Immanenza e Materialismo storico nei «Quaderni del carcere» di Gramsci
Fabio Frosini
1. Dallo storicismo all’immanenza
Prendiamo le mosse da un fatto noto: Gramsci non ebbe mai un buon rapporto con il materialismo, e anzi giunse a sostenere, nei Quaderni del carcere, che, nell’ambito del materialismo storico, della «espressione ‘materialismo storico’ si è dato il maggior peso al primo membro, mentre dovrebbe esser dato al secondo: Marx è essenzialmente uno ‘storicista’ ecc.» (Q 4, 11, 433) (1).
In questo stesso testo che porta il titolo impegnativo di Problemi fondamentali del marxismo, nelle righe immediatamente precedenti quelle citate, Gramsci fa, in polemica con Bukharin, una riflessione sulla nozione di «immanenza» in relazione al materialismo storico: «Quando si dice che Marx adopera l’espressione ‘immanenza’ in senso metaforico [questo fa appunto Bukharin], non si dice nulla: in realtà Marx dà al termine ‘immanenza’ un significato proprio, egli cioè non è un ‘panteista’ nel senso metafisico tradizionale, ma è un ‘marxista’ o un ‘materialista storico’» (ibidem). Dunque, secondo Gramsci, un’adeguata interpretazione della nozione di «materialismo storico» comporta la sua traduzione nei termini dell’immanenza. Non nella tradizione materialistica si può trovare un qualche «precedente» del marxismo, ma semmai in quella della moderna filosofia dell’immanenza, sia pure profondamente ripensata e depurata della sua metafisica (2).
Tutto questo pensiero viene sintetizzato da Gramsci nell’espressione «Marx è essenzialmente uno ‘storicista’ ecc.». È un’espressione ellittica, che occorre leggere con attenzione. Gramsci infatti scrive «storicista» tra virgolette, e conclude la definizione con un «eccetera». Egli riprende il termine, ma ci segnala che occorre intenderlo secondo un significato nuovo. Nella seconda stesura di questo testo, compresa dentro Q 11, 27, l’espressione «storicista» viene sostituita da una definizione più articolata: «Si è dimenticato in una espressione molto comune [scil. ‘materialismo storico’] che occorreva posare l’accento sul secondo termine ‘storico’ e non sul primo di origine metafisica. La filosofia della praxis è lo ‘storicismo’ assoluto, la mondanizzazione e terrestrità assoluta del pensiero, un umanesimo assoluto della storia. In questa linea è da scavare il filone della nuova concezione del mondo» (Q, 1437).
Notiamo intanto che anche in questa seconda versione il compito rimane da svolgere (Gramsci scrive: «in questa linea occorre scavare»), e che la definizione di storicismo è fatta nei termini della filosofia dell’immanenza e dell’umanesimo: mondanizzazione e terrestrità assoluta del pensiero, umanesimo assoluto della storia – sono espressioni che ci dicono qualcosa riguardo alla «linea» in cui «occorre scavare», la linea che conduce a interrogarsi sulla natura del pensiero, a ridefinirlo in termini di «mondanizzazione e terrestrità»; ed a ripensare ruolo e natura dell’uomo all’interno di questo contesto. Si potrebbe addirittura dire che lo «storicismo assoluto» di Gramsci non ha nessun significato, al di fuori di quelli strettamente e organicamente connessi alla concezione della «mondanità» e «terrestrità» del pensiero, cioè alla negazione della sua spiritualistica autonomia e della sua idealistica indipendenza.
