Il Materialismo della pioggia di Louis Althusser
Il materialismo della pioggia di Louis Althusser. Un lessico*
di Vittorio Morfino
Per Luigi, Marco R. e Marco G.
La pubblicazione dell’Avenir dure longtemps, la grande autobiografia althusseriana scritta nel 1985, ha avuto certamente il merito di rompere la cortina di silenzio calata sul nome di Althusser dopo l’uccisione della moglie ed allo stesso tempo il limite di richiamare l’attenzione sul caso
in senso medico o letterario dando luogo ad un certo numero di interpretazioni, più o meno raffinate, in cui filosofia e vita sono state fatte cortocircuitare senza tenere conto delle complesse mediazioni necessarie ad una tale operazioni teorica. Il caso Althusser, l’omicida che riprende la parola dopo il non luogo a procedere, ha oscurato ogni altro aspetto della produzione althusseriana precedente e contemporanea o, nel migliore dei casi, l’ha risucchiata nella problematica autobiografica[1]. Esistono tuttavia dei testi, scritti tra il 1982 e il 1985, in cui Althusser riprende la parola come filosofo, che meritano di essere presi in considerazione; si tratta di Sul pensiero marxista del 1982, della Corrente sotterranea del materialismo dell’incontro dello stesso anno e dell’Unica tradizione materialista del 1985, originariamente scritto nell’ambito della stesura dell’autobiografia e poi stralciato[2]. Questi scritti furono stesi da Althusser nello spazio tra due ricoveri.
Volendo prendere questi testi nel loro complesso (benché essi in realtà resistano nella loro singolarità ad un’operazione di questo genere)[3] e lasciando da parte il confronto tra l’interpretazione di Marx prima e dopo l’80 (cosa che di per sé meriterebbe una analisi dettagliata), si può rilevare senz’altro la presenza di alcuni temi che denotano una forte continuità con le opere degli anni Sessanta:
1) il concetto del processo senza soggetto e dunque la negazione di ogni forma, interna o esterna, di teleologia[4];
2) il primato della relazione sugli elementi relati[5];
3) l’antiumanesimo teorico;
4) l’affermazione che la filosofia non ha oggetto;
5) la definizione della struttura della metafisica secondo lo schema Origine-Soggetto-Oggetto-Verità-Fine-Fondamento.
Sono naturalmente da rilevare anche degli elementi di discontinuità, soprattutto nello stile che è impressionistico, talvolta autobiografico, qua e là narrativo (Engels che conosce la fatticità della classe operaia incamminandosi nella notte di Manchester per mano a Mary Burns), i riferimenti ai testi sono tutti a memoria, qualche volta stravolti o semplicemente inventati; di certo non c’è in questi testi la sistematicità e il rigore dei due grandi capolavori Leggere il Capitale e Per Marx, quell’Althusser lettore prodigioso dei testi marxiani da cui veniva fatta emergere una nuova concettualità: qui si limita a piegare la memoria dei testi al suo volere.
In ogni caso un grande merito di questi ultimi scritti sembra essere quello di aver portato al centro della riflessione filosofica ciò che era ai margini negli scritti degli anni Sessanta o, meglio, che era stato spostato ai margini dal dibattito scatenatosi sui grandi temi del rapporto scienza-ideologia e della scansione dell’opera di Marx. E tutto ciò grazie all’uso insistito di una nuova costellazione di termini[6]. Per meglio mettere in evidenza questa variazione di accento, invece che seguire Althusser nelle sue ricostruzioni del pensiero di Marx, Spinoza e Machiavelli e della corrente sotterranea, abbandonandomi alla linearità del testo, ho preferito costruire un lessico cercando di cogliere l’oscillazione di alcuni concetti chiave a seconda del contesto in cui appaiono e dell’autore che intervengono a spiegare. Si tratta dei concetti di
1) vuoto[7] / nulla;
2) incontro[8];
3) fatto / Faktum / fattuale / fattività;
4) congiuntura / congiunzione;
5) necessità / contingenza.
Non ho preso in considerazione il termine ‘aleatorio’ precisamente perché il suo significato emergerà proprio dall’intreccio di relazioni tra questi termini: alea, come dice giustamente Negri, è la parola nuova attraverso cui si annuncia una nuova filosofia; è necessario non abbandonarsi alla fascinazione che la parola di per sé esercita, per penetrare la struttura concettuale che la sorregge.
1. Il vuoto e il nulla
Il vuoto è in Epicuro come il concetto che permette di pensare la caduta a pioggia degli atomi ed il nulla prende la figura del clinamen, quella «deviazione infinitesimale, ‘la più piccola possibile’, che ha luogo ‘non si sa dove né quando, né come’ e che fa sì che un atomo ‘devii’ dalla sua caduta a picco nel vuoto e, spezzando in maniera quasi nulla il parallelismo su un punto, provochi un incontro con l’atomo vicino e di incontro in incontro una carambola e la nascita di un mondo, vale a dire dell’aggregato di atomi provocato in catena dalla prima deviazione e dal primo incontro»[9]. Ciò fa sì che Epicuro, secondo la lettura di Althusser, pensi il mondo come l’effetto di un nulla prima di cui non c’era che il vuoto nel quale cadevano gli atomi parallelamente: «Epicuro ci spiega che prima della formazione del mondo un’infinità di atomi cadevano parallelamente nel vuoto. Essi cadono sempre. Il che implica che prima del mondo non c’era nulla e, nello stesso tempo, che tutti gli elementi del mondo esistevano dall’eternità prima che vi fosse alcun mondo. Il che implica anche che prima della formazione del mondo non esisteva alcun Senso, né Causa, né Fine, né Ragione, né follia. La non anteriorità del Senso è una tesi fondamentale di Epicuro, con la quale egli si oppone tanto a Platone quanto ad Aristotele»[10]. Non c’è senso prima del mondo, nel vuoto e non c’è senso nemmeno nella genesi, in quella deviazione infinitesimale che si approssima al nulla che è stata interpretata e, secondo Althusser, fraintesa[11] come la fondazione ontologica della libertà umana nel mondo della necessità.
In Machiavelli il vuoto è un vuoto in primo luogo filosofico, l’assenza di una causa a livello ontologico, l’assenza di un principio a livello morale o teologico: in Machiavelli «non […] si trova alcuna Causa che precede i suoi effetti, nessun Principio di morale o di teologia (come in tutta la tradizione politica aristotelica: i regimi buoni e quelli malvagi, la decadenza dei buoni nei malvagi). […] Come nel mondo epicureo, gli elementi ci sono già tutti e sono al di là, a pioggia […] tuttavia essi non esistono, non sono che astratti fino a che l’unità di un mondo non li ha riuniti nell’Incontro che costituirà la loro esistenza»[12]. Pensare la possibilità di fare dell’Italia uno Stato nazionale è un compito teorico che ha richiesto a Machiavelli di «fare il vuoto di tutti i concetti filosofici di Aristotele e Platone»[13]. Il nulla poi è ciò che precede l’incontro di virtù e fortuna, nel senso che nulla lo prepara: «l’incontro può non aver luogo, come può aver luogo. Nulla decide in anticipo di questa alternativa che è nell’ordine del gioco di dadi»[14]. Non c’è un Dio che può in qualche modo manipolare il lancio dei dadi; con espressione nicciana potremmo parlare di «mani d’acciaio della necessità che stringono il bossolo dei casi».
