazione di questo errore si riscontra nel modo in cui vengono formati e utilizzati i concetti di causa ed effetto. In questo caso l’immaginazione opera su degli oggetti che sono realmente distinti dall’uomo e descrive i rapporti che tra essi sussistono. L’inganno della separazione avviene nel momento in cui un oggetto viene designato assolutamente come causa e un secondo meramente come effetto. Riflettendo sui due termini, il testo presenta invece una concezione secondo cui «le mot de cause ne signifie autre chose que la perception d’un changement, que produit un corps sur un autre, considéré par rapport au corps qui le produit, et le mot d’effet le changement considéré dans celui qui le reçoit»[32]. L’universo che la Lettre descrive è costituito da enti che agiscono e reagiscono incessantemente gli uni sugli altri. La proposta dell’autore è quella di svincolare i concetti di causa ed effetto dalla designazione di un oggetto per ripartire il loro significato, il loro contenuto conoscitivo, sulla relazione tra due enti a loro volta inseriti in un sistema complesso di infinite connessioni.
Per afferrare più chiaramente il senso della proposta di Fréret e il modello conoscitivo che essa descrive pare significativo riportare le parole con cui il testo si riferisce al lavoro dell’immaginazione. Come abbiamo detto questa facoltà tende a utilizzare i termini causa ed effetto come nomi di enti e non di relazioni tra essi. La raffigurazione che ne risulta ci presenta una linea semplice i cui punti sono oggetti identificati in successione come cause o effetti. Nella considerazione di questa catena orizzontale, l’immaginazione interviene una seconda volta poiché: «la progression infinie des êtres […] a bientôt fatigué l’esprit de ceux qui ont eu la curiosité de rechercher la cause de tous les effets. […] ils ont pris le parti de remonter tout d’un coup à une première cause, qu’ils ont imaginée comme la Cause universelle, à l’égard de laquelle toutes les causes particulières sont des effets et qui n’est l’effet d’aucune cause»[33]. Di contro a un modello che lascia campo all’immaginazione per il suo colpo che si pretende risolutivo, la Lettre suggerisce una rappresentazione complessa, in cui alla raffigurazione lineare si sostituisce un sistema intricato e tridimensionale di relazioni causa-effetto tra oggetti che lungi dall’identificarle, semplicemente le istituiscono.
Tuttavia l’argomentazione appena riportata, oltre ad avere una ricaduta implicita nella complicazione del sistema causa-effetto, ha l’obiettivo diretto e preciso di destituire di valore il concetto di causa assoluta e universale. Il nome Dio conferito dall’immaginazione a questo ente si configura come un vuoto suono cui nessuna realtà corrisponde. Di contro al prodotto dell’immaginazione la pratica che fornisce una vera conoscenza del reale è ancora una volta quella dell’esperienza. Ad essa è affidata la riprova della vuotezza del nome della causa universale; poiché la pratica dell’osservazione del reale non fornisce alcun esempio di una simile causa, essa sarà il prodotto di un abito mentale (quello immaginativo) che non conduce ad alcuna conoscenza verace[34]. Quel che preme sottolineare è che in questo luogo, e in maniera conclusiva, la critica al concetto di causa universale trova la sua dimensione di cogenza nell’applicarsi sia all’idea della causa trascendente che a quella della causa immanente. I due tipi di teismi che il testo ha distinto sono dunque egualmente colpiti dalla decostruzione che riduce il termine Dio a mero nome privo di valenza conoscitiva.
