La deviazione e l’aleatorio
João Quartim de Moraes
1. L’argomento
Sulla base di una lunga tradizione, che risale a Lucrezio e a Cicerone e nella quale sono da includersi tanto i critici quanto una buona parte degli epigoni antichi e moderni di Epicuro, la maggior parte degli studiosi contemporanei della sua opera gli attribuiscono l’argomento secondo cui, spostandosi parallelamente e con la stessa velocità nel vuoto immenso, per forza del loro stesso peso, gli atomi non si incontrerebbero mai, né potrebbero pertanto agglomerarsi formando mondi, se non deviassero spontaneamente dalla linea retta. Questa deviazione o declinazione è più comunemente designata col termine latino clinamen, il cui referente greco, paregklisi$ (1), non figura, tuttavia, in nessuno degli scritti di Epicuro giunti fino a noi. Occorre notare che i sostantivi clinamen e paregklisi$ derivano dal verbo clino, clinare (in greco klinw, klinein), che significa inclinare. Inclinare e declinare, composti di clinare, così come paregklinw, composto di klinw, presentano la connotazione di inclinarsi verso un lato (2).
Clinamen e paregklisi$ significano dunque, in latino e in greco, inclinazione verso un lato. La preferenza della posterità, sopratutto dei commentatori contemporanei, per il termine clinamen si deve probabilmente al fatto che, per la sua rarità, si presta maggiormente di declinazione o inclinazione a denotare la deviazione spontanea soggiacente alla libertà della volontà. In effetti, questa nozione è decisiva: Epicuro, ovviamente, ammette le deviazioni nella traiettoria degli atomi provocate dai suoi urti. Non ammette, come cercheremo di mostrare, che essi devino dalla traiettoria rettilinea per iniziativa propria.
Neanche nelle Lettere a Erodoto e a Pitocle, in cui Epicuro sintetizza il suo pensiero cosmologico, né in nessun altro suo testo, incontriamo alcun riferimento al problema di cui l’argomento del clinamen dovrebbe essere la soluzione. Lacuna significativa, poiché non sembra ragionevole supporre che il filosofo del Giardino abbia ritenuto superfluo (o si sia dimenticato di) esporre un punto così fondamentale. È senza dubbio assai più probabile che non lo abbia esposto perché non lo ha concepito. Non incontriamo nei testi di Epicuro neanche l’affermazione secondo cui gli atomi si spostano parallelamente nello spazio vuoto.
Le troviamo soltanto due secoli più tardi, nel libro II, versi 216-224 del celebre De rerum natura di Lucrezio: gli atomi sono spinti verso il basso (deorsum) in linea retta (rectum) dal loro peso (ponderibus propriis), ma in un tempo e in un luogo incerti (incerto tempore ferme, incertisque locis), si allontanano un poco nello spazio (spatio decedere paulum) (3). L’indeterminazione quanto al tempo e al luogo, enfatizzata dalla ripetizione dell’aggettivo «incertus», rimanda al carattere spontaneo della deviazione. In effetti, questa è una connotazione decisiva, perché la sola forza corporea che determini il movimento degli atomi nel vuoto è il loro peso. Epicuro ammette che gli atomi devino dalla loro traiettoria rettilinea, ma per forza degli urti e non per iniziativa propria. La prova che gli atomi debbono necessariamente deviare dalla caduta in linea retta segue subito dopo, nella forma di un ragionamento per assurdo: «perché se i corpi elementari, dirigendosi verso il basso, come gocce di pioggia, non fossero soliti declinare, cadrebbero nel vuoto profondo, non incontrandosi, né urtandosi e, perciò nessuna natura sarebbe stata creata» (4).
Salta agli occhi il carattere ad hoc di questo argomento teleologico, che reintroduce, se non l’idea di provvidenza cosmica, perlomeno quella di un logos immanente. A rigori, l’unica interpretazione materialista possibile della deviazione spontanea sarebbe quella che la consideri un’aberrazione, nel senso astronomico del termine. Ma neanche questa ipotesi indica la causa della quale la deviazione sarebbe l’effetto. L’aberrazione dei pianeti o raggi luminosi ha invece una spiegazione fisica.
L’unico punto fermo di questo argomento per assurdo è l’evidenza dell’esistenza di corpi e nature, a cominciare dalla nostra. Ma anche l’artistotelismo, sostenendo che non c’è nulla nell’intelligenza che non sia passato prima attraverso i sensi, riconosce nella natura il fondamento delle cose e il punto di partenza della conoscenza. Indubbiamente, in quanto considera eterne le sostanze naturali, la scuola del Liceo non affronta il problema della formazione dei cosmi. Questo problema è proprio della fisica epicurea. Non proviene in effetti dalla tesi secondo cui il tutto si compone di atomi e di vuoto (posizione già sostenuta da Leucippo e Democrito), ma dalla principale innovazione introdotta da Epicuro nella cosmologia atomista: il peso è la causa fondamentale del movimento. Cercheremo di mostrare più avanti che questa innovazione (che tiene conto delle critiche di Aristotele ai primi atomisti) non conduce necessariamente alla aporia della caduta parallela quale è formulata da Lucrezio. Ma prima occorre considerare i principali argomenti in senso contrario.
Notiamo inizialmente che, dal punto di vista del metodo della storia della filosofia, per la quale il riferimento ai testi è irrinunciabile, l’«onus probandi» spetta a coloro che attribuiscono a Epicuro la dottrina della deviazione spontanea. In effetti, lasciando da parte i commentatori dogmatici che si contentano di ascrivere automaticamente al maestro tutto ciò che ha scritto il discepolo, è a loro che tocca provare l’ipotesi secondo la quale la nozione di paregklisi$, o un termine equivalente, figuravano in quella grande parte del corpus epicureo che le tempeste della Storia hanno distrutto. È a loro che tocca inoltre, per quanto riguarda l’aspetto logico-filosofico della questione, dimostrare che la deviazione spontanea costituisce una risorsa indispensabile (perché senza di essa gli atomi, non s’incontrando mai, non potrebbero formare i mondi) e, quindi, che i testi di Epicuro a nostra disposizione non offrono un’altra soluzione.
2. La critica di Cicerone
Significativamente, la testimonianza pioniera intorno all’aporia della cadu- ta parallela risale allo stesso contesto storico-culturale in cui fu elaborato il De rerum natura. In effetti, nel De finibus, Cicerone sostiene che il clinamen deve essere considerato un rimedio peggiore dello stesso male: affrontando la difficoltà di spiegare in che modo gli atomi, cadendo con la stessa velocità in linea retta verso il basso per la forza del loro peso («corpora ferri deorsum suo pondere ad lineam»), potrebbero incontrarsi nell’infinito, Epicuro avrebbe fatto ricorso alla declinazione spontanea degli atomi. Ricorso «puerile», fulmina Cicerone, oltre che gratuito («ad libidinem fingitur»). «Nulla di più turpe per un fisico di sostenere che qualcosa si genera senza causa» (5). In effetti, sembra evidente l’inconseguenza di un argomento che, introducendo nella physiologia un effetto senza causa, apriva la strada a quelle spiegazioni fantasiose che appunto l’epicureismo intendeva combattere.
Ciò che sorprende è che, tra i numerosi commentatori della dottrina del clinamen nel corso degli ultimi duemila anni, ben pochi abbiano discusso seriamente queste critiche contundenti. In generale, ciò per cui dimostrano più interesse di questo testo del De finibus è il fatto che esso attribuisca a Epicuro (anziché far riferimento a Lucrezio) la paternità di quella dottrina. Tuttavia, è noto che l’esigenza di riferire con precisione i testi in cui si trovano le idee attribuite a un autore è moderna. I commentatori antichi non avevano questa preoccupazione. Ciò non dequalifica la testimonianza di Cicerone, ma suggerisce che essa deve essere accolta con riserva. Sintomaticamente, gli stessi che si valgono di questa testimonianza per attribuire la dottrina del clinamen a Epicuro screditano la cultura e il ragionamento filosofico del grande pubblicista romano nella misura in cui non tengono nella debita considerazione la sua critica. Indubbiamente, essa non soddisfa i criteri metodologici che oggi consideriamo indispensabili per lo studio oggettivo della storia da filosofia.
