La Natura umana nella Scienza Nuova di Vico
Marco Vanzulli
Il pensiero contemporaneo non ha una buona relazione con l’espressione «natura umana», che sembra contenere in sé un’indebita naturalizzazione del discorso sull’uomo, il quale, nelle tendenze epistemologiche dominanti, è stato sottoposto invece non solo ad un processo di denaturalizzazione, ma, più radicalmente, di desantropomorfizzazione e di desoggettivazione. Più specificamente, un orientamento generalmente scettico ha dominato la filosofia del ’900, un’impostazione ermeneutica che si fonda su Dilthey e su Nietzsche, ma che si è costituita come tale nel corso del XX secolo; per un altro verso, una corrente empiristico-pragmatista, per cui concetti quali natura o essenza perdono diritto di cittadinanza nel dibattito filosofico, come improprie assolutizzazioni dell’individuale e del relativo, senz’altro ipostasi metafisiche. E infatti, là dove si affermano, emergono in contesti metafisico-teologizzanti o a sostegno delle tipologie della condizione umana come quelle esistenzialistiche. Oppure vengono epistemolo- gizzati (privati con ciò di qualsiasi valenza ontologica), come per esempio da Foucault: «Mi sembra che all’interno della storia della conoscenza il concetto di natura umana abbia svolto essenzialmente la funzione dell’indicatore epistemologico, per definire alcuni tipi di discorso in relazione o in contrapposizione alla teologia, alla biologia o alla storia. Farei fatica a riconoscervi un concetto scientifico […] non rischiamo di definire questa natura umana […] con termini presi in prestito dalla nostra società, dalla nostra civiltà, dalla nostra cultura?» (1).
Oppure essenza e natura sono riportati alla soggettivazione della coscienza, come nel caso della fenomenologia husserliana. Qui sono escluse però generalità che non siano meramente eidetiche, cioè intuitivo-percettive – carattere che difficilmente potrà mai essere quello di una nozione così generica quale quella di natura umana, composta di due universali che, dal punto di vista filosofico-concettuale, sono altamente problematici. Si tratta ovviamente di tendenze contemporanee estranee, in quanto tali, all’epoca in cui si forgia il pensiero della Scienza nuo- va, momento centrale della modernità (2), e tuttavia non riteniamo inutile menzionarle ad incipit di un’analisi della nozione di natura umana nel capolavoro vichiano poiché le acquisizioni cui perviene a tale riguardo, per la loro portata teorica, possono risultare largamente chiarificatrici del modo d’impostare la questione. Non si può peraltro attribuire a Vico ingenuità di sorta nel porre nel titolo della propria opera il concetto di natura, nella misura in cui su tale termine egli lavora finemente, ritrovando, attraverso la ricerca storico-antropologica comparata e l’indagine sulla relazione tra modi e tempi del corso delle cose umane, la sua profonda verità storico-logica.
E del resto, lo stesso scettico Hume, edotto da tutta la lezione dell’empirismo inglese, di cui è un illustre rappresentante e continuatore, intitola la propria opera principale Treatise on Human Nature, e non si sogna neanche di giustificare, da un punto di vista epistemologico od ontologico, l’uso di questa espressione. Certo, Vico non ha, verso questo concetto, una diffidenza relativistica, decostruttivista, e non è un culturalista: ove tutto è cultura, non esiste natura (perlomeno non esiste più, diventa base indifferente); e se tutto è cultura, esistono solo le culture, irrelate, frutti perituri della storicizzazione intesa come mero fluire, come «vita». È questo, per esempio, l’esito del pensiero di Dilthey, a cui i neokantiani Windelband e Rickert possono opporre solo l’apriorismo del categoriale. Né l’una né l’altra è la strada intrapresa da Vico, nonostante i tentativi propri a tutta una vasta tendenza dei suoi commentatori di leggere ed includere il suo pensiero nell’universo concettuale neostoricista tedesco (3). È il dualismo di natura e cultura ad essere estraneo al modo vichiano di trattare la natura umana. Anche le filosofie relativistiche, laddove intendano trovare delle costanti comuni a tutte le società o epoche, sono costrette a far ricorso ad un essere che sfugga all’incessante divenire, e quindi ad utilizzare due principi ontologici nella stessa indagine e per lo stesso oggetto (nelle forme per esempio – ma non è un esempio campato in aria – dell’immanenza e della trascendenza). Con maggiore radicalità filosofica, come si vedrà più avanti, Vico parte invece dalla definizione di natura, di natura delle cose, e in questo modo riesce a dar conto insieme delle modificazioni e delle permanenze sfuggendo così, nel relazionarle, ad ogni aporia. Dove sparisce la natura umana, comunque la si voglia intendere, sparisce anche l’universalità dell’esperienza umana. Ma è proprio alla comprensione di questa universalità che mira la Scienza Nuova.
Ora, se da un lato il primo Vico dissente presto dalla metafisica cartesiana, avvicinandosi ad un indirizzo filosofico di tipo sperimental-empiristico, in cui la nozione di sostanza è criticata come ipostasi metafisica, d’altro lato, la sua indagine si avvia verso una posizione in grado di sfidare i limiti dello scetticismo pirronista. E comunque, nella Scienza Nuova, la risposta a Cartesio non si colloca più sul piano della filosofia, ma sul piano di una nuova scienza, il cui oggetto verte sulla «natura delle nazioni», come nel titolo dell’edizione del ’25, o, più specificamente, sulla «comune natura delle nazioni», come nel titolo delle edizioni del ’30 e del ’44.
