La questione del valore in Lukács: genesi e autenticità
di
ANA SELVA CASTELO BRANCO ALBINATI
Tra le questioni che hanno guidato lo sforzo teorico di Lukács la preoccupazione etica occupa un posto centrale. La critica al modo di vita umanamente svuotato della socialità borghese ha portato il filosofo ungherese ad analizzare i vari aspetti della vita sociale che, nella loro in- tersezione, convergono verso l’intenzione fondamentale di comprendere l’essere sociale nella sua totalità, e, a partire da questa comprensione, permettono un corretto inquadramento del fenomeno della moralità. Anche se Lukács non ha portato a termine alcun lavoro su questo tema, ci ha lasciato un’analisi dei valori, della loro genesi e della loro funzione che può servire da fondamento per superare le difficoltà e i dilemmi storico-filosofici intorno all’origine, alla natura e all’autenticità dei valori.
Il percorso intellettuale di Lukács è stato segnato da alcune svolte, in particolare da quella che segna il passaggio da un pensiero giovanile in linea con le scienze dello spirito dell’inizio del secolo XX all’adesione al pensiero marxista. Se il primo momento della sua produzione è caratterizzato da una visione disperata della realtà, percepita attraverso la dualità insormontabile tra la sfera dei valori e la concretezza della vita sociale, il momento successivo all’adesione al marxismo si caratterizza, sempre più, per il tentativo di chiarire le connessioni reali tra la vita pratica e tutte le espressioni ideali che la rendono intelligibile. L’adesione di Lukács al marxismo avviene in opposizione teorico-pratica ad un’impostazione epistemologica conservatrice, accusata, con le sue categorie astratte, di paralizzare il marxismo stesso. È in questo contesto che nasce l’analisi dei valori. Lukács riflette sul dualismo di vita pratica ordinaria e sfera dei valori spirituali, di universalità o relatività dei valori, sulla questione dell’oggettività o della soggettività dei valori, sul problema dell’incoerenza dei valori, e pone questo complesso di questioni all’interno del punto di vista di una concezione marxista della vita sociale.
Ciò significa che la questione dei valori in Lukács può essere compresa soltanto a partire dal suo recupero del pensiero di Marx inteso come base teorica di una ontologia dell’essere sociale – ricerca a cui Lukács ha dedicato l’ultimo decennio della sua vita. Si tratta di un’impostazione nuova del problema rispetto al punto di partenza della riflessione lukacsiana, di origine neo- kantiana, in cui la sfera della morale finiva per presentarsi in modo autonomo e si contrapponeva alla realtà delle relazioni umano-sociali. Nella sua autobiografia, Lukács si riferisce a questo momento parlando di un «mutamento dell’intero modo di vivere» che implicava, soprattutto, una visione assolutamente diversa dell’etica: «non più divieto // tenersi lontano // da tutto ciò che la propria etica condanna come peccaminoso, ma equilibrio dinamico della prassi, in cui il peccaminoso // (nel dettaglio) // può diventare talvolta componente inevitabile dell’agire giusto»(1).
Si trattava cioè di passare da un’etica della convinzione ad una posizione di equilibrio rispetto ad un’etica della responsabilità, tema affrontato nel 1923 in Storia e coscienza di classe, l’opera che segna l’adesione di Lukács al marxismo.
Lukács rileverà però più avanti in questo libro la presenza di residui idealistici, che si esprimevano in una sorta di attivismo etico-formale rispetto alle questioni etiche formulate in una prospettiva rivoluzionaria. S’impegnerà perciò, in vista di una più accurata comprensione del fenomeno etico, ad un chiarimento delle categorie sociali.
Il riconoscimento del carattere ontologico delle determinazioni marxiane è ciò che ha con- sentito a Lukács di parlare di una «rinascita del marxismo», o, in altre parole, «l’ontologia dell’essere sociale ha costituito, per lui, il registro che deve presiedere al ritorno del significato originario dell’opera marxiana» (2). La necessità di un’ontologia dell’essere sociale è un prerequisito imprenscindibile al fine di estrarre i principi più generali di un’etica intesa come comprensione degli elementi coinvolti nella determinazione dei valori morali e della volontà. A questo proposito, osserva Tertulian:
La considerazione delle determinazioni del processo storico-sociale, delle esigenze della riprodu- zione sociale, era, ai suoi occhi, la condizione necessaria per elaborare un’etica. «Keine Ethik ohne Ontologie» scriveva, sotto forma di programma, nei suoi appunti. Ciò che Max Weber considerava, da parte del suo giovane amico, un «mezzo-giro» o una deviazione, oppure l’abbandono delle esigenze etiche fondamentali, era, in realtà, in Lukács, uno sforzo non sottostimabile d’integrare l’assoluto nella realtà, di ancorare la morale alla storia – un progetto che cercherà di realizzare per tutta la vita (3).