È allora possibile, io credo, tornare a parlare del «materialismo» di Gramsci; certo, in termini diversi da quelli di Bukharin e anche (ma meno nettamente) di Lenin (almeno del Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo). Il materiali- smo di Gramsci – tentiamo questa prima definizione – va visto come uno sviluppo della filosofia dell’immanenza, cioè come una forma di «nuovo naturalismo» e, allo stesso tempo, di «nuovo umanesimo». Questo è senz’altro – non intendo affatto negarlo – un bel paradosso. Ma è anche la sfida di cui dobbiamo essere all’altezza, se vogliamo capire la posizione filosofica rappresentata nei Quaderni; e per filosofia, si badi, Gramsci intende il materialismo storico stesso, non qualcosa che sia da esso separabile. È la sfida che dobbiamo affrontare, se vogliamo capire come, in mezzo a tanti detriti – rappresentati principalmente dallo storicismo idealistico di Croce e dallo storicismo materialistico del marxismo della Terza Internazionale dopo la «normalizzazione» stalinista delle «eterodossie» dei primi anni Venti, entrambi meccanicistici e metafisici – Gramsci sia riuscito a inventare una posizione filosofica (la «filosofia della praxis») che, pur conservando molti residui di terminologia tradizionale, si svincola però, nella sua direzione fondamentale, da quelle premesse. All’idea che esistono una storia e un tempo unitario, e che questo tempo unitario possiede una propria logica di sviluppo attorno alla quale e grazie alla quale tutti gli eventi acquistano il proprio significato, Gramsci sostituisce il primato dello spazio e delle differenze materiali (3); all’idea della neutralità e dell’obbiettività del processo storico, egli sostituisce l’unità di filosofia e politica, cioè l’idea della funzione politica del pensiero e del suo carattere sempre parziale, finito, ideologico; all’idea della «necessità storica» egli sostituisce una concezione «ipotetica» della necessità, che la identifica con una data struttura dei rapporti di potere e quindi la smaschera nella sua presunta obbiettività. Ma Gramsci fa tutto questo, si noti, senza rinunciare all’idea di storia e di storicità (come accade invece nell’ideologia post-moderna), cioè mantenendo aperta la prospettiva della «innovazione» politica e quindi la prospettiva di una rottura rivoluzionaria.
2. Dalla necessità economica alla praxis
Fatte queste premesse generali, passo ora a un’illustrazione del modo in cui Gramsci ridefinisce il materialismo storico nei termini dell’immanenza, spostandone il significato.
Cominciamo da un luogo, in cui possiamo rinvenire una traccia, sia pure debole e in parte resa irriconoscibile, di questo spostamento. È noto che nella seconda metà del 1930 Gramsci condusse nel carcere di Turi un ciclo di con- versazioni teorico-politiche con i compagni comunisti incarcerati, e che queste conversazioni dovettero essere interrotte quasi subito per i forti dissensi suscitati dalle sue posizioni. Nel 1946 un testimone di quelle discussioni, Mario Garuglieri, pubblicò sulla rivista comunista Società un «Ricordo di Gramsci», in cui cosí riporta le tesi del compagno di prigionia:
Per romperla con coloro che accusavano il marxismo di meccanicismo, di fatalismo, di determinismo economico, di economicismo, [Gramsci] invitava a non parlare più di «struttura» e «sovrastruttura» ecc., ma solo di processo storico, nel quale tutti i fattori prendono parte; solo la prevalenza di quel processo era economica (4).
Questo spostamento dalla coppia struttura/sovrastruttura al «processo storico», posto cosí, è un semplice indebolimento del materialismo storico. Inoltre l’idea di «fattori storici» non appartiene a Gramsci, che nei Quaderni polemizza a lungo contro l’«economismo storico», e in un luogo gli contrappone l’idea che la filosofia della praxis (cioè il materialismo storico) ha a proprio oggetto non i tanti «fattori storici» (economia, razza, religione), ma «il più profondo processo storico», e che per questa ragione esso non è, come voleva Croce, «un semplice canone di ricerca storica» (che si limita a richiamare l’attenzione sull’importanza del fattore economico, accanto ad altri), ma «una filosofia, una ‘antropologia’» (Q 17, 12, 1917). Quello che sembra un indebolimento del materialismo storico è in realtà il suo spostamento dal ter- reno della determinazione economica «obiettiva» a quello della praxis, cioè delle forme dell’agire inscritte nei rapporti sociali, dunque dei rapporti di potere, anche sul piano ideologico (5).
Garuglieri aveva però bene afferrato un punto, quello essenziale: il fatto che Gramsci non poteva accettare il tradizionale dualismo di struttura e sovrastruttura, da cui derivavano il determinismo economico e il fatalismo storico, cioè l’idea della natura secondaria e inessenziale delle ideologie; e che per lui la «storia» andava intesa unitariamente, come un processo immanente, nel senso che in ogni singolo «fatto» si risolve tutta la storia e non una qualche graduazione di «cause» con prevalenza di quelle di tipo economico. Ma questo equivale a rompere con qualsiasi concezione del materialismo storico come teoria della successione dei modi di produzione attraverso la determinazione in ultima istanza della struttura economica, perché quella «determinazione» diventa efficace, produttrice di «storia» e quindi «reale», solamente nelle ideologie, cioè nei rapporti di potere a tutti i livelli – dalle varie forme della subordinazione materiale a quelle della subordinazione ideologica, linguistica, sessuale ecc. Ma le ideologie, in quanto rapporti di potere, sono forme della praxis. Ecco allora il carattere «ipotetico» della necessità storica: nella storia, si può parlare di «necessità» solamente nell’efficacia del concreto esercizio di una strategia di potere.
