Il tardo Materialismo di Althusser e la rottura epistemologica

di

GIORGOS FORTOUNIS

Nelle pagine seguenti sosterrò in primo luogo come il tardo materialismo di Althusser, e in particolare la sua Corrente sotterranea  del materialismo dell’incontro, sia attraversata da una certa tensione che richiede di essere chiarita, e cercherò quindi di mettere in relazione questa delicata problematica con la sua prima posizione, cosiddetta «strutturalista», sul materialismo; in secondo luogo, vorrei rivisitare la nozione althusseriana di rottura epistemologica alla luce di quanto emerso, sperando che questo possa contribuire a una delucidazione tanto della nozio- ne di materialismo quanto di quella di rottura epistemologica, e renda esplicite le potenzialità dell’epistemologia di Althusser di intervenire in modo decisivo nell’attuale stato di impasse delle principali correnti della «teoria della scienza».

***

Cominciamo dagli ultimi scritti sul materialismo aleatorio. Qui, parlando di ogni ente singolare costituito, Althusser parte dal presupposto di una divisione tra due «episodi», che sembrano radicalmente distinti, esprimendo l’uno l’istante di una discontinuità, e l’altro la durata di una continuità; due episodi governati da due altrettanto incompatibili e irreconciliabili «logiche»: da una parte l’istante della costituzione originaria  dell’ente, della sua emergenza; dall’altra, il tempo indeterminato della sua durata e persistenza come quell’ente costituito che esso è. Althusser chiama incontro aleatorio  il primo episodio; io vorrei chiamare il secondo storia strutturale.

Partirò dunque da quest’ultimo, la storia strutturale, cercando di giustificare la terminologia che ho scelto di adottare. Io sostengo che è possibile ricostruire, attraverso gli ultimi testi al- thusseriani sul materialismo aleatorio, una nozione di storia che si presenta sempre come «storia singolare» – come viene chiamata in almeno una occasione (1) – che è la controparte del suo preteso «nominalismo»: se si danno unicamente singolarità, allora ognuna di queste avrà una sua propria distinta e indipendente storia singolare. La Storia, quindi, può riferirsi solamente a individui singolarmente strutturati o «casi»: non v’è una totalità storica o una storia totalizzante, ma solo «storie singolari», al plurale, col risultato che «ogni storia è sempre un ‘caso’ singolare» (2). Vi è in questo una forte mutualità fra storia, individualità e struttura. V’è storia solo nella misura in cui un individuo singolare, la cui storia individuale è la storia in questione, è e rimane nella sua coerente costituzione, e in quanto questa coerente costituzione dell’indivi- duo viene concepita in termini di struttura. Da qui «il primato della struttura sui suoi elementi» (3), che rimanda decisamente alle prime elaborazioni althusseriane della causalità strutturale.

D’altra parte, tra le individualità (con le loro storie singolari) possono accadere solo incontri, ovvero incontri aleatori. E qui devo insistere: la netta distinzione tra storia e incontro sembra, in qualche punto dell’argomentazione di Althusser, essere implicita nella stessa definizione di quest’ultimo come aleatorio. L’incontro è aleatorio esattamente in quanto la sua emergenza è al di là della prospettiva di qualunque determinazione strutturale. L’incontro non ha luogo nel contesto di una realtà strutturata, ma è al di fuori di qualunque relazione strutturale; esso ha luogo nel vuoto, e come tale non può essere parte o momento di alcuna storia: l’incontro è fuori da ogni storia.