Ma in Machiavelli non vi è solo il vuoto in senso filosofico, vi è anche un vuoto che potremmo definire congiunturale, il vuoto politico degli stati della chiesa, uno spazio vuoto privo di opposizione alla virtù del Valentino, che è una virtù che viene dal nulla, la virtù di un homme de rien: «gli Stati della chiesa non erano per nulla governati, non avevano alcuna struttura politica. Essi erano governati, dice, dalla religione e solo da essa, in ogni caso non dal Papa né da alcun politico serio: era il vuoto politico totale, un’altra nudità, in breve uno spazio vuoto senza una vera struttura che potesse ostacolare l’esercizio della virtù del futuro nuovo principe […]. È da questo incontro di un uomo sconosciuto [homme de rien] e nudo (cioè libero nei suoi movimenti interni ed esterni) e di uno spazio vuoto (cioè senza ostacoli da opporre alla virtù di Cesare) che nacquero la sua fortuna e il suo successo»[15].
Infine in Machiavelli vi è un altro vuoto ancora, quello che Althusser riprendendo una sua celebre espressione, chiama «il vuoto di una distanza presa». Si tratta del vuoto come metafora dello stabilizzarsi di un rapporto di forze che segna un limite del principe rispetto alle sue proprie passioni e, come conseguenza di ciò, del principe rispetto al popolo. Riguardo alla distanza del principe dalle sue passioni, Althusser scrive: «Qui si tocca il punto più straordinario del pensiero politico di Machiavelli (che è un pensiero tout court). Infatti questo significa che, nel Principe, deve regnare un certo vuoto, un certo nulla, una certa estrema distanza limite tra le sue passioni (morali o di forza) affinché egli possa dominarle e condurle secondo il ‘se …, allora…’ di ogni congiuntura che si presenta all’orizzonte della sua azione politica. Si sa che Machiavelli non ne dice di più. Dice almeno che questa potenza della volpe nel Principe poggia sull’immagine sociale, vale a dire pubblica del Principe, che chiamerò il primo apparato ideologico di Stato. Questo apparato ideologico è certamente un apparato, una struttura sistematica, organica ed avente come fine degli effetti pubblici sul popolo. C’è quindi naturalmente un’esistenza materiale: l’habitus del Principe, la sua cerchia, lo sfarzo della sua vita, i suoi palazzi, le truppe che lui stesso comanda e tutte le cerimonie di regime destinate ad ispirare nel popolo timore e rispetto senza odio né amore, i gesti e lo stile dei discorsi del Principe […] E questo è evidentemente decisivo. Infatti la distanza del Principe come volpe nei confronti dell’apparire, dell’immagine del suo personaggio apparentemente privo di passione, e nei confronti delle sue passioni reali, fa tutt’uno e con le cerimonie e con tutto l’apparato dell’apparire che lo pone a distanza dal popolo […] e con il vuoto, il timore-amicizia che egli deve mantenere nelle relazioni col suo popolo se vuole regnare in modo duraturo»[16].
La distanza che il principe prende rispetto alle sue passioni gli permette di dar luogo ad un altro vuoto, il vuoto che serve a governare. Vuoto di una distanza presa come metafora dell’utilizzo di un jeu de bascule: «Cosa deve effettivamente fare il Principe, per essere Principe? Fondare, costituire e conservare tra lui ed il suo popolo, mediante un sottile gioco di alleanze che si appoggia sul popolo dei ‘magri’, vale a dire i poveri, per tenere a freno i ‘grassi’, vale a dire i potenti, una distanza vuota: quella del timore-amicizia e non la prossimità contagiosa dell’odio o dell’amore. […] Infatti odio e amore trascinano il popolo nelle sue passioni e ciò provoca nel Principe il contagio delle passioni del popolo le quali, sì, sono mortali (vedi Savonarola da un lato e gli Sforza dall’altro)»[17]. Simbolo di questo vuoto è la testa tagliata di Ramiro da Lorqua, luogotenente del Valentino, sacrificato perché fosse possibile ristabilire la distanza del duca dal suo popolo che aveva preso a odiarlo a causa delle nefandezze da lui ordinate al suo luogotenente: «Guardate quello che un bel giorno scoprono gli abitanti di Cesena sul piazzale del loro borgo […]: su un grosso ceppo di legno, il corpo sanguinante di Sinigaglia […] luogotenente di Borgia, la testa tagliata con l’accetta. Cesare ha fatto crudelmente il vuoto perché nel vuoto così fatto rinasca la ‘fortuna’. Sinigaglia […] aveva condotto la sua politica […] ma a modo suo, crudele e pericolosa, ed ecco che la logica di Machiavelli e di Cesare aveva fatto il suo gioco: ‘se’ si continua così, ‘allora’ più niente è possibile, ‘allora’ il popolo si volgerà all’odio, il che rende impossibile a chiunque governare gli uomini. Quella testa tagliata è la fine di ogni causa, la fine di ogni essenza, la fine di ogni origine o piuttosto la loro negazione attiva reale. È la fine di ciò che era già un passato e che pesava sul governo del popolo, l’impossibilità di stabilire tra il Principe e il Popolo quello strano rapporto di timore-amicizia senza il quale nessun governo è possibile»[18].
Veniamo a Spinoza. Qui il vuoto è il vuoto del tutto, di questa esistenza irrelata che in quanto priva di relazioni non può che essere nulla; è il vuoto del soggetto conoscente che esiste solo nella pratica della conoscenza; è il nulla della morale e della religione. è quello stesso vuoto, quello stesso far vuoto delle cause e dei principi primi che Althusser aveva trovato in Machiavelli: «Una volta ridotti al nulla sia Dio che la teoria della conoscenza, destinati a mettere in piazza dei ‘valori’ supremi ai quali tutto commisurare, cosa rimane alla filosofia? Niente più morale e soprattutto niente più religione, meglio, una teoria della religione e della morale che, molto prima di Nietzsche, le distrugge fin nei loro fondamenti immaginari, nel loro ‘capovolgimento’ – la ‘fabrica all’inverso’; niente più finalità (sia essa psicologica o storica): in breve il vuoto che è la filosofia stessa»[19]. Althusser giunge dunque a sostenere la tesi paradossale che l’oggetto della filosofia spinoziana è il vuoto, vuoto che ha tutti i colori del mondo, perché lascia sorgere dalle ceneri delle grandi ipostasi della metafisica la realtà nella sua fatticità.