La pietra angolare di un’ontologia dell’essere sociale è, per Lukács, il lavoro, definito come l’attività in cui si dà il porre teleologico primario, che differenzia gli ambiti del naturale e del sociale. Primario, in quanto è la forma ibrida di un rapporto tra socialità e natura. Se il lavoro è condizione essenziale e ineliminabile dello scambio tra uomo e natura, Lukács individua, a partire dalle considerazioni di Marx, il lavoro come il prototipo di ogni attività umana, nella misura in cui inaugura l’essere sociale:
Seguendo Marx, io mi rappresento l’ontologia come la vera filosofia basata sulla storia. Ora, storicamente è indubbio che l’essere inorganico viene per primo e che da esso – come, non lo sappiamo, ma quando, all’incirca lo sappiamo – viene fuori l’essere organico con le sue forme vegetali e animali. Da questo stato biologico viene fuori successivamente, attraverso passaggi estremamente numerosi, quel che noi designiamo come essere sociale umano, la cui essenza è la posizione teleologica degli uomini, cioè il lavoro. Questa è la categoria nuova più decisiva, perché comprende in sé tutto (4).
L’atto teleologico, nel momento del lavoro, fonda la specificità dell’essere sociale. Si ha qui la genesi ontologica della libertà, che appare per la prima volta nella realtà come alternativa all’interno del processo del lavoro. Come indica Lukács, questa alternativa si pone nell’atto del lavoro in vista del riconoscimento della legalità naturale, della migliore conoscenza possibile del processo causale dell’oggetto naturale. Il «porre teleologico primario» è quello direttamen- te coinvolto nel processo del lavoro, nella trasformazione degli oggetti naturali. Il lavoro è inteso come il prototipo delle relazioni sociali poiché è nel processo di lavoro che si verifica la configurazione appropriata tra causalità e porre teleologico. A partire dalla complessificazione dell’esistenza sociale e del lavoro che è sempre più sociale, si ha però l’amplificazione della sfera delle posizioni teleologiche secondarie, che non riguardano direttamente la sfera produttiva, ma le interazioni più specificamente sociali tra gli individui. In quanto posizioni teleologiche, esse comportano sempre la decisione tra alternative, ma ora ad un livello di minore prevedi- bilità, poiché «sono volte al cambiamento del comportamento degli uomini, destinate cioè a provocare ulteriori posizioni teleologiche» (5).
Lukács determina la piattaforma ontologica della vita spirituale, che si realizza a partire da valori che determinano le scelte individuali. Tali valori sono relativi alle posizioni teleologiche secondarie. Pur riconoscendo e sottolineando l’immensa complessità che contraddistingue le azioni in questo ambito delle relazioni umane, Lukács ne offre un chiarimento, ponendo a loro fondamento la loro genesi nel lavoro e la forma determinata che esse assumono all’interno della riproduzione della vita sociale.
La considerazione del lavoro come prototipo di altre relazioni sociali dipende dal riconoscimento degli elementi comuni che sorgono dalle decisioni a qualsiasi livello di complessità: il riconoscimento della casualità e del porre teologico. Ciò non significa la riduzione di tutte le forme d’interazione sociale al livello primario del lavoro, e in questo senso Lukács mette l’accento sulla peculiarità delle mediazioni delle interazioni secondarie – peculiarità che comporta sia una definizione molto meno precisa dell’aspetto causale, sia una minore capacità di control- lo del processo innescato a partire dall’atto teleologico.