Nondimeno l’incontro può segnare l’inizio di una nuova storia singolare: le individualità implicate possono diventare gli elementi di una nuova individualità. In quel caso l’incontro si risolverebbe in una «appropriazione» o «cristallizzazione», facendo emergere un nuovo ente e struttura. La novità di questo ente e della sua struttura consisterebbe nel fatto della loro originalità e non predicibilità: «nulla negli elementi dell’incontro prefigura, prima dell’atto dell’incontro, i contorni e le determinazioni dell’essere che emergerà da esso» (4). L’«appropriazione» dell’incontro è anch’essa non-strutturale, a-storica, in una parola: aleatoria. Solo dopo l’incontro e la relativa appropriazione, una struttura (la nuova) arriva a operare la propria determinazione sui suoi elementi, e comincia una nuova storia. V’è una forte discontinuità (una rottura, si potrebbe dire, o un vuoto) tra la storia dell’ente emergente e le storie degli enti che sono diventati i suoi elementi. Perciò, seguendo lo stesso Althusser, un individuo emergente (nel caso anche un modo di produzione) «comprende elementi che sono indipendenti l’uno dall’altro, ognuno risultando dalla propria storia specifica, nell’assenza di qualunque relazione organica o teleologica fra quelle storie diverse» (5).

Soffermiamoci ancora su questo punto. Io affermo che questa netta distinzione tra incontro aleatorio e storia strutturale  delinea un’ulteriore posizione filosofica, radicata in una lettura particolare che il testo ci permette. Chiamiamo aleatorismo puro questa posizione, che dà alle volte l’impressione di essere il fulcro dell’intera argomentazione, specialmente nella famosa sezione concernente l’emergenza del modo di produzione capitalistico. In quel contesto la precedente distinzione segna una linea di demarcazione fra la logica del compimento del fatto, la logica della produzione di ogni ente singolare, da un lato, e la logica del fatto compiuto, la logica della riproduzione dell’ente, dall’altro. Questa demarcazione è qui piuttosto radicale, separando in effetti due fondamentali tendenze della filosofia, e specificatamente il materialismo aleatorio (l’unica genuina) da una parte e ogni altra filosofia della necessità che finisca per comprendere la costituzione di un individuo come «il risultato necessario di premesse date o la provvisoria anticipazione di un Fine» (6).

Ora, attraverso il prisma dell’«aleatorismo puro», persino lo stesso primo strutturalismo di Althusser sembrerebbe costruito sulla confusione di queste due «logiche», riducendosi così a un altro dei tanti materialismi spuri «della tradizione razionalista, un materialismo della neces- sità e della teleologia, ovvero, una forma trasformata e dissimulata di idealismo» (7). Mi riferisco in particolare ai passaggi di Leggere il capitale, laddove Althusser, parlando di causalità e totalità, e cercando di superare il perenne dilemma tra la (cartesiana) totalità come effetto analitico- transitivo e la (leibniziana-hegeliana) totalità come causa trascendente-espressiva, introduce il concetto di struttura della totalità, affermandola quindi come una totalità strutturata e presupponendo la struttura della totalità come la causa immanente (in senso spinoziano) della totalità e dei suoi elementi (8).
Perciò Althusser considera qui la causalità strutturale come costitutiva della totalità, o degli enti complessi (sintomo ne è il fatto che in nessun luogo, fra i suoi testi più rilevanti, possa essere trovato qualcosa che sia equivalente alla precedentemente menzionata dicotomia tra la costituzione di un ente al momento dell’incontro e della «appropriazione» dei suoi elementi costitutivi, da un lato, e dall’altro la susseguente coesione e omeostasi degli enti costituiti). In particolare ciò che nel primo «strutturalismo» è già sussunto alla struttura è la fondamentale richiesta della «appropriazione»: la costituzione primordiale della «totalità strutturata» – la sua «strutturazione», potremmo dire – è già governata dalla struttura della totalità. A segnalare questa differenza il primo «strutturalismo» di Althusser presenta se stesso come una particolare versione di olismo (dato che l’efficacia della struttura sui suoi elementi è apertamente identificata con una speciale forma di primato del tutto sulle sue parti), mentre il materialismo aleatorio è esplicitamente concepito come una sorta di atomismo: come una filosofia «più o meno atomistica, i cui atomi, nella loro ‘caduta’, sono la più semplice figura dell’individualità» (9).