Egli ricorre tanto ad argomenti che sono per noi pienamente accettabili (perché tengono conto della logica interna del pensiero epicureo), quanto ad obiezioni fondate su principi che Epicuro respinge radicalmente. Così, dopo avere osservato in modo appropriato che l’ipotesi della deviazione senza causa fisica è incompatibile col principio fisico per il quale non vi sono effetti senza cause, egli aggiunge che l’urto caotico degli atomi declinanti con quelli che procedono secondo una rotta sempre rettilinea non potrebbe produrre il bell’ordine del mondo («hunc mundi ornatum efficere non poterit»). È inutile insistere sul fatto che questo argomento finalistico, luogo comune delle prove teologiche dell’esistenza di Dio, si basa su dei presupposti estranei all’epicureismo.
Quando non la ignorano, gli storici della filosofia riproducono approvan- dola la critica ciceroniana a Epicuro. L’esempio più rilevante, anche per l’importanza dell’autore, è quello offerto da Émile Bréhier nel capitolo della sua Storia della filosofia dedicato all’epicureismo. Senza nessuna giustificazione, riprende la critica degli avversari di Epicuro nell’antichità, che non risparmiarono sarcasmi contro la pretesa «spintarella» (coup de pouce) del «fisico imbarazzato perché i fatti non si inquadrano nella sua teoria», ricordando inoltre l’osservazione di Sant’Agostino in Contro gli Accademici, secondo cui introdurre nel cosmo un fenomeno senza causa (la deviazione o declinazione degli atomi) implicava l’abbandono dell’eredità determinista di Democrito, per cui il movimento degli atomi, e conseguentemente quello di tutto il resto, obbedisce a una necessità inesorabile (6). Attribuire a Epicuro una dottrina che è documentata soltanto in testi di epigoni successivi di almeno due secoli alla sua morte rappresenta un’attitudine particolarmente inappropriata per uno storico della filosofia. Indubbiamente, Bréhier si riferisce globalmente all’epicureismo e non ad Epicuro in particolare. Ma ciò che stiamo contestando è appunto questa mescolanza delle tesi di Epicuro con quelle dei suoi seguaci. Come minimo, lo storico francese avrebbe dovuto concedere al Maestro il beneficio del dubbio: non si può, in effetti, escludere a priori la possibilità che, se Epicuro non fa riferimento alla deviazione spontanea, è perché la sua physiologia respinge questa ipotesi.
In se stesso, tuttavia, l’argomento fisico di Cicerone presenta un’importanza incontestabile, sopratutto nella misura in cui si pone, sebbene con obbiettivi meramente polemici, dal punto di vista della conoscenza obbiettiva della natura, condizione necessaria, secondo Epicuro, per la tranquillità dell’anima e la serenità della vita. Questo principio fondamentale è ripetuto specialmente nelle Massime Capitali. Così, la Massima XII pone in risalto che soltanto la conoscenza della natura emancipa gli esseri umani dai timori relativi alle questioni più importanti; senza questa conoscenza, non possiamo eliminare i motivi che provocano angoscia di fronte alle questioni più importanti, né, quindi, godere dei piaceri puri. Del resto, lo stesso «quadrifarmaco» (tetraphármakos), pietra angolare delle Massime, condiziona l’effetto liberatore della sapienza etica all’acquisizione dei lumi della physiologia. In effetti, lo sforzo costante di Epicuro di riformulare l’atomismo in funzione delle critiche che Leucippo e Democrito avevano ricevuto da Platone e, soprattutto, da Aristotele (che li accusa, specialmente, di non indicare la causa del movimento degli atomi) sarebbe stato vano, se supponessimo che, per rispondere ad esse, avesse inventato un movimento fisico privo di una causa.
Lo stesso Lucrezio, del resto, si mostra preoccupato di attenuare le conseguenze perturbatrici di un’eccessiva libertà degli atomi, insistendo sul fatto che la deviazione sarebbe la più piccola possibile. Il verbo «decedere» (allontanarsi, andarsene da), il primo, in ordine di esposizione, a denotare la deviazione, è modificato dall’aggettivo neutro in funzione avverbiale «paulum» (un poco) (v. 219). Tutto il verso successivo, Tantum quod momen mutatum dicere possis («ciò che basta soltanto perché tu possa dire che il movimento è mutato»), mette in rilievo il fatto che gli atomi deviano dalla verticale appena il minimo indispensabile per permettere gli incontri. È chiaro che se gli atomi abusassero della libertà di declinare, provocherebbero incertezze tali da poter turbare i saggi più sereni. Tuttavia, soltanto una causa finale immanente a tutti gli atomi potrebbe costituire una garanzia contro il fatto che essi non abusino di questa facoltà di mutar di direzione, e che essi agiscano sempre con moderazione. Ciononostante, anche una deviazione minima, per il fatto stesso di corrispondere a un’iniziativa fisicamente indeterminata, introdurrebbe nel cosmo un potere occulto oltremodo simile a quello che la teologia astrale conferiva ai grandi corpi siderali.
Ma fiducioso indubbiamente nel fatto che gli atomi declinino disciplinatamente, il poeta si occupa nell’ordine (versi II, 225-250), di respingere le obiezioni suscitate dalla discordanza della sua ipotesi con il criterio della sensazione. Già nei versi II, 184-215 (subito prima, dunque, d’iniziare l’esposizione del clinamen) preoccupato di provare, contro gli aristotelici e gli stoici, che i corpi (composti) leggeri non tendono naturalmente verso l’alto, egli argomenta che la fiamma non si eleva per se stessa ma perché si trova sotto la pressione dell’aria. Se non ci fosse questa pressione, essa cadrebbe verso il basso, «dal momento che tutti i corpi pesanti, per se stessi, si dirigono verso il basso» (verso 190). Il problema è che «verso il basso» designa soltanto una direzione univoca all’interno di un mondo costituito: gli atomi isolati non cadono nel vuoto profondo come gocce d’acqua sulla superficie terrestre. Cadere all’interno di un agglomerato siderale non ha lo stesso significato di cadere nel vuoto, dal momento che nel vuoto nessuna direzione è predeterminata. Ovviamente, non si può sottoporre questa differenza al criterio della sensazione, al quale sfuggono, in quanto invisibili, gli atomi isolati. Osserviamo allora:
(a) che i corpi cadono sulla superficie terrestre verticalmente, senza deviare dalla linea retta, e (b) che i più pesanti cadono più rapidamente dei più leggeri, potendo dunque collidere gli uni con gli altri.
La confutazione consiste nel fatto di notare (a) che la deviazione, in quanto minima, sfugge ai nostri sensi e (b) che la differenza di velocità è provocata dalla resistenza offerta dall’aria e, quindi, che essa non sopraggiunge nel vuoto infinito nel quale si spostano gli atomi isolati. In (a) Lucrezio applica al clinamen soltanto la spiegazione di cui Epicuro si era servito a proposito della invisibilità degli atomi: l’esperienza ci mostra soltanto corpi composti, quindi divisibili. Ma se tutti i corpi fossero divisibili all’infinito, essi si diluirebbero nel non-essere. Analogamente, Lucrezio sostiene che, sebbene non possiamo vedere le deviazioni atomiche, è necessario presupporle affinché abbiano luogo degli incontri. In (b) Lucrezio riprende anche la risposta di Epicuro alle critiche rivolte contro la sua fisica dalla scuola del Liceo: il Maestro aveva riconosciuto che, nel vuoto, gli atomi se spostano con la stessa velocità. Le due confutazioni sono dunque conformi alla fisica di Epicuro. Sono altre, tuttavia, come vedremo più avanti, le ragioni che non soltanto contraddicono la necessità del clinamen, ma mostrano anche che, in una filosofia materialista, esso rappresenta un corpo estraneo.
