La tradizione epicurea e lucreziana nella filosofia di Giambattista Vico

Pierre Girard

                                                                                                                                                                                                                                                                                 Questo saggio intende approfondire l’influenza esercitata dalla tradizione epicurea sulla costituzione progressiva del sistema vichiano di una scienza nuova, cioè determinare nella prospettiva della storia delle idee  quali siano le linee di accordo, di confronto, ciò che Vico ha preso in prestito dal pensiero epicureo. In altri termini, questo studio intende mettere in rilievo non soltanto le influenze, i legami fra due pensieri, ma soprattutto i meccanismi con i quali Vico riprende alcuni concetti dalla tradizione epicurea pur modificandone lo statuto epistemologico. Sono pochissimi i contributi dedicati in modo esplicito e diretto al confronto fra Vico e l’epicureismo (1). Di solito, gli studi critici si limitano a ricordare o a negare l’importanza di Epicuro in Vico, ma sempre in modo assai rapido. Vogliamo al contrario approfondire questa influenza sottolineandone le linee direttrici e problematiche nella misura in cui, a nostro parere, l’importanza di questa tradizione filosofica, e più in generale di quella materialista, ci consente di avvicinarci ai meccanismi con i quali Vico stabilisce la sua nuova scienza. È quindi nostra intenzione, in queste pagine, non soltanto descrivere ciò che Vico prende in prestito dalla tradizione epicurea, ma più precisamente distinguere quale sia il ruolo costitutivo di questa tradizione nell’elaborazione della Scienza nuova. Questo studio intende dunque interrogarsi sull’importanza della tradizione e dei concetti materialisti all’interno della filosofia di Vico.

1. Presenza e rigetto della tradizione epicurea: «Una morale […] di sfaccendati chiusi ne’ loro orticelli» (2)

Nella storia delle idee il Seicento italiano sembra attraversato da due gran- di tradizioni filosofiche più concorrenti che avversarie, cioè la tradizione galileiana, dominante nella prima parte del secolo, e il cartesianesimo, sempre più diffuso a partire dalla seconda metà del secolo (3). Si tratta di considerazioni assai generali, ma che caratterizzano abbastanza bene il quadro all’interno del quale si diffonde un’altra tradizione, più nascosta, quella del materialismo (4). Il materialismo, ed in particolare le figure di Epicuro e di Lucrezio, costituiscono delle costanti nella storia delle idee in Italia, come viene dimostrato negli studi di Eugenio Garin (5) o più di recente nell’approccio di Susanna  Gambino Longo (6).
La cosa più importante da sottolineare è che Epicuro e Lucrezio non sono mai stati dimenticati e hanno avuto sempre una discreta fortuna. Il meccanismo è sempre lo stesso: un movimento filosofico non scompare mai, ma viene ogni tanto «riscoperto» nella misura in cui permette di rispondere a nuove domande (7).
In altri termini, la tradizione epicurea nel Seicento viene riattualizzata perché, in particolare nel campo scientifico, è considerata valida per pensare la modernità. La tradizione epicurea conosce un grande successo alla fine del Seicento perché offre alcuni modelli epistemologici che si diffondono sempre più nelle differenti accademie scientifiche napoletane. Diversi elementi caratterizzano tale tradizione.

Nell’umanesimo la tradizione epicurea è attualizzata soprattutto come modello etico, mentre nell’attualizzazione di fine Seicento è innanzitutto la fisica che è mantenuta e posta in primo piano. Il modello materialista e atomistico risponde perfettamente alle esigenze epistemologiche di Galileo e offre un nesso possibile con il pensiero cartesiano. Questo aspetto è da sottolineare nella misura in cui ci offre un bellissimo esempio dei meccanismi tipici della storia delle idee: la tradizione epicurea non viene riattualizzata perché si adottano i criteri materialistici dell’antichità, cioè in una valutazione retrospettiva, ma perché viene stimata valida per rispondere a domande e problemi attuali. Ciò spiega il gran successo di tale tradizione a Napoli. Ma è forse il prisma di Gassendi che deve più richiamare la nostra attenzione. La figura di Gassendi è centrale nel pensiero napoletano di fine Seicento. Bisogna insistere su questo aspetto perché permette di intendere in buona parte il modo con il quale Vico recepisce e modifica la propria ricezione di Epicuro e Lucrezio (8). Prima di tutto, occorre ricordare che Gassendi e Galileo erano in contatto diretto, ciò che contrasta ovviamente con il disprezzo col quale viene accolto Cartesio. Gassendi, che considera Galileo come un «génie incomparable», progettava anche di fare un viaggio in Italia. Ma il motivo principale della fortuna del pensiero di Gassendi è che quest’ultimo permette di rendere teologicamente accettabile – e così epistemologicamente utilizzabile – la tradizione materialista, quella di Epicuro, Democrito o Lucrezio. Gassendi intende dunque rispondere alla doppia esigenza di religiosità e di scientificità. Naturalmente, questo schermo gassendista viene fin dall’inizio denunciato dalla Chiesa, che ne sottolinea il rischio di ateismo. Questo rischio è tanto reale che arriva fino all’orecchio di Arnauld:
Je ne m’étonne pas de ce que l’on me mande de Naples, que de jeunes fous sont devenus Athées et Épicuriens par la lecture des Œuvres de Gassendi. C’est ce qu’on en devoit attendre, sur tout si on considère ce qu’il a écrit contre la métaphysique de M. Descartes, où il a employé tout ce qu’il avoit d’esprit à détruire tout ce que M. Descartes avoit trouvé de plus fort pour prouver l’existence de Dieu et l’immortalité de notre ame (9).