Ciò che è opportuno evidenziare in questo procedimento, e che ci sembra perfettamente in sintonia con il pensiero di Marx, è il trattamento che questo approccio ontologico consente di dare alla questione della libertà. Lukacs si discosta definitivamente da una considerazione astratta di libertà. La libertà nelle relazioni sociali, così come nel lavoro, si colloca all’interno della relazione più originaria e ineliminabile tra il riconoscimento della casualità e il porre teleologico dei soggetti sociali. Così:
Teleologia e causalità sono non, come appariva finora nelle analisi gnoseologiche o logiche, prin- cipi che si escludono a vicenda nel corso dei processi, nell’esserci e nell’esser-cosí delle cose, ma invece principi reciprocamente eterogenei, certo, che tuttavia, nonostante la loro contraddittorietà, solo in comune, in una coesistenza dinamica indissociabile, costituiscono il fondamento ontologico di determinati complessi dinamici, complessi che sono ontologicamente possibili soltanto nell’ambito dell’essere sociale; ed è questa loro attiva coesistenza che forma la caratteristica prima di questo grado dell’essere (6).
Tutte le pratiche sociali, per quanto complesse esse siano, si fondano su questa relazione tra causalità e teleologia. La nozione astratta di libertà cede qui il passo alla comprensione della libertà come decisione soggettiva individuale di fronte a questa relazione, come tentativo di far valere determinate posizioni teleologiche future. La questione della genesi del valore può perciò essere esaminata solo a partire dal delineamento di un’ontologia dell’essere sociale determinata attraverso la propria genesi nel lavoro. Lukács aiuta a superare così la dicotomia tra la sfera dei valori morali ed estetici considerati come superiori – e, anzi, come il vero luogo dell’umano – e la vita pratica quotidiana basata sull’eterna necessità del lavoro, e del lavoro socialmente determinato. Lukács rinvia ciò che era ineffabile e puro nel regno delle idealità alla sua genesi ontologica, al fine di rendere esplicite le relazioni occulte che si stabiliscono all’interno dell’essere sociale:
Da questa condizione ineliminabile dell’uomo che vive in società possiamo ricavare tutti i problemi reali – ovviamente tenendo conto che, in situazioni più complicati, questi sono più complicati – di quel complesso che siamo abituati a chiamare di libertà. Senza andare oltre la regione del lavoro in senso stretto, possiamo soffermarci sulle categorie del valore e del dover essere. La natura non cono- sce nessuna delle due categorie. Nella natura inorganica, i cambiamenti di un modo di essere per un altro non ha evidentemente nulla a che vedere con i valori. Nella natura organica, dove il processo di riproduzione significa ontologicamente l’adattamento all’ambiente, si può già parlare di esito o di fallimento, ma anche questa opposizione non supera – proprio da un punto di vista ontologico – i limiti di un mero-essere-in-altro-modo. Completamente diversa è la situazione quando abbiamo a che fare con il lavoro. La conoscenza in generale distingue abbastanza chiaramente tra l’essere in-sé, og- gettivamente esistente, degli oggetti, da un lato, e, dall’altro, l’essere-per-noi, semplicemente pensato, che questi oggetti acquisiscono nel processo conoscitivo. Nel lavoro, al contrario, l’essere-per-noi del prodotto diventa una sua proprietà oggettiva realmente esistente, e si tratta proprio di quella proprietà in virtù della quale il prodotto, se posto e realizzato correttamente, può svolgere le proprie funzioni sociali. Così, il prodotto del lavoro ha quindi un valore (in caso di fallimento, è privo di valore, è un disvalore). Soltanto l’oggettivazione reale dell’essere-per-noi fa sì che possano realmente nascere dei valori. E il fatto che i valori, ai livelli più alti della società, assumano forme più spirituali, è un fatto che non elimina il significato fondamentale di questa genesi ontologica (7).