3. La libertà della volontà
Nel De fato (X, 22) e nel De natura deorum (I, 25), Cicerone rivolge la sua critica contro l’argomento secondo cui la declinazione degli atomi è necessaria per sfuggire al determinismo universale. Nel De fato dichiara che «Epicuro ha introdotto questa spiegazione temendo che se gli atomi fossero trascinati dal loro peso naturale e necessario, non ci sarebbe nulla di libero in noi, giacché il movimento dell’anima risulterebbe dal movimento degli atomi» e, nel De natura deorum, che «se gli atomi fossero trascinati verso il basso dal loro stesso peso (in locum inferiorem suopte pondere), nulla sarebbe in nostro potere». Saremmo sottoposti, come tutto il resto, alla ferrea necessità del movimento atomico. Per evitare tale conseguenza, Epicuro avrebbe attribuito agli atomi la facoltà «di declinare un pochino (declinare paululum)» relativamente al movimento verso il basso (deorsum). E perora, irritato: «È più turpe (turpius) propugnare tale argomento che riconoscere di non disporre di nessun argomento!» (7). Non gli si presentò alla mente l’ipotesi che non tutto ciò che ha scritto Lucrezio può essere imputato al filosofo del Giardino, né, ancor meno, che questi non avesse bisogno di nessun argomento per risolver un problema estraneo al suo pensiero!
Ma questa critica sarebbe poco appropriata anche per Lucrezio. Egli non dice, in effetti, nei versi 251-293 (8), dedicati all’autonomia della volontà, che essa è l’effetto diretto della deviazione spontanea degli atomi, ma sostiene, in sintesi, che se imperasse nella natura un concatenamento ineluttabile di tutti i movimenti, se nulla potesse rompere i nessi meccanici dell’urto degli atomi (versi 251-252: si semper motus conectitur omnis; ex vetere exoritur semper novus ordine certo), non potremmo spiegare la libertà di movimento che constatiamo in tutti i viventi. Da dove verrebbe, in effetti, questo piacere strappato al concatenamento dei fatti (fatis avolsa voluptas) (9), se non ammettiamo che noi stessi decliniamo, non secondo un tempo e un luogo prestabiliti, ma dove la nostra stessa mente ci conduce? (Declinamus item motus, nec tempore certo, nec regione loci certa, sed ubi ipsa tulit mens (versi 259-260).
In questa nuova funzione, differentemente da quella che esercita quando è garanzia dell’incontro degli atomi, il clinamen può essere confermato dalla sensazione. In una filosofia per la quale la fonte e il criterio fondamentale di ogni conoscenza sono gli «eídola» (le immagini irradiate dai corpi, le quali, in quanto tali, non ci ingannano mai) è evidente l’importanza della dimostrazione di un’esperienza della deviazione. Essa non può essere offerta dalle deviazioni cosmogoniche, che si trovano, come gli stessi atomi, al di sotto del limite della sensazione. Ma si verifica nei movimenti in cui, per incontrare l’oggetto del piacere, rompiamo l’inerzia dei nostri corpi. La forza del desiderio (vim cupidam) (10) conferisce ai viventi (animantibus) (11) l’impulso che rompe il concatenamento meccanico dei movimenti.
Questo impulso non sarebbe, tuttavia, la mera pulsione di una carenza organica, quindi il mero effetto di un movimento anteriore? In che senso, in effetti, la soddisfazione di un desiderio può configurare un atto libero? Osservando che si decide di agire o di astenersi dall’azione, interrompere l’a- zione o l’inazione, in funzione di un quadro di circostanze configuratrici della situazione o in funzione di una riflessione più matura, Maurice Solovine si chiede che cosa potrebbe significare, in una qualsiasi di queste ipotesi, il preteso intervento o per lo meno condizionamento del clinamen. «Se è esso che svolge un ruolo decisivo nella mia determinazione, la mia riflessione è inutile e non sono libero. Ma se la mia condotta è determinata da motivi seri, non si riesce a capire bene a che cosa serva il clinamen» (12). L’obiezione è di buon senso, ma un po’ anacronistica: essa presuppone che la questione dell’autonomia della volontà nel poeta romano coincida con la questione moderna del libero arbitrio. Non condividendo questo presupposto, Mayotte Bollack giustifica, nel suo minuzioso commentario di De rerum natura, II, 184-293, la tesi secondo cui «la voluptas è detta libera perché essa si costituisce non soltanto contro le pressioni esterne, ma contro il corpo e la sua inerzia» (13).
Sulla base di questa tesi, difende, nella polemica che da secoli divide gli editori di Lucrezio a proposito della parola chiave di II, 257, l’opzione per fatis avolsa voluptas. Contro coloro che, mossi dalla radicata convinzione («les habitudes de pensée») per cui la volontà si affermerebbe in contrapposizione al destino, preferiscono leggere voluntas (o potestas), argomenta in modo convincente che l’idea di una «libera…voluptas» (versi 256-257) lascia perplessi perché «il piacere, nella coscienza moderna, è cupo e asservisce». Per gli epicurei, però, «gli atti della volontà sono determinati dal piacere, ma questo piacere è libero»; «andando dove ci guida la volontà, seguiamo sempre il cammino del piacere» (14).
Questa interpretazione è rinforzata dalla bellissima invocazione a Venere che apre il poema con la celebrazione di un pansessualismo cosmogonico (I, 1-44). La personificazione della voluptas da parte della dea dell’amore suggerisce che l’atomo desidera l’incontro per generare mondi, così come il maschio desidera la femmina per generare figli. Intesa in senso forte, secondo il paradigma matematico (a/b = c/d), l’analogia traspone per i corpi costituiti, più esattamente, per i viventi dotati di sensibilità e di movimento proprio, la deviazione che permette l’incontro degli atomi nel vuoto infinito. Lucrezio, però, va ancora più lontano. Senza stabilire una relazione di causa ed effetto tra la rottura spontanea della traiettoria rettilinea degli atomi e l’autodeterminazione della volontà (anche perché si tratta appunto di rompere la catena di nessi meccanici), Lucrezio stabilisce nei versi II, 253-254, una relazione di condizionante e condizionato tra gli atomi (primordia) che, declinando, danno origine a un movimento che rompe i patti del destino (fati foedera) e la deviazione che va in direzione dell’oggetto del desiderio. Senza la deviazione atomica non sarebbe possibile l’impulso del piacere.
Francis Wolff sviluppa la stessa interpretazione di Mayotte Bollack (l’atto libero è il movimento deviante che produce e accompagna la sensazione piacevole), ma ponendo l’accento sull’esperienza della deviazione:
Sentiamo chiaramente che gli incontri (coiti) si giustificano per una tendenza (inclinatio) che dipende dalla nostra volontà; quello che si chiama piacere e che sperimentiamo a partire da un movimento generatore del quale siamo la causa. Se i corpi animali non traessero piacere da ciò, non copulerebbero mai, non nascerebbe mai alcun corpo animale. Sperimentiamo in noi questa forza che dirige il nostro movimento e che ci permette di avanzare (progredimur, 258; procedere, 270) secondo la nostra volontà (257-271); lanciarci (adire) per queste molteplici vie «dove ci conduce la stessa guida della vita, il divino piacere» (II, 171-172) (15).
L’identificazione degli incontri coi coiti può sembrare forzata («pour épater le bourgeois», come si dice in Francia) ma non è arbitraria. Il termine latino coitus viene dal verbo coeo (il cui supino è coitum) che significa unirsi, congiungere, stare congiunto. Coitus designa unione, congiunzione, in particolare la congiunzione sessuale. Se l’atto libero fosse un mero analogo della deviazione degli atomi, potremmo dire che il maschio si unisce alla femmina come l’atomo declinante si unisce all’altro atomo, ma considerando la funzione condizionante dell’unione primordiale relativamente all’unione sessuale, dobbiamo intendere che la deviazione che conduce al coito atomico rende possibile la deviazione amorosa.