Ma le cose si complicano, e una tensione interna si manifesta in quel fondamentale passo in cui Althusser, coerente con la sua problematica, argomenta della dipendenza della storia strutturale rispetto all’incontro momentaneo, e del persistente primato dell’aleatorio sullo strutturale. La struttura non è condizionata dall’incontro aleatorio semplicemente al momento della sua costituzione, subentrando a ciò che le sussegue; piuttosto la storia strutturale di una individualità costituita è essa stessa aleatoria riguardo ai suoi accadimenti e alla sua durata. Ciò ha ovviamente a che fare con i susseguenti incontri dell’individuo, che sono in qualche modo interiorizzati dalla sua struttura, «in un processo permanente che», seguendo lo stesso Althusser, «porta l’aleatorio al cuore della sua sopravvivenza e del suo rafforzamento» (10). In questo modo, però, nell’affermare il primato dell’aleatorio sullo strutturale, della contingenza sulla necessità, Althusser pone in qualche modo l’aleatorio sotto un virtuale controllo della struttura: ora, nella misura in cui consideriamo la concreta individualità costituita, la sua storia consiste nel – e dipende dal – potere della struttura di accogliere gli incontri aleatori e le loro ripercussioni sull’effettività della stessa struttura, al di là delle individualità incontrate, al fine di mantenerle o trasformarle nei propri elementi.

Tutto ciò ripete l’intera storia dell’incontro aleatorio, ma ora dalla prospettiva dell’individuale. Questo prospettivismo dà all’aleatorio il carattere di un avventura o di un azzardo, di qualcosa che sia in gioco, di una lotta per la riproduzione, per l’omeostasi e la persistenza nell’essere. Per la stessa ragione, quindi, la struttura e la sua causalità si avvicinano al conatus di Spinoza, e al concetto di essenza singolare di un ente; della sua essenza attuale, che consiste in nulla più che nella sua lotta per perseverare  nell’esistenza. La struttura in qualche modo lotta per governare l’aleatorio. In altre parole, come afferma Vittorio Morfino, «l’incontro non ha luogo una e una sola volta per tutte, ma deve continuare ad accadere sempre e di nuovo», e ogni ente singolare e complesso, sempre seguendo Morfino, «può persistere solo attraverso la continua ripetizione di questa ‘appropriazione’» (11). Quindi, seguendo questa teoria dell’aleatorio fino alle sue estreme conseguenze, si arriva a conclusioni che sembrano negare il suo stesso asserto fondamentale: ora, cioè, la causalità  strutturale  è indistinguibile da un permanente incontro, e da una continua «appropriazione». V’è dunque una tensione, una sorta di carattere antinomico tra l’«aleatorismo puro» e questa seconda posizione, egualmente presente nel testo, che io vorrei proporre di chiamare «strutturalismo aleatorio», in base alla quale la storia strutturale è permanentemente intrecciata alla ripetizione della «appropriazione» dell’incontro; da qui le due rispettive logiche sovrapposte. Seguendo allora questo strutturalismo aleatorio, la mia idea è che nel preciso istante della «appropriazione» originaria – che decide che l’incontro non sarà una «improvvisata», ma piuttosto un «incontro permanente» – la struttura risultante sia presente e attiva. In quel preciso istante – e non prima.

Prima di continuare vorrei far rilevare l’importanza di questo «non prima»: confinando l’intera questione all’istanza della «appropriazione» si risolve la questione dell’aleatorio come contrapposto al determinismo, meccanicistico o teleologico che sia. La struttura emergente non è deducibile in anticipo, né come conseguenza determinata da condizioni iniziali né da un effettuale Fine trascendente.

Così l’idea quasi paradossale è che la struttura che «verrà» a risultare dalla «appropriazione» sia già attiva. Ciò ha ovviamente a che fare col carattere retroattivo di quell’argomentazione, che permea l’intero testo e si manifesta come uno dei suoi punti più problematici, intorno alla controversa distinzione tra gli «atomi» che entrano nell’incontro e gli elementi della ente risultante.