Vico si porta dunque sulla natura umana attraverso la riflessione sulla comune natura delle nazioni. In ciò si ricollega al modello comparativistico storico-etnografico del suo tempo. Anche in Fontenelle, per esempio in De l’origine des fables (1724), si ricorre all’unità della natura umana per dar conto della «conformité étonnante entre les Fables des Américains et celles des Grecs», e la spiegazione di ciò è che gli antichi greci e i nativi americani contemporanei si trovavano nello stesso stato selvaggio e ne sono usciti con gli stessi mezzi (4). Vi è quindi una conformità di natura e sviluppo. La convinzione dell’unità della natura umana porta anche Joseph-François Lafitau, nei Moeurs des sauvages ameriquains comparées aux moeurs des premiers temps, sempre del 1724, a ritenere che esistano costumi umani comuni a tutti i popoli.
1. La «natura umana» nella «Scienza Nuova»
L’espressione è usata largamente da Vico, che parla anche, in vari luoghi, di «propietà di natura umana» (5). Nella Spiegazione della dipintura proposta al frontispizio:
dopo i governi aristocratici, che furono governi eroici, vennero i governi umani, di spezie prima popolari; ne’ qual’ i popoli, perché avevano già finalmente inteso la natura ragionevole (ch’è la vera natura umana) esser uguale in tutti (6) da sì fatta ugualità naturale (per le cagioni che si meditano nella storia ideal eterna e si rincontrano appuntino nella romana) trassero gli eroi, tratto tratto, all’egualità civile nelle repubbliche popolari (7).
Ove, a una prima lettura, sembrerebbe che sia la natura umana, o meglio l’averla intesa da parte dei popoli ad un certo stadio del loro sviluppo, a determinare l’«egualità civile» del go- verno appunto «umano» (o, più precisamente, delle due forme dei «governi umani», la demo- cratica prima e la monarchica poi). Ma a ben vedere non è proprio così; occorre considerare che Vico è un pensatore estremamente attento a non dare alle generalità e alle idealità una funzione autonoma (8), a non ipostatizzarle in alcun modo, come finiscono invece per fare, inevitabilmente, le filosofie della storia. Infatti, nel brano citato le cagioni della storia ideal eterna riscontrate nella storia romana sono le cagioni della stessa idea di ugualità naturale, o meglio dell’aver i popoli finalmente inteso una verità prima non praticata né creduta socialmente, appunto «la natura ragionevole (ch’è la vera natura umana) esser uguale in tutti». Ed è la ragione per cui Vico chiama «età degli uomini» la terza età di un corso storico – «l’età degli uomini, nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana» (9) –, non perché le altre due età, che stanno per il mondo arcaico nella sua complessità, non siano umane, o rappresentino un’umanità minore che deve teleologicamente realizzarsi, ma perché la terza età rappresenta per Vico certamente un approdo del corso delle cose umane, non sotto il profilo politico solamente, ma sotto il profilo logico-conoscitivo – è qui la «ragion umana tutta spiegata», ed è qui che si palesa la «la natura ragionevole (ch’è la vera natura umana)». Tuttavia, la terza età di un corso di civiltà non può sciogliersi dalla base antropologico-fondativa da cui proviene, appunto perché questa base la costituisce. Si tratta, come si vedrà, della costituzione della stessa «natura umana». Se ci sono dunque in Vico anche ragioni consistenti per una superiorità dell’umanità senso-fantastica, o comunque per una sua completezza, d’altra parte il raggiungimento della «terza età» di un corso ne rappresenta l’apice e il coronamento. È vero pertanto che tutte le letture che pongono l’enfasi o, da un lato, sull’arcaico e il pagano, o, dall’altro, sul moderno nella Scienza Nuova, si fermano unilateralmente ad un solo aspetto della questione, mentre proprio nella tensione tra arcaico e moderno si trova, se debitamente esplorato, uno dei maggiori motivi d’interesse filosofico del capolavoro vichiano.
Chiarisce il passo precedente un altro passo, tratto questa volta dalla Scienza Nuova prima:
Ma, tratto tratto venendosi tra le nazioni a formare i parlari vocali ed a crescere i vocabolari […] i plebei vennero, riflettendo, a riconoscersi di una natura eguale a quella de’ nobili; in conseguenza della qual conosciuta vera natura umana, ricredendosi della vanità dell’eroismo, vollero essere co’ nobili uguagliati nella ragione dell’utilità. Per la qual cosa, meno e meno sopportando il mal governo che facevano di esso loro i nobili sulla vana ragione della loro creduta eroica natura, di spezie diversa da quella degli uomini, finalmente sopra le rovine del diritto naturale delle genti eroiche, estimato per maggiorità di forze, insurse il diritto naturale delle genti umane […] estimato per ugualità di ragione (10).