Questa apoteosi della libido è simpatica e suggestiva, ci allontana tuttavia non soltanto dalla fisica materialista di Epicuro, ma anche dalla sobrietà della sua etica, che considera con circospezione gli amplessi erotici (piaceri naturali ma non necessari). Inoltre, occorre notare che egli non ritenne necessario ricorrere alla deviazione spontanea degli atomi per respingere perentoria- mente, nella Lettera a Meneceo (§ 133-134), la tesi di Democrito secondo cui tutto si produce per la necessità («panta te kat anagkhn ginesqai») (16) e per dichiarare che la nostra volontà (letteralmente: «ciò che è relativo a noi») non ha padrone (to de par hma$ adespoton). In effetti, per Epicuro, la mente è costituita di due parti, entrambe composte di atomi sottilissimi. Una parte, corrispondente alle funzioni sensoriali e psicosomatiche elementari, è coestensiva all’involucro corporeo (17), e lo percorre in modo simile alla respirazione e al calore. L’altra parte, localizzata nel tronco, assume le funzioni del pensiero.
Ad essa affluiscono le sensazioni e le emozioni e da essa partono le deliberazioni e le decisioni. Il movimento vibratorio di questi sottilissimi atomi pensanti, chiusi nella cassa toracica, opera secondo una dinamica propria, nella quale s’incrociano sensazioni e stimoli recenti, esperienze consolidate nella forma di prenozioni, abiti acquisiti come quello di comparare gli effetti probabili di ogni azione ecc. Non è affatto necessario supporre che in questo complesso psichico, la possibilità di deliberare con autonomia dipenda da una deviazione di rotta degli atomi nel vuoto infinito. Sotto questo rispetto, quindi, il Maestro del Giardino è più prossimo alla nozione moderna di libero arbitrio del suo discepolo romano.
4. L’incontro secondo Epicuro
Non soltanto il termine paregklisi$, referente greco di clinamen, è assente dagli scritti di Epicuro che ci sono rimasti, ma in tutti i passaggi in cui egli avrebbe logicamente fatto riferimento alla deviazione, in particolare nella Lettera a Erodoto, in cui espone i principi della sua cosmologia, troviamo invece argomenti che chiaramente la escludono. I tre più importanti sono:
1 – Per provare che il numero di atomi è infinito, Epicuro argomenta (Lettera a Erodoto, §§ 41-42) che se il vuoto fosse infinito e i corpi limitati, questi, mancando dell’appoggio e dei contraccolpi offerti dalle collisioni, si disperderebbero per l’immensità dell’ápeiron. In questa ipotesi, non ci sarebbe composizione di atomi, né, quindi, nessun mondo. L’assurdo di una tale conclusione prova non soltanto la tesi secondo cui gli atomi sono infiniti di numero, ma anche che la condizione sufficiente perché abbiano luogo degli incontri, delle collisioni e degli agglomerati è che la quantità di atomi sia infinita. Resta implicita, ma inequivocabilmente esclusa, come assurda, l’ipotesi (sulla quale si basano i difensori del clinamen) che atomi in numero infinito possano non incontrarsi.
2 – Poco più avanti (§§ 43-44), Epicuro descrive il movimento degli atomi, i loro incontri, scontri e i loro agglomerati, spiegando che la solidità dell’atomo lo fa rimbalzare dopo ogni collisione con un altro atomo: h te stereoth$ h uparcousa autai$ kata thn sugkrousin ton apopalmon poiei e chiarendo che il rimbalzo ha luogo anche quando l’atomo è circondato da altri (in questo caso percorre una breve distanza, e il suo movimento diventa un vai-e-vieni vibratorio). Aggiunge immediatamente che «essi non hanno avuto inizio, poiché gli atomi e il vuoto esistono per tutta l’eternità (arch de toutwn ouk e‘ stin, aidiwn twn atomwn ouswn kai tou kenou). Traduciamo concisamente con «essi» il pronome toutwn, il cui antecedente ovvio sono i movimenti e gli urti descritti nella frase precedente. Essi non hanno avuto inizio, quindi si stanno incontrando da sempre. Così lo avevano inteso alcuni tra i più importanti studiosi e traduttori di Epicuro, in particolare Friedrich Lange, che ha tradotto:
«The atoms are in constant motion, in part widely removed from each other, while in part they approach each other and combine. But of this there was never a beginning» (18). È evidente che «of this» si riferisce a tutta la frase precedente, come anche «they approach each other and combine». Da tutta l’eternità, ci sono stati incontri e combinazioni di atomi. R.D. Hicks è ancora più esplicito, quando traduce toutwn con «of all this» (19). Infine, Maurice Solovine, a cui dobbiamo la critica più sistematica della dottrina del clinamen, ha tradotto con «ces processus», mettendo l’accento sul fatto che questa formula include gli incontri e le combinazioni degli atomi (20).
Contraria l’interpretazione di Ettore Bignone, uno dei pochi difensori del clinamen che discutano seriamente questo brano, traduce toutwn con «questi movimenti» (21), intendendo dunque che esso attribuisce eternità ai movimenti degli atomi, ma non ai loro urti reciproci. Ciononostante, egli riconosce che l’assenza di una qualsiasi allusione alla declinazione degli atomi negli altri testi del Maestro del Giardino che ci sono rimasti è filosoficamente motivata, dal momento che la Lettera a Erodoto, che si propone esplicitamente e enfaticamente di esporre al discepolo le «dottrine fondamentali della fisica» (§ 35 sgg.), spiega il movimento degli atomi senza fare alcun riferimento alla declinazione, e che neanche nei frammenti del Sulla natura trovati ad Ercolano risulta una qualsivoglia allusione a una deviazione spontanea degli atomi nel vuoto. Da questa constatazione egli non inferisce però l’estraneità del principio della declinazione spontanea al pensiero di Epicuro, ma sostiene invece che si tratta di un’elaborazione tarda, posteriore agli altri testi che abbiamo di Epicuro, il cui intento è di rispondere alle critiche degli accademici e dei peripatetici.
Come tutte le interpretazioni «evoluzionisiche», anche questa si sostiene su di un argomento di solido buon senso: nessuna filosofia nasce già bell’e fatta nel cervello di un pensatore. Ma il buon senso è assai spesso una soluzione di comodo. Nel caso specifico, pretende di risolvere delle difficoltà ermeneutiche dissolvendole nel flusso del tempo. Inoltre, non è incoerente ammettere, da una parte, che Epicuro avrebbe adottato la dottrina della deviazione spontanea soltanto dopo avere scritto la Lettera a Erodoto e, d’altra parte, che in quella Lettera avrebbe già voluto dire che tou/twn si riferisce solamente a «questi movimenti», evitando di affermare che gli atomi s’incontrano da tutta l’eternità, come se stesse indovinando che più tardi avrebbe cambiato opinione, per aderire, come pretende Bignone, alla dottrina della deviazione spontanea? Non c’è ragione di accettare questa ipotesi non documentata, che è filosoficamente inutile e forza il senso del testo.
3 – Seguendo Lucrezio, la maggior parte dei traduttori e commentatori moderni ha ritenuto, traducendo deorsum e cadere (con «caduta», «chute», «fall», «queda» ecc.), che gli atomi isolati si dirigano verticalmente verso il «fondo» del vuoto e da ciò hanno inferito che, senza il clinamen, essi non s’incontrerebbero mai. Hanno semplicemente omesso di considerare che l’infinito non ha né fondo né cima, né «il» punto più alto, né «il» punto più basso, come dichiara enfaticamente la Lettera a Erodoto (§ 60): «non si deve predicare l’alto e il basso per quanto riguarda l’infinito (ou dei tou apeirou w$ men anwtatw kai katwtatw ou dei kategorein to anw h katw), come se in esso ci fosse un punto assolutamente più alto (anwtatw) e un punto assolutamente più basso (katwtatw)». In effetti, non ha senso parlare di posizioni assolute nell’infinito. La traiettoria (fora) degli atomi isolati nel vuoto non può, dunque, ricevere tali predicati.