Questa fortuna della tradizione epicurea attraverso la figura di Gassendi (10) è sottolineata da Vico stesso nell’autobiografia:
Or, per sapere ordinatamente i progressi del Vico nelle filosofie, fa qui bisogno ritornare alquanto indietro: che, nel tempo nel quale egli partì da Napoli, si era cominciata a coltivare la filosofia d’Epicuro sopra Pier Gassendi, e due anni doppo ebbe novella che la gioventù a tutta voga si era data a celebrarla; onde in lui si destò voglia d’intenderla sopra Lucrezio (11).
Tale è l’influenza esercitata dall’atomismo e dalla tradizione epicurea a Napoli che la Chiesa intenterà un processo contro i cosiddetti «ateisti» napoletani (12). Determinare quale fu la posizione vichiana di fronte a questo ambiente è assai difficile per vari motivi. Innanzitutto, Vico ha un atteggiamento ambiguo riguardo alla fortuna della tradizione materialista. In particolare, risulta difficile sapere se ci sia stata una vera crisi materialista nel pensiero del giovane Vico o se si tratti soltanto di una ricostruzione artificiale sviluppata dalla letteratura critica. I testi vichiani sembrano indicare due aspetti: da una parte, Vico sembra conoscere assai bene le opere di questa tradizione, d’altra parte, questi testi sono criticati ogni volta in modo molto chiaro. Lo studio dei testi epicurei non provoca l’entusiasmo del giovane Vico. Per esempio, nella sua autobiografia, Vico cerca di criticare ogni aspetto di questa tradizione. Il pensiero che Epicuro e Lucrezio propongono è una «filosofia da soddisfare le menti corte de’ fanciulli e le deboli delle donnicciuole» (13).
Allo stesso modo, l’etica materialista viene presentata come «una morale del piacere, buona per uomini che debbon vivere in solitudine» (14). Ogni dimensione della tradizione epicurea viene non soltanto discussa ma rifiutata con un certo disprezzo. A parere del Vico, è soprattutto la sterilità che caratterizza tale tradizione. L’approccio di Lucrezio e di Epicuro serve soltanto a riavvicinare Vico a Platone («Onde questo solo servì a lui di gran motivo di confermarsi vie più ne’ dogmi di Platone» (15). La tradizione epicurea viene ogni volta respinta non per la sua presunta pericolosità nei confronti della religione, ma per la sua scarsa efficienza nei campi nei quali la si ritiene efficiente. La critica vichiana è soprattutto tecnica, e ciò gli permette al tempo stesso di accettare alcune tesi tratte da questa tradizione:
[…] e, per fargli [Epicuro] il suo merito, con quanto diletto il Vico vedeva spiegar- si da quello le forme della natura corporea, con altrettanto o riso o compatimento il vedeva posto nella dura necessità di dare in mille inezie e sciocchezze per ispie- gare le guise come operi la mente umana (16).
Ad una prima lettura, si potrebbe interpretare tale discorso vichiano come una critica oggettiva da parte di chi ha già trovato la propria filosofia e se ne serve per giudicare quelle degli altri filosofi. Tuttavia, una siffatta interpretazione non terrebbe conto del livello retorico dell’autobiografia vichiana e dell’ambiguità delle posizioni che Vico sembra adottare retrospettivamente. In altri termini, non si deve  dimenticare  che  la  ricostruzione  autobiografica vichiana è spesso elaborata a partire dal senno di poi, e ciò impedisce una lettura univoca di questo brano dedicato alla tradizione epicurea. Sembra che Vico si sia riappropriato di una storia personale cancellandone ogni forma di crisi, spostandola dal campo dell’esperienza autobiografica, per definizione imprevedibile, per darle il valore di una critica filosofica ed epistemologica lineare e serena. Naturalmente, non possiamo in queste pagine individuare l’insieme dei brani nei quali Vico manifesta una reazione più complessa nei confronti della tradizione epicurea (17). Basti ad esempio citare gli Affetti di un disperato, produzione poetica nella quale il giovane Vico manifesta un pessimismo assoluto, una visione della morte d’ispirazione lucreziana. È anche significativo sottolineare che Vico non dà un’esposizione di questo testo nella sua autobiografia – mentre dà una rappresentazione assai fedele della sua formazione intellettuale – a cui si riferisce soltanto in modo allusivo, parlando delle «debolezze ed errori» della sua «prima giovinezza» (18).
Senza entrare nel dettaglio delle interpretazioni di questo testo poetico, occorre sottolinearne la grande peculiarità. Per Fausto Nicolini, si tratta soltanto di una crisi di giovinezza che vede Vico avvicinarsi ad alcuni imputati del cosiddetto processo agli ateisti (19). Per Antonio Corsano, invece, questa crisi avrebbe avuto conseguenze molto importanti nella costituzione del sistema vichiano e più in generale nell’orientare poi la sua filosofia. La lettura di Epicuro e di Lucrezio sarebbe stata, secondo Corsano, determinante per Vico. L’interesse per l’atomismo e per il pensiero di Gassendi avrebbe causato un tale disagio al giovane Vico da allontanarlo, a poco a poco, dalla filosofia per spingerlo verso gli studi umanistici (20). Un’altra interpretazione viene offerta dalla lettura straussiana di Vaughan (21) per il quale Vico sarebbe innanzitutto un materialista, sulla scia di Epicuro, Lucrezio ed Hobbes. A parere del Vaughan, soltanto dei motivi di prudenza avrebbero spinto Vico ad esporre in modo ambiguo e nascosto, nella dissimulazione di una scrittura complessa, le proprie convinzioni e concezioni materialiste.
La prima deduzione da trarre da queste letture tanto diverse è che un approccio soltanto autobiografico (o biografico) non consente di determinare  in modo chiaro l’influenza esercitata dall’epicureismo su Vico (22). Ciò detto, si potrebbe proporre un altro schema interpretativo che rinvierebbe non alle dichiarazioni esplicite o nascoste di Vico, ma, in modo più meccanico, alle strategie vichiane che si manifestano nell’uso del tutto particolare con il quale Vico si riferisce a tale autore o a tale tradizione. I riferimenti vichiani (tanto quelli positivi quanto quelli negativi) non sono mai neutri, ma sono sempre la manifestazione di una strategia, di un lavoro di rielaborazione attraverso il quale questi autori, queste tradizioni vengono utilizzati in una prospettiva nuova.

In altri termini, il problema principale non è tanto di sapere quali siano le fonti obbiettive di Vico quanto di individuare il modo con il quale Vico utilizza queste fonti. Prima di tutto va detto che Vico, a parte poche eccezioni, fra le quali Cartesio, non si riferisce mai ad un singolo autore, ma ad una lista d’autori, ad una tradizione che spesso riunisce autori molto diversi fra di loro. I nomi che compongono queste liste possono anche cambiare caso per caso. Così, Epicuro, Machiavelli, Hobbes, Spinoza, Cartesio, Bayle vengono spesso associati come se le loro dottrine fossero identiche. Non è dunque veramente proficuo studiare tale o tale influenza nella misura in cui Vico si oppone ad una lista di autori, di dottrine «contratte» in una sola tradizione (23). Per esempio Epicuro, Machiavelli, Hobbes, Bayle vengono «contratti» nel loro rifiuto di prendere in considerazione la provvidenza. In questa prospettiva va segnalato che una semplice individuazione storica-filologica non pare sufficiente per determinare il valore dei riferimenti vichiani. Una delle caratteristiche più significative di Vico è la sua capacità di contrarre parecchie tradizioni filosofiche e inserirle nel suo pensiero spostandone il significato iniziale ed originario (24). In altri termini, la questione non è di determinare se Vico sia un lettore fedele o scrupoloso delle altre dottrine filosofiche, ma di distinguere quale sia l’utilizzazione che ne fa, pur modificandole, in seno al proprio sistema.

In questo senso, l’attenzione non va posta sulle dottrine stesse, ma sui meccanismi di contrazione che Vico impone ai suoi riferimenti. Ogni forma di valutazione o di rigetto deve allora essere valutata in modo problematico. Quando Vico accetta esplicitamente una dottrina, può farlo cambiandone i principi più importanti. Allo stesso modo, può rigettare una filosofia, pur utilizzandone alcuni con- cetti caratterizzanti. Per esempio, Vico sottolinea a diverse riprese l’importanza dei suoi «quattro autori», cioè Platone, Tacito, Grozio, Bacone (25). Ma, pur riconoscendo l’influenza esercitata da Grozio e Platone, Vico può essere anche molto critico nei confronti di queste dottrine. Entrambe sono accusate di aver trascurato il ruolo della provvidenza, e questa è anche la critica principale rivolta per esempio alle filosofie di Epicuro, Machiavelli o Spinoza. In modo analogo, pur criticando queste ultime filosofie, Vico riprende alcuni loro concetti specifici. Sarebbe in particolare interessante confrontare la virtù machiavelliana con l’eroismo vichiano, determinare l’importanza del pensiero materialista nell’elaborazione della nozione di «utilità» in Vico, o, più semplicemente, accostare la «nuova arte critica» vichiana, l’importanza della filologia, il lavoro sulla figura di Omero, alle nuove prospettive spinoziane relativamente ai testi sacri, in particolare relativamente al Pentateutico nel Trattato teologico-politico.

Questa strategia dei riferimenti in Vico impedisce ogni forma di valutazione univoca. Bisogna al contrario distinguere quali siano i riferimenti impliciti, sottostanti. Questo lavoro filologico-filosofico di individuazione è tanto più importante nella misura in cui spesso le filosofie che vengono respinte da Vico hanno, nel suo pensiero, un ruolo più determinante di quelle alle quali Vico fa in apparenza un riferimento esplicito. A nostro parere, questo meccanismo è ovvio per quanto riguarda il rapporto fra il pensiero vichiano e la tradizione epicurea.

2. «Rovesciarsi nella feccia di Romolo» (26)