In Hobbes invece il vuoto è assenza di ostacoli al movimento ed è dunque quello stesso vuoto congiunturale di cui parla Althusser a proposito dell’assenza di ostacoli all’azione del Valentino: «Da buon teorico del diritto naturale il nostro Hobbes […] ci offre […] una teoria dello stato di Natura. Per scomporlo nei suoi elementi bisogna pervenire fino a quegli ‘atomi di società’ che sono gli individui dotati di conatus, vale a dire del potere e della volontà di ‘perseverare nel proprio essere’ e di fare il vuoto davanti a sé per trovarvi lo spazio della loro libertà. Degli individui atomizzati, il vuoto come condizione del loro movimento, ci ricordano qualcosa, vero? Hobbes sostiene in effetti che la libertà, che costituisce interamente l’individuo e la sua forza d’essere, si regge sul ‘vuoto di ostacoli’, sull’‘assenza di ostacoli’ davanti alla sua forza conquistatrice. Egli non si abbandona alla guerra di tutti contro tutti che per la volontà di sfuggire ad ogni ostacolo che gli impedisce di andare dritto per la sua strada (si pensi alla caduta libera e parallela degli atomi) e, in fondo, sarebbe felice di non incontrare nessuno in un mondo che sarebbe allora vuoto»[20].
In Rousseau il vuoto ha tutti i caratteri del vuoto epicureo, è il vuoto della foresta in cui non hanno luogo incontri che durano a causa della sua smisuratezza: «Certo un uomo e una donna possono incontrarsi, ‘toccarsi’ ed anche accoppiarsi, ma non è che un breve incontro senza identificazione né riconoscimento: a mala pena si sono conosciuti che già essi si separano e ognuno prosegue la sua strada nel vuoto infinito della foresta»[21]. Nella foresta non c’è l’impossibilità assoluta dell’incontro, come nella caduta degli atomi epicurei, ma l’impossibilità di un incontro che duri, essendo ogni incontro nulla più che una breve sosta di un cammino nomadico. Questo vuoto sconfinato della foresta è tuttavia limitato da un evento da nulla, ossia un evento privo di causa, che non può mostrare la nobiltà di un’Origine (e dunque di un telos): i disastri naturali, che limitano la foresta, eventi antiteo/teleologici per eccellenza (si pensi al grande dibattito filosofico suscitato dal terremoto di Lisbona del 1755). Dunque anche in Rousseau come in Epicuro il senso è l’effetto del vuoto e del nulla, del vuoto della foresta e del nulla dei fenomeni naturali che la limitano rendendo possibile degli incontri durevoli: «La foresta è l’equivalente del vuoto epicureo nel quale cade la pioggia parallela degli atomi: è un vuoto […] nel quale degli individui si incrociano, cioè non si incontrano, se non in brevi congiunture che non durano. Rousseau ha voluto con ciò rappresentare ad un prezzo molto elevato (l’assenza di figli) un niente di società anteriore ad ogni società e condizione di possibilità di ogni società, il niente di società che costituisce l’essenza di ogni società possibile. Che il niente di società sia l’essenza di ogni società, è una tesi audace, la cui radicalità è sfuggita non solo ai contemporanei, ma a numerosi commentatori successivi»[22]. Alla non-anteriorità del senso epicureo fa dunque da pendant la non anteriorità della società a se stessa della teoria roussoviana.
Riprendiamo ora nel complesso i significati che il vuoto assume attraverso il prisma degli autori della cosiddetta corrente sotterranea. Essi sono riconducibili a questi quattro:
1) il vuoto inteso come negazione dei principi che portano il pensiero ad immaginare la cosa piuttosto che a pensare quella che Machiavelli definirebbe la verità effettuale di essa. Questo vuoto non è un punto di partenza, bensì di arrivo ed è legato ad una azione precisa: si tratta, attraverso la conoscenza, di fare il vuoto, ma un vuoto tuttavia che non è assoluto. è il vuoto della metafisica, della gnoseologia, della morale e della religione, che imprigionano il reale con i lacci dell’immaginazione che lo attraversano mistificandolo. è un fare vuoto che rende visibile quell’essere al di là del bene e del male nelle cui trame l’azione umana può inserirsi secondo la logica del «se …, allora…». Il senso di questo ‘fare il vuoto’ è assai prossimo a quello della decostruzione derridiana, non una semplice distruzione della tradizione, ma un tentativo di costruire concettualmente con strumenti che non siano quelli della tradizione[23].
1) Il vuoto inteso come ciò che permette di cogliere la verità effettuale, ciò che è, non come qualcosa che doveva essere, ma come ciò che affonda le sue radici nell’abisso. Il vuoto è l’assenza radicale di Dio, di ogni garanzia di stabilità per l’essere: è l’elemento che permette di cogliere la verità effettuale non a parte post, nel suo essersi costituita, ma a parte ante, nella fluttuazione degli elementi che hanno dato luogo ad essa, ma che, proprio in virtù della fluttuazione, poteva non aver luogo.
2) Il vuoto inteso come possibilità di movimento, come congiuntura favorevole, come assenza di ostacoli per l’azione, vuoto in cui risiede il solo concetto materialistico di libertà: secondo la definizione hobbesiana, «assenza di ostacoli al moto».
3) Infine il vuoto come distanza, come luogo a partire da cui è possibile tracciare una linea che permetta di dominare l’affrontarsi delle forze: la metafora machiavelliana della volpe incarna la possibilità di creare la distanza vuota necessaria all’istituzione di un potere che duri.
2. L’incontro
Il concetto di incontro funziona in stretta correlazione con il concetto di vuoto e di nulla, l’uno non può essere pensato senza l’altro pena il cambiare di natura di entrambi. Vediamo come il concetto è sviluppato attraverso gli autori della corrente sotterranea.
In Epicuro l’incontro tra gli atomi è l’effetto della deviazione infinitamente prossima al nulla del clinamen, incontro che è all’origine di un mondo. La cosa tuttavia non è così semplice, poiché non ogni incontro tra atomi genera un mondo. Vi sono incontri fuggevoli che non producono alcun effetto: «Perché la deviazione dia luogo ad un incontro da cui nasca un mondo, occorre che duri, che non sia un ‘breve incontro’, bensì un incontro durevole, che diventa allora la base di ogni realtà, di ogni necessità, di ogni Senso e di ogni ragione. Ma l’incontro può anche non durare, e allora non c’è mondo»[24]. L’incontro non crea nulla della realtà del mondo, gli elementi che si incontrano precedono l’incontro e tuttavia l’incontro conferisce realtà agli atomi, che senza di esso non sono che astrazioni prive di realtà: «si può sostenere che l’esistenza stessa degli atomi non sopraggiunge loro che dalla deviazione e dall’incontro prima del quale essi non conducevano che un’esistenza fantomatica»[25].