La necessità storica è interna e non esterna alla praxis.
Questo punto viene reso esplicito là dove (Q 8, 128, 1018) Gramsci definisce il concetto di «mercato determinato» come un «‘determinato rapporto di forze sociali in una determinata struttura dell’apparato di produzione’ garantito da una determinata superstruttura giuridica». Su questa base, egli passa quindi a ridefinire il concetto di «necessità storica» come equivalente al sorgere di forze storiche «relativamente ‘permanenti’» (ibid.), riconducendola cosí completamente al terreno della praxis. In seguito (Q 11, 52, 1479), questa concezione viene definita come «il particolare modo di concepire l’‘immanenza’» proprio di Marx. Il «significato proprio» che Marx dà all’immanenza, di cui leggevamo nel testo citato sopra (Q 4, 11, 433), viene dunque precisato nei termini di una ridefinizione della «necessità» storica nei termini della «regolarità pratica» e della praxis politicamente organizzata. Questo è, secondo Gramsci, il nocciolo del materialismo storico.
3. Da Labriola a Lenin
Faccio a questo punto una piccola deviazione. La teoria dell’efficacia politica delle ideologie, come la troviamo in Gramsci, è manifestamente debitrice del materialismo storico di Antonio Labriola. Era stato Labriola, infatti, nel saggio Del materialismo storico. Delucidazione preliminare, a criticare la teoria dei «fattori» (6), ad affermare «l’immanenza e costanza del processo nei fatti storici» (7), a valorizzare il terreno delle ideologie come luogo effettivo della trasformazione storica (8). Ma Labriola non si era spinto fino a mettere in que- stione l’idea di una «necessità storica», che per lui rimaneva, ed era riconducibile in ultima istanza al variare dei rapporti tra forze produttive e rapporti di produzione, variazione che, a sua volta, rimaneva condizionata da quella degli strumenti produttivi, cioè da «il processo ed il progresso della tecnica» (9).
Ebbene, Gramsci su questo punto va oltre Labriola, perché mette in questione anche questa idea di necessità. Per lui, il «progresso» dello strumento tecnico, in quanto tale, non spiega nulla. È vero, lo strumento tecnico e il suo progresso sono la questione che l’umanità deve sempre risolvere per primo, perché è quello da cui dipende la sua sopravvivenza materiale. Ed è anche vero che nei periodi di passaggio da un modo di produzione ad un altro la questione della struttura produttiva deve essere affrontata e risolta. Ma tutto que- sto è un compito della politica (cioè delle varie forme che la politica assume nelle diverse epoche).
Prendiamo la situazione di Gramsci. Egli aveva dinnanzi agli occhi la strategia adottata da Lenin dopo la guerra civile, una strategia che tendeva appunto ad esplicitare il carattere politico del contrasto di potere insediato nei rapporti di lavoro, attraverso lo spostamento del confronto sul terreno della discussione pubblica. In una serie martellante di scritti, tra il 1921 e il 1923 Lenin elabora una nuova intuizione politica (e Gramsci sottolinea che, in quanto è una nuova intuizione politica, è anche una nuova intuizione filosofica): per le sorti della rivoluzione, è decisivo il confronto ideologico a tutti i livelli della società, perché è su questo terreno che si può ottenere una reale trasformazione dei rapporti sociali. La «rivoluzione culturale» diventa il terreno su cui realmente avviene la «rivoluzione economica».