Ove è evidente in primo luiogo che il «riflettere» dei plebei non è da considerarsi alla stregua di un atto volontaristico, ma è una coscienza che sorge all’interno dello sviluppo sociale, un fenomeno reso possibile dal generale incivilimento, presentato qui da Vico sotto l’aspetto dell’incremento linguistico; e poi che la scoperta dell’eguaglianza della natura umana, come comune natura razionale degli uomini, è la scoperta della «vera natura umana», finalmente «conosciuta» di contro alla diseguaglianza della «natura eroica» che divideva gli uomini in eroi, o uomini- dei, e servi, o sub-uomini. Questa scoperta non ha il carattere di un’asserzione di tipo generale del tipo dei «diritti dell’uomo e del cittadino» quali quelli che proclamerà sul finire del secolo in cui Vico scrive la Rivoluzione francese, ma consiste nell’essere plebei e nobili «uguagliati nella ragione dell’utilità», l’eguaglianza della natura umana è un modo dell’uguaglianza civile. Come Vico scrive sempre nell’opera del 1725: il riconoscimento di «essere tutti uguali in ragio- nevol natura – che è la propia ed eterna natura umana» impone «il diritto delle genti umane, che dètta gli uomini dover comunicare tra loro egualmente le utilità» (11); ed è «conforme all’egualità dell’umana natura», «’l desiderio che ha la moltitudine d’esser retta con giustizia egualmente» (12).
In un altro brano, nel testo della degnità CIV, Vico risolve la questione «‘se vi sia diritto in natura o sia egli nell’oppenione degli uomini’, la qual è la stessa già proposta nel corollario della degnità VIII: ‘se la natura umana sia socievole’» (13). Così argomenta:
perocché egli [il diritto natural delle genti] è nato con essi costumi umani usciti dalla natura comu- ne delle nazioni (ch’è ’l subbietto adeguato di questa Scienza), e tal diritto conserva l’umana società; né essendovi cosa più naturale (perché non vi è cosa che piaccia più) che celebrare i naturali costumi: per tutto ciò la natura umana, dalla quale sono usciti tali costumi, ella è socievole (14).
Ove si noti, insieme appunto al largo uso del termine «natura» e di «naturale», che la «natura umana» fonda i costumi, e sono i costumi, e non le leggi, a determinare il diritto naturale (15). Vico risponde dunque con un argomento anti-giusnaturalistico, specificamente anti-hobbesiano. Ad ogni modo, qui il piano del discorso è spostato dalla «natura umana» alla «natura comune delle nazioni», in modo da portare i due termini a coincidere, nella misura in cui da entrambi sono «usciti» i costumi. Dai costumi si comprende la socievolezza dell’uomo, e i costumi trovano il loro fondamento non in una natura umana astratta, pensata dai filosofi induttivamente sulla base di una comparazione empirica astraente, ma nella natura comune delle nazioni, la cui genesi concettuale richiede un procedimento d’altro genere.
Chiarisce questo punto un altro brano, dall’Introduzione al Libro «Della sapienza poetica»:
«questa Scienza vien ad essere ad un fiato una storia dell’idee, costumi e fatti del gener umano. E da tutti e tre si vedranno uscir i princìpi della storia della natura umana, e questi esser i prin- cìpi della storia universale» (16), ove Vico parla di una «storia della natura umana», espressione curiosa perché, nella sua accezione comune, la «natura umana» non ha storia: la natura umana è eterna, è un dato meta-storico, una «condizione» caratterizzata da certi elementi insuperabili (è il caso, ad esempio, delle Grenzsituationen teorizzate da Jaspers, cioè le situazioni che sono «mit dem Dasein selbst» (17). La questione che si pone qui è invece quella del prodursi della «natura umana». E la dimensione della storicità a tale riguardo è ripetuta: «i princìpi della storia della natura umana» sono «i princìpi della storia universale». E «princìpi» è una delle parole- chiave della Scienza Nuova: i princìpi sono ciò che è primo sia geneticamente sia per il metodo che alla genesi reale si accompagna, i principi di scienza sono al tempo stesso principi di storia.
2. La natura e il nascimento
«Natura umana» è dunque espressione ricorrente nella Scienza Nuova, espressione che Vico non ritiene di dover porre in discussione, e che non considera né tratta alla stregua di un oggetto metafisico, perché dà, nella degnità XIV, la definizione di natura: «Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise» (18) – e ciò è ribadito nella sezione «Del metodo», laddove si dice che «se ne spiegano le particolari guise del loro nascimento [«dell’ori- gini delle cose divine ed umane della gentilità»], che si appella ‘natura’» (19) –; e la successiva specifica: «Le propietà inseparabili da’ subbietti devon essere produtte dalla modificazione o guisa con che le cose son nate; per lo che esse ci possono avverare tale e non altra essere la natura o nascimento di esse cose» (20). Il metodo vichiano appare dunque di tipo genetico-critico, non essenzialistico, nella misura in cui risolve la natura di una cosa nella sua costituzione ge- netica, riportandola alla complessità di condizioni che ne hanno determinato la nascita-natura. La natura sorge nel tempo. La natura di ogni oggetto dato appartiene interamente all’ordine del fenomeno ed esclude il rimando a qualsivoglia altro ordine di significato. Abbiamo dunque un’identificazione anti-essenzialistica di ontologia della cosa e del suo sviluppo: la particola- rità della posizione di Vico sta nel tenere insieme a) la riduzione della «natura di cose» al loro «nascimento», e però b) nel non ridurre a sua volta questa de-sostanzializzazione ad una desostanzializzazione totale di tipo culturalistico (cioè relativistico): da un lato, le sostanze sono in tutto e per tutto riducibili al loro processo genetico, ma, dall’altro, divengono «sostanze», e come tali possono mantenersi.