Tuttavia, subito di seguito (Lettera a Erodoto, § 61), dopo aver notato che la velocità degli atomi nel vuoto è la stessa per quelli più e per quelli meno pesanti (giacché essi non incontrano nessun ostacolo che li trattenga), Epicuro aggiunge: «anche il movimento verso l’alto o in obliquo, provocato dagli urti, non è diverso dal movimento verso il basso causato dallo stesso peso» (h katw dia twn idiwn barwn). Che cosa significa un movimento verso il basso in un tutto universale senza alto né basso? La nostra ipotesi è che Epicuro riservi questa designazione al movimento fondamentale degli atomi, determinato dal peso specifico (22), per distinguerlo dal movimento obliquo o verso l’alto, risultante dall’urto con altri atomi. Questo movimento fonda- mentale è coestensivo all’atomo e tanto assoluto quanto esso. Non è tuttavia solamente per il fatto di avere peso ma, principalmente, per il fatto di essere impenetrabili, inalterabilmente compatti, che gli atomi rimbalzano, quando non si agganciano gli uni agli altri. I rimbalzi risultano dall’effetto composto di due forze (dunamei$): il peso (che spinge costantemente gli atomi verso il «basso» in linea retta) e l’impenetrabilità, che li spinge, quando essi entrano in collisione senza unirsi, nella direzione determinata dall’angolo dell’urto.
La seconda forza si sovrappone alla prima, senza che i loro effetti si confondano. Il peso specifico continua a spingere «verso il basso», ma adesso questa locuzione avverbiale giustifica pienamente le virgolette: siccome l’urto dirige gli atomi verso l’alto o verso i lati, «verso il basso» diventa sinonimo di «in avanti», cioè l’atomo «cade» nella direzione verso la quale l’urto lo ha proiettato (23). Gli atomi stanno, dunque, sempre «cadendo», se con «caduta» intendiamo l’effetto del peso nel vuoto. Perciò, quelli che rimbalzano verso l’alto «cadono» tanto quanto quelli che rimbalzano verso il basso o verso i lati. «Cadere» significa quindi andare avanti fino all’urto successivo. Gli urti tra atomi isolati si verificano frequentemente, ma per definizione sono istantanei e aleatori.
Quanto agli atomi incapsulati in un agglomerato, per esempio i fluidi nel corpo, i neuroni nel cervello ecc., essi urtano contro i limiti del corpo che li contiene, in modo tale che il movimento fondamentale di «caduta in avanti», combinato con rimbalzi incessanti, consiste in una corta traiettoria di vai-e- vieni, come una vibrazione sempre ripetuta.
5. La dialettica contro il materialismo
Ricordando che, per Epicuro, gli atomi «have no qualities except size, figure and weight», Friedrich Lange trasse la conclusione filosofica secondo cui: This proposition, which formally denies the existence of intrinsic qualities as opposed to external motions and combinations, forms one of the characteristic features of all Materialism. With the assumption of intrinsic qualities, the atom has already become a monad, and we pass on into Idealism or pantheistic Naturalism (24).
Storico metodico, Lange non discute la deviazione in questo contesto, dal momento che Epicuro non la menziona, ma nel capitolo dedicato al poema di Lucrezio, in cui qualifica come «very singular» l’espediente adottato dal poeta. Non si vede, in effetti, come si originino le aberrazioni della traiettoria degli atomi. Ma «Lucrezio risolve la sciarada («riddle»), o piuttosto taglia la questio- ne alla radice, facendo ricorso ai movimenti volontari dell’uomo e degli animali» (25). Sembra evidente che questa soluzione comporta l’attribuzione di stati interni all’atomo, che lo trasformano in monade (26). Una monade meno spirituale di quella di Leibniz, dal momento che (a) ha come paradigma lo spermatozoo e l’ovulo, (b) esaurisce la sua componente teleologica col minimo movimento possibile (o «decedere paulum» cosmogonico) e (c) la sua facoltà di deviare, per quanto intrinseca, corrisponde alla necessità estrinseca che ci siano incontri.
È notevole che l’unica spiegazione logica del clinamen e, perciò stesso, assolutamente idealistica, sia proprio quella fornita dall’interpretazione monadologica, e che essa sia stata formulata, nella sua prima gioventù, da parte di un dottorando in filosofia chiamato Karl Marx. Secondo il più puro spirito hegeliano, egli mostra che le determinazioni dell’atomo si originano le une dalle altre attraverso il movimento costitutivo della negazione. Occorre esaminare più da vicino questa dimostrazione.
Anche ammettendo, già nei quaderni preparatori della sua tesi sulla Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro (27), che la dottrina del clinamen si trova chiaramente attestata solo nel poeta romano, Marx ritiene che non abbia «alcuna importanza» che egli l’abbia presa da Epicuro oppure no (28). L’amalgama tra il Maestro del Giardino e il suo illustre epigono è quindi esplicitamente ammesso. Ciò che gli importa è giustificare la sua interpretazione dell’epicureismo come l’espressione più coerente della tendenza delle filosofie ellenistiche all’affermazione dell’autocoscienza del saggio di fronte al cosmo disincantato e alla conseguente liberazione degli spiriti sottomessi dal timore ancestrale suscitato dalla furia delle forze naturali che essi concepivano, certo, non come naturali ma come una manifestazione delle passioni divine.
Come conseguenza, Marx legge Epicuro con le lenti di Lucrezio. Lo legge soprattutto con le lenti del suo tempo e della scuola filosofica con la quale ancora s’identificava. Per ciò stesso, conferisce la più grande importanza al tema del clinamen, dedicandogli il primo capitolo «Die Declination des Atoms von der geraden linie» della seconda parte («Über die Differenz […] im Einzelnen») della sua tesi. Sostiene, sulla base del dossografo Stobeo, che ci sono, secondo Epicuro, tre movimenti dell’atomo nel vuoto: la caduta in linea retta, la deviazione («abweicht») rispetto alla linea retta e la repulsione («Repulsion») di molti atomi. Il primo e l’ultimo sono ammessi anche da Democrito; il secondo, cioè la «Declination des Atoms von der geraden Linie» soltanto da Epicuro (29). In assenza di qualsiasi testo dello stesso Epicuro a sostegno di questa interpretazione di Stobeo, Marx si rifà alla versione lucre- ziana dell’epicureismo. La difende dalla critica mossa da Cicerone e da Pierre Bayle che «attribuiscono ad Epicuro dei moventi dei quali l’uno annulla l’altro», ammettendo la declinazione degli atomi ora per spiegare l’urto (die Repulsion), ora per spiegare la libertà. «Questa interpretazione, tanto super- ficiale e incoerente («so äusserlich und zusammenhangloss»)» (30), lascia da parte l’essenziale, cioè:
Gli atomi sono corpi del tutto autonomi, o piuttosto sono il corpo pensato in assoluta autonomia, come i corpi celesti. Essi perciò, come quest’ultimi, si muovono non in linee rette, bensì oblique. Il movimento della caduta è il movimento della non-autonomia (31). Se dunque con il movimento dell’atomo in linea retta Epicuro ne rappresenta la materialità, con la declinazione dalla linea retta egli ne ha realizzato la determinazione formale: e queste opposte determinazioni vengo- no rappresentate come movimenti immediatamente opposti. Lucrezio ha dunque ragione di affermare che la declinazione infrange i fati foedera; e, poiché egli applica subito ciò alla coscienza, si può dire dell’atomo che la declinazione è quel qualcosa nel suo petto che può opporsi e resistere (32).
Determinazione intrinseca all’atomo, la declinazione può essere compresa soltanto come passaggio dallo stato di alienazione (in cui esso si muove secon- do la linea retta per forza del proprio peso e non per decisione propria) a uno stato di autonomia (esso declina per affermarsi negando la retta). Non c’è materialismo che resista a questa dialettica. Lo stesso Marx segnala, del resto, nel capitolo finale della tesi (II parte, capitolo V, «Le meteore»), il limite di pertinenza del confronto tra atomi e corpi celesti, cioè la critica di Epicuro alla teologia astrale:
la teoria di Epicuro intorno ai corpi celesti ed ai processi ad essi connessi, ovvero intorno alle meteore […] sta in contrasto non solo con le opinioni di Democrito, ma con quelle dell’intera filosofia greca. La venerazione dei corpi celesti è un culto celebrato da tutti i filosofi greci. Il sistema dei corpi celesti è la prima forma di esistenza, ingenua e determinata in modo naturale, della ragione reale. La stessa posizione ha, nell’ambito dello spirito, l’autocoscienza greca. Essa è il sistema solare dello spirito. I filosofi greci, perciò, adoravano nei corpi celesti il loro stesso spirito (33).