Ecco, si può dire che tutto il pensiero filosofico di Gramsci nei Quaderni ruota attorno a questa domanda: cosa vuole dire quell’avverbio, «realmente»? Dare una risposta a questa domanda significa affrontare questioni filosofiche, come lo statuto dell’oggettività, della verità, della realtà, della necessità, della storia. Le ideologie (al plurale) prendono il posto della cultura (al singolare), spezzandone la falsa universalità. Ma al contempo le ideologie diventano il terreno sul quale avviene ogni possibile produzione di universalità, di verità, di oggettività, che vanno intese tutte come fatti politici, cioè corrispondenti ai rapporti di potere e ai loro cambiamenti. «Realtà» significa allora per Gramsci unità della teoria e della pratica, cioè spostamento di tutti i «concetti» su di un diverso terreno, quello delle ideologie, dell’egemonia, in cui sono chiamati a rendere conto della loro produttività politica, a rendere conto del modo in cui spostano o consolidano i rapporti di potere esistenti. Solo alla luce di questa teoria che equipara la verità e la realtà all’efficacia politica, è possibile capire il significato di una frase come la seguente: «Non il ‘pensiero’, ma ciò che real- mente si pensa unisce o differenzia gli uomini» (Q 7, 35, 885; cors. mio).
4. Dalla dicotomia struttura/sovrastruttura ai rapporti di forze
Grazie all’esempio di Lenin, Gramsci aveva capito che il cambiamento politico, il cambiamento ideologico e il cambiamento economico hanno ritmi differenti, e che il compito della politica organizzata, del partito, stava nel tradurre politicamente, a livello di massa, ciascun piano in tutti gli altri. Nei Quaderni questa concezione dà luogo a due spezzoni di teoria politica. Da una parte, l’idea del partito come «moderno principe» che si faccia banditore di una «riforma intellettuale e morale», idea da vedersi nel contesto di una piú generale teoria degli intellettuali come funzione che adegua la funzione pratica di una classe a quella ideologica, cioè ha il compito di «determinare e organizzare la riforma intellettuale e morale» (Q 11, 16, C; e cfr. Q 8, 171, A: «rivoluzione culturale»). In secondo luogo, una teoria dei «rapporti di forze» nella quale vengono ritradotte e risolte le tradizionali categorie di struttura e super- struttura. Prendiamo questo passo dei Quaderni:
Esiste una crisi, che si prolunga talvolta per decine di anni. Ciò significa che nella struttura si sono rivelate contraddizioni insanabili, che le forze politiche operanti […] alla conservazione della struttura […] si sforzano […] di sanare […]; questi sforzi incessanti e perseveranti […] formano il terreno […] sul quale si organizzano le forze che «cercano» dimostrare (coi fatti in ultima analisi, cioè col proprio trionfo, ma immediatamente con la polemica ideologica, religiosa, filosofica, politica, giuri- dica ecc.) che «esistono già le condizioni necessarie e sufficienti perché determinati compiti possano e quindi debbano essere risolti storicamente» (Q 4, 38, 455 s.).
È evidente che qui Gramsci sta utilizzando e consapevolmente mescolando due testi di Marx, le Tesi su Feuerbach, del 1845, e la Prefazione a Per la critica dell’economia politica, del 1859. Il concetto di «crisi» è, nel testo di Gramsci, la traduzione in termini politici e ideologici di ciò che Marx nella Prefazione definisce «epoca di rivoluzione sociale». I due criteri enunciati nella Prefazione – 1) una formazione sociale non perisce prima di aver sviluppato tutte le forze produttive a cui può dare luogo, 2) nuovi rapporti di produzione non sorgono, prima che all’interno della vecchia società siano sorte le loro condizioni materiali –, che nel testo di Marx subordinano e riconducono il passaggio di epoca alla dinamica dell’intreccio di rapporti di produzione e forze produttive, secondo una visione evolutiva in base alla quale non è possibile «saltare» delle «tappe», vengono da Gramsci ribaltati sul piano della praxis politica, dello scontro tra due «forze» che mettono in campo delle complesse strategie ideologiche, religiose filosofiche, politiche, giuridiche ecc. (citazione della Prefazione), la cui «verità» (e qui interviene un trasparente riferimento alla seconda delle Tesi su Feuerbach) sta tutta nella loro capacità di imporsi e di trionfare.
Piú esplicitamente ancora, nella seconda stesura di questo passo, Gramsci precisa: «[…] ma immediatamente si svolge in una serie di polemiche ideolo- giche, religiose, filosofiche, politiche, giuridiche ecc., la cui concretezza è valu- tabile dalla misura in cui riescono convincenti e spostano il preesistente schieramento delle forze sociali» (Q 13, 17, 1580). Il modo in cui di fatto si «verificano» le ideologie sta nella loro capacità di convincere e spostare le forze sociali, cioè di imprimere loro una direzione politica determinata. Dunque la «verità» delle dispute religiose, filosofiche, politiche, giuridiche, ecc. consiste nel loro «tradurre» i conflitti materiali nei linguaggi speciali delle varie ideologie, facendo diventare cosí «reali» quei conflitti e i condizionamenti che da essi provengono.