Le pagine che seguono procedono tuttavia nell’analisi del modo di operare dell’immaginazione e forti di ciò approfondiscono la critica del teismo della trascendenza che descrive un soggetto divino dotato di volontà, sapere e onnipotenza. Come abbiamo appena accennato una delle operazioni dell’immaginazione consiste nel separare le modalità del nostro essere per considerarle come facoltà distinte.[35] Si tratta di un lavoro che l’immaginazione compie a partire da quelle che Fréret designa come percezioni interiori, in riferimento a un’interiorità che ha come sostrato permanente la soggettività umana. Il passo successiovo dell’analisi consiste nell’individuare come, a partire dal complesso di facoltà erroneamente separate esse vengano nuovamente riunite per designare un soggetto esterno che si pretende realmente esistente al di fuori dell’uomo. A questo inidividuo l’immaginazione dà il nome di Dio:
C’est à l’égard des perceptions intérieures que ces réunions vicieuses de propriétés séparées produisent les plus grandes erreurs: on se persuade que ces assemblages de propriétés sont des êtres réels et qu’ils existent hors de nous. On joint ensemble les idées de cause, d’intelligence, de volonté, de puissance, de bonté ou de malice, et l’on donne le nom de Dieu à cet assemblage [36].
L’approfondimento della critica della prima forma di teismo sembra prestarsi all’introduzione della decostruzione di un altro concetto, quello di infinito, che viene svelato come ennesimo prodotto dell’immaginazione. Nel ripercorrere questa decostruzione giungiamo a fornire il quadro completo del pensiero asistematico proposto dall’opera di Fréret.
Come abbiamo visto il sistema della causa universale trascendente individua un soggetto dotato di saggezza e potenza. Tali qualità vengono percepite nell’esperienza quotidiana delle cose finite, ma nel momento in cui sono attribuite a Dio, esse vengono dette infinite. Ora il nostro autore ripropone la negazione dell’esistenza di una causa prima attraverso la critica del concetto di infinito. A suo parere questo concetto non può riferirsi a nulla che esista realmente: «le terme d’infini est incompatible avec l’existence de quelque chose de fini, de positif ou de réel, c’est-à-dire qu’il emporte avec lui l’impossibilité d’exister réellement»[37]. Allora quando diciamo che un essere ha una saggezza e una potenza causale infinite non faremo altro che affermare la sua inesistenza. L’argomento è esposto come ennesima confutazione dell’esistenza di Dio; l’idea di un essere supremo è indicata ancora una volta come mero prodotto dell’immaginazione. Le conseguenze di una simile posizione sulla concezione del mondo sono evidenti. L’universo di Fréret è costituito unicamente da esseri finiti, i soli che abbiano un’esistenza reale. Tuttavia, prima di giungere ad una valutazione generale di questa concezione, dobbiamo chiarire a quale tipo di infinito la Lettre si riferisce. Il concetto considerato sembra essere meramente quello dell’infinito quantitativo. Il testo riproduce i più comuni argomenti contro la pensabilità di tale idea. Così, supponendo che a questo concetto corrisponda una realtà, che l’infinito esista:
on demande si l’on ne peut pas en ôter une certaine partie, la moitié, par exemple. Cette moitié est finie, on peut la compter et l’exprimer; mais, en la doublant, on aura la somme égale au nombre infini, laquelle sera déterminée, at à laquelle on pourra ajouter au moins une unité. Alors cette somme sera plus grande qu’elle n’étoit. Cependant elle étoit infinie, c’est-à-dire telle qu’on n’y pouvoit rien ajouter; et malgré cela on y peut ajouter. Elle est donc en même tems finie et non finie, ou infinie; elle a donc des propriétés exclusives, et c’est la même chose qu’un corps blanc qui n’est pas blanc, c’est-à-dire une chimère de laquelle nous ne pouvons rien dire, si ce n’est qu’il n’y a aucun tems dans lequel elle puisse exister[38].
L’infinito è dunque una chimera, cioè l’ente che il concetto designa non ha un’esistenza reale. Fréret si preoccupa allora di ridefinire il significato di quest’idea in termini negativi: quando l’uomo descrive una cosa come infinita non fa altro che esprimere la sua incapacità di determinare con esattezza l’estensione dell’oggetto. Così:
Qui dit une force infinie, une quantité infinie, un nombre infini, dit quelque chose que l’on ne peut déterminer, dont on ne peut avoir une idée juste et resemblante, parce que, quelque étendue qu’elle soit, elle sera au-dessous de la chose que l’on veut représenter[39].