A tale riguardo, prendiamo, tra i tanti esistenti, due giudizi di illustri commentatori di Vico che hanno così inteso la natura vichiana senz’altro come storia. Erich Auerbach ha scritto:
«Il significato di natura passa da esistenza che dura nel tempo a movimento del nascere e del divenire […]. Di per se stessa la natura delle cose non è nulla; essa coincide con la situazione storica dalla quale scaturiscono le cose. Abbiamo dunque una completa storicizzazione della natura (umana) […]. È per ciò che nel Vico molto spesso la parola ‘natura’ si può intendere pro- prio nel senso di ‘storia’: nella frase ‘i governi debbon essere conformi alla natura degli uomini governati’, ‘natura’ significa ‘stadio dello sviluppo’; le espressioni ‘tali nature di cose umane’ o ‘la natura civile’ si intenderanno di preferenza come ‘l’essenza dell’evoluzione storica’ […] per Vico il problema ‘se vi sia diritto in natura o sia egli nell’oppenione degli uomini’ non sussiste neppure, dato che la ‘natura’ altro non è che la capacità di evolversi […]. Circondato da giusna- turalisti, sostenne che l’uomo non ha altra natura che la propria storia» (21).
E Pietro Piovani ha osservato che la storia «non ha una sua superiore natura spirituale da imporre metafisicamente. In Vico, la storia è tutta affidata alle nature che essa deve conoscere» (22). Ancora Piovani, in un articolo dal titolo Vico e la filosofia senza natura: «la natura dell’uomo vichiano non è natura, ma è storia: il collegamento con la φύσις è spezzato in Vico come in nessun altro filosofo mo- derno che lo abbia preceduto» (23). Questi commenti sottolineano dunque nella Scienza Nuova una completa sparizione della natura nella storia. Si tratta di vedere se questa posizione interpretativa non sia viziata da unilateralità: la parola «storia», fra l’altro, non si trova nelle «degnità» citate, mentre il termine fondamentale è proprio «natura». Ed è evidentemente un termine da non prendere in senso specifico (la sola natura delle Naturwissenschaften, quale la intendiamo noi contemporanei), ma in un senso più generale (la natura che include la natura e la storia), dal valore ontologico più comprensivo, coestensivo a «cosa» («natura di cose…»).
3. Comune natura delle nazioni
Nella storia delle interpretazioni dell’opera vichiana si è generalmente trascurato di pren- dere in considerazione il titolo completo della Scienza Nuova, che indica come il suo oggetto sia «la natura comune delle nazioni». Si è cioè trascurato d’indagare il significato del termine «nazione», e si è senz’altro ritenuto che la nuova scienza vichiana fosse la storia. Non rara- mente si proiettava al tempo stesso il discorso su Vico verso le problematiche ed impostazioni gnoseo-ontologiche dello storicismo tedesco della seconda metà del XIX secolo. Non a caso la nota monografia su Vico di Croce del 1911, a cui tanto si deve la fortuna e il fraintendimento dell’opera vichiana, era dedicata a Wilhelm Windelband (24). Tanto trascurate le «nazioni», tanto frettolosamente precipitate sulla storia le interpretazioni. E tuttavia i due ambiti e i due oggetti – la storia e le nazioni – non si sovrappongono, non sono la stessa cosa. A quale categoria disci- plinare ascrivere infatti le «nazioni»? È un oggetto filosofico? politico? sociologico? giuridico? storico? È un oggetto più generale, più complesso, epistemologicamente superiore a ciascuno di questi piani, nella misura in cui rispetto ad essi rappresenta un meta-livello, che li include.
Aiuta a chiarire la questione il confronto col termine popolo. È certo anch’esso un termine largamente usato nella Scienza Nuova, ma non ne è l’oggetto. Perché dunque Vico usa il termi- ne nazioni e non popoli («la comune natura di») quale oggetto della propria scienza? Come ha indicato Max Harold Fisch, Vico usava i termini della lingua italiana con un senso vivissimo del loro rimando etimologico, e, soprattutto, il significato etimologico dei termini italiani nella Scienza Nuova è fondamentale quando essi svolgono una particolare funzione teorica (25). Ora, questo è il caso del termine nazione, che viene dal latino natio, che, a sua volta, viene da nascor – «nascere», essere generato», «provenire», «avere origine», «crescere», «svilupparsi»; è la stessa etimologia di natura: «Princìpi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni». All’origine rimanda anche un altro termine del titolo, princìpi, da principium, a sua volta da primus. E lo stesso vale per genti, da gens, a sua volta da geno, forma arcaica di gigno, «generare». E «genti» era nel titolo della Scienza Nuova prima il termine che ne designava l’oggetto: «… per la quale si ritruovano i princìpi di altro sistema del diritto naturale delle genti», a indicare come la nuova scienza si costituisca attraverso un dibattito serrato con le teorie moderne e antiche del diritto naturale; e suo oggetto erano anche i «gentili», tema preminente di gran parte dell’opera, il libro secondo, la «sapienza poetica». In tutti questi casi, il riferimento è alla genesi della cosa. Mentre popoli ha già una specifica e densa tradizione storico-politica e giuridica – indagata tra l’altro all’interno della Scienza nuova (26) –, il termine «nazioni» da una parte è inedito nel pensiero occidentale (27), dall’altra, nella sua stessa etimologia, designa una scienza della natura come genesi e dello sviluppo e della «modificazione o guisa con che le cose son nate», per ricordare ancora le degnità XIV e XV, una scienza, dunque, in cui l’oggetto è studiato dal suo nascimento attraverso il suo sviluppo. Nazioni è l’oggetto inedito della Scienza Nuova, in quanto scienza non meramente del diritto o della politica e delle forme di governo, ma scienza che unifica la filologia, cioè le sparse storie dei singoli popoli, della lingua, della mitologia, del diritto ecc. in virtù di un nuovo criterio veritativo, possibile appunto perché di tutte le scienze, le arti e le discipline Vico ha trovato il fondamento ontologico nella natura intesa come nascimento. «Populus» allora, come termine storico-giuridico, è utilizzato nella Scienza Nuova all’interno della trattazione di specifiche questioni storiche e giuridiche. Per questa ragione il suo significato è ben più particolare e limitato di quello di nazione.