Dunque la volontà organizzata, la politica, è la chiave di volta che ci permette di comprendere la storia e la sua dinamica. Ma questo non esclude affatto il riconoscimento di «vincoli». Gramsci distingue (Q 4, 38) tre livelli di rapporti di forze: quello direttamente economico, espressione diretta dei rapporti sociali, quello politico e quello militare. Il rapporto delle forze direttamente economico è, rispetto agli altri due, il meno modificabile, nel senso che varia molto lentamente (perché esprime il rapporto che di volta in volta si stabilisce tra forze produttive e rapporti di produzione, e «l’insieme delle forze materiali di produzione è l’elemento meno variabile nello sviluppo storico, […] quello che volta per volta può essere misurato con esattezza matematica» [Q 4, 25, 444], appunto perché varia piú lentamente). Non si può «modificare» politicamente in modo immediato, per decreto, il numero di industrie di un paese, il tipo di tecnologia utilizzata, il livello del commercio interno ed estero, la quantità e qualità di materia prime disponibili ecc. Tutti questi «dati» però non sono neutri, perché esprimono già un rapporto di potere, una dinamica di assoggettamento di una classe sociale ad opera di un’altra, e anche un’egemo- nia di classi dominanti di alcuni Stati sulle classi dominanti di altri Stati; e possono essere modificati solo se vengono rielaborati politicamente. Il secondo livello dei rapporti di forza, quello in cui le classi si costituiscono in gruppi organizzati, portatori di confliggenti progetti egemonici, è il luogo in qui questa elaborazione avviene, rendendo «reali» – cioè «efficaci» verso l’innovazione o verso la conservazione – quei condizionamenti economici.
5. Dalla dicotomia essere/coscienza all’ideologia
Prendiamo l’idea, espressa da Marx nella Prefazione del 1859, che non si giudica un’epoca storica dall’immagine che essa ha di se stessa. Questa presa di posizione viene da Marx strettamente legata alla valutazione critica delle ideologie. Egli afferma infatti che, nello studio di un’epoca di rivoluzione sociale, le ideologie vanno sempre distinte dal cambiamento materiale della base economica, e che tutto ciò è riassumibile nel principio che un’epoca non si giudica dalla coscienza che essa ha di sé stessa, ma piuttosto si deve spie- gare questa coscienza dalle contraddizioni della vita materiale, cioè dal con- flitto tra le forze produttive sociali e i rapporti di produzione (10).
Il «taglio» epistemologico tra essere e coscienza, tra rapporti materiali e ideologie è netto, e delimita il campo di esercizio della storiografia scientifica all’intreccio, di volta in volta dato, di rapporti di produzione e forze produttive, e alla deduzione delle forme di coscienza da questo intreccio. La considerazione delle forme di coscienza, come anche della funzione svolta dalle sovrastrutture giuridica, politica ecc., è dunque accessoria e secondaria. Non da essa può venire la comprensione delle dinamiche storico-epocali realmente in atto; piuttosto, viceversa, la comprensione di quelle dinamiche «spiega» il senso dei conflitti sul terreno delle forme di coscienza, come anche il vario trasformarsi delle sovrastrutture.
L’interesse di Gramsci per questo passaggio, in particolare per la parte relati- va al modo di «giudicare» un individuo, risale al Quaderno 1, quando ancora egli non lo aveva tradotto (nel Quaderno 7) e lo ricordava perciò a memoria (11).
In Q 1, 113 egli nota che questa concezione storiografica può essere derivata dalla rivoluzione nel diritto penale, che ha condotto a rifiutare la tortura come mezzo di estorsione della confessione, e a dirigere tutta l’attenzione sulle prove oggettive. L’annotazione torna piú volte in seguito. In Q 8, 207 viene accostata all’altra immagine, parimenti presente nella Prefazione, dell’economia come anatomia della società civile. Gramsci nota che la conoscenza della «origine della metafora usata per indicare un concetto nuovamente scoperto, aiuta a comprendere meglio il concetto stesso, che viene riportato al mondo culturale e storicamente determinato in cui è sorto» (Q 8, 207, 1065). Nel testo precedente (Q 8, 206, 1065), dedicato a La storia del materialismo del Lange, aveva osservato:
Si potrà così vedere come la terminologia ha la sua importanza nel determinare errori e deviazioni, quando si dimentichi che la terminologia è convenzionale e che occorre sempre risalire alle fonti culturali per identificarne il valore esatto, poiché sotto una stessa formula convenzionale possono annidarsi contenuti differenti.