Questo è un punto essenziale dell’etica epicurea, e perciò non sono tanto importanti le digressioni idealistiche del giovane Marx sul clinamen quanto il riconoscimento, che si trova ormai nelle ultime righe della sua tesi, secondo cui Epicuro è quindi il più grande illuminista greco, e merita la lode di Lucrezio: «Quando palesemente la vita umana in modo turpe giaceva schiacciata ovunque in terra sotto la pesante superstizione, / che dalle regioni celesti sporgeva il capo / incombendo sui mortali con orribile aspetto, / fu un uomo greco che per primo alzarle contro / osò gli occhi mortali, e per primo resisterle» (34).
Gli storici marxisti della filosofia antica del XX secolo, senza chiedersi se il Marx della tesi di dottorato possa essere considerato marxista, hanno difeso la dottrina del clinamen con la stessa convinzione con cui avrebbero difeso la tesi secondo cui il capitale non è una cosa, ma una relazione sociale. Nonostante segnali che la declinazione, «violentamente attaccata nell’antichità, in particolare da Cicerone», «sia omessa nella Lettera a Erodoto», Paul Nizan sostiene che essa costituisca un elemento essenziale della dottrina che non si trovava nella fisica democritea […]. La declinazione è un’ipotesi fisica destinata a spiegare l’incontro degli atomi. D’altra parte, essa è una legge etica: l’atomo è in un suo significato il modello dell’individuo autonomo. Così come gli dèi epicurei si definiscono in base alla maggiore libertà e il saggio si definisce in base alla liberazione assoluta, allo stesso modo l’atomo si defini- rà in base alla sua capacità interna di determinazione (35).
Non è possibile accettare con più chiarezza la tesi secondo cui l’atomo è una monade. Alla stessa conclusione è letteralmente giunto Jean-Marc Gabaude nel suo saggio sul giovane Marx e il materialismo antico. Legando il caso (hasard) alla declinazione, egli distingue due livelli, la declinazione e la collisione degli atomi, quest’ultima derivata dalla prima, e due stadi, «il caso nella genesi di un mondo e il caso intra-mondano in un mondo costituito» (36). Lucrezio non dice esattamente questo, ma piuttosto che se gli atomi non fossero soliti declinare («nisi declinari solerent», II, 221) non ci sarebbero incon- tri e non sarebbe stata creata nessuna natura. Non ci sembra che il fatto che essi siano soliti declinare possa essere considerato un caso. Secondo Epicuro – insistiamo su questo punto –, il caso che genera i mondi è l’incontro di atomi di forme differenti e perciò stesso complementari. Ma secondo Gabaude, «le hasard […] naturalise, physicalise le libre arbitre, de même che Leibniz attribuera spontanéité et contingence à toute monade» (37). Come dicono gli spagnoli, «más claro, agua!».
Tentando di criticare la solida argomentazione di Solovine contro l’attribuzione del clinamen a Epicuro, Gabaude offre un esempio di difesa dogmatica dell’interpretazione monadologica. Riprende il logoro argomento della «faible proportion des textes sauvés» (al quale, tuttavia, né il giovane Marx né Nizan avevano fatto ricorso), dimenticando che la cosa fondamentale non è la quantità ma piuttosto la qualità dei testi. L’argomento principale è ancora più debole:
Épicure […] a voulu rendre plus logique la conception démocritéenne et répondre à la critique d’Aristote reprochant à l’atomisme d’admettre le mouvement sans expliquer ses causes. Épicure décompose donc le mouvement désordonné de Démocrite en un mouvement rectilignéaire dû à la pesanteur et en un mouvement de déclinaison: les mouvements démocritéens sont ainsi conservés, mais expli- qués. […] Le propre du physicien est toujours de découvrir les éléments simples (chute verticale et déclinaison) sous la compléxité apparente (le mouvement désordonné de Démocrite)(38).
L’argomento maltratta il pensiero in generale, e non soltanto quello di Epicuro. Come si può pretendere che la declinazione, movimento interno spontaneo degli atomi-monadi, possa offrire una spiegazione «propre du physicien»?
6. Dalla pioggia di Lucrezio a quella di Althusser
In Le courant souterrain du matérialisme de la rencontre, testo che, com’è noto, costituisce, sia per il contenuto filosofico sia per la data in cui è stato scritto (1982) (39), un testo-chiave del suo testamento intellettuale, Louis Althusser identifica in Epicuro e nella dottrina del clinamen il punto di par- tenza nella storia della filosofia della lunga tradizione sotterranea del «materialismo» «della pioggia, della deviazione, dell’incontro [rencontre] e della presa [prise]» (40). Tutte queste espressioni, di cui alcune sono evidentemente metaforiche, illustrano la sua tesi fondamentale:
Che l’origine di ogni mondo, dunque di ogni realtà e di ogni senso sia dovuta ad una deviazione, che la Deviazione e non la Ragione o la Causa sia l’origine del Mondo, offre un’idea dell’audacia della tesi di Epicuro […]. Si può esprimere tutto questo in un altro linguaggio. Il mondo può essere detto il fatto compiuto […], puro effetto della contingenza, poiché è sospeso all’incontro aleatorio degli atomi dovuto alla deviazione del clinamen […]. Esso non è più enunciato della Ragione e dell’Origine delle cose, ma teoria della loro contingenza e riconoscimento del fatto, del fatto della contingenza, del fatto della sottomissione della necessità alla contingenza (41).
Poco importa che qui Althusser abbia impropriamente attribuito ad Epicuro la dottrina della deviazione spontanea. Come tanti altri prima di lui– compreso e principalmente il Marx della tesi di dottorato –, interpreta l’epicureismo a partire da Lucrezio. Tuttavia, diversamente dal giovane Marx, che vedeva nell’epicureismo l’apoteosi dell’autonomia del saggio di fronte al mondo, egli rifiuta preliminarmente, nell’esposizione del suo «matérialisme de la rencontre», l’interpretazione repressiva e deformatrice secondo cui la «tradizione filosofica» avrebbe assoggettato questo materialismo della contingenza radicale per presentarlo nella forma di un «idealismo della libertà» (42). La critica si applica al giovane Marx, ma certamente non a Epicuro. Può sembrare un esercizio inutile di pedantismo accademico argomentare che la «semplice pioggia» di Lucrezio (che Althusser oppone preliminarmente alla pioggia di Malebranche, «provvidenziale o controprovvidenziale») serva soprattutto da motivo ispiratore e da paradigma poetico per Althusser.
Occorre però osservare che, sebbene sia lasciata «agli specialisti la questione di sapere chi ne ha introdotto il concetto» (di clinamen), egli dichiara, subito dopo, che questo concetto è indispensabile alla «logica» delle tesi di Epicuro (43).
Il principio di questa «logica» sarebbe il riconoscimento del carattere aleatorio di ogni incontro costitutivo, «di ogni realtà e di ogni senso». Non è esattamente ciò che Epicuro pensava della sua «logica». Criticando le dottrine fataliste (secondo le quali tutto è retto dal Destino), in un brano già citato della Lettera a Meneceo (§§ 133-134), egli distingue «ciò che accade necessariamente, ciò che risulta dal caso (apo tuch$) ed infine, ciò che corrisponde alla nostra iniziativa». Il movimento degli atomi nel vuoto obbedisce alla necessità. Già i mondi sono frutto del caso: si formano quando atomi si agganciano in numero sufficiente per formare ciò che oggi chiameremmo la «massa critica» di un agglomerato cosmico. Gli atti liberi, infine, risultano dalla deliberazione intorno a condotte opposte. La prova del fatto che possiamo deliberare ci è data ad ogni passo dall’esperienza etica, che ci insegna a scegliere i piaceri propizi e a sopportare le sofferenze inevitabili.