In virtù di questo oggetto, la Scienza Nuova intende essere un sistema delle scienze storico- sociali, non una «semplice» teoria dello sviluppo storico. È un’opera che ha così un carattere meta-antropologico, nella misura in cui i suoi principi possono valere come principi generali di tutte le discipline del proprio dominio; e che trasforma gli sparsi oggetti della scienza filologica seicentesca e settecentesca – la religione, il mito, il linguaggio, le istituzioni politico-giuridiche, e le loro origini – in oggetti di un dominio unitario del sapere, attraverso un’unificazione che è al tempo stesso ontologica e metodica. È ontologica perché la nazione è un oggetto reale, non appena una generalità epistemologica, una finzione descrittiva o riassuntiva. La Scienza Nuova è un’opera che costituisce così un nuovo sistema delle scienze sulla base di un principio ontologico generale relativo alla natura delle cose. La differenza tra Vico e i suoi contemporanei o predecessori del Seicento non sta tanto nelle singole scoperte o ricerche della Scienza Nuova – sebbene non si possa disconoscere la validità e l’originalità di molte di esse, in ambito giuridico, linguistico, mitologico, storico ecc. –, quanto piuttosto nella più alta esigenza di scientifi- cità, nella complessità concepita delle relazioni tra le parti della scienza, cioè nell’unitarietà di quest’ultima, sulla base di un’impostazione ontologico-epistemologica di tipo genetico-critico. Le singole teorie sulla mentalità poetica, sulla natura del linguaggio, del diritto ecc. s’integrano all’interno del quadro predisposto dalla nuova scienza, e sono perciò da considerarsi delle conseguenze dell’impostazione sistematica che Vico raggiunge – sebbene certo abbiano a volte, cronologicamente, accompagnato o addirittura in parte preceduto il lavoro di definizione epistemologica dello statuto della nuova disciplina. Ma, appunto, una volta questo avvenuto, vi si ricompongono e occupano uno spazio teorico nuovo (28). È infatti la totalità del sapere enci- clopedico disposto in sistema della Scienza Nuova ad aprire un nuovo piano epistemologico. E continuamente Vico riformula e ridispone il materiale offertogli dalla tradizione all’interno del proprio impianto storico-concettuale.
La degnità XIII recita: «Idee uniformi nate appo intieri popoli tra essoloro non conosciuti debbon avere un motivo comune di vero» (29), in modo tale che «senza ch’i popoli sapessero nulla gli uni degli altri, divisamente nacquero idee uniformi degli dèi e degli eroi» (30). Si trova qui molto chiaramente indicato il vero oggetto della scienza vichiana: la determinazione e la com- prensione dei fattori universali alla base del sorgere delle istituzioni materiali e ideali dei popo- li, sulla base di un principio ontologico generale che è al tempo stesso principio metodologico. Il processo storico-sociale è il medium in cui la genesi delle istituzioni si produce, o, meglio, la loro stessa vita è costitutivamente processuale, determinata dalle «modificazioni» e dalle «guise». Ciò è la comune natura delle nazioni, il fondamento ontologico sta nel costituirsi della nazione, che è tutt’uno col costituirsi dell’umanità, e che diventa poi criterio di scienza, vero.
Non è dunque sulla base di una storicizzazione incessante quale ipostasi della «vita», di un’enfatizzazione del divenire à la Diltey, che si costituisce la scienza delle nazioni, ma sull’ontologia del nascimento come momento ontologico-epistemologico della formazione della natura delle cose.
La «natura umana», la «comune natura delle nazioni», che è insieme un universale e un principio di scienza, non è risolvibile interamente nella complessa opera di determinazione di un popolo da parte del suo contesto naturale e culturale, pena l’impossibilità oggettuale e comparativa della scienza delle «nazioni», ovvero l’approdo ad una posizione relativistica. Di nuovo, «natura» è «nascimento», e perciò la natura umana va in tutto e per tutto fatta coincidere col processo di umanizzazione, che Vico compendia nelle tre istituzioni fondamentali della religione, delle nozze e delle sepolture, che danno forma e senso al mondo civile.