Nelle pagine che seguono, vorremmo mettere in risalto un doppio mecca- nismo. Il primo rinvia alla logica dei riferimenti fatti da Vico: si tratta per noi di distinguere quali siano i riferimenti, espliciti o no alla tradizione materialista. Il secondo meccanismo è la conseguenza diretta del primo: si tratta di vedere in che misura questi prestiti dal pensiero materialista sottendano il progetto scientifico vichiano e quali siano i concetti che entrano nell’economia e nella struttura della Scienza nuova (27).
Come si è appena detto, è sempre difficile valutare lo statuto dei riferimenti vichiani, e solo uno studio critico consente di stimare l’apporto e il contributo reale di questi riferimenti al progetto vichiano. Ciò detto, è sempre interessante individuare i motivi che spingono Vico a respingere o ad accettare certe dottrine. In questa prospettiva, il confronto col pensiero epicureo messo in parallelo con quello platonico è assai interessante. Ciò che è apprezzato nel pensiero platonico, e inversamente criticato in quello di Epicuro (nonché degli stoici), è la capacità del primo, a differenza degli altri due, di offrire un pensiero politico:
Questa Degnità allontana dalla scuola di questa Scienza gli stoici, i quali vogliono l’ammortimento de’ sensi, e gli epicurei, che ne fanno regola, ed entrambi niegano la provvedenza, quelli faccendosi strascinare dal fato, questi abbandonandosi al caso, e i secondi oppinando che muoiano l’anime umane coi corpi, i quali entrambi si dovrebbero dire «filosofi monastici o solitari». E vi ammette i filosofi politici, e principalmente i platonici, i quali convengono con tutti i legislatori in questi tre principali punti: che si dia provvedenza divina, che si debbano moderare l’umane passioni e farne umane virtù, e che l’anime umane sien immortali. E,’n conseguenza, questa Degnità ne darà gli tre princìpi di questa Scienza  (28).
In questa significativa degnità Vico sottolinea uno dei criteri del prisma attraverso il quale recepirà le altre dottrine, cioè la politicità di queste dottrine. La critica rivolta al pensiero epicureo (che sarà in modo significativo, come vedremo più in avanti, la stessa per la tradizione stoica) è sempre la stessa: Epicuro va criticato perché il suo pensiero propone una «morale […] di sfaccendati chiusi ne’ loro orticelli» (29). È interessante notare che Epicuro non viene criticato in quanto pensatore immorale, ma per la sua incapacità di  proporre  una  filosofia  politica.  Analogamente  sono  criticati  gli  stoici, «perché di meditanti che studiavano non sentir passione» (30). Entrambe le dottrine sono respinte per la loro scarsa politicità rispetto alle filosofie di Cicerone, di Aristotele o di Platone «tutte lavorate in ordine a ben regolare l’uomo nella civile società» (31). Va sottolineato questo nuovo criterio della politicità in quanto consente a Vico di collegare in prospettive del tutto nuove filosofie di solito opposte le une alle altre. Ma, come si è già detto, le valutazioni vichiane sono sempre complesse e bisogna ogni volta integrare le varie sfumature. Nel caso della valutazione in apparenza positiva di Platone, abbiamo un ottimo esempio di questo meccanismo complesso. In effetti, subito dopo aver valutato positivamente la filosofia «politica» di Platone, Vico sembra sfumare il suo giudizio:
La filosofia considera l’uomo quale dev’essere, e sì non può fruttare ch’a pochissimi, che vogliono vivere nella repubblica di Platone, non rovesciarsi nella feccia di Romolo (32).

L’espressione «feccia di Romolo» costituisce il limite della politicità del pensiero politico di Platone. Evitare di «fruttare ch’a pochissimi», cioè «giovar al gener umano» (33) nel suo complesso, suppone un superamento delle prospettive platoniche. Molto chiara, a questo proposito la necessità del «rovesciarsi nella feccia di Romolo». La raccomandazione politica prende il valore di un’esigenza epistemologica. Platone è superiore a Epicuro perché è politico, ma non lo è abbastanza. Secondo questa sfumatura, il limite raggiunto dalla politica di Platone consente a Vico di riprendere, di utilizzare, anche in modo sotterraneo, i modelli materialisti offerti dalla tradizione epicurea. L’epicureismo è respinto perché praticato in un giardino fuori città, nell’isolamento artificiale dalla polis. Ma questa valutazione negativa è come compensata da certi concetti epicurei, in particolare da quello di «utilità». Così Vico riesce a fare una sintesi del tutto nuova di due tradizioni filosofiche, collegando la politicità essenziale del platonismo alla necessaria attenzione alle utilità materiali dell’epicureismo. «La feccia di Romolo» è in questo senso il simbolo della necessità di orientarsi, per un’azione politica che sia al tempo stesso comune ed efficace, alla dimensione meno nobile della materia, ma forse la più determinante, cioè al corpo.

La pregnanza, la presenza dell’epicureismo non si limita all’attenzione necessaria ai corpi e alle loro «utilità», ma si estende all’insieme dell’economia della Scienza nuova, come se fosse una specie di orizzonte epistemologico e politico che fa da guida nella progressione del capolavoro vichiano. La necessità di pensare in mezzo alla «feccia di Romolo» significa pensare l’umanità nella sua dimensione collettiva, ma anche nelle sue determinazioni più concrete. Il modello politico materialista diventa una prospettiva per la definizione dei nuovi «mezzi» epistemologici messi a punto nella Scienza nuova. Ogni occasione viene sfruttata da Vico per affermare e ribadire la necessità di attingere alla dimensione più concreta, creativa, in termini vichiani, «poetica», del fare umano. Contro le Idee platoniche, Vico accentua l’importanza delle idee pri- mitive degli uomini, questo campo di studio del tutto nuovo delle sterminate antichità, quel mondo dei «primi uomini», che «dovevano pensare a forti spinte di violentissime passioni, ch’è il pensare da bestie» (34).

Il «rovesciarsi nella feccia di Romolo», della tradizione materialista, diventa così una vero requisito epistemologico per la nuova scienza, contro la falsa trasparenza del mondo cartesiano, mera finzione, questo mondo artificiale «il quale fossesi composto di linee di numeri, e di spezie algebraiche» (35). La tradizione materialista offre a Vico un sostrato epistemologico e politico. Il rischio diventa l’astrazione artificiale, appunto questa «sapienza riposta» che può sempre cadere nella «barbarie della riflessione», stadio ultimo della corruzione delle società umane. La «barbarie del senso», quella dei corpi, conserva invece una «fierezza generosa», quella della «primiera semplicità del primo mondo de’ popoli» (36). Il fascino che esercita su Vico questo mondo degli «autori delle nazioni» con le loro produzioni poetiche potrebbe in questa pro- spettiva essere considerato come il risultato dei presupposti materialisti.

Appare chiaro, ancora una volta, lo straordinario lavoro di sintesi di fronte a diverse tradizioni filosofiche che Vico integra nella propria filosofia, pur spostandone i significati originari. In questo caso, Vico sembra contrarre due tradizioni diverse, riunendole in una sintesi del tutto nuova. Non possiamo descrivere nei dettagli questi meccanismi di contrazione, ma è interessante metterne in rilievo gli aspetti più visibili. Di Platone, Vico mantiene l’importanza di una filosofia politica e collettiva, conservando il modello greco della polis, ma critica un pensiero politico il cui rischio è quello di essere astratto e di dimenticare così il campo dell’azione politica efficace, quello cioè che è collocato in mezzo alla «feccia di Romolo». Nei confronti di Epicuro, la lettura vichiana è più radicale. Da una parte, critica i principi materialisti dell’epicureismo che rendono inutile ogni forma di filosofia politica. In effetti, facendo riferimento al criterio epicureo della verità, il quale «conduce di leggieri allo scetticismo» (37), Vico scrive:
Ma lo scetticismo mettendo in dubbio la verità, la qual unisce gli huomini, li dispone ad ogni motivo di propio piacere, o di propia utilità, che sieguano il senzo proprio: e sì dalle communanze Civili li richiama allo Stato della solitudine, nonché dagli animali mansueti, c’hanno pur talento d’unitamente vivere ne greggi, e negli armenti, ma di fieri, ed’ immani, che vivono tutti divisi, e soli nelle lor tane, e covili (38).

I principi epicurei, fondandosi sulle diverse singolarità, rompono il legame sociale fra gli uomini e quindi si dimostrano pericolosi nel campo politico. Ma la critica vichiana è soltanto parziale. Certo, ritroviamo le stesse critiche, quel- la dell’apoliticità epicurea, quella indirizzata alla solitudine politica creata dai «filosofi solitari», che trascurano il senso comune. Ma se Vico critica la «propria utilità», conserva l’ «utilità». Non è il corpo da rifiutare, ma un corpo centrato su se stesso, che non vede più gli altri corpi, trasformando la comunità politica in una «folla de’ corpi», cioè una società definita da una «somma solitudine d’animi» (39). Le «utilità» dei primi uomini sono «utilità» corporee che manifestano la forza del movimento umanizzatore. Nelle sterminate antichità, gli autori delle nazioni «prima sentono il necessario» (40),  cioè ciò che è utile direttamente ai loro corpi. La soddisfazione delle utilità corporee non si oppone allo sviluppo della ragione, ma ne è la condizione di possibilità. Per esempio, «l’educazione de’ corpi», grazie alle «lavande sagre» permette di «menar [gli uomini] fuori dalle corporature gigantesche» e così di dare ai «lor figliuoli la giusta forma corporea umana» (41). L’umanità degli uomini non si fonda mai sull’eliminazione dei corpi, ma piuttosto sulla loro padronanza (42). La padronanza dei corpi, il «conato» che consente di addomesticarli (43), significa un’attenzione alle utilità corporee ed una conoscenza particolareggiata. Vico si serve di questa attenzione, pur spostandola nel campo politico, cioè proprio nel campo di cui aveva riconosciuto l’importanza nel pensiero platonico (44).