Ben lungi dal potere essere interpretato nei termini del nulla radicale soggiacente a «l’origine de tout monde, donc de toute réalité» (44), l’apo tuch$ è circoscritto da una parte dal necessario e dall’altra dall’atto libero. La sua importanza resta, evidentemente, decisiva: i mondi si formano a caso. Ma sostenendo che l’incontro è aleatorio perché risulta da una deviazione, Althusser non vede che, secondo Epicuro, gli atomi non hanno bisogno di deviazioni per incontrarsi, perché, muovendosi in linea retta in tutte le dire- zioni, si urtano da sempre ciecamente e casualmente.
Appare comunque paradossale che, per disseppellire una tradizione sotter- ranea della storia della filosofia, soffocata dalla tradizione ufficiale, Althusser faccia ricorso a una nozione il cui prestigio è stato alimentato da un idealismo sotterraneo, cioè l’interpretazione monadologica del movimento atomico. Abbiamo visto – è vero – che egli respinge la metamorfosi del clinamen in un «idealismo della libertà». Ma ciò conferma che per lui la deviazione ha una funzione opposta a quella che Lucrezio attribuisce al clinamen. Questo è necessario per rendere possibile l’incontro, nella misura in cui la deviazione aleatoria presuppone la possibilità che l’incontro non sia accaduto. Occorre notare che Lucrezio applica alla deviazione cosmogonica soltanto le formule restrittive «decedere paulum» (II, 221) e «exiguum clinamen principiorum» (II, 292). Non si serve di esse a proposito del movimento piacevole, i cui amplessi, di fatto, non hanno l’abitudine di accontentarsi dei «minimi possibili».
Nel corso del suo saggio, Althusser insiste sul fatto che tutte le configurazioni del divenire materiale e storico risultano da incontri radicalmente aleatori e che anche gli incontri che «fanno presa», formando agglomerati relativamente stabili sono contingenti. «Jamais une rencontre réussie et qui ne soit pas brève mais dure, ne garantit pas qu’elle durera encore demain au lieu de se défaire […]. En un autre langage rien ne vient jamais garantir que la réalité du fait accompli soit la garantie de sa pérennité» (45). Ma l’enfasi posta sulla precarietà dei «fatti che hanno avuto luogo» relega in secondo piano l’esame delle condizioni della «presa». Perché certi incontri «danno luogo a fatti» e altri no? Nel materialismo di Epicuro, «fanno presa», «si rapprendono» (mantenendo le metafore culinarie così francesi di Althusser) gli atomi le cui differenze di grandezza e di forma sono complementari. Due atomi simili, per esempio, di forma sferica, tendono a respingersi quando si urtano. La forma di due atomi che s’incontrano è evidentemente aleatoria, e lo è quindi anche il risultato dell’incontro (essi si respingono se sono simili, formano un agglomerato se le loro differenze l’incatenano l’uno all’altro).
Althusser forse non ha tenuto in conto questa soluzione tanto semplice e tanto fedele ai testi di Epicuro, considerandola di quel tipo puramente mec- canicistico ispiratore delle metafisiche materialiste del XVII e XVIII secolo, che consideravano l’universo secondo il paradigma del tavolo da biliardo, in cui la posizione di ogni palla è determinabile rigorosamente in base alla forza degli urti che ha ricevuto. Se questa ipotesi è corretta, dobbiamo concludere che la filosofia althusseriana della contingenza radicale sopravvaluta l’aspetto aleatorio dei fenomeni naturali e storici al punto da allontanarsi da qualsiasi posizione materialista, comunque la si possa intendere. Perciò dobbiamo accogliere letteralmente il chiarimento secondo cui il «materialismo dell’incontro» è materialista soltanto a titolo provvisorio («par provision») (46).
[Traduzione dal portoghese di Marco Vanzulli]
Note
1 Il Thesaurus Graecae Linguae, vol. 6, Paris, Firmin Didot, 1842-1847, riporta per la voce paregklisi$ i significati: «Defluxio et inclinatio in latus», impiegato da Galeno in anatomia (per esempio, «vulvae ad latus inclinatio») e «Declinatio», aggiungendo: «De atomis Epicuri». Soltanto che (come farà, con la stessa voce, anche A. Bailly nel suo Dictionnaire Grec-Français), definisce paregklisi$ come «inclinaison de côté», riportando due esempi, attribuiti entrambi a Epicuro, ma tratti da due dossografi che sono vissuti rispettivamente circa trecentocinquanta e settecentocinquanta anni dopo il maestro del Giardino: Plutarco (Moralia, 883a ecc.) e Stobeo (Eclogarum physicarum et ethicarum libri II, 1, 346).
2 Il verbo latino clino, nella pratica, non è impiegato allo stato puro, ma solamente attraver- so i suoi composti (oltre ai due a cui abbiamo fatto riferimento, anche acclino e reclino).
3 L’esposizione completa, come vedremo più avanti, occupa i versi 216-293 del De rerum natura, II.
4 Corpora cum deorsum rectum per inane feruntur, 217
Ponderibus propriis, incerto tempore ferme,
Incertisque locis, spatio decedere paulum,
Tantum quod momen mutatum dicere possis
Quod nisi declinare solerent, omnia deorsum, 221
Imbris guttae, cadere per inane profundum,
Nec foret offensus natus, nec plaga creata
Principiis: ita nil unquam natura creasset. 224
De rerum natura, 217-224). Notiamo che deorsum appare nei versi 217 e 221 e che cade- re per inane profundum (v. 222) rinforza la descrizione della traiettoria degli atomi libe- ri come diretta verso il «fondo» del vuoto.
5 Cfr. Cicerone, De finibus I, 6, 18-19. Egli impiega anche «deorsum», ma scrive «ad lineam» anziché «rectum».
6 É. Bréhier, Histoire de la philosophie. Tome premier. L’antiquité et le moyen age. II période hellénistique et romaine, Paris, Felix Alcan, 1934, pp. 346-347.
7 Occorre notare che declinare paululum corrisponde a decedere paulum di De rerum natura, II, 217.
8 L’esposizione di questo secondo blocco va fino al verso 293. Commentiamo qui soltanto la formulazione iniziale della questione, versi II, 251-260: Denique si semper motus conectitur omnis
Ex vetere exoritur semper novus ordine certo,
Nec declinando faciunt primordia motus
Principium quoddam, quod fati foedera rumpat,
Ex infinito ne causam causa sequatur,
Libera per terras unde haec animantibus exstat,
Unde est haec, inquam, fatis avolsa voluptas.
Per quam progredimur quo ducit quemque voluntas?
Declinamus item motus, nec tempore certo, nec regione loci certa, sed ubi ipsa tulit mens.
Non è irrilevante il fatto che la parola clinamen appaia soltanto alla fine di questa esposizione (verso 292). Il grande poeta romano utilizza quindi molto meno questo termine (preferito dai moderni) delle forme verbali decedere (v. 219), declinare (v. 221), inclinare (v. 243), declinare (v. 250), declinando (v. 253), declinamus (v. 259).
9 È lunga la polemica intorno a questa espressione. Alcuni editori hanno optato per potestas, altri per voluntas; diremo tra poco perché abbiamo mantenuto voluptas.
10 Questa espressione si trova al verso II, 265.
11 Cfr. verso II, 256.
12 Maurice Solovine, «Note sur le clinamen», in Épicure. Doctrines et maximes, Paris, Hermann, 1965, pp. 182-183. Egli aggiunge che, essendo l’anima per Epicuro, composta di un genere particolare di atomi e divisa in anima irrazionale, sparsa per l’intero corpo, e anima razionale, situata nel petto, «gli atti istintivi e automatici, dovuti alla prima, si distinguono nitidamente dagli atti riflessi, dovuti a quest’ultima» (ivi, p. 183).