Come sappiamo, mentre in un senso gli atomi e gli elementi sono identici (non creando l’incontro nulla della loro realtà né aggiungendo nulla per la realizzazione dell’individuo emergente – così come necessario in un atomismo coerente), pure gli atomi precedenti l’incontro sono enti astratti, con un esistenza «impalpabile» e mancanti di ogni consistenza, qualità e persino realtà; mentre gli elementi degli enti risultanti sono reali e concreti, con le loro qualità, proprietà e affinità determinate dalla struttura dell’ente.

Si potrebbe pensare che questa distinzione dovrebbe essere compresa nel senso di un prospettivismo retrospettivo: gli atomi astratti, precedentemente all’incontro, sarebbero  tali dal punto di vista dell’individuo emergente, esattamente fintantoché non sono ancora suoi elementi, cioè nella misura in cui la nuova struttura non esercita ancora su di essi la sua effettività. Al di fuori di questa prospettiva, questi atomi sono individualità proprie, strutturate, costituite e complesse, concrete e qualificate, con una propria storia e una propria prospettiva. Ma il prospettivismo in questione non è semplicemente retrospettivo; è, più precisamente, retroattivo; esso perviene, da una retroazione causale della struttura emergente sulle circostanze della propria emergenza, alla effettività della struttura sulla «appropriazione» degli stessi atomi, attraverso la quale questi sono ipso facto trasformati in concreti, complementari e affiliati elementi della struttura. Quindi, come scrive lo stesso Althusser, «nessuna determinazione di questi elementi può essere stabilita tranne che dall’attività retroattiva del risultato del divenire, da una retroazione. Se dobbiamo dunque dire che non v’è risultato senza il suo sviluppo (Hegel) dobbiamo anche affermare, e lo sottolineo, che non v’è nulla che abbia uno sviluppo se non in quanto determinato da quello stesso risultato – da questa stessa retroazione (Canguilhem)» (12). L’«appropriazione» dell’incontro è un rimbalzo del suo risultato, un effetto del suo proprio effetto.

Se dunque, come afferma Althusser, in un senso «la totalità che risulta dalla ‘appropriazione’ dell’ ‘incontro’ non precede la ‘appropriazione’ dei suoi elementi, ma ne segue» (13), allora, alla luce di questa causalità retroattiva per la quale il «dopo» produce effetti sul «prima» – ovvero la totalità sugli elementi dell’incontro – si configura qui una forma di olismo, propriamente uno  strutturalismo aleatorio, che crea una tensione coll’atomismo dell’«aleatorismo puro», e si av- vicina al primo materialismo strutturale, e all’idea di una costitutiva effettività della struttura. Ho sostenuto altrove (14) che questo particolare olismo è correlativo al carattere immanente della causalità strutturale, un olismo immanente, opposto sia a ogni atomismo transitivo che a ogni olismo trascendente. Ciò si riflette anche nella peculiare temporalità di qualcosa che è presente e attivo nell’esatto momento della sua nascita, la peculiare «presenza e assenza» della struttura come causa immanente nei suoi effetti.

Vorrei ora sostenere, prima di passare alla seconda parte della mia argomentazione, che questo strutturalismo aleatorio permette una nozione di struttura in termini di diversità e divergenza, di conflitto e persino di contraddizione, contraria a ogni filosofia dell’espressione, funzionalismo o organicismo. Allo stesso tempo ciò consente una nozione di storia pervasa da rotture: rotture che corrispondono all’incontro che ogni individuo retroattivamente patisce e gestisce; la nozione, cioè, di una discontinuità storica che sostituisca il dilemma tra una istantanea discontinuità storica e una permanente continuità storica.

Si può qui riconoscere la ricorrente richiesta di costanti continue, o di leggi tendenziali che governino la storia di un individuo costituito, così come della radicale instabilità che governa la sua riproduzione; riproduzione che implica un cambiamento aleatorio delle leggi e la mutazione della struttura come prezzo per la preservazione della sua stessa individualità in una peculiare combinazione di discontinuità e continuità.