Vico collega nella stessa sintesi la politicità platonica e l’attenzione alle uti- lità corporee epicuree. Ogni dottrina viene stimata e valutata per la sua capacità di sostenere il modello scientifico che Vico sta costruendo nel suo progetto di Scienza nuova. Al di là del chiaro esempio di «contrazione» delle dottrine, questo meccanismo mostra in modo significativo il ruolo della tradizione materialista nell’elaborazione della nuova scienza vichiana.

3. Lucrezio e il modello dinamico dell’«umanità»

La nozione di «umanità», centrale nell’economia della Scienza nuova, è forse quella che manifesta maggiormente l’influenza esercitata dalla tradizione epicurea su Vico, ed in particolare dal quinto libro del De rerum natura di Lucrezio. Per Vico, il significato principale del processo di umanizzazione è l’interruzione del «bestiale divagamento». Questo «divagamento ferino» (45)  significa un mondo senza memoria, senza identità. Gli uomini vanno «errando da fiere per la gran selva della terra» (46), in una specie di eternità molto analoga a quella descritta da Lucrezio nel De rerum natura. Questi primi uomini, significativamente chiamati «bestioni» da Vico, crescono «senza udir voce umana nonché apprender uman costume» (47). Le relazioni sessuali si fanno a caso, con «concubi incerti» e rendono ogni rapporto di filiazione impossibile. I figli sono «incerti». Gli uomini non praticano la «venere umana» (48), appunto quella che permetterebbe a loro relazioni «certe», ma sono sommessi alla «libidine bestiale» (49). Il modello di Vico è ovviamente quello lucreziano:

Necdum res igni scibant tractare, neque uti
pellibus et spoliis corpus uestire ferarum,
sed nemora atque cauos montis siluasque colebant,
et frutices inter condebant squalida membra,
uerbera uentorum uitare imbrisque coacti.
Nec commune bonum poterant spectare, neque ullis
moribus inter se scibant nec legibus uti.
Quod cuique obtulerat praedae fortuna, ferebat
sponte sua sibi quisque ualere et uiuere doctus.
Et Venus in siluis iungebat corpora amantum;
conciliabat enim uel mutua quamque cupido,
uel violenta uiri uis atque inpensa libido,
uel pretium, glandes atque arbita uel pira lecta (50).

Allo stesso modo, Vico prende a prestito da Lucrezio l’elemento che rompe l’eternità del «divagamento ferino», cioè il fulmine. Questo prestito è tanto più significativo nella misura in cui permette a Vico di rigettare le cause finali, e con esse ogni visione teleologica della storia. Il fulmine in Lucrezio (51) e in Vico non ha mai il valore di un intervento divino, ma si riduce alle semplici cause naturali. Questo aspetto è ovvio in Lucrezio. Il fulmine è soltanto un’occasione:

Illud in his rebus tacitus ne forte requiras,
fulmen detulit in terram mortalibus ignem
primitus, inde omnis flammarum diditur ardor.
Multa uidemus enim caelestibus insita flammis
fulgere, cum caeli donauit plaga uapore.
Et ramosa tamen cum uentis pulsa uacillans
aestuat in ramos incumbens arboris arbor,
exprimitur ualidis extritus uiribus ignis,
et micat interdum flammai feruidus ardor,
mutua dum inter se rami stirpesque teruntur.
Quorum utrumque dedisse potest mortalibus ignem (52).

Ma anche in Vico:
Con tali nature si dovettero ritruovar i primi autori dell’umanità gentilesca quando – dugento anni dopo il diluvio per lo resto del mondo e cento nella Mesopotamia, come si è detto in un postulato (perché tanto di tempo v’abbisognò per ridursi la terra nello stato che, disseccata dall’umidore dell’universale innondazione, mandasse esalazioni secche, o sieno materie ignite, nell’aria ad ingenerarvisi i fulmini) – il cielo finalmente folgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi, come dovett’avvenire per introdursi nell’aria la prima volta un’impressione sì violenta (53).
Il sostrato materialista sembra epistemologicamente ed ontologicamente sufficiente per dar conto del processo di umanizzazione. Questo aspetto, ovvio in Lucrezio, è presente anche in Vico. Non possiamo soffermarci a lungo, in queste pagine, sul problema dello statuto della provvidenza vichiana, ma va sottolineato che questa provvidenza sembra problematica, come se fosse assente o secondaria nel processo di umanizzazione degli uomini. L’umanità rinvia ad un controllo delle passioni, ad un processo di padronanza del corpo. Umanizzarsi non consiste nel ricevere una provvidenza trascendente, ma nel mettere le passioni «in conato». Si è parlato delle «sagre lavande». Il punto di partenza è dunque un corpo da addomesticare. In questa prospettiva, i giganti vichiani (54) rinviano ai primi uomini descritti nel poema lucreziano:

At genus humanum multo fuit illud in aruis
durius, ut decuit, tellus quod dura creasset,
et maioribus et solidis magis ossibus intus
fundatum, ualidis aptum per uiscera neruis,
nec facile ex aestu nec frigore quod caperetur
nec nouitate cibi nec labe corporis ulla.
Multaque per caelum solis uoluentia lustra
uolgiuago uitam tractabant more ferarum (55).

Naturalmente, si potrebbero moltiplicare gli elementi che illustrano la presenza del modello materialista in Vico, per esempio l’importanza della sepoltura dei morti (56)  o del lavoro nel processo di umanizzazione (57), in particolare attraverso la figura di Ercole (58). Ciò che è messo sempre in rilievo è il rapporto diretto con gli aspetti più materiali delle attività degli uomini. In Vico, i bestioni si umanizzano man mano in un rapporto diretto, anche di conflitto, con la «gran selva della terra»: onde si truovano gli Ercoli fondatori delle prime nazioni gentili […], perché tali Ercoli domarono le prime terre del mondo e le ridussero alla coltura (59).
Il confronto diretto con la terra è significativo perché permette ai primi uomini di integrare il processo di umanizzazione. Questi primi uomini sono in senso proprio i «figliuoli della terra» che lavorano e nella quale sono seppelliti i loro «discendenti» (60). La terra, l’aspetto più materiale delle attività umane, dà ai bestioni carattere umano ed un’identità, quella della memoria delle «seppolture degli antenati» (61). In questa prospettiva, va sottolineato il verbo «ridurre», utilizzato da Vico anche per designare il processo di umanizzazione. In altri termini, i primi uomini si possono «ridurre all’umanità» (62), riducendo le terre a coltura. C’è pertanto un’identità fra il movimento che permette di «ridurre gli uomini da bestie fiere all’umanità» (63) e quello che permette di «ridurre i campi a coltura» (64).
Il confronto con la materia attraverso il processo di lavoro è dunque condizione di possibilità dell’umanità degli uomini. Questo processo di riduzione è innanzitutto un movimento di padro- nanza. Addomesticando la terra, lavorando i campi, i primi uomini riescono a «domare» la gran selva della terra, a diventare sedentari, ad avere «concubi e figli certi», e così a «porre in conato» le proprie passioni e a «ridursi all’umanità». Questo modello dell’umanità rinvia a Lucrezio:

Inde casas postquam ac pellis ignemque pararunt,
et mulier coniuncta uiro concessit in unum
cognita sunt, prolemque ex se uidere creatam,
tum genus humanum primum mollescere coepit.
Ignis enim curauit ut alsia corpora frigus
non ita iam possent caeli sub tegmine ferre,
et Venus imminuit uiris, puerique parentum
blanditiis facile ingenium fregere superbum.
Tunc et amicitiem coeperunt iungere auentes
finitimi inter se nec laedere nec uiolari,
et pueros commendarunt muliebreque saeclum,
uocibus et gestu cum balbe significarent
imbecillorum esse aecum misererier omnis.
Nec tamen omnimodis poterat concordia gigni,
sed bona magnaque pars seruabat foedera caste;
aut genus humanum iam tum foret omne peremptum,
nec potuisset adhuc perducere saecla propago (65).