13 M. Bollack, «Momen mutatum» (La déviation et le plaisir, Lucrèce, II, 184-293), seguito da un appendice dell’autrice e di J. Bollack e da Histoire d’un problème di H. Wismann, «Cahiers de Philologie» 1 (1976), «Études sur l’épicurisme antique», Université de Lille III, p. 176.
14 Ivi, pp. 176 e 178.
15 F. Wolff, Logique de l’élément. Clinamen, Paris, PUF, 1982, p. 178.
16 D.L., IX, 45.
17 Non dimentichiamoci che anche l’anima è corporea. Per distinguerla da ciò che abitualmente chiamiamo corpo, ci serviamo del termine «involucro».
18 L’opera originale Geschichte des Materialismus, è del 1865. Abbiamo utilizzato la tradu- zione inglese, F. Lange, The History of Materialism, Londres, The International Library, 1950, p. 105.
19 R.D.Hicks, Diogenes Laertius, Lives of Eminent Philosophers, volume II, con il testo originale e la traduzione inglese, Harvard, Loeb Classical Library, Harvard University Press, 1925, p. 575.
20 M. Solovine, «Note sur le clinamen» cit., p. 179.
21 E. Bignone, L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, di cui abbiamo consultato la seconda edizione, (postuma; la prima edizione è del 1936), Firenze, La Nuova Italia, 1973, vol. II, p. 416, nello studio dedicato alla «dottrina epicurea del clinamen», raccolto in appendice (vol. II, pp. 409-456).
22 È opportuno ricordare che se gli atomi non avessero peso, o se il peso che avessero fosse irrilevante a determinarne il movimento, fluttuerebbero nel vuoto, come congetturavano Leucippo e Democrito, costretti a ricorrere all’ipotesi di vortici cosmici per spiegare la genesi dei mondi.
23 Howard Jones, The Epicurean tradition, London e New York, Routledge, 1992, fornisce un’analisi accurata, ma fondamentalmente errata, del carattere «composto» del movi- mento atomico provocato dall’urto. Sostiene in effetti che «what happens to particular atoms after this deflection», (cioè quella «determined by the angle at which the two atoms meet») «can vary. Some atoms will experience in their new trajectory no further imme- diate contact which other atoms. In these cases, when the directional impulse which they have received as a result of the blow diminishes, the effect of their weight supervenes and they begin gradually to resume their former path downwards through the void». Il ragionamento che abbiamo messo in corsivo è sintomatico. Perché il «directional impul- se» dovrebbe diminuire? Epicuro afferma chiaramente, nella Lettera a Erodoto, § 61, che nel vuoto gli atomi si muovono, sia verticalmente che obliquamente, con la velocità del pensiero, poiché non incontrano nessuna resistenza. In se stessa l’espressione «impulso direzionale» conduce all’errore. L’urto non costituisce un «impulso», ma meramente una deviazione di traiettoria. La forza che trasmette l’impulso è sempre il peso intrinseco dell’atomo, al quale si associa, negli urti, la sua assoluta impenetrabilità. L’urto modifica la direzione della traiettoria, ma non l’«impulso» in quanto tale. Affinché potesse verificarsi una qualche «diminuzione di impulso», sarebbe necessario che ci fosse nel vuoto un’altra forza oltre al peso, per esempio una forza gravitazionale che attraesse l’atomo verso il «fondo» del vuoto.
Per Epicuro una «forza» del genere semplicemente non esiste (Isaac Newton avrebbe pubblicato le sue scoperte soltanto duemila anni dopo). L’unico effetto del peso è la caduta verticale nella direzione determinata dall’urto, o, più esattamente, come scrive lo stesso Jones, dall’«angolo d’incontro» degli atomi. Seguace, anch’egli, del- l’interpretazione dominante, secondo la quale l’urto è condizionato dalla paregklisi$, Jones attribuisce all’atomo di Epicuro una forza che esso non ha (quella che lo farebbe declinare spontaneamente) e un effetto che esso non soffre (quello che gli farebbe perde- re velocità in linea obliqua).
24 F. Lange, The History of Materialism cit., p. 105.
25 Ivi, p. 141.
26 Ivi, pp. 141-142, nota 68: «we here find a serious inconsistency with the physical theory, which lends no support whatever to a theory of moral responsibility. On the contrary, we might almost regard the unconscious arbitrariness with which the soul-atoms decide this way or that, to determine the direction and operation of the will, as a satire upon the equilibrium arbitrii».
27 Il testo originale, Differenz der demokritischen und epikureischen Naturphilosophie, si trova in MEGA I, 1, Berlin, Dietz Verlag, 1975, tr. it. di M. Cingoli in K. Marx – F. Engels, Opere complete, Roma, Editori Riuniti, vol. I (1835-1843), a cura di M. Cingoli e N. Merker, 1980, pp. 19-103.
28 Il brano citato appartiene al primo quaderno preparatorio su Epicuro, datato inverno 1839, Berlino, cfr. K. Marx – F. Engels, Opere complete, vol. I cit., p. 440.
29 Questa affermazione trova il sostegno del brano di Stobeo già citato in nota 1: «Epikouro$… kineisqai de ta atoma men kata staqmhn, tote de kata paregklisin, ta de anw kinou- mena kata plhghn kai upo palmon. I riferimenti del testo di Stobeo indicati da Marx, MEGA I, pp. 40 e 33, tr. it. cit., pp. 52 e 37, non coincidono con quelli del Thesaurus Graecae Linguae.
30 MEGA I, 1, pp. 34-35, tr. it. cit., p. 43.
31 In corsivo nell’originale.
32 Ivi, p. 36, tr. it. cit., p. 44. Il movimento «della non-autonomia» («Unselbstständigkeit») deve essere negato («zu negiren hat») affinché l’atomo possa affermare la sua «pura auto- nomia». Se ci fosse per Epicuro qualcosa di simile alla gravitazione universale, allora un’affermazione del genere avrebbe un senso: precipitando in linea retta l’atomo stareb- be obbedendo a un principio estrinseco, e quindi eteronomo. Ma non è così. Quindi, anche cadendo in linea retta, esso obbedisce soltanto alle sue determinazioni: impenetrabilità, peso e figura.
33 MEGA I, 1, p. 51, tr. it. cit., p. 62.
34 Ivi, pp. 57-58, tr. it. cit., p. 69. Marx cita dieci celebri versi del De rerum natura (I, 63-70 e 79-80). La nota 27 di MEGA (ivi, p. 87, tr. it. cit., p. 98) si riferisce a I, 63-80, lasciando intendere che Marx citi diciotto versi, quando in realtà egli cita soltanto i dieci che abbia- mo indicato. Abbiamo tradotto nel corpo del testo i primi cinque versi.
35 P. Nizan, Les matérialistes de l’Antiquité, Paris, Éditions Sociales, 1938, pp. 96-97, nota 1.
36 J.-M. Gabaude, Le jeune Marx et le matérialisme antique, Toulouse, Privat, 1970, pp. 85-86.
37 Ivi, pp. 87-88.
38 Ivi, pp. 86-87, nota 54.
39 Pubblicato postumo in L. Althusser Écrits philosophiques et politiques, Paris, Stock/Imec, tome I, 1994, pp. 539-576, tr. it. di V. Morfino e L. Pinzolo in L. Althusser, Sul materialismo aleatorio, Milano, Unicopli, 2000, pp. 55-115.
40 Ivi, pp. 539-540, tr. it. cit. p. 56. È bella e di forza lapidaria l’evocazione con cui si apre il saggio: «Il pleut. Que ce livre soit donc d’abord un livre sur la simple pluie» (p. 539, tr. it. cit. p. 55).
41 Ivi, pp. 541-542, tr. it. cit. pp. 59-60.
42 Ivi, p. 540, tr. it. cit. p. 56.
43 Ivi, p. 541, tr. it. cit. p. 58.
44 Ibidem, tr. it. cit., p. 59.
45 Ivi, pp. 546-547, tr. it. cit. p. 67. I corsivi sono dell’originale.
46 Ivi, p. 562, tr. it. cit., p. 94.