Ed è un processo non garantito nei suoi esiti: l’originaria primitiva «barbarie del senso» ha presso le raffinate civiltà evolute il suo pendant nella «barbarie della riflessione», inizio (precedente il costituirsi di una «natura umana») e termine (in cui essa si dissolve) di un corso che non si è mantenuto nel suo culmine; un corso può invece anche non completarsi per cause esogene (ad esempio la conquista). I fenomeni originari della teogonia e della costituzione dello «stato delle famiglie» sono già degli atti culturali, simbolizzati, ma in modo tendenzialmente uniforme, perché la cultura s’inscrive in una costellazione di elementi determinanti, anche naturali, di connessioni razionali a partire dalle «medesime occasioni» e dalle «stesse umane bisogne». Se, da un lato, in Vico non è presente la storia universale come processo di sviluppo unico e unitario del soggetto «umanità» – il «corso» è sempre il processo civilizzatore di un popolo –, dall’altro, ciò non implica affatto un approdo relativistico della ricerca sulle nazioni. Le nazioni, la loro «comune natura», sono un oggetto al tempo stesso differenziato e unitario, come lo sono il certum e il verum. La ricerca di Vico non riguarda la storia universale, ma lo svolgimento del corso delle nazioni e si attesta sui «motivi comuni di vero», sulle «medesime occasioni» e sulle «stesse umane bisogne», sulla costanza delle origini e dei progressi. La natura umana è quindi oggetto al tempo stesso ontologico ed epistemologico, è la sua realtà, che è un costituirsi, a permettere anche la sua funzione conoscitiva, la dimensione comparativistica (31).
Sono gli atti fondativi e costitutivi di ogni «nazione», e quindi la natura umana costituitasi (e potenzialmente dissolventesi) ad offrire i comuni motivi di vero presenti in tutte le tradizioni storiche. La ricerca intorno a questi atti fondativi non mitizza la storia delle origini, ma intende anzi il mito come vera narratio, che permette una comprensione interamente intra-storica delle antiche favole (32).
Comunemente la «natura umana» è intesa come quell’insieme di facoltà e disposizioni, caratterizzati da un’essenzialità, ossia stabilità, che fa sì che essa resista ad ogni cambiamento storico e conferisca ai valori normativi del mondo umano fissità e permanenza. Diversa è la sua accezione nella Scienza Nuova. La natura umana è qui intratemporale e intrastorica, essa vien costituendosi nel tempo; e la sua stabilità non è garantita nel corso di sviluppo seguito dalle comunità umane. Nel tempo il bestione diventa umano, e così il tempo da naturale diventa sto- rico. E nel tempo storico la natura umana vien su questa base identica (che tale deve rimanere, pena la perdita – laddove si perda il culto dei morti, la relazione famigliare e il vincolo civile
– dell’umanità) trasformandosi. Abbandonata la prospettiva metafisica ancora presente nel De uno, natura umana storica non è per Vico un ossimoro, o, se lo è, è un ossimoro virtuoso. Esiste dunque una natura umana, ed essa coincide con la comune natura delle nazioni. L’etimologia
di humanitas verrebbe da humare, ovvero dall’atto di seppellire i morti (33). Si tratta di un atto complementare ad altre due istituzioni già citate e ad esse coestensivi: l’unione familiare ed il vincolo religioso tra gli uomini (34). È la pratica, l’humare, che fonda l’uomo. Queste pratiche umane, che rendono cioè l’uomo membro dell’humanitas, costituiscono la natura umana, che è, così, per essenza, natura umana civile. Il discorso sull’uomo, dunque, si converte nel discorso sulle nazioni, all’interno del quale trova una giusta collocazione ed ottiene piena intelligibilità. La sepoltura dei morti è una pratica comunitaria essenziale, essa, che significa altresì il vincolo religioso tra gli uomini uniti nella società famigliare, comporta il riconoscimento delle discendenze, della continuità della progenie e della sostanzialità dei rapporti famigliari e sociali; com- porta quindi il riconoscimento della comunità passata, presente e futura – in una parola della comune natura umana degli uomini. La natura umana è allora il riconoscimento collettivo della propria comunità da parte degli uomini associati, qualcosa di non disgiungibile dallo stesso processo di formazione della società civile. Ed è qualcosa a cui si perviene presto, ai primordi del corso di una nazione, ma già come esito di uno sviluppo; la natura umana non è un dato, non è un principio eterno. È infatti qualcosa da cui l’umanità può uscire, che può perdere, perdendosi con ciò come umanità, come avviene nella «barbarie della riflessione», che significa appunto questo, il raggiungimento di un’individuazione tale, di un individualismo abnorme, che spezza il legame civile tra gli uomini, che fa i popoli simili alle bestie «accostumati di non ad altro pensare ch’alle particolari propie utilità di ciascuno» che «nella loro maggiore celebrità o folla de’ corpi», vivono «come bestie immani in una somma solitudine d’animi e di voleri», col risultato che le città tornano selve, e le selve covili d’uomini: «e, ’n cotal guisa, dentro lunghi secoli di barbarie vadano ad irruginire le malnate sottigliezze degl’ingegni maliziosi, che gli avevano resi fiere più immani con la barbarie della riflessione che non era stata la prima barbarie del senso» (35). La natura umana è così al tempo stesso, da un lato, esposta alla contingenza ed alle vicissitudini di un corso storico particolare, in cui si produce ed in cui può dissolversi; dall’altro, è universale, momento fondante e condizione della storia ideal eterna, base cioè del successivo sviluppo, costituisce l’unità di una nazione, dall’«età degli dèi» all’«età degli uomini», e l’unità del genere umano, che sempre dovrà costituirsi come tale all’interno del riconoscimento del vincolo sociale. Ciò non solo impedisce di assolutizzare la dicotomia di «sapienza volgare» e «sapienza riposta» – cioè di sapere pre-riflessivo e di sapere pienamen- te razionale –, ma preclude anche la via alla relativizzazione della nozione di natura umana, che, nella Scienza Nuova, riesce a conciliare una concezione materialistica dello sviluppo non garantito con il suo carattere universale e costante. L’approfondimento di tale questione all’in- terno del pensiero della Scienza Nuova porta alla conclusione dell’inseparabilità della tematica etica da quella relativa ai principi della comune natura delle nazioni: la prima risulta compren- sibile non in base ad una considerazione astratta sull’uomo o sull’individuo e i suoi scopi, il calcolo razionale dei beni e delle utilità, tipico di tanti momenti della riflessione etico-politica del pensiero moderno, ma, con un approccio di tutt’altro genere, come sforzo proprio di un’età in cui prevale la dimensione razionale, consiste nel mantenere la razionalità in congiunzione con la sua base simbolico-fantastica, la riflessione con la spontaneità, in un modo che indica alla «sapienza riposta» (la «filosofia») che quando essa non si riferisce che a se stessa ci si trova in presenza di un sintomo di una malattia sociale, di un momento di disgregazione.