***

In una serie di testi del suo «periodo intermedio», Althusser si occupa della questione della rottura epistemologica in termini che si riferiscono direttamente alla problematica dell’incontro e dell’aleatorio. Così, in Elementi di autocritica, una scienza scaturisce dalla propria preistoria, inizialmente in senso ordinario, o meglio universale, «così come ogni cosa al mondo, dagli atomi fino alle cose viventi, o agli uomini»; ovvero, emerge da un «complesso e molteplice processo che normalmente opera alla cieca, nell’oscurità: … da un imprevedibile e incredibil- mente complessa e paradossale – ma, nella sua contingenza, necessaria – congiunzione di ele- menti ideologici, politici, scientifici… filosofici, o di altro tipo, che in un determinato momento scoprono, ma dopo quell’evento, di aver bisogno l’uno dell’altro, fino a congiungersi, senza riconoscersi reciprocamente, nella forma teoretica di una nuova scienza» (15).

D’altra parte, seguendo lo stesso testo, «una scienza è generata anche a partire dalla propria preistoria in un processo che le è peculiare» (un processo epistemologico, potremmo aggiunge- re): questo consiste nel «rigetto di tutta o parte della sua preistoria, considerata ormai erronea: un errore» (16). Di certo è qui possibile discernere l’apparente paradosso di qualcosa, propriamente una scienza, che si costituisce a partire dall’incontro dei suoi elementi futuri, e nel «rifiuto» di quelli che ne sono gli elementi costitutivi propri.

Tralasciando questo paradosso, quantomeno per il momento, resta il fatto che la rottura epistemologica è chiaramente esposta come un incontro aleatorio. Come tale, essa rappresenta una versione della discontinuità scientifica e, in ciò, in accordo con la logica dell’aleatorio, la rottura-incontro produrrà una nuova struttura scientifica, né riducibile a, né deducibile da, nulla di preesistente, ovvero dalle strutture scientifiche o ‘cognitive’ che entrano nell’incontro. Il risultato è allora una nuova, singolare struttura scientifica: un nuovo tipo di scientificità.

In questo modo, l’istanza della rottura epistemologica, e dunque della discontinuità scien- tifica, può essere considerata alla luce della problematica dell’incontro aleatorio e delle sue tensioni interne. Vorrei anticipare che ciò che è qui in gioco è nientemeno che la relazione del concetto altusseriano di discontinuità scientifica a una generica, per quanto tuttora in voga, nozione post-kuhniana di incommensurabilità. La questione non è semplicemente storica. Ancora qualche decennio dopo E. Balibar, D. Lecourt e altri hanno stabilito le basi per una tale valutazione (17); io affermo che questa nozione di discontinuità come incommensurabilità, nelle proprie molteplici forme e in differenti atteggiamenti teoretici, ancora domina il campo di quella che potremmo chiamare «teoria della scienza», in generale, che è ora informata da un nuovo (e non poi così nuovo) dibattito: quello tra la Storia e la Filosofia della Scienza, da un lato, e gli Studi Sociali dall’altro. Affermandola, opponendovisi, modificandola, moderandola o intensificando- la, radicalizzandola e persino eludendola, la corrente principale della comprensione teoretica della Scienza dà comunque per scontato che la discontinuità scientifica può aver luogo solo attraverso una qualche versione dell’incommensurabilità kuhniana.

*

Ora, se consideriamo questa rottura-incontro alla luce di ciò che ho chiamato aleatorismo puro, la fondamentale «appropriazione» dovrebbe essere esclusa dal raggio d’azione di ciascuna delle strutture discorsive o cognitive in essa implicate, e, in particolar modo, da quello della nuova struttura emergente dall’incontro. In questo modo, però, la discontinuità scientifica è già ridotta a una versione dell’incommensurabilità: questa comprensione della rottura può essere facilmente sussunta alla nozione dei Paradigmi Incommensurabili, ciascuno caratterizzato dalla propria normalità, cioè da una successione non necessariamente lineare di distinte e irriducibili scienze normali disconnesse da qualunque altra cosa: tra di loro vi sarebbe sempre un vuoto epistemologico. Non si dà alcuna transizione paradigmatica fra Paradigmi, ma solo un momen- to rivoluzionario tra regimi essenzialmente conservatori.