Il valore si riferisce a ciò che è auspicabile in quanto essere-per-noi. Questo chiarimento, che potrebbe sembrare banale, assume un significato del tutto diverso, poiché colloca nel la- voro l’ambito in cui sorge qualcosa di nuovo, sconosciuto in altre forme di essere. È soltanto nell’essere sociale, nell’interrelazione tra la coscienza che colloca un porre ideologico e la natura minimamente conosciuta nelle sue connessioni causali, che appare l’essere per-noi. Il valore, in questo significato, è presente nel prodotto come idealità oggettivata, ma implica anche un’oggettività senza la quale il valore stesso non si realizzerebbe, né potrebbe essere posto. In tal modo, Lukács pone sì a tema il dualismo del carattere oggettivo o soggettivo dei valori, ma ponendosi in una posizione di superamento di questa impasse, nella misura in cui riconosce l’oggettività come un valore potenziale, posto in atto da una coscienza che subordina la casualità naturale ad un telos:
Indubbiamente il valore non è possibile trarlo per via diretta dalle proprietà naturali di un oggetto. Ciò è subito evidente quando consideriamo le forme superiori del valore. Né occorre rifarsi per forza a valori «spiritualizzati» come quelli estetici o etici; già all’inizio dei rapporti economici degli uomini, al momento in cui sorge il valore di scambio, Marx ne mette in rilievo, come a suo tempo abbiamo mostrato, l’essenza non naturale: «Finora nessun chimico ha ancora scoperto valore di scambio in perle o diamanti» (8).
Il valore è una categoria sociale, sconosciuta nelle sfere naturali. E questo si verifica già nelle forme più ordinarie di valore, nel valore d’uso, nella cui genesi diviene chiara la mediazione di soggettività e oggettività attraverso il lavoro. La categoria dell’utilità non si ricava dalla natura, non è un attributo naturale, ma sorge dalle relazioni tra gli individui in una situazione sociale determinata, per il fatto che il significato di ciò che è utile accompagna le trasformazioni sociali.
L’analisi di Lukács intende contrapporsi qui alle espressioni filosofiche che attribuiscono alla natura un senso teleologico a partire dalla comprensione di una intelligenza creatrice. D’altra parte, si preoccupa anche di rispondere all’interpretazione contraria, antireligiosa, che, rifiutando un senso oggettivo di carattere transcendente, enfatizza la soggettività come donatrice di ogni significato e di ogni valore, svuotando il polo dell’obiettività. Secondo questa prospettiva, si ha che l’atto di valorizzazione è del tutto indipendente dalle caratteristiche oggettive degli esseri in sé. A questo proposito, Lukács ribadisce che se il valore non viene ricavato in modo naturale dall’oggettività, esso si stabilisce nella transitività tra soggettività e oggettività, e così anche la posizione soggettivistica circa l’origine del valore è squalificata:
Il valore d’uso, quindi, non sorge come semplice risultante di atti soggettivi, valutativi, ma invece questi si limitano a portare alla coscienza l’ utilità oggettiva del valore d’uso; è la natura oggettiva del valore d’uso che prova la giustezza o erroneità loro, non viceversa (9).
Questa premessa ontologica resta valida per le forme più spirituali delle relazioni umane, il valore si realizza cioè nell’agire che, a sua volta, presuppone un’oggettività sociale data. Il valore, per realizzarsi, necessita di una sostanzialità sociale, che costituisce il terreno dell’atto stesso che stabilisce i valori. In linea con l’opera marxiana, Lukács sottolinea nella sua analisi il carattere storico della sostanza sociale, dalla quale derivano le espressioni ideali, sottolinea cioè il carattere sociale del valore e del dover-essere. Essi non presentano una razionalità tra- scendentale, né sono frutto di un argomento razionale, a meno che questo non sia inteso come fondato sulla sostanzialità sociale concreta. Il contenuto del dover-essere si riferisce ad una configurazione sociale data, che, per riprodursi, pone determinate finalità in relazione al com- portamento degli individui sociali.
L’analisi lukacsiana potrebbe, a questo punto, essere confusa con la prospettiva utilitaristica. Vi è certo il riconoscimento dell’utilità come categoria centrale nella creazione del valore, il valore si riferisce cioè a ciò che è auspicabile, e questo mantiene una stretta relazione con ciò che è utile, sia al livello più ristretto delle situazioni individuali, sia nell’ambito più ampio della ri- produzione sociale. Ciò non significa tuttavia un accoglimento dell’utilità acriticamente astratta dalle condizioni empiriche dell’esistenza umano-sociale. Il rinvio al piano ontologico dal quale sgorgano i valori non significa la capitolazione empiristica alle condizioni della riproduzione sociale. In questo senso, ciò che è utile trascende l’empiria e si colloca al livello più elevato dei reali bisogni dell’uomo. In altre parole, la posizione lukacsiana non riduce il comportamento etico alla dimensione meschina di un comportamento volto a fini utilitaristici immediati, ma, al contrario, svolge un’indagine che cerca l’origine delle categorie sociali che sostengono l’azione umana a partire dal loro ancoraggio ontologico, e che comporta una dimensione di trascendenza a partire dall’immanenza, dal riconoscimento dell’attività sensibile degli individui intesa come creatrice di significato e di possibilità di trasformazione.