L’etica anti-individualistica della Scienza Nuova non può assumere una funzione puramente prescrittiva, come se gli uomini (o i filosofi) potessero influire volontaristicamente sul corso sociale, ma resta l’indicazione che sforzo sociale e civile è quello del mantenimento del vincolo delle formazioni socio-culturali altamente evolute con la «sapienza volgare» (la «giurisprudenza») che costituisce la civiltà; l’unità della «natura umana», quale si è venuta costituendo nel corso storico, è data cioè dall’unità delle facoltà dell’uomo, delle «tre età» di un corso storico, senza che sia possibile ipostatizzare e separare il momento senso-fantastico né quello, culminante, della «ragion umana tutta spiegata» dal vincolo che li ha istituiti nel paganesimo.
Note
1 N. Chomsky e M. Foucault, Della natura umana: invariante biologica e potere politico, Roma, DeriveApprodi, 2005, pp. 12 e 53. La lettura dell’intera conversazione radiofonica tra Chomsky e Foucault da cui abbiamo estratto la citazione del filosofo francese mostra come quest’ultimo non sia in grado di spingersi oltre questa relativizzazione. Né più soddisfacente risulta, per motivi opposti, la posizione di Chomsky.
2 E anche luogo teorico fondamentale, che Vico abbia visto oppure no, «il vasto mondo da un angoletto morto della storia» (A. Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, pp. 504 e 1317.
3 Ci riferiamo in primis all’interpretazione di Benedetto Croce (La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza, 19804 [1911]), ma anche a certe letture ispirate da un relativismo degli universi culturali chiusi, centrati valorialmente su se stessi, à la Dilthey, come quella di Isaiah Berlin (cfr. Vico and Herder. Two studies in the history of the ideas, London, The Hogarth Press, 1976, tr. it. di A. Verri, Roma, Armando, 1978).
4 Cfr. Fontenelle, Œuvres complètes, textes revus par Alain Niderst, Paris, Fayard, tome III, 1989, pp. 197-198.
5 Ad esempio nella degnità XXXIV; nell’incipit della Geografia poetica; nella «pruova filogica» XXXII «per la discoverta del vero Omero», cfr. rispettivamente G.B. Vico, Scienza Nuova, in Id., Opere, a cura di A. Battistini, Milano, Mondadori, 1990, pp. 508, 793, 840.
6 Vi è qui un calco dall’incipit della «Première partie» del Discours de la méthode, come ha notato Andrea Battistini nelle note di commento al testo (cfr. G.B. Vico, Opere cit., p. 1489); così scrive Cartesio: «la puissance de bien juger et distinguer le vrai d’avec le faux, qui est proprement ce qu’on nomme le bon sens ou la raison, est naturellement égale en tous les hommes» (R. Descartes, Discours de la méthode, Paris, Flammarion, 2000, p. 29).
7 G.B. Vico, Scienza Nuova cit., p. 436, corsivi miei.
8 Rinvio al riguardo al mio La scienza di Vico. Il sistema del mondo civile, Milano, Mimesis, 2006, pp. 73-75.
9 G.B. Vico, Scienza Nuova cit., p. 438.
10 G.B. Vico, Scienza Nuova (1725), in Id., Opere cit., p. 1024.
11 Ivi, p. 1012. Cfr. anche ivi, p. 1075.
12 Ivi, p. 1066. E ancora questa verità sarebbe contenuta nel «Conosci te stesso» greco, «che fu scritto sopra gli architravi de’ templi e proposto come una vera divinità, la quale, assai meglio che i vani auspici, avvi- sava gli ateniesi a riflettere nella natura della loro mente, per la quale ravvisassero l’ugualità dell’umana ragione in tutti, che è la vera ed eterna natura umana, onde tutti s’uguagliassero nella ragione delle civili utilità, che è la forma eterena di tutte le repubbliche e sopra tutte della popolare» (ivi, p. 1097).
13 G.B. Vico, Scienza Nuova cit., p. 535.
14 Ivi, pp. 535-536, corsivi miei.
15 Cfr anche «[…] essendo cotal diritto [il «diritto natural delle genti»] uscito coi comuni costumi de’ popoli; ed i costumi de’ popoli essendo fatti costanti delle nazioni; e, insiememente, essendo i costumi umani pratiche ovvero usanze dell’umana natura […]» (G.B. Vico, Scienza Nuova (1725) cit., p.1032).