È proprio in questo rapporto primitivo e originario con la materia che gli uomini sviluppano la parte più feconda della loro umanità. I «bestioni» si staccano dalla materia esterna, dalla loro corporeità, non dimenticandole, ma riducendole e addomesticandole. L’intreccio fra questo rapporto originario viene descritto a lungo nelle attività «poetiche» degli «autori delle nazioni» nelle quali il sostrato materialista della tradizione epicurea e lucreziana è ovvio. Ma è forse nell’origine e nello sviluppo delle lingue che questo modello è più attivo e presente. L’affermazione vichiana secondo la quale i primi uomi- ni furono poeti «per natura» (66) rinvia direttamente a questa tradizione. È impossibile esporre la varietà delle prospettive dell’attività poetica dei primi uomini in queste pagine, ma conviene sottolineare la dimensione materiale, anzi corporea, delle lingue originarie: onde tal prima lingua ne’ primi tempi mutoli delle nazioni […] dovette cominciare con cenni o atti o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee (67).
Il corpo non soltanto è un modello, ma la materia attraverso la quale man mano si formano le diverse lingue primitive:
Quello è degno d’osservazione: che ’n tutte le lingue la maggior parte dell’e- spressioni d’intorno a cose inanimate sono fatte con trasporti del corpo umano e delle sue parti e degli umani sensi e dell’umane passioni (68).

Il linguaggio nasce dunque in un rapporto materiale con i corpi, quelli della natura esterna, ma anche con il proprio corpo. L’imitazione immediata, quasi istintiva, meccanica dei corpi, espressione di questo rapporto corpo a corpo fra i primi uomini e la materia, diventa un laboratorio (69) nel quale nascono le diverse «lingue natie»:
Ed esso Giove fu da’ latini, dal fragor del tuono, detto dapprima «Ious»; dal fischio del fulmine da’ greci fu detto Zευς; dal suono che dà il fuoco ove brucia, dagli orientali dovett’essere detto «Ur», onde venne «Urim», la potenza del fuoco; dalla quale stessa origine dovett’a’ greci venir detto ουρανóς il cielo, ed a’ latini il verbo «uro», «bruciare»; a’ quali, dallo stesso fischio del fulmine, dovette venire «cel», uno de’ monosillabi d’Ausonio, ma con prononziarlo con la «ç» degli spa- gnuoli, perché costi l’argutezza del medesimo Ausonio, ove di Venere così bisquit- ta: Nata salo, suscepta solo, patre edita coelo (70).
A guardar bene, ci sono due indicazioni importanti in questo brano. Da una parte, Vico mostra che se «dovettero i primi poeti dar i nomi alle cose dall’idee più particolari e sensibili» (71), ciò significa che questo rapporto sensibile, particolareggiato, con la materia sensibile è all’origine del linguaggio. Il «fischio» del fulmine, il «suono» del fuoco sono materialmente le prime parole imitate, semplici onomatopee dei primi uomini. La seconda indicazione contenuta in questo testo è la diversità delle situazioni in seno alle quali nasce il linguaggio. Vico distingue queste situazioni, elaborando un primo schema tipologico nel quale ogni nazione (latina, greca, spagnola) viene presentata con un rapporto proprio e singolare al linguaggio. La diversità delle lingue si fonda pertanto sulla diversità dei rapporti materiali che ogni nazione ha avuto con il mondo naturale nel quale si sviluppa e si origina. Questo doppio aspetto rinvia direttamente alle teorie del linguaggio sviluppate all’interno della tradizione materialista, in particolare da Epicuro e da Lucrezio (72). Epicuro, nella sua Lettera a Erodoto, stabilisce un legame stretto fra la singolarità dell’esperienza di un popolo particolare e la singolarità della lingua che nasce da questa esperienza unica. In un certo modo, Epicuro riesce a superare il problema della molteplicità delle lingue, della loro diversità, ponendo questa diversità fin dall’inizio, nella diversità materiale delle esperienze linguistiche. È appunto perché ogni popolo ha un’esperienza originaria materiale irriducibile alle altre esperienze  che, fin dall’inizio, la sua lingua è diversa e singolare. Il rapporto con la materia è determinante e dà un’identità ad ogni lingua (73). Il sostrato materiale del nascere delle lingue è ovvio anche nel poema di Lucrezio. Ancora una volta, questi versi famosi offrono un modello diretto a Vico: è «l’utilità», che spinge gli uomini ad articolare le prime parole. Questo fenomeno è evidente nel De rerum natura, a proposito dei bambini che cominciano a parlare:

At uarios linguae sonitus natura subegit
mittere, et utilitas expressit nomina rerum,
non alia longe ratione atque ipsa uidetur
protrahere ad gestum pueros infantia linguae,
cum facit ut digito quae sint praesentia monstrent (74).

e in modo analogo in Vico:
I fanciulli vagliono potentemente nell’imitare, perché osserviamo per lo più tra- stullarsi in assembrare ciò che son capaci d’apprendere. Questa Degnità dimostra che ’l mondo fanciullo fu di nazioni poetiche, non essendo altro la poesia che imi- tazione. E questa Degnità daranne il principio di ciò: che tutte l’arti del necessa- rio, utile, comodo e ’n buona parte anco dell’umano piacere si ritruovarono ne’ secoli poetici innanzi di venir i filosofi, perché l’arti non sono altro ch’imitazioni della natura e poesie in un certo modo reali (75).

Si potrebbero facilmente moltiplicare i testi di Vico che si riferiscono al poema di Lucrezio. Ciò detto, è anche importante sottolineare che questi riferimenti vichiani si danno secondo quella certa logica a cui abbiamo fatto riferimento poco fa. Il fatto di citare Lucrezio non significa che Vico condivida automaticamente gli schemi lucreziani e che ne accetti i principi epistemologici e metafisici. Per Vico, la valutazione di una filosofia dipende dalla sua capacità di rispondere ai problemi che vengono esposti nell’elaborazione della scienza. Il modello materialista, anche se presente nell’economia della Scienza nuova, è proficuo fino ad un certo punto. Il limite non è quello della morale, cioè quello della critica tradizionale indirizzata a questa stessa tradizione, ma quello della scarsa efficienza epistemologica dei principi materialisti nel progetto di una scienza nuova. È appunto nel campo epistemologico, che Vico si oppone maggiormente a questo modello, pur utilizzandolo in un’altra prospettiva secondo i meccanismi di «contrazione» che ci sono noti.

4. La logica dei prestiti: la dialettica tra il «caso» e il «fato»

Come si è detto, l’epicureismo per Vico non è moralmente condannabile, ma epistemologicamente inefficace. Spostando il campo della critica, Vico affronta la tradizione materialista a partire da un punto di vista del tutto nuovo e originale. Questo metodo consente a volte a Vico di riprendere alcuni concetti direttamente dalla tradizione materialista, come ad esempio la «stato ferino», molto vicino, come si detto, allo stato descritto da Lucrezio nel quinto libro del De rerum natura, e che permette a Vico di dar conto del processo di umanizzazione senza far riferimento ai testi sacri. Lo vede benissimo la Chiesa, che concentra la sua critica su quest’aspetto del pensiero vichiano. Lo si vede assai bene nel testo di Gian Francesco Finetti: Difesa dell’autorità della Sacra Scrittura contro G.B. Vico. Dissertazione del 1768 (76), che comincia con un’«Apologia del genere umano accusato di essere stato una volta bestia» (77). Anche alcune letture cattoliche di Vico considerano – a volte in modo molto discutibile – questo «stato ferino» come una semplice assurdità, riducendolo ad una «pura fantasia» da mettere da parte (78). Ciò detto, se leggiamo la critica di Finetti nei particolari, bisogna ammettere che essa non è priva di fondamenti precisi (79)  e che il modello materialista struttura in modo profondo l’insieme dell’economia della Scienza nuova e delle sue ipotesi epistemologiche.
Ma questa logica dei prestiti appare in modo molto significativo nella dialettica che Vico stabilisce fra i due concetti di «caso» e di «fato», che gli permette al tempo stesso di avvicinare le tradizioni epicurea e stoica stabilendo un rapporto del tutto originale e di elaborare un modello politico nuovo. Riassumendo, per il filosofo napoletano, il «caso» simboleggia la tradizione epicurea e il «fato» quella stoica (80). Di fronte a questa doppia tradizione, Vico offre una sintesi delle due dottrine pur integrandole nella sua scienza. Lo scopo di questo lavoro di «contrazione» è di costruire uno schema interpretativo che possa evitare i pericoli del caso e del fato.