In Machiavelli l’incontro si mostra nella sua natura plurale. Non esiste l’incontro come composizione di due elementi, ma ogni elemento si mostra a sua volta come il risultato di incontri precedenti. Machiavelli pensa le condizioni di possibilità dell’unità politica italiana, unità che sarebbe possibile se facesse presa lo «incontro tra un uomo ed una regione»: «Ma perché questo incontro abbia luogo, ci vuole un altro incontro: quello della fortuna e della virtùnel Principe. Incontrando la fortuna, bisogna che il Principe abbia la virtùdi trattarla come una donna, di accoglierla per sedurla o farle violenza, in breve di usarla per la realizzazione del suo destino. È a questa considerazione che dobbiamo a Machiavelli tutta una teoria filosofica dell’incontro tra la fortuna e la virtù. L’incontro può non aver luogo oppure aver luogo. Si può mancare il colpo. L’incontro può essere breve o duraturo: gli serve un incontro che duri. Per questo il Principe deve imparare a governare la sua fortuna governando gli uomini»[26]. Dunque l’incontro tra un uomo ed una regione dipende dall’incontro tra virtù e fortuna, dall’occasione senza la quale i grandi fondatori di regni avrebbero dispiegato invano la loro virtù. Tuttavia anche l’incontro tra virtù e fortuna dipende da un incontro ancora precedente, quello tra la volpe, il leone e l’uomo nel principe: «il Principe è governato dentro di sé dalle variazioni dell’altro incontro aleatorio, quello della volpe da una parte e del leone e dell’uomo dall’altra. Questo incontro può non aver luogo, ma può anche aver luogo. Inoltre deve essere durevole perché la figura del Principe ‘faccia presa’ sul popolo, cioè prenda forma, affinché egli si faccia rispettare perché istituzionalmente buono ed infine, se possibile, lo sia, ma alla condizione assoluta di non dimenticare mai di saper essere cattivo se è necessario»[27]. Come nella filosofia epicurea gli elementi prima dell’incontro non sono che astrazioni: «gli elementi ci sono già tutti e sono al di là, a pioggia ([…] la situazione italiana), tuttavia essi non esistono, non sono che astratti fino a che l’unità di un mondo non li ha riuniti nell’Incontro che costituirà la loro esistenza»[28].
In Spinoza l’incontro è l’oscillazione che precede il farsi necessario della storia. Come è noto già in Elementi di autocritica Althusser aveva suggerito l’idea che Spinoza avesse fornito nel Trattato teologico-politico un esempio di terzo genere di conoscenza: la storia del popolo ebraico. Ora questa storia è permeata dall’immaginario, che Althusser propone di tradurre concettualmente ne termini husserliani di Lebenswelt, il mondo vissuto e percepito; ed è appunto nell’immaginario che oscillano i destini della necessità: «[…] la teoria dell’immaginario come mondo permette a Spinoza di pensare quell’‘essenza singolare’ di terzo genere che è per eccellenza la storia di un individuo o di un popolo, come Mosè o il popolo ebraico. Che essa sia necessaria significa solamente che si è compiuta, ma che tutto in essa poteva oscillare secondo l’incontro o il non incontro di Mosè e di Dio o secondo l’incontro della comprensione [o del]la non comprensione dei profeti. La prova: era necessario spiegare loro il senso di quanto essi riferivano dei propri colloqui con Dio! con quella situazione limite del niente stesso, quella di Daniele […]: gli si poteva spiegare tutto, ma egli non capiva mai nulla. Prova dal niente del niente stesso, come situazione limite»[29]. La stessa conoscenza profetica non è dunque il segno di un destino ma l’effetto di un incontro tra immaginari che ha fatto presa, talvolta malgrado il profeta stesso o addirittura, come nel caso di Daniele, nella totale incapacità dello stesso profeta di comprendere il senso cui l’incontro ha dato luogo.
In Rousseau l’incontro è prima assente (se non nella sua figura fugace) e poi imposto. Nella figura fantastica della foresta primitiva Rousseau rappresenta l’assenza di incontro degli individui isolati, che nella loro erranza non danno luogo che a incontri brevi, senza conseguenze, senza effetti. A questo spazio in cui l’incontro non è possibile pone dei limiti l’equivalente roussoviano del clinamen, le catastrofi naturali, che creano degli spazi limitati in cui l’incontro è possibile: «Cosa ci vuole perché si dia effettivamente una società? Bisogna che lo stato di incontro sia imposto agli uomini, che l’infinito della foresta, come condizione di possibilità del non incontro, si riduca al finito per ragioni esteriori, che delle catastrofi naturali la frammentino in spazi limitati, per esempio in isole, in cui gli uomini siano costretti all’incontro e costretti ad un incontro che duri: costretti da una forza più grande di loro. Lascio da parte l’ingegnosità di queste catastrofi naturali, che colpiscono la superficie terrestre. […] Una volta costretti all’incontro e ad associazioni durevoli di fatto, gli uomini vedono svilupparsi tra di loro dei rapporti obbligati, che sono dei rapporti sociali, dapprima rudimentali, poi ripetuti in seguito per gli effetti prodotti da quegli incontri sulla loro natura di uomini. […] La società è nata, lo stato di natura è nato, la guerra pure, e con essi si sviluppa un processo d’accumulazione e di cambiamento che letteralmente crea la natura umana socializzata. Si noterà che questo incontro potrebbe non durare affatto se la costanza delle costrizioni esteriori non lo mantenesse in uno stato costante contro la tendenza alla dispersione, se non gli imponesse letteralmente la sua legge di ravvicinamento, senza domandare il loro parere agli uomini, la cui società nasce in qualche modo alle loro spalle, e la cui storia nasce come la costituzione dorsale ed inconscia di questa società»[30].