Lukács si contrappone così alle filosofie idealistiche che, trascurando la relazione tra le istanze della vita sociale, autonomizzano la sfera della moralità, intendendo accentuare il ruolo del polo della coscienza sul polo della necessità. Così, la morale appare contrapporsi alle attività della vita sociale:
Quando però le filosofie idealistiche vogliono vedervi un dualismo, in genere contrappongono le funzioni coscienziali dell’uomo (in apparenza) puramente spirituali, del tutto staccate (in apparenza) dalla realtà materiale, al mondo del mero essere materiale. Nessuna meraviglia, allora, che il terreno della vera attività dell’uomo, del suo ricambio organico con la natura, dal quale egli nasce e che egli mediante la sua prassi, anzitutto mediante il suo lavoro, sempre più domina, che questo terreno perda di valore, che l’attività umana concepita come l’unica autentica cada ontologicamente dal cielo bella e pronta, venga presentata come «sovratemporale», «atemporale»”, come mondo del dover-essere in antitesi con l’essere (10).
Il pensiero idealista non sarebbe in grado di stabilire le relazioni ontologiche reali, nella mi- sura in cui inverte l’ordine determinante, dando primato ed autonomia all’istanza delle espres- sioni ideali. Sostiene in questo modo artificiale una sfera del dover-essere auto-generatasi, po- sta astrattamente al di sopra della realtà delle relazioni sociali, e incapace di percepirsi come momento d’intelligibilità di questa stessa realtà. Il punto culminante di questa assolutizzazione della ragione si trova nella filosofia morale di Kant, nella quale
Il dover-essere si presenta in tal modo –soggettivamente e oggettivamente – come distaccato dalle alternative concrete degli uomini; alla luce di questa assolutizzazione della ratio morale tali alterna- tive appaiono semplicemente come incarnazioni adeguate o inadeguate di precetti appunto assoluti e quindi trascendenti rispetto all’uomo (11).
L’intenzione di Lukács è di contrapporsi al procedimento idealista che cerca di dedurre logi- camente l’ordinamento delle categorie e dei valori. D’altro lato, l’autore critica anche l’ontolo- gia materialista volgare che riduce le categorie complesse a prodotti meccanici delle strutture fondamentali della società, perdendo con ciò la particolarità delle categorie spirituali più eleva- te. Ciò perché, come egli osserva, l’identificazione della genesi non significa né uno scadimento assiologico di queste categorie, né la liquidazione della loro complessità. Al contrario:
Una volta riscontrato il nesso ontologico, tuttavia, il nostro problema non è ancora esaurito. Non per nulla nell’ultima digressione abbiamo esplicitamente richiamato il rapporto fenomeno-essenza nell’essere sociale. La questione del valore sarebbe infatti molto più semplice se questo rapporto non si estrinsecasse in termini estremamente paradossali, contraddittori, già indicando in tal modo che ci troviamo di fronte a un rapporto centrale, fortemente tipico e caratteristico nell’ambito dell’essere sociale (12).
La questione della contraddizione tra i valori si verifica quando i dilemmi morali concreti che gli individui affrontano è in rapporto con le contraddizioni della vita sociale, generatesi dagli antagonismi della riproduzione economica. Lukács si riferisce in questo punto alla stessa logica della riproduzione dell’ordine econômico che include un antagonismo tra «l’essenza oggettiva del proprio processo e le concrete forme che questo prende nella vita dell’uomo»13, in modo che l’apparenza invertita del processo faccia parte dello stesso processo. Sul piano dei valori, ciò porta ad un contrasto tra l’ordine morale e l’ordine economico che, in parte, si manifesta come apparente, dal momento che i valori contrapposti vengono esercitati entro i limiti dello stesso ordine economico.