Il «caso» è inaccettabile per Vico perché significa che la vita sociale e civile degli uomini non può avere un senso. In effetti, ammettere che il caso possa «reggere ciecamente le cose umane» (81) significa riconoscere che il corpo, le pas- sioni, le «utilità» e «necessità» umane sono la «regola del giusto» e che la comunità degli uomini si fonda su elementi contingenti. Accettare «l’utilità» epicurea, «la quale ad ogni ora si cangia» (82), come principio significherebbe riconoscere l’impossibilità di un’azione politica efficace. In effetti, «gli epicurei, con la loro sempre variante utilità, rovinano il primo e principal fondamento di questa scienza, che è l’immutabilità del diritto naturale delle genti» (83).
Ma limitarsi al «fato» è tanto pericoloso quanto accettare il solo criterio del «caso». Gli stoici, «perché decretano che una fatale necessità trascini tutto, anche l’umano arbitrio» (84), chiudono l’umanità in una «ferrea severità» e rendono vana ogni forma di azione politica. In apparenza, la doppia critica di Vico nei confronti di entrambe le dottrine sembra seguire uno schema classico. Da una parte, si tratta di opporsi al semplice «concorso cieco d’atomi» (85), cioè ad un modello che nega ogni possibilità di una morale fondata. D’altra parte, conviene opporsi ad un sistema che riduce «l’umano arbitrio» ad una «fatale necessità», e che pertanto rende vana ogni morale perché «riducono alla disperazione gli uomini di poter praticare la loro virtù con quella loro massima assai più dura che ferro» (86).

Ma se esaminiamo nei particolari la critica di Vico, si nota che, scartando entrambe le dottrine, cioè il «caso» ed il «fato», il filosofo napoletano non si oppone in realtà a sistemi che rovinano la morale o la rendono inutile, ma critica soprattutto due filosofie che falliscono dal punto epistemologico nella loro interpretazione del processo di socializzazione degli uomini. In altri termini, ancora una volta, la critica vichiana è di tipo epistemologico e non morale. Il problema non è di sapere se queste due filosofie siano moralmente condanna- bili ma di sottolineare le loro debolezze scientifiche ed epistemologiche. Questa prospettiva epistemologica appare con chiarezza nella critica principale che Vico indirizza ai due sistemi, cioè aver trascurato l’idea di provvidenza:
Perciò questa Scienza, per uno de’ suoi principali aspetti, dev’essere una teologia civile ragionata della provvedenza divina. La quale sembra aver mancato finora, perché i filosofi o l’hanno sconosciuta affatto, come gli stoici e gli epicurei, de’ quali questi dicono che un concorso cieco d’atomi agita, quelli che una sorda catena di cagioni e d’effetti strascina le faccende degli uomini (87).
È appunto perché falliscono nel dare principi scientifici efficienti che que- sti sistemi vanno criticati, a differenza dei nuovi principi esposti nella Scienza nuova che danno al «leggitore […] un divin piacere» (88):
Or qui, per quelle pruove divine ch’avvisammo sopra nel Metodo, si rifletta, col meditarvi sopra, alla semplicità e naturalezza con che la provvedenza ordinò queste cose degli uomini, che, per falsi sensi, gli uomini dicevano con verità che tutte facessero i dèi; – e col combinarvi sopra l’immenso numero degli effetti civili, che tutti richiamerannosi a queste quattro loro cagioni, che, come per tutta quest’opera si osserverà, sono quasi quattro elementi di quest’universo civile: cioè religioni, matrimoni, asili, e la prima legge agraria che sopra si è ragionata; – e poi, tra tutti i possibili umani, si vada in ricerca se tante, sì varie e diverse cose abbian in altra guisa potuto aver incominciamenti più semplici e più naturali tra quelli stessi uomini ch’Epicuro dice usciti dal caso e Zenone scoppiati dalla necessità, che né ’l caso gli divertì né ’l fato gli strascinò fuori di quest’ordine naturale (89).
Il fondamento epistemologico che fonda la critica vichiana è chiaro. La Scienza nuova è superiore alle dottrine del «caso» e del «fato» perché, utilizzando il concetto metodologico di provvidenza, permette con «semplicità e naturalezza» «mille pruove». Le due tradizioni epicurea e stoica sono riunite nella loro debolezza euristica, nella loro incapacità di pensare in modo teorico il mondo primitivo degli uomini, ed in modo pratico – perché dottrine per «filosofi solitari o monastici» – di offrire un modello efficace per l’azione politica.
Ciò che però va sottolineato è che Vico, pur criticando entrambe le dottrine del «caso» e del «fato», le riutilizza nel proprio sistema, «contraendole» e dando loro un nuovo significato epistemologico. In altri termini, non sono tanto il «caso» o il «fato» che vengono criticati da Vico quanto la pretesa di queste dottrine di essere esclusive. Tuttavia, contraendole in una sintesi nuova, queste dottrine, false nella loro esclusività, sviluppano un nuovo pote- re metodologico, in grado di spiegare il corso «che fanno le nazioni». Del caso, Vico rifiuta il potere metodologico, che contraddice i requisiti della ragione. La ragione ha bisogno di un filo conduttore nella sua lettura del corso delle nazioni. Ma del caso Vico mantiene la potenza esplicativa materialista, in particolare il ruolo delle passioni, delle «utilità e necessità» umane:
Ma gli uomini, per la loro corrotta natura, essendo tiranneggiati dall’amor proprio, per lo quale non sieguono principalmente che la propria utilità; onde eglino, volendo tutto l’utile per sé e niuna parte per lo compagno, non posson essi porre in conato le passioni per indirizzarle a giustizia. Quindi stabiliamo: che l’uomo nello stato bestiale ama solamente la sua salvezza; presa moglie e fatti figliuoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle famiglie; venuto a vita civile, ama la sua salvezza con la salvezza delle città; distesi gl’imperi sopra più popoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle nazioni; unite le nazioni in guerre, paci, allianze, commerzi, ama la sua salvezza con la salvezza di tutto il gener umano: l’uomo in tutte queste circostanze ama principalmente l’utilità propria (90).

Pur rifiutando i principi materialisti, Vico conserva la loro potenza esplicativa. Il caso non può essere ritenuto il fondamento dell’umanità, ma costituisce un ottimo modello epistemologico dinamico – una volta integrato nel sistema vichiano – che può rendere conto del corso delle nazioni. Analogamente è affrontata la dottrina stoica. Da una parte, Vico respinge l’idea di un ordine assoluto che neghi la libertà umana, che sopprima il ruolo positivo delle passioni. D’altra parte, Vico conserva però l’idea di un ordine, di un progresso razionale, di una finalità, anche se adesso questa finalità non è più quella reale degli stoici, ma una semplice cornice cognitiva, quella epistemologica dello scienziato impegnato a capire la dinamica del corso delle nazioni.
Di fronte a queste dottrine, Vico utilizza lo stesso schema di «contrazione». La tradizione epicurea è interessante nella misura in cui consente di mostrare l’importanza delle passioni, delle «utilità» umane nel corso della storia. In modo analogo, Kant cercherà di sottolineare il ruolo del conflitto e della discordia nel processo di costituzione di un ordine regolato dalla legge nell’Idea di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico. Ma la tradizione stoica è interessante, nella lettura che ne fa Vico, anche nella misura in cui permette di controllare queste utilità e di mostrare che seguono un corso determinato. Queste due dottrine, inserite nel progetto vichiano di una scienza nuova, si controllano a vicenda. Vico, confrontando queste due filosofie, ne offre una sintesi del tutto nuova, epistemologicamente efficace. Le due tradizioni confluiscono in un nuovo schema, quello problematico della «storia ideale eterna».
Di solito, si parla della tradizione epicurea in Vico perché non se ne può fare a meno, ma sempre negandole ogni vera influenza sul suo pensiero. Ritengo al contrario che questa tradizione sia centrale nella costituzione dei modelli epistemologici che man mano vengono definiti nelle diverse versioni della Scienza nuova. Vico non si contenta di recepire in modo passivo questa tradizione, ma la «contrae» assimilandola al proprio sistema filosofico. Il rapporto con questa tradizione è dinamico, in particolare con Lucrezio che gli offre modelli politici e retorici. In questa prospettiva, se non possiamo soltanto ridurre il pensiero vichiano a questa tradizione, in particolare per le modificazioni che apporta alle dottrine materialiste che riprende, bisogna tuttavia riconoscere che la Scienza nuova è forse un’eco fondamentale di questa tradizione nella modernità del pensiero politico.