Infine in Marx, almeno in quella parte della produzione teorica di Marx che Althusser ascrive alla corrente sotterranea del materialismo aleatorio e che contrappone al Marx teleologico, l’incontro è ciò che costituisce lo sfondo aleatorio della costituzione del modo di produzione capitalistico: «In innumerevoli passaggi Marx […] ci spiega che il modo di produzione capitalistico è nato dall’‘incontro’ tra il ‘proprietario di denaro’ e il proletario sprovvisto di tutto, salvo che della propria forza-lavoro. ‘Capita’ che questo incontro abbia avuto luogo, ed abbia ‘fatto presa’, il che vuol dire che non si è dissolto non appena avvenuto, ma è durato ed è diventato un fatto compiuto, il fatto compiuto di questo incontro, che provoca dei rapporti stabili ed una necessità il cui studio fornisce delle ‘leggi’, beninteso tendenziali: le leggi dello sviluppo del modo di produzione capitalistico. Quello che è importante in questa concezione non è tanto il dispiegarsi di leggi, dunque di un’essenza, quanto il carattere aleatorio della ‘presa’ di questo incontro che dà luogo al fatto compiuto, di cui si possono enunciare delle leggi. Detto in altri termini: il tutto che risulta dalla ‘presa’ dell’‘incontro’ non è anteriore alla ‘presa’ degli elementi ma posteriore e perciò avrebbe potuto non ‘far presa’ e, a maggior ragione, ‘l’incontro avrebbe potuto non aver luogo’. Tutto questo è detto, certo tra le righe, ma è detto nella formula di Marx, quando ci parla tanto spesso di ‘incontro’ (das Vorgefundene) tra il proprietario di denaro e la nuda forza-lavoro. Si può anche andare più lontano e supporre che l’incontro abbia avuto luogo nella storia numerose volte prima della sua presa occidentale ma, in mancanza di un elemento o della disposizione degli elementi, allora non abbia ‘fatto presa’. Ne sono testimoni gli Stati italiani della valle del Po nel XIII e XIV secolo, dove c’era proprietario di denaro, tecnologia ed energia (le macchine mosse dalla forza idraulica del fiume) e manodopera (artigiani disoccupati) ma dove, tuttavia, il fenomeno non ha ‘fatto presa’. Vi mancava senza dubbio (forse, è un’ipotesi) quel che Machiavelli cercava disperatamente nella forma di un appello ad uno Stato nazionale, cioè un mercato interno capace di assorbire la possibile produzione. Che si rifletta tanto o poco sui requisiti di questa concezione, ci si accorge che essa pone una relazione molto particolare tra la struttura e gli elementi che essa ha il compito di unire. Che cos’è infatti un modo di produzione? Abbiamo detto, con Marx: una ‘combinazione’ particolare tra elementi. Questi elementi sono l’accumulazione finanziaria (quella del ‘proprietario di denaro’), l’accumulazione dei mezzi tecnici di produzione (utensili, macchine, esperienza di produzione negli operai), l’accumulazione della materia di produzione (la natura) e l’accumulazione dei produttori (i proletari sprovvisti di ogni mezzo di produzione). Questi elementi non esistono nella storia affinché esistesse un modo di produzione, essi vi esistono allo stato ‘fluttuante’ prima della loro ‘accumulazione’ e ‘combinazione’, ciascuno essendo il prodotto della sua propria storia, nessuno essendo il prodotto teleologico degli altri o della loro storia. Allorché Marx ed Engels diranno che il proletariato è ‘il prodotto della grande industria’, diranno una grossa sciocchezza, perché si piazzeranno nella logica del fatto compiuto della riproduzione allargata del proletariato, e non nella logica aleatoria dell’‘incontro’ che produce (e non riproduce) come proletariato quella massa di uomini deprivati e denudati in quanto uno degli elementi costitutivi del modo di produzione. Nel far ciò, essi passeranno dalla prima concezione del modo di produzione, storico-aleatoria, ad una seconda concezione, essenzialista e filosofica»[31].
Il modo di produzione capitalistico è dunque il risultato di un incontro che ha fatto presa. E tuttavia questo incontro non ha avuto luogo una volta per tutte, ma accade continuamente ed il modo di produzione capitalistico persiste proprio in virtù della ripetizione continuata di questa presa: «Si avrebbe d’altra parte torto a credere che questo processo di incontro aleatorio si limiti al XIV secolo inglese. Esso è sempre proseguito e continua ancora ai nostri giorni, non solo nei paesi del Terzo Mondo che ne sono l’esempio più eclatante, ma anche da noi, nell’espropriazione dei produttori agricoli e nella loro trasformazione in Operai Specializzati (cfr. Sandouville: dai Bretoni alle macchine), come un processo costante che inscrive l’aleatorio nel cuore della sopravvivenza e del rafforzamento del ‘modo di produzione’ capitalistico, come d’altronde nel cuore dello stesso sedicente ‘modo di produzione’ socialista. E qui, instancabilmente, si vedono i ricercatori marxisti riprendere il fantasma di Marx e pensare la riproduzione del proletariato credendo di pensare la sua produzione: pensare nel fatto compiuto pensando di pensare il suo divenire compiuto»[32].
Il concetto di incontro riceve una complessa articolazione all’interno della trattazione degli autori del materialismo aleatorio. Proviamo a fissare i punti fondamentali:
1) Gli incontri possono essere brevi o durevoli. L’incontro durevole è quello in cui gli elementi fanno presa e tuttavia il fatto che esso duri non è garanzia del fatto che durerà sempre: ogni incontro è provvisorio (il che vale ovviamente per quelli brevi, ma anche per quelli che durano). Ma non solo: ogni incontro riposa sull’abisso, cioè, fuor di metafora, sul fatto che poteva non aver luogo.
2) Ogni incontro è frutto di una serie di incontri precedenti, ognuno dei quali ha avuto luogo, ma poteva non aver luogo: «Non c’è incontro – scrive Althusser – che tra serie di esseri che risultano da molte serie di cause – almeno due, ma questo due prolifera subito per effetto del parallelismo o del contagio ambientale […]»[33]. Il riferimento qui è al Cournot di Exposition de la théorie des chances et des probabilités in cui il caso è definito come l’incontro tra serie causali indipendenti.
3) L’incontro dipende dall’affinità degli elementi che si incontrano, nel senso che gli elementi, pur non contenendo nulla di quello che saranno dopo l’incontro[34], sono tuttavia affinissables, affinizzabili: non dunque già affini a priori, nel senso delle affinità elettive goethiane, ma affini in date condizioni aleatorie (nel senso che ogni elemento è a sua volta risultato di un incontro); affini dunque, ma a posteriori e perciò, con uno sguardo retrospettivo sull’origine, affinizzabili[35]. La conseguenza necessaria di questo limite dell’incontro è che «non tutto produce ogni cosa».
4) Infine, una volta che l’incontro ha fatto presa, si dà il primato della struttura sugli elementi.
I concetti di incontro e vuoto, pensati in stretta interdipendenza, conducono secondo Althusser a determinare il primato del nulla sulla forma e del materialismo aleatorio su ogni formalismo, cioè su ogni forma di combinatoria strutturalista tra elementi dati. Ogni forma è il risultato di un triplice abisso:
1) del poter non essere stata;
2) del poter essere breve;
3) del potere non essere più.
La filosofia, la cui essenza secondo lo Spinoza di Althusser sarebbe il vuoto, non è altro che constatazione dell’incontro: «Che cosa ne è – si chiede l’autore – in queste circostanze della filosofia? Essa non è più l’enunciato della Ragione e dell’Origine delle cose, ma teoria della loro contingenza e riconoscimento del fatto, del fatto della contingenza, del fatto della sottomissione della necessità alla contingenza e del fatto delle forme che ‘dà forma’ agli effetti dell’incontro. Essa non è più che constatazione: c’è stato incontro, e ‘presa’ degli elementi gli uni sugli altri (così come si dice che il ghiaccio ‘fa presa’)»[36]. Constatazione dell’incontro o del fatto, altro termine fondamentale del materialismo aleatorio[37].
3. Fatto, Faktum, fattuale, fatticità
La filosofia è puro riconoscimento, constatazione del fatto, ossia «dire il fatto spogliato da ogni addizione esterna», come voleva il vecchio Engels, anche se queste addizioni esterne non sono per Althusser che l’ottenebrazione interna dello sguardo dell’immaginazione.