Potremmo riformulare quanto detto sopra affermando che non v’è alcuna razionale e oggetti- va transizione tra le strutture della razionalità e dell’oggettività; ovvero, potremmo dire che una razionalità singolare si genera irrazionalmente. Sappiamo però che ciò che viene qui messo a repentaglio è precisamente l’assunzione della razionalità e oggettività della Scienza.

In questo modo l’aspetto epistemologico della rottura-incontro, ovvero il rigetto della prei- storia e dei suoi elementi come falsi, sarebbe solo retrospettivo, e influenzato dalla normalità della scienza normale costituita; uno sviluppo relativistico e anacronistico, di valore epistemo- logico puramente negativo, che non rimarcherebbe altro se non l’incompatibilità con la normalità dominante.

Così il vuoto epistemologico tra il prima e il dopo l’incontro costitutivo darebbe soluzione di continuità alla forma di una transizione epistemologicamente neutrale (sia essa semplice o complessa) tra strutture cognitive indipendenti. Una transizione che sarebbe quindi a-storica: il passato e il futuro, gli elementi e il risultato dell’incontro possono e, in effetti, hanno una propria storia, ma l’istante stesso della discontinuità non appartiene a nessuna di queste. La rottura-incontro sarebbe quindi fuori dalla storia: un’interfaccia a-storica tra le diverse storie, passato e futuro. Ecco allora che il vuoto epistemologico della rottura dovrebbe essere correlativo al proprio vuoto storico: la rottura dovrebbe aver luogo tra strutture epistemologicamente e storicamente irrelate. Avremmo dunque una a-storicità epistemologica (o, piuttosto, una a-storicità non-epistemologica), nella quale l’ordine temporale del precedente e del successivo sarebbero episte- mologicamente contingenti; da un punto di vista epistemologico potremmo anche invertirli. La relazione tra strutture incommensurabili è essenzialmente simmetrica, ed è questo che rende impossibile qualunque storia epistemologica – e, per quanto ci riguarda, qualunque epistemo- logia storica. In senso stretto non vi sarebbe una discontinuità storica di una scienza, giacché non vi sarebbe modo per poter riconoscere che due o più strutture consecutive e incommensu- rabili possano appartenere alla storia dello stesso individuo, né di rendere conto del loro ordine effettivo – se non attraverso la loro riduzione alla storia di un altro individuo, di ordine com- pletamente differente, quale può essere la comunità scientifica. Il carattere essenziale dell’in- commensurabilità come relazione (o non-relazione) simmetrica è inevitabilmente il risultato di ogni sociologismo, culturalismo, antropologismo, etnologismo etc. della Filosofia della Scienza di stampo post-kuhniano.
È in effetti questa essenziale simmetria dell’incommensurabilità che fonda il famoso principio di simmetria di ogni sociologia della scienza consistente, o di ogni approccio sociologico-costruttivistico alla scienza, che dichiari l’eguaglianza epistemologica di ogni atteggiamento cognitivo, e che rifiuti di attribuire ad alcuno un privilegio epistemologico.

*

Al contrario, se consideriamo la rottura insieme all’incontro, in termini di ciò che io ho chia- mato strutturalismo aleatorio, allora essa potrebbe già venire intesa, attraverso l’agire della struttura scientifica che da essa «verrà» in essere, come un effetto del suo stesso risultato, nella prospettiva retroattiva di cui abbiamo parlato. La struttura, in questo senso, diverrebbe operante nella propria costituzione. La struttura emergente già esercita la propria causalità, ovvero, già determina i propri elementi nella loro reciproca «appropriazione».