L’operazione compiuta dall’autore è quella dello svelamento. Dietro l’idea positiva di infinito si nasconde il concetto negativo dell’indeterminato, dell’indefinito. Ancora una volta l’errore comunemente compiuto consiste nel conferire un’esistenza reale ad un’idea che rappresenta unicamente i limiti della conoscenza umana. Di conseguenza possiamo dire che il motivo per cui l’uomo attribuisce un significato positivo al concetto di infinito è lo stesso che lo conduce ad affermare l’esistenza della causa universale: l’orgoglio e l’insopportabilità del vuoto di conoscenza.
A questo punto, illustrata l’operazione di svelamento, possiamo addentrarci nelle conseguenze che essa ha sulla concezione dell’universo. Poiché il termine infinito non designa alcuna realtà, i soli enti che hanno esistenza reale sono quelli finiti. Questi ultimi, secondo la descrizione della Lettre, agiscono gli uni sugli altri incessantemente. Ora, l’uomo, all’interno di questa continua catena dell’azione e della reazione, è in grado di isolare alcuni frammenti e di stabilire il rapporto causale tra coppie di oggetti. La nostra attenzione si concentra sul modo in cui Fréret designa l’intera catena continua; a volte essa è descritta come infinita[40]. Questa attribuzione sembra contraddire la confutazione dell’esistenza reale di una qualsiasi entità infinita. Tuttavia, in altri luoghi, l’autore precisa la sua concezione in coerenza con lo slittamento di significato del termine infinito. Così egli riprende la questione dei limiti della conoscenza umana:
j’avoue que mon esprit est trop foible et trop borné pour remonter longtems de cause en cause, loin de pouvoir parcourrir une énumération qui n’est infinie que parce que l’on n’en peut trouver le terme. Ainsi je m’enveloppe tranquillement dans une ignorance que je ne rougis point d’avouer, et qui n’est point honteuse, parce qu’elle est invincible [41].
Il chiarimento applica alla definizione della catena causale il significato negativo del concetto di infinito; quando usiamo questo termine non facciamo che ammettere l’incapacità del nostro spirito. I limiti dell’intelletto umano riducono dunque l’individuo a formare il suo sapere partendo dal solo ambito nel quale egli può definire esattamente gli oggetti: l’ambito dell’esperienza mondana. Chiuso in questo contesto l’uomo è altresì incapace di pronunciarsi positivamente sull’estensione dell’universo nello spazio e nel tempo. Le ultime pagine della Lettre offrono un mirabile sunto della concezione dell’universo che emerge in forza del rigido empirismo:
L’univers est un assemblage d’êtres différens qui agissent et réagissent mutuellemnt et successivement les uns sur les autres, comme je l’ai déjà dit; je n’y découvre de bornes, ni par son étendue ni par sa durée; j’y apperçois seulement une vicissitude et un passage continuel d’un état à l’autre, par rapport aux êtres particuliers qui prennent successivement diverses formes nouvelles; mais je n’y vois point une Cause universelle distinguée de lui, qui lui donne l’existence et qui produise les modifications des êtres particuliers qui le composent. Je crois même voir très distinctement l’impossibilité d’une telle Cause [42].
Come la catena causale, anche l’estensione e la durata del mondo devono essere definite quali indeterminate. Solo le formulazioni negative sono infatti adeguate alla limitata conoscenza umana. Essa, tuttavia, non lascia indecisa la questione della validità del teismo, che viene completamente confutata.