Tuttavia anche il concetto di fatto in Althusser non è univoco, ma è usato secondo due sfumature di significato differente a seconda del contesto teorico in cui interviene:
1) in un primo senso il fatto è giocato contro ogni tematica giuridica o dialettica, ossia contro ogni forma di teleologia latente o manifesta. Per esempio in Spinoza la filosofia della fatticità si oppone alla metafisica e alla teoria della conoscenza. Alla domanda metafisica per eccellenza, «perché così e non altrimenti?», Spinoza risponde che è un fatto che siano conoscibili due attributi; alle questioni sul quid juris della conoscenza, Spinoza risponde con la fatticità del pensiero: «che non resti più nulla da dire del grande problema che ha pervaso la storia della filosofia occidentale da Aristotele e soprattutto da Descartes in poi: il problema della conoscenza e del suo duplice correlato, il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto. Queste grandi controversie, che tanto ci fanno chiacchierare, si riducono a nulla: homo cogitat, l’uomo pensa, è così, è la constatazione di una fatticità, quella dell’‘è così’, quella di un ‘es gibt’ che preannuncia Heidegger e ricorda la fatticità della caduta degli atomi in Epicuro»[38]. La stessa esistenza di Euclide non è per Spinoza altro che un fatto e non il luogo di apparizione di un senso originario che attiva una teleologia della storia: «è un fatto che Euclide, grazie a Dio, solo Dio sa perché, è esistito come una singolarità universale fattuale»[39]. Tutta la filosofia di Spinoza è una filosofia della necessità del fattuale, ben simboleggiata dall’immagine del filosofo che salta sul treno in corsa senza sapere dove viene né dove va e prende atto delle installazioni fattuali del treno, da quali compagni è fattualmente circondato[40]. In Rousseau è un fatto la formazione di legami sociali, contro l’attrazione teleologica di una natura umana pensata come naturalmente socievole: «costretti all’incontro e ad associazioni durevoli di fatto, gli uomini vedono svilupparsi tra di loro dei rapporti obbligati, che sono dei rapporti sociali, dapprima rudimentali, poi ripetuti in seguito per gli effetti prodotti da quegli incontri sulla loro natura di uomini»[41]. Nel giovane
Engels è un fatto la condizione della classe operaia inglese: «Istruito da questa esperienza, Engels si mise al lavoro, studiò nei libri e sul campo e ne fece un libro nel 1845: La situazione della classe operaia in Inghilterra, che si chiudeva con la sconfitta del cartismo e in cui la storia universale andava in tutt’altro modo che nello schema del Manifesto. Tutto dipendeva lì dalle condizioni di vita (Lebensbedingungen) e di lavoro (Arbeitsbedingungen), imposte agli sfruttati, tutto risaliva alla grande espropriazione dell’accumulazione originaria che aveva gettato questi uomini, senza più la dimora, bruciata dalle fiamme, sulle strade e tra le braccia dei possessori locali di mezzi di produzione. Non è questione di concetto, di contraddizione, di negazione e negatività, di primato delle classi sulla lotta, del primato del negativo sul positivo. Ma una situazione di fatto, risultato di tutto un processo storico imprevisto ma necessario che aveva prodotto questa situazione di fatto: sfruttati nelle mani di sfruttatori. Quanto alla lotta, era anch’essa il risultato di una storia fattuale»[42]. Il fatto è contrapposto al concetto inteso in senso idealistico, cioè a quella dialettica concettuale che dà forma e direzione al processo del reale: come in Spinoza e Rousseau, seppur in contesti differenti, il fatto è giocato contro una teleologia, quella immanente al pensiero dialettico.
2) Tuttavia, dopo essere stato giocato in senso antimetafisico, il fatto rischia di divenire esso stesso un’ipostasi. Per schivare questo pericolo Althusser affonda il fatto nella più radicale contingenza. Attraverso la filosofia epicurea, in primo luogo, in cui il mondo è sì il ‘fatto compiuto’ in cui, una volta compiutosi, «si instaura il regno della Ragione, del Senso, della Necessità»; e tuttavia «questo compimento del fatto non è che puro effetto della contingenza, poiché è sospeso all’incontro aleatorio degli atomi dovuto alla deviazione del clinamen». «Prima del compimento del fatto, prima del mondo – continua Althusser –, non c’è che il non compimento del fatto, il non mondo che non è che l’esistenza irreale degli atomi»[43]. Stessa logica è presente in Machiavelli che non «ragiona secondo la Necessità del fatto compiuto, ma secondo la contingenza del fatto da compiere»: «Detto in altri termini, nulla garantirà mai che la realtà del fatto compiuto sia la garanzia della sua perennità: tutt’al contrario, ogni fatto compiuto […] con tutto quanto se ne può ricavare di necessità e ragione, non è che incontro provvisorio, infatti non c’è eternità nelle ‘leggi’ di nessun mondo e di nessuno Stato, poiché ogni incontro, anche quando dura, è provvisorio. La storia non vi entra che come la revoca permanente del fatto compiuto da parte di un altro fatto indecifrabile che deve compiersi, senza che si sappia in anticipo né mai, né dove, né come si produrrà l’evento della sua revoca. Semplicemente, verrà un giorno in cui i giochi saranno da redistribuire ed i dadi saranno nuovamente da gettare sulla tavola vuota»[44].
Althusser oppone dunque una logica del fatto compiuto ad una logica del fatto da compiersi[45]. Il fatto non è Faktum in senso trascendentale, non si tratta di condizioni di possibilità a priori, ma di condizioni materiali di esistenza[46]. Cogliere il fatto nel suo compiersi o nel suo essersi compiuto significa mostrare il suo fondamento contingente, la fluttuazione degli elementi che hanno originato o possono originare l’incontro al di fuori di ogni prestabilita armonia. Solo in questo modo è possibile cogliere la duplice provvisorietà del fatto:
1) poteva non avvenire;
2) potrà non essere più.