Lukács richiama l’attenzione sul fatto che, per quanto riguarda l’essenza del processo, abbia- mo una coercitività che Marx già tematizzava dicendo che un’oggettività economica «trascina gli individui sotto pena di rovina». Questa oggettività, di per sé, solleva questioni di ordine mo- rale per gli individui nelle loro decisioni quotidiane. Inoltre, essendo la società «un complesso di complessi», queste parzialità possono entrare in contrasto e ciò accade generalmente nella misura in cui, data la complessificazione della divisione del lavoro, si ha la relativa autonomiz- zazione delle sfere regolatrici della vita sociale:
Questa funzione mediatrice, proprio per adempiere al meglio il proprio compito, deve pervenire a una costituzione autonoma, dalla struttura eterogenea rispetto all’economia. Ancora una volta appare evidente come tanto l’idealismo feticizzante, che vuol interpretare la sfera del diritto come qualcosa di totalmente riposante su se stesso, quanto il materialismo volgare, che vuol far derivare meccanicamente questo complesso dalla struttura economica, finiscono per non vedere i veri problemi. Sono proprio la oggettiva dipendenza sociale della sfera del diritto dall’economia e insieme la sua eteroge- neità, così prodottasi, nei confronti di quest’ultima, che nella loro simultaneità dialettica determinano la specificità e l’oggettività sociale del valore (14).
Una volta colto il significato corretto del rinvio che Marx fa dalla sfera dei valori non economici alla base produttiva dell’esistenza sociale, Lukács non ricade nell’interpretazione riduzio- nista che tratta le forme della coscienza come semplici epifenomeni della struttura. Il sorgere di valori sociali diversi e in contraddizione tra loro attesta invece la complessità della costituzione delle sfere che compongono il congiunto delle formazioni ideali, e che esprimono porzioni del contenuto sociale e delle relazioni sociali di un dato modo di produzione. Questa realtà crea l’apparenza che i valori non siano portatori di un bisogno in sé, e ciò conduce al presupposto per cui, in mezzo ad una lotta caotica di valori, spetterebbe agli individui decidere. Diversamente, Lukács si rende conto che le contraddizioni tra le istanze regolatrici delle relazioni sociali e la base economica non significano una mancanza di corrispondenza che permetterebbe la consi- derazione autonoma dei valori, così come si verifica nell’atteggiamento idealista, ma, al con- trario, questa relativa autonomia si costituisce come un elemento necessario nella riproduzione dell’ordine sociale.
Nella trattazione della problematica dei valori, possono venire identificate fondamentalmente due posizioni filosofiche: il relativismo storico e il dogmatismo logico-sistematico. Mentre il primo riduce i valori ad un’espressione casistica, e li collega in modo lineare ad una determinata situazione storica, il secondo tende ad omogeneizzarli in un sistema formale, che culmina nella loro «destoricizzazione»:
Dato questo profondo vincolo storico, accompagnato dall’enorme diversità delle realizzazioni, è facile capire perché fuori dal metodo marxiano la loro interpretazione inclini a un relativismo storicistico. Questo è però solo un lato dei possibili fraintendimenti. Infatti, nonostante la loro molteplicità i valori non economici non costituiscono una varietà disordinata di meri fatti singoli semplicemente legati al proprio tempo. Poiché la loro genesi reale, per quanto ineguale e contraddittoria, ha luogo a partire da un essere sociale che si svolge secondo un processo – in ultima analisi – unitario e poiché possono coagularsi in autentiche posizioni di valore soltanto le alternative socialmente tipiche e si- gnificative, al polo opposto il pensiero ordinativo è indotto a omogeneizzarli in un sistema costruito solamente sul piano del pensiero, regolato secondo forme logiche (15).
Secondo Lukács, il tertium datur rispetto a questa antinomia si trova nella concezione di «sostanzialità» del processo storico, che si conserva in essenza, ma in modo processuale, trasformandosi nel processo, rinnovandosi, partecipando al processo. In questa concezione i valori perdono ogni pretesa di eternità, ma d’altra parte non si giustificano per la loro mera esistenza, ma in virtù della loro corrispondenza al corso del processo sociale:
Ogni valore autentico è dunque un momento importante in quel complesso fondamentale dell’essere sociale che noi chiamiamo prassi. L’essere dell’essere sociale si conserva come sostanza nel processo di riproduzione; quest’ultimo però è un complesso e una sintesi di atti teleologici, i quali di fatto si collegano alla accettazione o al rifiuto di un valore. Cosicché in ogni porre pratico viene intenzionato – positivamente o negativamente – un valore, il che potrebbe far ritenere che i valori non siano altro che sintesi sociali di tali atti. Dove l’unica cosa giusta è che i valori non potrebbero acqui- sire una rilevanza ontologica nella società se non diventassero oggetti di tali posizioni. Tuttavia questa condizione, che deve intervenire affinché il valore si realizzi, non è identica alla genesi ontologica di questo. La fonte vera di tale genesi è invece l’ininterrotto cambiamento della struttura dell’essere sociale, ed è da tale cambiamento che scaturiscono direttamente le posizioni che realizzano il valore (16).