Il brano riportato offre l’occasione di riflette sul carattere generale dell’ateismo proposto dal nostro autore. In primo luogo notiamo che, sebbene non venga mai esplicitamente esposto, il materialismo è una conseguenza implicita dell’opzione ateistica. Infatti, nel momento in cui viene negata l’esistenza di una causa universale che produce le modificazioni degli esseri particolari, il principio del movimento deve essere ammesso come di per sé intrinseco alla materia. Inoltre mostriamo come Fréret rimane fedele al suo rifiuto di ogni sistema; a tale scopo dobbiamo considerare le opzioni metafisiche che la Lettre poteva considerare in seguito alla confutazione del teismo. Negando l’esistenza di un Dio creatore, è stato rifiutato il sistema della creazione ex nihilo. Ma se la materia non ha cominciato ad esistere in un istante preciso, per volere di una causa prima, essa poteva essere descritta come eterna. Se l’opera avesse effettuato questa scelta, la durata dell’universo avrebbe dovuto dirsi infinita. Tuttavia, come testimonia il nostro brano, l’uomo non è legittimato a fare una simile affermazione; riguardo all’estensione e alla durata egli può solo dire che non scorge dei limiti, usando unicamente il concetto di indefinito. Ora, in un altro luogo del testo, abbiamo visto l’autore ammettere che il necessarismo è il solo sistema sostenibile. L’esito ateo della speculazione lo aveva fatto optare per un necessarismo che escludeva la sussistenza di una causa immanente; in ogni caso però, ed è ciò che ci interessa, l’assunzione di questo sistema avrebbe permesso di stabilire l’eternità della materia. In conclusione, dunque, la descrizione dell’universo che abbiamo riportato, mostra che il distacco di Fréret da ogni pensiero sistematico è consumato definitivamente. Dopo aver confutato il teismo, egli rifiuta di assumere l’unica opzione metafisica alternativa, formulata nel corso della storia del pensiero. L’esito di tale scelta è quello di lasciare indecisa la questione dell’origine dell’universo. Ma il nostro autore ritiene il peso di tale ignoranza del tutto naturale e sopportabile. In termine teoretici, questo vuoto di sapere rappresenta il prezzo da pagare per l’affermazione coerente di un rigido empirismo. La posizione atea della Lettre si esprime dunque in una forma originale: dopo aver tolto l’infinità a Dio, tale pensiero rifiuta di attribuirla alla materia. La scelta è imposta dal fatto che, secondo Fréret, il concetto stesso di infinito è antinomico.
Crediamo di aver mostrato in quale senso l’ateismo del segretario dell’Académie può dirsi non sistematico. Esso è fondato sull’empirismo che la Lettre propone. A tale empirismo il testo si attiene in un duplice senso: da una parte con il rifiuto dell’innatismo, dall’altra con la critica della metafisica che ha come esito lo svelamento del senso di tutte le supposizioni sistematiche. Esse non sono altro che un complicato travestimento della nostra naturale ignoranza.
[1] Quella che Voltaire ha tra le mani è proprio una copia di questa prima edizione (Lettre de Thrasybule à Leucippe. Ouvrage posthume de M.F., A London s.d.). La lettera cui si fa riferimento si esprime invece in questi termini: «J’ai lu le Trasibule, mon cher ami. […] il y a de très bonnes choses et des raisonnements très forts. Ce n’est pas le stile de Fréret». T. Besterman (éd.) Voltaire. Correspondance, Paris, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, 1981, vol. VIII, p. 276.
[2] Cfr M. Benítez, La face cachée des Lumières. Recherches sur les manuscrits clandestins de l’âge classique, Paris, Oxford, Universitas, Voltaire Fondation, 1996, pp. 39, 40. Le variazioni all’interno delle diverse stesure non appaiono significative ai fini della nostra breve analisi; per la ricostruzione dello stemma del manoscritto si può vedere l’introduzione all’edizione critica italiana, a cura di S. Landucci, Lettre de Thrasybule à Leucippe, Firenze, Olschki, 1986, (d’ora in poi semplicemente Lettre) in particolare pp. 202-225.
[3] Dalla cronaca di Barthélemy Mercier de Saint-Léger, custode dei manoscritti della Sainte-Geneviève, dove si racconta la vicenda qui riassunta, apud Lettre, p. 225.
[4] Nel 1715, accusato di sostenere posizione eterodosse sulla natura di Dio, Fréret ha già sperimentato la reclusione. Lo narra ad esempio Bougainville nell’Éloge de Fréret (1688-1749), in Œuvres complèles de Fréret, Paris, Champollion-Figeac, 1825, vol. I.