Scrive Althusser: «È allora fin troppo chiaro che chi intendesse considerare queste figure, individui, congiunture o Stati del mondo sia come risultato necessario di premesse date, sia come l’anticipazione provvisoria di un Fine, si sbaglierebbe, poiché dimenticherebbe il fatto (‘Faktum’) che questi risultati provvisori lo sono doppiamente, non solo in quanto destinati ad essere presto oltrepassati, ma anche in quanto avrebbero potuto non accadere mai, o non accadere che come l’effetto di un ‘breve incontro’, se non fossero sorti dal fondo favorevole di una buona Fortuna che ha dato possibilità [chance] di ‘durata’ agli elementi alla cui congiunzione questa forma si trova (per caso) a dover presiedere»[47]. La presa di coscienza del duplice abisso del fatto, del poter non essere e del poter non esser più, permette di schivare un’altra figura della metafisica che potrebbe annidarsi nell’ipostatizzazione del fatto, il fatto di un ordine dato: «è un fatto che noi abbiamo a che fare con questo mondo e non con un altro, è un fatto che questo mondo […] è sottomesso a delle regole ed obbedisce a delle leggi. Da qui la grandissima tentazione, anche per chi ci concedesse le premesse di questo materialismo dell’incontro, di rifugiarsi, una volta che l’incontro abbia ‘fatto presa’, nell’esame delle leggi fuoriuscite da questa presa di forme e che ripetono queste forme, indefinitamente, nel suo fondo. Giacché è a sua volta un fatto, un ‘Faktum’, che c’è ordine in questo mondo e che la conoscenza di questo mondo passa per la conoscenza delle sue ‘leggi’ (Newton) e delle condizioni di possibilità non dell’esistenza di queste leggi, ma soltanto della loro conoscenza: modo certo di rimandare alle calende greche la vecchia questione dell’origine del mondo (è così che procede Kant), ma per meglio lasciare in ombra l’origine di questo incontro secondo che rende possibile la conoscenza dell’incontro primo in questo mondo (l’incontro tra i concetti e le cose). Ebbene, noi ci guarderemo da questa tentazione e lo faremo in considerazione di una tesi cara a Rousseau il quale riteneva che il contratto riposasse su un ‘abisso’»[48]. Le leggi che regolano l’ordine del mondo, della sua fatticità, sono dunque provvisorie come l’incontro che le ha generate, non potendo trovare fondamento alla propria universalità né nell’immutabilità di un ens trascendente né nella trascendentalità di un io. Ciò apre, nel campo storico, ad una teoria materialistica della legge intesa non in senso fisico, ma come invariante ripetitiva o costante: «nella vita individuale e sociale non vi sono che singolarità (nominalismi), realmente singolari – ma universali, poiché queste singolarità sono come attraversate e pervase da invarianti ripetitive o da costanti; non da generalità, ma da costanti ripetitive che si possono ritrovare nelle loro variazioni singolari in altre singolarità della stessa specie e genere»[49]. Per usare la terminologia propria a Marx si tratta di leggi tendenziali: una tendenza non pone infatti la forma o la figura di una legge lineare, ma può biforcarsi per l’incontro con un’altra tendenza e così all’infinito: «En cada cruce de caminos, la tendencia puede tomar una vía imprevisible, por aleatoria»[50]. è su una tale concezione che si fonda il metodo machiavelliano di pensiero, quel ragionare secondo il sillogismo stoico ‘se …, allora…’ «che prende in carico nient’altro che il fattuale delle congiunture date, le condizioni esistenti di fatto, astrazion fatta da tutti i principî ontologici e morali».
4. Congiunzione e congiuntura
La congiuntura è negli scritti althusseriani degli anni Ottanta l’altro nome della fatticità: essa rappresenta le condizioni materiali dentro cui si deve pensare ed agire. «[…] quando ci si pone il problema della ‘fine della storia’ – scrive Althusser –, si vedono schierati in un medesimo campo Epicuro e Spinoza, Montesquieu e Rousseau sulla base, esplicita o implicita, di uno stesso materialismo dell’incontro o, in senso forte, di uno stesso pensiero della congiuntura. E beninteso Marx, ma costretto a pensare in un orizzonte lacerato tra l’aleatorio dell’incontro e la necessità della Rivoluzione»[51]. Grandi metafore della congiuntura sono il clima in Montesquieu e la fortuna in Machiavelli; ed inserita in questa tradizione di pensiero della congiuntura la stessa filosofia di Rousseau può essere letta al di fuori dell’annosa disputa accademica «che oppone senza fine il Contratto al secondo Discorso»: in questo senso si chiarirebbe «lo statuto dei testi in cui Rousseau si avventura a legiferare per dei popoli, quello corso, quello polacco ecc., riprendendo in tutta la sua forza il concetto che domina Machiavelli – benché non ne pronunci il termine, ma poco importa, poiché la cosa è là – il concetto di congiuntura: per dare delle leggi agli uomini bisogna tenere in massima considerazione il modo in cui le condizioni si presentano, il ‘si dà’ questo e non quello, come allegoricamente il clima e tante altre condizioni in Montesquieu, le condizioni e la loro storia, ossia il loro ‘essere divenuto’, in breve gli incontri che avrebbero potuto non aver luogo»[52].
Si dànno congiunture politiche, ideologiche, filosofiche: la congiuntura è il fatto del mondo che si presenta di fronte alla pratica, che è possibile sempre e solo negli interstizi di questo fatto, inserendosi nei rapporti di forza che lo costituiscono in quanto tale. E tuttavia la congiuntura non è una struttura trascendentale[53]; essa è con-giunzione, giunzione di elementi, incontro che riposa sull’abisso del non aver avuto luogo e del non aver più luogo, in cui una data forma presiede casualmente ad essa: «la congiuntura è essa stessa giuntura, con-giunzione, incontro irrigidito, anche se mobile, che ha già avuto luogo, e rinvia a sua volta all’infinito delle sue cause antecedenti così come rinvia d’altra parte all’infinito [del]la serie delle cause antecedenti il loro risultato che è un tale individuo definito, per esempio Borgia»[54].
5. Necessità e contingenza
L’uso che Althusser fa della coppia concettuale necessità-contingenza sembra ad un primo sguardo contraddittorio. Nel testo su Marx Althusser oppone la necessità dei fatti positivi alla dialettica: «vi è sì una filosofia all’opera nella storia, ma una filosofia senza filosofia, senza concetto né contraddizione, [una filosofia che] agisce al livello della necessità dei fatti positivi e non al livello del negativo o dei princìpi del concetto, che se ne fotte della contraddizione e della Fine della Storia, che se ne fotte anche della Rivoluzione come della negatività e del grande rovesciamento, che essa è pratica, [in cui ] regna il primato della pratica e dell’associazione degli uomini sulla teoria e l’autonomia stirneriana egoista dell’individuo, in breve che vi è del vero nel Manifesto ma che lì è falso poiché invertito, e che per raggiungere la verità si deve pensare in altro modo»[55]. La necessità è qui usata contro la teleologia immanente alla dialettica. Nello scritto sul materialismo dell’incontro invece la necessità è identificata alla teleologia e a questa è contrapposta la contingenza; nel definire la natura della corrente sotterranea, Althusser scrive: «Per semplificare le cose, diciamo per il momento: un materialismo dell’incontro, dunque dell’aleatorio e della contingenza, che si oppone, come un pensiero totalmente altro, ai differenti materialismi codificati, compreso al materialismo comunemente attribuito a Marx, ad Engels, a Lenin che, come ogni materialismo della tradizione razionalista, è un materialismo della necessità e della teleologia, cioè a dire una forma trasformata e mascherata di idealismo»[56]. La necessità dei fatti positivi e la contingenza sembrano giocare uno stesso ruolo contro ogni forma di teleologia; e possono giocare uno stesso ruolo per il fatto che la necessità dei fatti positivi non è attraversata da altra forza che il gioco dei rinvii e delle interazioni ad essi interni: è dunque una necessità che riposa sulla contingenza della costituzione di questa rete di rinvii, di quella presa che poteva non essere, poteva esser breve, potrà non esser più. In questo senso la filosofia diviene riconoscimento del fatto della contingenza: «Che cosa ne è in queste circostanze della filosofia? Essa non è più l’enunciato della Ragione e dell’Origine delle cose, ma teoria della loro contingenza e riconoscimento del fatto, del fatto della contingenza, del fatto della sottomissione della necessità alla contingenza e del fatto delle forme che ‘dà forma’ agli effetti dell’incontro. Essa non è più che constatazione: c’è stato incontro, e ‘presa’ degli elementi gli uni sugli altri (così come si dice che il ghiaccio ‘fa presa’). Viene rigettata ogni questione sull’Origine, così come tutte le grandi questioni della filosofia: ‘perché c’è qualche cosa piuttosto che nulla? qual è l’origine del mondo? qual è la ragion d’essere del mondo? qual è il posto dell’uomo nei fini del mondo?’ ecc.. Ripeto: quale filosofia ha avuto, nella storia, l’audacia di riprendere tali tesi?»[57].