E proprio Quistioni di terminologia si intitola Q 8, 207, in cui dunque viene già, implicitamente, espresso un giudizio che delimita fortemente la portata propriamente «teorica» di entrambe le affermazioni. Ricondurle al clima linguistico in cui nacquero significa infatti restituire loro il valore di posizione originario. Nel caso della metafora anatomica, quel valore di posizione sta nel legame con il linguaggio delle scienze naturali ai tempi di Marx, con la loro funzione culturalmente progressiva e con l’idea forte di «verità» ad esse legata, come viene esplicitato nel testo C, Q 11, 50, 1473 s. (Storia della terminologia e delle metafore), dove Gramsci precisa che
la metafora era giustificata anche dalla sua «popolarità», cioè dal fatto che offriva anche a un pubblico non intellettualmente raffinato, uno schema di facile comprensione (di questo fatto non si tiene quasi mai il conto debito: che la filosofia della prassi, proponendosi di riformare intellettualmente e moralmente strati sociali culturalmente arretrati, ricorre a metafore talvolta «grossolane e violente» nella loro popolarità) (Q 11, 50, 1474),
e che pertanto occorre sempre «precisare il limite della metafora stessa» per «impedire che essa si materializzi e si meccanicizzi» (Q 11, 50, 1474), finendo per indicare qualcosa presente nell’immagine iniziale solo come accessorio polemico (contro la storiografia spiritualistica) (12). Invece
sarà da notare come il Marx sempre eviti di chiamare «materialistica» la sua con- cezione e come ogni volta che parla di filosofie materialistiche le critichi o affermi che sono criticabili. Marx poi non adopera mai la formula «dialettica materialistica» ma «razionale» in contrapposto a «mistica», ciò che dà al termine «razionale» un significato ben preciso (Q 8, 206, 1065).
Ma lo studio della terminologia non ha solo la funzione, negativa, di limitare la portata teorica di una determinata espressione, riattivando contenuti e intenti andati persi di un determinato «linguaggio» (in questo caso, il marxi- smo). Esso serve molto di piú a mettere in luce il valore pratico-politico – e dunque veritativo – dei diversi linguaggi, ovvero ideologie. Cosí, nel testo successivo (Q 8, 208), intitolato Traducibilità [reciproca] delle culture nazionali, Gramsci torna su di un tema già toccato in precedenza (13), proseguendo la meditazione sul modo nel quale le diverse lingue nazionali francese e tedesca, autocoscienze nazionali, hanno «incorporato» gli interessi delle rispettive borghesie, indirizzandole, per vie diverse e anzi opposte, verso un comune obiettivo «rivoluzionario». In questo caso, la «comprensione» del valore originario delle metafore usate ne riattiva la potenza produttiva, emancipando il linguaggio dai confini semantici delle immagini «nazionali» predominanti, e, cogliendone il carattere generalmente politico, ne fa emergere la natura di «praxis», e dunque il suo legame con la verità. Esiste dunque, per Gramsci, una verità delle ideologie, ed è per questa ragione che egli non può fare proprio il taglio epistemologico tra essere e coscienza che trova nella Prefazione: quel taglio impedisce infatti di cogliere il fatto che «ciò che gli uomini dicono di sé», le ideologie, hanno immediatamente un valore pratico, ed è appunto questo «valore» che lo storico deve individuare. È possibile, certamente, che il significato reale sia diverso da quello letterale, o anche ad esso opposto, ma solo cogliendo la «coscienza» per cosí dire «all’opera» sarà possibile allo storico individuare lo scarto semantico tra senso letterale e senso reale, e in quale direzione esso conduce. «Ciò che gli uomini dicono di sé», insomma, non va inteso in senso individuale (questo è il limite della metafora, il punto in cui essa diventa inservibile), ma collettivo. Non le ideologie individuali, «private», sono qui in gioco, ma quelle collettive e «pubbliche», che sono quindi «forze storiche», credenze capaci di muovere all’azione, di modificare il «senso comune». Il significato di queste ideologie-forze storiche è negli «effetti» da esse prodotti: che sono effetti pratici, ideologico-politici anch’essi. Il materialista storico non ha bisogno di porsi al di fuori della politica-ideologia per comprendere il significato delle ideologie storicamente in gioco. La «coscienza» dello storico non è posta su di un livello diverso da quella del proprio oggetto, se non per la distanza storica e la conseguente possibilità di cogliere gli effetti di certe azioni e il loro intreccio complessivo. D’altra parte, la rete di «interessi pratici» dentro cui è presa la «coscienza» degli individui coinvolti nelle vicende studiate si prolunga fino al presente: dunque, anche l’intervento dello storico è un gesto pratico, ha un valore politico, è un «linguaggio» che avrà un valore letterale e uno risultante dalla sua «traduzione». Anche da questo lato, non si esce dalla praxis. La verità dello storico, come quella di chiunque altro, rimane una verità politica.