[5] Mémoires secrets sur le règne de Louis XIV, la Régence et le règne de Louis XV, Paris, Didot, 1846, p. CII.
[6] Sulla data che riguarda l’entrata in possesso dell’opera da parte di Duclos, si veda G. Lanson, Questions diverses sur l’histoire de l’esprit philosophiques en France avant 1750, «Revue d’histoire littéraire de la France» 19 (1912), p. 300. La già citata testimonianza di Barthélemy Mercier de Saint-Léger, invece, afferma che Fréret stende lo scritto nel 1722, mentre si trova «chez les Pères de l’Oratoire de *** où il était aller passer quelque temps» (Lettre, p. 225). L’estensione del periodo ai termini indicati è suggerita dal carattere del testo, che sembra aver subito diverse revisioni. Ma il dato che colloca la Lettre nel primo quinquennio appare solido e trae fondamento da una posizione dell’autore che illustriamo brevemente. Nella Défense de la chronologie fondée sur les monumens de l’histoire ancienne del 1725, Fréret descrive la zoolatria degli antichi egizi come una forma di adorazione degli dei incarnati (cfr. Nicolas Fréret. Œuvres complètes, Paris, Dandré-Obré-Audiffred, anno IV, 1796, in particolare vol. VII, pp. 46, 47). Ora, mentre la Lettre ribadisce questa interpretazione (cfr. ad esempio p. 260), già le Nouvelles observations sur la chronologie de M. Newton del 1728-’29 ritengono che il culto egizio degli animali abbia avuto un mero significato simbolico (cfr. Nicolas Fréret. Œuvres complètes cit., in particolare vol. IX, pp. 135, 136 e vol. X, pp. 25-27 e p. 48). Da ciò deduciamo la prossimità cronologica dell’opera clandestina al primo testo a stampa piuttosto che al secondo.
[7] L’indicazione può apparire vaga, ma tale caratteristica è a forza dettata dalla discrepanza tra l’opinione degli interpreti e l’unica indicazione temporale contenuta nel testo. La gran parte dei manoscritti e delle stampe della Lettre è accompagnata da due brani che nutrono la finzione della sua antichità; si tratta di una Préface du traducteur anglois e di un Fragment d’une lettre du traducteur françois. Seguendo l’immaginaria storia dell’opera, essa sarebbe arrivata nelle mani di un moderno uomo di lettere inglese, per poi passare in quelle di uno francese, conoscendo una seconda operazione di traduzione. Mentre il primo l’avrebbe tradotta a partire dalla sua pretesa lingua originale, il greco, il secondo si sarebbe servito della resa inglese. Ora, secondo il traduttore francese, il testo andrebbe collocato nel II secolo: «Ce qu’il dit [l’autore] des chrétiens et des Juifs marque qu’il vivoit vers le deuxième siècle du christianisme» (Préface, in Lettre, p. 415). Ma in contrasto con questa valutazione, il testo della Lettre fa un preciso riferimento ai componenti di una delegazione indiana, dai quali Thrasybule avrebbe appreso notizie sulla loro religione: «Les opinions des Indiens ne nous sont plus inconnues: nous avons eu occasion de nous en instruire par le commerce de ces Brachmanes qui accompagnoient les ambassadeurs du roi de la Taprobane» (ivi, p. 268). L’ambasceria cui ci si riferisce ebbe effettivamente luogo durante il principato di Claudio, quindi tra il 41 e il 54 d. C. Se, come provano le numerose testimonianze, la Lettre è opera di Nicolas Fréret non è facile non attenersi ad un’indicazione così chiara fornita da uno scrupoloso studioso dell’antichità; tuttavia le osservazioni della Préface, riguardanti il tenore della trattazione sulle religioni cristiana ed ebraica, sembrano altrettanto valide.
[8] Cfr. Observations générales sur l’étude de la philosophie ancienne, in Nicolas Fréret. Œuvres complètes cit., vol. XVI, in particolare pp. 238-240.