In questo modo la relazione discontinua tra strutture precedenti e successive non è simmetrica; abbiamo qui infatti una «incommensurabilità» (se ancora possiamo chiamarla in questo modo) unidirezionale: v’è incommensurabilità dalla prima struttura, che entra nell’incontro, verso la successiva che ne è il risultato. Qui è esattamente il luogo dell’aleatorio: ed è per questo che la struttura emergente è non-predicibile e non-deducibile a partire dalla precedente; non v’è alcuna razionale, normale o strutturale prospettiva attraverso la quale poter rendere il passaggio al nuovo inizio dal vecchio, e che possa basarsi su una normalità propria – che sia ciò che produce la novità. Il passaggio è stato però strutturale, retroattivamente, e la struttura implicata è la risultante. Qui, contrariamente allo schema precedente di reciproca e simmetrica incommensurabilità, è possibile ammettere la struttura emergente non semplicemente come una qualunque struttura discorsiva, ma come una nuova, inattesa e imprevedibile, struttura singo- lare di razionalità e oggettività: precisamente in quanto la propria emergenza è già razionale e oggettiva in rapporto alla propria razionalità; la genesi di una nuova razionalità è di per sé il proprio primo atto costitutivo.

Ora il paradosso del rigetto della Scienza dei propri elementi costitutivi può essere risolto. Althusser stesso ci dà rilevanti accenni in un passo di Marx nei suoi limiti in cui descrive l’equivalente di ciò che avrebbe poi chiamato l’«appropriazione» a partire dalla quale emerse il Marxismo, come una trasformazione dell’«incontro» tra le sue fonti in una «‘critica rivoluzionaria’ dei propri elementi» (18).

Vediamo così il modo singolare attraverso il quale una Scienza emerge da un incontro aleatorio tra «atomi» rilevanti, e attraverso il loro rigetto, come una critica che trasforma questi «atomi» nei suoi propri elementi. Questa critica trasformativa è in effetti il modo peculiare della determinazione retroattiva e costitutiva degli elementi della struttura da parte della struttura stessa. E se una critica può solo essere razionale, allora una critica costitutiva è la sola alternativa concepibile sia al relativismo che a un razionalismo universale, positivistico o «dialettico» che sia: una nuova e singolare razionalità scientifica porta con se, ed è portata da, una critica retroattiva della propria preistoria e del suo materiale grezzo; critica che le è propria.

In questo modo verità e falsità non sono più semplicemente denominazioni relative e anacronistiche del presente e del passato, reversibili per principio; quantomeno non più di quanto non siano valori intrinseci del passato e del presente in se stessi; il problema non è più l’influenza e la distribuzione relativa di valori epistemologici, ma qui si tratta di una razionale e oggettiva costituzione della verità in quanto tale, per mezzo della falsificazione letteralmente del falso. In altri termini, la discontinuità scientifica non è una semplice transizione tra eventi auto-sussistenti, per essenza indifferenti rispetto alle loro relazioni, e ciascuno dei quali coi propri valori epistemologici assoluti, ovvero dati in se stessi; e nemmeno tra momenti che siano cognitiva- mente equiparabili o ricevano il loro valore epistemologico solo retrospettivamente, attraverso una prospettiva postuma. Il vero e il falso sono effetti della discontinuità, sono il risultato di una rottura, nel modo retroattivo che è proprio dell’incontro aleatorio. In questo modo lo spinoziano verum index sui et falsi non è semplicemente retrospettivo, ma genuinamente retroattivo: vero e falso sono effetti di una verità emergente.

In due parole, tra la struttura che risulta dalla rottura-incontro e la (o le) strutture che vi convergono, fra il futuro e il passato della rottura, non v’è vuoto epistemologico: piuttosto una rottura epistemologica, e precisamente in quanto qualcosa accade: la rottura epistemologica è un evento produttivo, e in quanto tale connette ciò che separa. Questa retroattiva, critica e asim- metrica, in una parola, epistemologica rottura perviene all’affermazione della precedenza del precedente e della successività del successivo, ovvero razionalmente e oggettivamente di falsità e verità, come necessarie e non contingenti – necessarie nella loro contingenza, dice Althusser, che, nella mia prospettiva, significa retroattivamente necessarie. Qui si dà la stessa asimmetria: v’è contingenza nella direzione che va dal precedete al successivo – l’aleatorio; nella direzione opposta, invece – ovvero retroattivamente – v’è necessità. Quest’ordine non è, per principio, reversibile.