Sottolineiamo un ultimo aspetto dell’analisi di Lukács sui valori: il carattere della sua analisi è oggettivo-ontologico, cioè, come lo stesso Lukács chiarisce in vari passaggi, rimandare la sfe- ra dei valori alla sua base economica non significa in nessun caso un procedimento assiologico. Si tratta soltanto d’identificare la genesi e la relazione tra le istanze dell’essere sociale, e con ciò non si diminuisce il significato dei valori nella conduzione della vita umana. Al contrario, l’identificazione di tale genesi non elimina il senso dell’elemento morale ma lo rende più comprensibile:
La realtà sociale di tale comportamento dipende, non in ultimo, da quale fra i valori emergenti dallo sviluppo della società sia ad esso legato realmente, da quale contributo reale esso dia a conservare, rendere perenni, ecc. questi valori. Se però questo momento viene scorrettamente assolutizzato, si cade in una concezione idealistica del processo storico-sociale; per converso, se viene negato del tutto, si cade in quell’assenza di idea che è tratto indelebile di ogni praticistica Realpolitik (17).
Nella sfera fenomenica le caratteristiche individuali degli uomini imprimono dal punto di vista morale sfumature significative alle relazioni interpersonali. A cominciare dalla scelta di un valore rispetto ad altri, la deliberazione individuale diventa un elemento essenziale nella riproduzione o nella trasformazione di una sostanzialità sociale. È toccato a Lukács esplicitare i presupposti ontologici che restituiscono alla dimensione morale il suo status reale e la sua rile- vanza nella conduzione di una vita sociale più generosa rispetto alle possibilità del farsi umano.
[Traduzione dal portoghese di Enrico Nesci rivista da Marco Vanzulli]
Note
1 G. Lukács, Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo, tr. it. di A. Scarponi, Roma, Editori Riu- niti, 1983, p. 211.
2 J.P. Netto, Lukács: um exílio na pós-modernidade, in M.A. Pinassi – S. Lessa (orgs.), Lukács e a atualida- de do marxismo, São Paulo, Boitempo, 2002, p. 87.
3 N. Tertulian, O grande projeto da ética, «Ensaios Ad Hominem» 1 (1999), p. 131.
4 G. Lukács, Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo cit., p. 190.
5 E. Vaisman, O problema da ideologia na ontologia de Lukács, Dissertação (Mestrado em Filosofia) – Cen- tro de Ciências Humanas, Letras e Artes, Universidade Federal da Paraíba, João Pessoa, 1986, p. 163.
6 G. Lukács, Per l’ontologia dell’essere sociale, a cura di A. Scarponi, Roma, Editori Riuniti, 1976, II, p. 62.
7 G. Lukács, Die ontologischen Grundlagen des menschlichen Denkens und Handelns, in R. Dannemann e W. Jung, Objektive Möglichkeit: Beiträge zu Georg Lukács «Zur Ontologie des gesellschaftlichen Seins», Opladen, Westdeutscher Verlag, 1995, p. 36.
8 G. Lukács, Per l’ontologia dell’essere sociale cit., II, p. 79. Il passo di Marx interno alla citazione si trova in K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, tr. it. di D. Cantimori, Roma, Editori Riuniti, 1993, Libro I, p. 115.
9 G. Lukács, Per l’ontologia dell’essere sociale cit., II, p. 81.
10 Ivi, II, p. 33.
11 Ivi, II, p. 74.
12 Ivi, I, p. 330.
13 Ivi, II, p. 94.
14 Ivi, II, pp. 91-92.
15 Ivi, I, p. 393
16 Ivi, II, p. 95.
17 II, pp. 128-129.