16 G.B. Vico, Scienza Nuova cit., p. 564, corsivi miei.
17 K. Jaspers, Philosophie, Berlin, Julius Springer, 1932, zweiter Band «Existenzerhellung», p. 203.
18 G.B. Vico, Scienza Nuova cit., p. 500.
19 Ivi, p. 551.
20 Ivi, p. 500.
21 E. Auerbach, San Francesco, Dante, Vico e altri saggi di filologia romanza, tr. it. di V. Ruberl, Roma, Editori Riuniti, 1987, pp. 73-74 e 229.
22 P. Piovani, Esemplarità di Vico, in F. Tessitore (a cura di), G.B. Vico nel terzo centenario della nascita, «Quaderni Contemporanei» 2 (1969), p. 213.
23 P. Piovani, Vico e la filosofia senza natura, in Atti del convegno internazionale «Campanella e Vico» (Roma, 12-15 maggio 1968), Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1969, pp. 262-263.
24 Sulla lettura crociana di Vico rimando al mio La scienza delle nazioni e lo spirito dell’idealismo. Su Vico, Croce, Hegel, Milano, Guerini e Associati, 2003, prima parte, pp. 17-74.
25 Cfr. M.H. Fisch, Introduction a G.B. Vico, The New Science, Ithaca and London, Cornell University Press, 19844 (1948) pp. xix-xxi.
26 Cfr. G.B. Vico, Scienza Nuova cit., pp. 870-871.
27 Cfr. la voce «Nazione», a cura di F. Rossolillo, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di Politica, Torino, Utet, 1983.
28 Leon Pompa ha rilevato, in particolare a proposito del libro V della Scienza Nuova del 1744, la maggiore importanza che ha la formulazione di teorie storico-sociologiche astratte rispetto all’esposizione dei fatti storici relativi e la significativa funzione della critica di metodo rivolta ai propri avversari (cfr. L. Pompa, Vico. A Study of the «New Science», Cambridge, Cambridge University Press, 19902 (1975), pp. 6 e 7-8, tr. it. di V. Mathieu, Roma, Armando, 1977, pp. 26 e 28-29). Andrea Sorrentino, comparando la poetica e la teoria omerica di Ludovico Castelvetro e quelle vichiane, rileva la differenza tra i due innanzitutto nel fatto che Vico «muove da un cosciente e sicuro sistema d’idee»; ancora, le idee sulla poesia di Gian Vincenzo Gravina che sono accostabili a quelle di Vico gli appaiono tuttavia «indeterminate», «disorganiche», «grossolane», «confuse» (cfr. A. Sorrentino, La retorica e la poetica di Vico, ossia la prima concezione estetica del linguaggio, Torino, Bocca, 1927, pp. 187-192 e 274-275).
29 G.B. Vico, Scienza Nuova cit.,p. 499.
30 Ivi, p. 457.
31 Si veda invece come la problematica di Dilthey sia di tutt’altra natura. In Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften del 1910, Dilthey classifica le scienze umane in base alla «comunanza dell’oggetto»: «Tutte queste scienze si riferiscono al medesimo grande fatto: il genere umano […]. I soggetti delle asserzioni in tali scienze sono di diversa estensione – individui, famiglie, gruppi composti, nazioni, età, movimenti storici o serie di sviluppo, organizzazioni sociali, sistemi di cultura e altre sezioni parziali tratte dal complesso dell’umanità – a esclusione di questo stesso. Su di loro è possibile effettuare una narrazione o una descrizione, ma non uno sviluppo teorico» (W. Dilthey, Critica della ragione stori- ca, a cura di Pietro Rossi, Torino, Einaudi, 1954, pp. 145 e 147). Umanità è dunque qui solo l’oggetto che, di contro alla natura, hanno in comune le «scienze dello spirito» o «scienze umane», ma per il carattere agnostico della sua tendenza antimetafisica Dilthey non può farne l’oggetto di alcuna scienza, nemmeno della filosofia. Il concetto di umanità non ha qui la concretezza che ha in Vico, esso rappresenta piuttosto soltanto l’oggetto generale e comune cui si riferisce il gruppo di discipline che Dilthey oppone alle scienze della natura.
32 Cfr. il cap. V del mio La scienza di Vico. Il sistema del mondo civile cit., pp. 219-261, in cui oppongo il significato integralmente civile del mito nella Scienza Nuova alle teorizzazioni delle correnti contempora- nee degli studi di storia sul mito, la religione e il sacro di stampo irrazionalistico.
33 Cfr. G.B. Vico, Scienza Nuova cit., p. 667.
34 «Or, poiché questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomini, perché tali cose ne potranno dare i princìpi universali ed eterni, quali devon essere d’ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutte vi si conservano in nazioni. Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; né tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consagrate solennità che religioni, matrimoni e seppolture. Ché, per la degnità che «idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon aver un principio comune di vero», dee essere stato dettato a tutte: che da queste tre cose incominciò appo tutte l’umanità, e per ciò si debbano santissimamente custodire da tutte perché ’l mondo non s’infierisca e si rinselvi di nuovo. Perciò abbiamo presi questi tre costumi eterni ed universali per tre primi princìpi di questa Scienza» (ivi, pp. 542-543, «De’ Princìpi»).
35 Ivi, p. 967.