6. Morfologia e traduzione
È dunque impossibile isolare un momento propriamente «teorico»? Tutto è ridotto a ideologia e a politica? La risposta non può che venire dal ricorso alla seconda delle Tesi su Feuerbach, in cui la verità del pensiero viene equiparata alla sua «realtà», al suo «potere», al suo «carattere terreno». Ecco dunque che terrestrità (ma Diesseitigkeit significa letteralmente immanenza!), potere, realtà e verità del pensiero vengono da Marx equiparati, e Gramsci non fa altro che sviluppare questa posizione filosofica. Questo non significa evidentemente eliminare il concetto di verità. Significa invece, ben diversamente, afferrare il modo specifico nel quale le ideologie producono politicamente degli effetti di verità. Questa capacità di individuare la produzione di effetti di verità nella politica è ciò che Gramsci chiama «principio della traducibilità reciproca», subito aggiungendo che esso «è un elemento ‘critico’ inerente al materialismo storico» (Q 7, 1, 851). «Critico» significa che questo principio non è a sua volta un’ideologia, ma è ciò che permette di formulare una teoria dell’ideologia. Ora, all’interno di una concezione che riduce il pensiero a praxis, a politica, una «teoria» non ideologica potrà solamente essere, senza immediatamente produrre una contraddizione performativa, quella il cui contenuto consiste nell’enunciazione di un’unica tesi: che la verità di un’ideologia va individuata nei suoi effetti, e che questo principio vale anche per il materialismo storico.
Il «principio della traducibilità reciproca» consiste dunque nel tenere aperto il rapporto tra il pensiero e la sua verità, cioè nel non arrestarsi mai alla formulazione letterale di una teoria, e nel tentare invece di individuarne il significato ideologico, produttore di effetti politici. A questo scopo, Gramsci si è servito di un principio della teoria linguistica. Si veda il passo seguente:
«Trovare la reale identità sotto l’apparente differenziazione e contraddizione e trovare la sostanziale diversità sotto l’apparente identità, ecco la piú essenziale qualità del critico delle idee e dello storico dello sviluppo sociale» (Q 1, 43, 33 s.) (14). Questo passaggio, che contiene una formulazione del principio della traducibilità, si organizza attorno a una distinzione, che è la stessa che passa tra il livello fonetico e quello fonologico nella linguistica. La distinzione tra apparente e reale, tra empirico e vero, viene restituita al materialista storico non da una scienza della totalità, che organizza i fatti empirici secondo una logica inaccessibile ai soggetti in essi coinvolti, ma da una scienza che, come la linguistica (almeno la linguistica al modo in cui la intende Gramsci), ricava i tratti differenziali che considera pertinenti e quindi significativi esclusivamente dalla praxis linguistica dei parlanti, senza nulla presupporre, neanche la loro capacità di pensare. Nella linguistica l’efficacia della «forma» è, si potrebbe dire, un’efficacia ipotetica, nel senso che si identifica con la praxis linguistica e solo in essa trova la propria realtà; ed è precisamente questa nozione di «forma» che è all’opera nella teoria gramsciana della traducibilità.