                                                                                                                                                                                                                  

                                                                                                                                                                                                                                                                  Note:

1     Fa eccezione a questo riguardo il bello, ma ormai vecchio studio di E. Paci, Ingens Sylva, Milano, Bompiani, 1994 [1949].

2    G.B. Vico, Vita, in Opere, a cura di A. Battistini, Milano, Mondadori, 1990, p. 15.

3    Naturalmente non mancano i rapporti fra Galileo e Cartesio, più precisamente fra queste due tradizioni, filosofiche. È nota l’ostilità galileiana nei confronti di Cartesio, com’è nota la volontà di Cartesio di far finta che Galileo non esistesse. Questa diffidenza reciproca appare anche nelle rispettive fortune di entrambi gli autori. Basti ricordare Torricelli, discepolo di Galileo, che rifiutò a lungo la lettura dei testi cartesiani. Si potrebbe anche fare riferimento agli studi critici, e ricordare per esempio lo studio, ormai superato, di Berthé de Besaucèle (Les Cartésiens d’Italie. Recherches sur l’influence de la philosophie de Descartes dans l’évolution de la pensée italienne aux XVIIe et XVIIIe siècle, Paris, Auguste Picard, 1920) nel quale Galileo viene presentato come una mente confusionaria, incapace di elaborare un vero pensiero metafisico, e nel quale il cartesianesimo appare come l’unico autentico momento di modernità filosofica e scientifica in Italia. Naturalmente, sarebbe riduttivo fermarsi a questa ostilità rinnovata attraverso i discepo- li ed i secoli: non manca un pensiero metafisico in Galileo, in particolare quello che rende conto della struttura matematica della natura. Allo stesso modo si potrebbe ricordare che il pensiero di Cartesio viene accolto in Italia sopratttutto nella sua dimensione scientifica (cfr. su questo punto gli studi di G. Micheli, Le «Discours de la méthode» et la science car- tésienne chez les scientifiques italiens du XVIIe siècle, di L. Pepe, La réception de la «Géométrie» en Italie (1637-1748) e di E. Giancotti, Philosophie et méthode de la philo- sophie dans les polémiques sur Descartes entre le XVIIe  et le XVIIIsiècle, in Problématique et réception du «Discours de la méthode» et des «Essais», textes réunis par H. Méchoulan, Paris, Vrin, 1988, rispettivamente pp. 153-169, pp. 171-178 e pp. 283-299). Sono gli scienziati a vedere per primi nel cartesianesimo un pensiero innovatore, prima di tutto nel campo della fisica e della biologia, ad esempio M. Fardella, T. Cornelio – personaggio interessantissimo anche dal punto di vista di un’indagine sul materialismo – fondatore nel 1663 a Napoli dell’Accademia degli Investiganti. La metafisica cartesiana viene di solito rigettata, sia da una prospettiva teorica, perché si considera un fallimento il tentativo cartesiano di distinguere due sostanze, la res cogitans dalla res extensa, sia perché, più semplicemente, l’impresa del dubbio metodico viene sottovalutata nella sua radicalità ontologica e metodologica. Su questi temi la bibliografia è assai ampia: cfr., ad esempio, la sintesi di C. Manzoni, I cartesiani italiani (1660-1760), Udine, La Nuova Base, 1984, o, più recente, ed in una prospettiva più problematica, il saggio di A.M. Damiani, Giambattista Vico: la ciencia anticartesiana, Buenos Aires, Almagesto, 2000. Per una ricostruzione circostanziata della scienza napoletana nel Seicento, è di notevole rilevanza N. Badaloni, Introduzione a G.B. Vico, Milano, Feltrinelli, 1961. Si può anche consultare la raccolta di studi Dalla scienza mirabile alla «Scienza nuova». Napoli e Cartesio, Napoli, Biblioteca Nazionale di Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 1997.

4    Su questo aspetto, cfr. G. Maugain, Étude sur l’évolution intellectuelle de l’Italie de 1657 à 1750 environ, Paris, Hachettte, 1909, p. 123 sgg.

5    Cfr. E. Garin, Dal Rinascimento all’illuminismo, Firenze, Le Lettere, 1993 [1970], in par- ticolare il cap. III.

6    Cfr. S. Gambino Longo, Savoir de la nature et poésie des choses. Lucrèce et Épicure à la Renaissance italienne, Paris, Honoré Champion, 2004; Id., Corriger Aristote par Lucrèce. La physique épicurienne à travers l’aristotélisme renaissant, «Cahiers Philosophiques» 83 (2000), pp. 33-49; Id., Alberti lettore di Lucrezio. Motivi lucreziani nel «Theogenius», «Albertiana» 4 (2001), pp. 69-84.

7     Su questo meccanismo, cfr. E. Garin, Il ritorno dei filosofi antichi, Napoli, Bibliopolis, 1983; P.-F. Moreau (éd), Le retour des philosophies antiques à l’âge classique: Le stoïcisme au XVIe et au XVIIe siècle, Paris, Albin Michel, 1999; Id., Le scepticisme au XVIe et au XVIIe siècle, Paris, Albin Michel, 2001; P.-F. Moreau et A. Deneys-Tunney (éds), L’épicurisme des Lumières, numéro spécial de la «Revue Dix-Huitième Siécle», Paris, 2003.

8    Sul rapporto fra Vico e Gassendi, cfr. il bell’articolo di G. Paganini, Vico et Gassendi: de la prudence à la politique, in Gassendi et l’Europe, études réunies par S. Murr, Paris, Vrin, 1997, pp. 347-367.

9    Lettre d’Antoine Arnaud à M. de Vaucel (1691), in Lettres de Messire Antoine Arnauld, Docteur de la Maison et Société de Sorbonne. Tome troisième. À Paris, MDCCLXXV, pp. 395-396, citato da G. Maugain, in Étude sur l’évolution intellectuelle de l’Italie cit., p. 132.

10     Si trova un’eco di questa fortuna di Gassendi a Napoli tra l’altro nei testi di P. Giannone, per esempio nella sua Istoria Civile del Regno di Napoli: «Aveano in Francia le Opere di Pietro Gassendo acquistata grandissima fama, così per la sua molta erudizione, ed elo- quenza, come per aver fatta risorgere la Filosofia d’Epicuro, la quale al paragone di quel- la d’Aristotele, e spezialmente di quella insegnata nelle Scuole, era riputata la più soda, e la più vera. Si procurò farle venire in Napoli, e quando furono lette, fu incredibile l’amor de’ giovani verso questo Scrittore, presi non men dalla sua dottrina, che dalla grande, e varia letteratura; onde in breve tempo si fecero tutti Gassendisti; e questa filosofia era da’ nuovi filosofanti professata; ed ancorchè Gassendo vestisse la filosofia d’Epicuro con abiti conformi alla religion cattolica, che professava, nulladimeno, poiché il maggior sostenito- re di quella era Tito Lucrezio Caro, si diede con ciò occasione a molti di studiar questo Poeta infin a que’ tempi incognito, e sol a pochi noto», t. IV, Palmyra, MDCCLXIII, pp. 120-121, citato da G. Maugain, in Étude sur l’évolution intellectuelle de l’Italie cit., p. 131.

11     G.B. Vico, Vita cit., pp. 18-19.

12     Cfr. L. Osbat, L’Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti (1688-1697), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1974. Si trova una presentazione sintetica dell’ambiente napoletano nello studio di S. Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, Messina-Firenze, D’Anna, 1965.

13     G.B. Vico, Vita cit., p. 19.

14    Ibidem.

15     Ibidem.

16     Ibidem. Si possono trovare altri brani nei quali si dà una valutazione della tradizione epi- curea, per esempio nel De antiquissima italorum sapientia: «Elegantia duûm horum ver- borum animus et anima, quod anima vivamus, animo sentiamus, tam scita est, ut T. Lucretius eam veluti in Epicuri hortulo natam vindicet suam» (G.B. Vico, Opere filosofi- che, a cura di P. Cristofolini, Firenze, Sansoni, 1971, p. 105).

17     Su questo aspetto, si vedano le osservazioni sempre utili di F. Nicolini, La giovinezza di Giambattista Vico, Bologna, Il Mulino, 1992 [1932], p. 65 e sgg.

18     Cfr. G.B. Vico, Lettera al padre Giacco del 12 ottobre 1720 in Epistole con aggiunte le epi- stole dei suoi corrispondenti, a cura di M. Sanna, Napoli, Morano, 1992, p. 89.