Questa natura epistemologica della discontinuità della scienza è legata alla propria storicità, in un intreccio che rende possibile una storia epistemologica (e, come sua controparte, una epi- stemologia storica); allo stesso modo si rende così possibile pensare a una scienza come a un ente individuale, con una propria genesi retroattiva e una propria storia conseguente, disseminata di rotture epistemologiche, che ne modificano la struttura, ma preservandone l’individualità. Contrariamente alla nozione di una scienza normale continua e cumulativa che attraversi le sue rivoluzioni, qui abbiamo la possibilità di una storia discontinua. Seguendo la formulazione di Morfino possiamo dire che la rottura non ha luogo una e una sola volta per tutte, ma deve continuare a accadere sempre e di nuovo, e che questa ripetizione – in questo senso, questa storia – di una scienza singolare risulta in una continua ripetizione della rottura. Una scienza è una perpetua rottura. È precisamente questa rottura epistemologica che rende possibile che due strutture scientifiche discontinue non siano due individui distinti e semplicemente giustapposti  nel tempo, uno nel passato e l’altro nel presente, ma che quel passato sia il passato del presente. In questo modo possiamo rispondere all’enigma posto da Canguilhem, relativo al problema della Storia della Scienza: «la storia del passato è forse il passato della scienza odierna»? È esattamente in questo groviglio, ancora impensabile attraverso le correnti «teorie della scienza» con tutte le loro opposizioni e divisioni interne, che si afferma la potenzialità radicale di una an- cora implicita epistemologia althusseriana: in due parole, la discontinuità scientifica è il luogo privilegiato della razionalità e dell’oggettività, e non, all’opposto, il segno del loro fallimento.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    Note

1       L. Althusser, «L’unica tradizione materialista», in Id., Sul materialismo aleatorio, a cura di V. Morfino e L. Pinzolo, Milano, Mimesis, 2006 (2), p. 84.

2       Ibidem.

3       L. Althusser, «La corrente sotterranea del materialismo dell’incontro», in Id., Sul materialismo aleatorio cit., p. 64.

4       Ivi, p. 66.

5       Ivi, pp. 70-71.

6       Ivi, p. 67.

7       Ivi, p. 38.

8       L. Althusser, «L’oggetto del Capitale», in L. Althusser et alii, Leggere il Capitale, tr. it. di M. Turchetto, Milano, Mimesis, 2006, p. 258.

9       L. Althusser, «La corrente sotterranea del materialismo dell’incontro» cit., p. 61.

10     Ivi, pp. 71-72.

11     V. Morfino, Il materialismo della pioggia di Louis Althusser. Un lessico, «Quaderni Materialisti» 1 (2002), pp. 93-99

12     L. Althusser, «La corrente sotterranea del materialismo dell’incontro» cit., p. 66.

13     Ivi, p. 69.

14     G. Fortounios, On Althusser’s immanentist structuralism: reading Montag reading Althusser reading Spi- noza, «Rethinking Marxism» 17 (2005), 1.

15     L. Althusser, Elementi di autocritica, tr. it. a cura di N. Mazzini, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 65.

16     Ivi, p. 67.

17     Cfr. E. Balibar, «Le concept de coupure épistemologique de Gaston Bachelard à Louis Althusser», in Id., Ecrits pour Althusser, Paris, La Découverte, 1991; Id., «Coupure et refonte», in Lieux et noms de la vérité, Paris, L’aube, 1994; Id., Althusser’s Object, «Social Text» 39 (1994); D. Lecourt, Prefazione a Marxisme and epistemology: Bachelard, Canguilhem and Foucault, London, New Left Books, 1975.

18     L. Althusser, Marx nei suoi limiti, tr. it. di F. Raimondi, Milano, Mimesis, 2004, p. 59.