Se quanto precede è vero, non dovrebbe stupire la singolare somiglianza – che non vuole dire legame diretto, ma affinità di impostazione – tra il passo dei Quaderni appena citato e la conclusione del cap. 1 della Morfologia della fiaba di Vladimir Propp:
Lo storico poco esperto di questioni morfologiche non scorgerà la somiglianza là dove essa sussiste effettivamente, e si lascerà sfuggire senza averle individuate delle corrispondenze per lui importanti, mentre invece là dove egli scopre un’affinità, il morfologo potrà dimostrare che i fenomeni messi a raffronto sono assolutamente eterogenei (15).
Note
1 Citerò i Quaderni del carcere secondo l’edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 19772 (1975), nella forma seguente: Q numero di quaderno, numero di paragrafo, numero di pagina dell’edizione critica, A, B, o C, cioè rispettivamente testo di prima stesura, di stesura unica o di seconda stesura; o, in alternativa, con Q seguito da virgola e numero di pagina dell’edizione critica.2 Sul nesso immanenza-filosofia della praxis mi permetto di rinviare al mio L’immanenza nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, «Isonomia» 2004 (www.uniurb.it/Filosofia/isonomia/index.htm) .
3 Su questo punto ha sopratutto insistito G. Baratta, di cui cfr. Le rose e i quaderni. Il pen- siero dialogico di Antonio Gramsci, Roma, Carocci, 2003.
4 M. Garuglieri, Ricordo di Gramsci, «Società» 7-8 (1946), pp. 691-701, qui 697 (cors. mio). Su questo punto cfr. G. Cospito, «Struttura-superstruttura», in F. Frosini e G. Liguori (a cura di), Le parole di Gramsci. Per un lessico dei Quaderni del carcere, Roma, Carocci, 2004, pp. 227-46 (la citaz. è a p. 244).
5 Colgono molto bene questo spostamento L. Razeto Migliaro e P. Misuraca, Sociologia e marxismo nella critica di Gramsci. Dalla critica delle sociologie alla scienza della storia e della politica, Bari, De Donato, 1978.
6 A. Labriola, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare [1896], in Id., La con- cezione materialistica della storia, a cura di E. Garin, Roma-Bari, Laterza, 1965, p. 88 e sgg.
7 Ivi, pp. 100 e 125.
8 Ivi, p. 124 e sgg.
9 Ivi, p. 125.
10 Cfr. K. Marx, Prefazione a Per la critica dell’economia politica, nella traduzione di Gramsci (Q, 2359).
11 La Prefazione era infatti stata utilizzata da Gramsci nel 1925, nella prima dispensa della «Scuola interna di partito». Essa è ora ripubblicata in A. Gramsci, Il rivoluzionario qua- lificato. Scritti 1916-1925, a cura e con una introduzione di C. Morgia, Roma, Delotti editore, 1988.
12 Cfr. 10 II, 41.XII, 1321: in cui viene anche ricordato il passo della Prefazione di derivazio- ne «processuale»: «Bisognerebbe studiare contro quali correnti storiografiche la filosofia della praxis ha reagito nel momento della sua fondazione e quali erano le opinioni più dif- fuse in quel tempo anche riguardo alle altre scienze. Le stesse immagini e metafore cui ricorrono spesso i fondatori della filosofia della praxis danno indizi in proposito».
13 In Q 1, 150-2, 132-5, su cui mi permetto di rinviare al mio Sulla «traducibilità» nei Quaderni di Gramsci, «Critica Marxista» 6 (2003), pp. 29-38, qui 35-37.
14 Cfr. anche, in questa direzione, Q 7, 81, 913 s.: «Riviste-tipo. Collaborazione straniera. Non si può fare a meno di collaboratori stranieri, ma anche la collaborazione straniera deve essere organica e non antologica e sporadica o casuale. Perché sia organica è neces- sario che i collaboratori stranieri, oltre a conoscere le correnti culturali del loro paese siano capaci di ‘confrontarle’ con quelle del paese in cui la rivista è pubblicata, cioè cono- scano le correnti culturali anche di questo e ne comprendano il ‘linguaggio’ nazionale. […]dal punto di vista pratico di promuovere la cultura, è […] importante il tipo di collabora- tore […] che sa tradurre un mondo culturale nel linguaggio di un altro mondo culturale, perché sa trovare le somiglianze anche dove esse pare non esistano e sa trovare le diffe- renze anche dove pare ci siano solo somiglianze ecc.».
15 V.J. Propp, Morfologia della fiaba, tr. it. di G.L. Bravo, Torino, Einaudi, 1966, p. 24.