19    F. Nicolini, La giovinezza di Giambattista Vico cit.

20    Cfr. A. Corsano, Umanesimo e religione in G.B. Vico, Bari, Laterza, 1935; Id., G.B. Vico, Bari, Laterza, 1956.

21     Cfr. F. Vaughan, The Political Philosophy of Giambattista Vico. An Introduction to «La Scienza nuova», The Hague, M. Nijhoff, 1972.

22    Sul problema dell’autobiografia, cfr. A. Battistini, Lo specchio di Dedalo. Autobiografia e biografia, Bologna, Il Mulino, 1990; Id., «I topoi autobiografici della Vita di Vico», in La sapienza retorica di Giambattista Vico, Milano, Guerini e Associati, 1995, pp. 39-62. Cfr. anche il bellissimo studio di J. Trabant, Ingegno e paternità, in S. Gensini e A. Martone (a cura di) Ingenium propria hominis natura, Napoli, Liguori, 2002, pp. 265-279.

23    Sul meccanismo di «contrazione», cfr. E. Nuzzo, Vico e «l’Aristotele pratico»: la medita- zione sulle forme «civili» nelle «pratiche» della «Scienza nuova prima», in «Bollettino del Centro di Studi Vichiani» 14-15 (1984-1985), p. 65. Cfr. anche l’approccio di E. Paci: «l’at- teggiamento sincretistico-universalistico del pensiero vichiano rende certo assai difficile lo studio delle correnti di pensiero e delle filosofie che hanno direttamente influenzato la filo- sofia di Vico. La struttura del suo pensiero e della sua mentalità è tale che egli da una modesta espressione di una filosofia ricostruisce e ripete quella filosofia, a volte abbandonandosi al suo geniale confusionismo, altre ripetendo in sé posizioni di pensiero che già si erano presentate nella storia dell’umanità e ciò senza che l’influenza di quelle posizioni abbia, in realtà, direttamente agito su di lui» (E. Paci, Ingens sylva cit., pp. 25-26).

24    Abbiamo cercato di mostrare questo meccanismo di contrazione all’opera di fronte all’u- manesimo e al cartesianesimo, cfr. P. Girard, La difficulté de la philologie dans la pensée de Vico, in S. Caianiello e A. Viana (a cura di), Vico nella storia della filologia, Napoli, Guida, 2004, pp. 117-138.

25    G.B. Vico, Vita cit., pp. 29-30, 44-45.

26    G.B. Vico, Scienza nuova del 1744, § 131 d’ora in avanti soltanto Sn44.

27    Questo approccio si inserisce nella riflessione e nelle diverse discussioni che ho avuto con André Tosel, Jean Salem e Paolo Cristofolini su questo punto.

28    Sn44, § 130.

29    G.B. Vico, Vita cit., p. 15.

30    Ibidem.

31     Ibidem.

32    Sn44, § 131.

33    Sn44, § 129.

34    Sn44, § 340.

35    Lettera di G.B. Vico a Francesco Saverio Estevan del 12 gennaio 1729, Epistole cit., p. 146.

36    Sn44, § 1106.

37    Lettera di G.B. Vico a Francesco Saverio Estevan del 12 gennaio 1729, Epistole cit., p. 147.

38    Ivi, p. 144.

39    Sn44, § 1106.

40    Sn44, § 241.

41    Sn44, § 524. Si veda anche il § 692.

42    Questa attenzione vichiana al corpo, alla padronanza delle passioni, è qui assai vicina al modello epicureo dell’atarassia che si fonda sulla tranquillità dell’anima, tranquillità resa possibile da una padronanza assoluta dei desideri e delle passioni corporee. Si veda ad esempio la Lettera a Meneceo.

43    Sn44, § 340.

44    Si potrebbe completare questo meccanismo di sintesi nel pensiero vichiano, mostrando per esempio il modo con il quale Vico si oppone al modello cartesiano, al criterio di veri- tà del «chiaro» e del «distinto», pur conservando l’esigenza, più volte ribadita nel corso della Scienza nuova, di scientificità.

45    Sn44, § 13.

46    Sn44, § 504.

47    Sn44, § 369.

48    Sn44, § 504.

49    Sn44, § 504.

50    De rerum natura, V, 953-965.

51     De rerum natura, V, 1091 e sgg.; VI, 219 e sgg, 379 e sgg.

52    De rerum natura, V, 1091-1101.

53    Sn44, § 377.

54    Sn44, §§ 170, 195, 369.

55     De rerum natura, V, 925-932.

56    Sn44, §§ 333, 337.

57     Sull’importanza del lavoro nel pensiero vichiano, si vedano le bellissime analisi di Ernesto Grassi, in Humanismus und Marxismus. Zur Kritik der Verselbständigung von Wissenschaft, Hamburg, Rowohlt, 1973 (cap. V).

58    Sn44, § 14. Cfr. A. Pons, Vico, Hercule et le «principe héroïque» de l’histoire, «Les Études Philosophiques» 4 (1994), pp. 489-505.

59    Sn44, § 14.

60    Sn44, § 13.

61    Sn44, § 13.

62    Questa espressione è ricorrente nelle diverse versioni della Scienza nuova. Per esempio, nella versione del 1725, «ridussero le fiere all’umanità» (Sn25, § 122). Si vedano anche i paragrafi  377,  487,  488.  Allo  stesso  modo,  nella  versione  del  1744,  Vico  allude  a «quest’Orfeo, che riduce le fiere di Grecia all’umanità» (Sn44, § 79).

63    Sn44, § 80.

64    Sn25, §§ 332, 344, 421; Sn44, §§ 3, 4, 14, 17, 248, 486, 539, 734.

65    De rerum natura, V, 1011-1027.

66    Sn44, § 214: «i primi poeti furono per natura».

67    Sn44, § 401. Si veda anche il paragrafo 225.

68    Sn44, § 405

69    Cfr. J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia di Vico, tr. it. di D. Di Cesare, Roma-Bari, Laterza, 1996, in particolare il cap. III.

70    Sn44, § 447.

71     Sn44, § 406.

72    Sul problema del linguaggio, si veda lo studio di G. Rodis-Lewis, Épicure et son école, Paris, Gallimard, 1975, pp. 304-318. Si trovano anche bellissime pagine sul rapporto fra il linguaggio e il diritto in Lucrezio nel saggio di J. Salem, «La mort n’est rien pour nous». Lucrèce et l’éthique, Paris, Vrin, 1990, pp. 206-215.

73    Cfr. Lettera ad Erodoto, 75.

74    De rerum natura, V, 1028-1032.

75     Sn44, §§ 215-217. Si ritrova spesso in Vico questo modello fecondo dell’infanzia per capi- re il mondo dei «fanciulli del nascente gener umano» (Sn44, § 4). Si vedano ad esempio nella Sn44 i paragrafi 206, 211, 212, 231, 413.

76    G.F. Finetti, Difesa dell’autorità della Sacra Scrittura contro G. B. Vico. Dissertazione del 1768, a cura di B. Croce, Bari, Laterza, 1936.

77    Ivi, p. 1.

78    Per esempio, Emilio Chiocchetti scrive: «Non ci attardiamo a confutarne oltre il concetto [quello di «stato ferino»], a dissipare l’immagine fantastica – poiché si tratta di pura fan- tasia – basti averne affermato l’assurdità», (E. Chiocchetti, La filosofia di G. B. Vico. Saggi, Milano, Vita e pensiero, 1935, pp. 170-171).

79    G. De Miranda e P. Scaramella hanno mostrato di recente l’ostilità della Chiesa nei con- fronti delle tesi vichiane. Si veda a proposito il bellissimo resoconto di queste ricerche scritto da De Miranda: «Nihil decisum fuit». Il Sant’Ufficio e la Scienza nuova di Vico: un’irrealizzata edizione patavina tra l’imprimatur del 1725 e quello del 1730, «Bollettino del Centro di Studi Vichiani» 28-29 (1998-1999), pp. 5-70.

80    Sn25, § 12; Sn44, §§ 5, 130, 335, 342, 345, 630, 1109.

81    Sn25, § 12.

82    Sn25, § 12.

83    Sn25, § 12.

84    Sn25, § 12.

85    Sn44, § 342.

86    Sn25, § 12.

87    Sn44, § 342.

88    Sn44, § 345.

89    Sn44, § 630.

90 Sn44, § 341.