[9] «La progression infinie des êtres qui ont été successivement cause et effet a bientôt fatigué l’esprit de ceux qui ont eu la curiosité de rechercher la cause de tous les effets. Sentant leur attention épuissée par la considération de cette longue suite d’idées, ils ont pris le parti de remonter tout d’un coup à une première cause, qu’ils ont imaginée comme la Cause universelle, à l’égard de laquelle toutes les causes particulières sont des effets et qui n’est l’effet d’aucune cause» (Lettre, p. 343).
[10] Ivi, p. 355.
[11] Ivi, p. 356.
[12] Ivi, p. 367.
[13] Ivi, pp. 354-357, passim.
[14] Ivi, p. 356.
[15] Ibidem.
[16] Cfr. ivi, pp. 367, 368.
[17] Ivi, p. 369.
[18] Ivi, pp. 354-355.
[19] Nell’esporla teniamo per riferimento e guida le osservazioni di S. Landucci (cfr. ivi, pp. 89-90).
[20] Ivi, p. 357.
[21] Cfr. ivi, p. 367.
[22] Ivi, p. 372.
[23] Ibidem.
[24] Ivi, p. 321.
[25] Per spiegare l’illusione dell’innatismo, si fa ricorso proprio a questa modalità di formazione: «il n’y a que deux manières de concevoir les idées: ou bien elles sont une impression actuelle de quelque objet […] ou bien ces idées sont le souvenir […]. Les prétendues idées innés devroient être de ce dernier genre» (ivi, p. 322).
[26] Le numerose copie della Lettre presentano una lacuna in corrispondenza del testo che dovrebbe distinguere le due forme di sentiments. Allo stesso modo, tutte le versioni offrono un brano di raccordo che si propone di riparare alla mancanza. L’anonimo compilatore del passo commette una lieve imprecisione terminologica: egli parla inizialmente di due classi di sensations e non di sentimens. Da Fréret, invece, il termine sensation è stato scelto unicamente per designare uno dei due tipi di sentimens. In ogni caso lo stesso anonimo corregge poi la resa chiamando intérieur la seconda specie di sentiment (cfr. ivi, p. 419).
[27] Ivi, p. 332.
[28] Ibidem.
[29] «Mentis imaginationes in se spectatas, nihil erroris continere, sive Mentem ex eo, quòd imaginatur, non errare; sed tantùm, quatenus consideratur, carere ideâ, quæ existentiam illarum rerum, quas sibi præsentes, imaginatur, escludat» (Ethica, in Spinoza Opera, Heidelberg, Carl Winters Universitætsbuchhandlung, 1925, vol. II, p. 106, trad. it. di E. Giancotti Boscherini, Roma, Editori Riuniti, 19932, p. 142).
[30] Ivi, pp. 337-338.
[31] «Dans notre esprit, on a distingué entre l’entendement et la volonté […] Cependant toutes ces choses ne sont que des modalités ou manières d’exister de notre être et ne sont pas plus dintinguées entre elles ni de nous-mêmes que l’étendue, la solidité, la figure, la couleur, le mouvement ou le repos d’un corps, le sont de ce même corps; et, malgré cela, on a mis entre elles une distinction absolue, on en a fait autant de petites entités dont nous sommes l’assemblage, en sorte que nous seroins composés d’n million de petits êtres» (Lettre, pp. 341-342, passim).
[32] Ivi, p. 343.
[33] Ibidem.
[34] Cfr. ivi, p. 403.
[35] Cfr. sopra e nota 31.
[36] Lettre, p. 347.
[37] Ivi, p. 349.
[38] Ivi, p. 350.
[39] Ivi, p. 349.
[40] Diamo due esempi, i più espliciti, di questa attribuzione : «La progression infinie des êtres qui ont été successivement cause et effet a bientôt fatigué l’esprit», e, in riferimento all’opinione dei teisti : «parce que nous ne pouvons […] parcourrir la suite infinie des causes, il faut que nous admettions leur opinion» (ivi, pp. 343 e 353).
[41] Ivi, p. 404.
[42] Ivi, pp. 403-404.
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