Si dà dunque necessità, ma necessità non attraversata da senso, da ragione, da telos. Sì dà necessità nella purezza assoluta della contingenza, di un cum tangere che è incontro e mai generazione spontanea di una serie necessaria alla cui origine è sempre un soggetto (sia esso Dio o la volontà umana). Il cum tangere è necessario e questo cum tangere può prendere la forma di un incontro che non fa presa, di un incontro breve o di un incontro che dura; in quest’ultimo caso nasce un’altra forma di necessità, la necessità del fatto compiuto che non deve però essere scambiata per eternità: essa riposa su quella contingenza necessaria, su quel cum tangere, che l’ha originata ed è solo per la ripetizione di quel cum tangere che essa dura, senza alcuna garanzia trascendentale o trascendente. Siamo allora in grado di comprendere quell’enigmatica espressione althusseriana, necessità della contingenza, chiave di volta non solo dell’ultimo Althusser, ma anche di quello precedente. La necessità della contingenza non è la necessità che la contingenza ha, non è la necessità che attraversa la contingenza, bensì la necessità che la contingenza è, l’esse in alio (e non l’astratto potere essere così o altrimenti, cioè un’astratta possibilità che suppone la regio idearum di un intelletto divino che la sorregge), il rinvio ad altro che dà luogo all’incontro non preparato da alcuna forma di teleologia: «Vale a dire che anziché pensare la contingenza come modalità o eccezione della necessità, bisogna pensare la necessità come il divenire necessario dell’incontro di contingenti»[58]. È questo il grande lascito di Montesquieu e di Rousseau: «Ciò che vi è di più profondo in Rousseau è senza dubbio scoperto e ricoperto qui, in questa veduta su ogni teoria possibile della storia, che pensa la contingenza della necessità come effetto della necessità della contingenza, sconcertante coppia di concetti, ma che senza dubbio bisogna prendere in considerazione, che già affiora in Montesquieu, ed è posta apertamente in Rousseau, come un’intuizione del XVIII secolo che confuta in anticipo tutte le teleologie della storia che la tentavano e alle quali spalancò le porte sotto l’impulso irresistibile della Rivoluzione francese»[59].
6. Conclusioni
Il modo rapsodico, non sistematico e talvolta non rigoroso in cui Althusser presenta il suo materialismo dell’incontro può a mio avviso indurre in facili fraintendimenti. è stato detto che in questi scritti sono presenti forme di romanticismo filosofico, irrazionalismo o ancora un materialismo della libertà[60]. Costruire un lessico anziché seguire l’autore nel suo attraversamento della tradizione occidentale credo possa essere d’aiuto per mostrare il tessuto sistematico laddove questa sembra essere assente, il rigore dove esso invece prende la forma della narrazione apparentemente libera, cancellando così l’enfasi retorica su quei concetti che presi al di fuori della loro funzione teorica diventano completamente fuorvianti (uno per tutti, il più potente dal punto di vista retorico, quello di vuoto o di nulla). Ci sottrarremo alla tentazione di dare un’etichetta, classificatoria o polemica che sia, alla filosofia althusseriana dell’incontro, della pioggia, dell’aleatorio: esercizio superfluo una volta determinati significato e funzione dei termini chiave.
* Sigle utilizzate: CS = Le courant souterrain du matérialisme de la rencontre, in Ecrits philosophiques et politiques, édité par F. Matheron, vol. I, Paris, Stock/Imec, 1994, pp. 553-591, trad. it. a cura di V. Morfino e L. Pinzolo, in Sul materialismo aleatorio, Milano, Unicopli, 2000, pp. 55-115; UT = L’unique tradition matérialiste, édité par O. Corpet, in «Lignes» 18 (1993), pp. 71-119, trad. it. in Sul materialismo aleatorio cit., pp. 117-180; PM = Sur la pensée marxiste, édité par l’Imec, in AA.VV., Passages sur Althusser, «Futur antérieur» 1993, pp. 11-29, tr. it. in Sul materialismo aleatorio cit., pp. 25-53.
[1] è il caso di un articolo di Fabrice Alcandre e Christophe Brochard secondo cui la filosofia dell’ultimo Althusser, il materialismo aleatorio, apre alla nuova pratica di scrittura sperimentata nell’autobiografia: «il fatto contingente e irrazionale di cui parla il materialismo aleatorio è, per eccellenza, il fatto della follia» (L’ultima filosofia di Althusser, «aut aut» 285-286 (1998), p. 184). In polemica con questo genere di interpretazioni Albiac rileva che uno degli effetti paradossali della pubblicazione degli scritti autobiografici di Althusser è stato quello di «éclipser son oeuvre théorique»: contro questo effetto l’autore propone di considerare l’Avenir non come verità, ma come delirio autobiografico di cui si deve comprendere la logica, logica che risiederebbe precisamente nel tentativo di «démolir l’œuvre théorique qui fut la tâche de sa vie» (G. Albiac, Althusser lecteur d’Althusser. L’autobiographie comme genre imaginaire, in AA.VV., Lire Althusser aujourd’hui, «Futur antérieur» 1997, pp. 7-21: p. 8 e p. 20).
[2] Nell’edizione degli scritti è stato pubblicato anche il breve Ritratto di un filosofo materialista del 1986 (Ecrits philosphiques et politiques cit., vol. I, pp. 595-596, trad. it. in Sul materialismo aleatorio cit., pp. 181-182. Nell’archivio dell’IMEC sono depositati alcuni altri scritti che non sono stati inclusi nell’edizione delle opere: Sur la théologie de la libération. Suite à un entretien avec le P. Breton (28 mars 1985), Conversation avec le P. Breton (7 juin 1985), Thèses de juin 1986, Sur l’analyse (non daté), Sur l’histoire (6 juillet 1986), Machiavel philosophe (non daté) Du matérialisme aléatoire (11 juillet 1986). Quanto a Filosofía e marxismo, l’intervista ad Althusser realizzata da Fernanda Navarro, sembra essere nulla più che un collage dei testi inediti di Althusser (Louis Althusser, Filosofía e marxismo. Entrevista por F. Navarro, México, Siglo ventiuno editores, 1988).
[3] Sono presenti infatti notevoli differenze tra un testo e l’altro, una fra tutte, la più evidente forse, la differente valutazione della figura di Hegel. Secondo Matheron «il n’est pas possibile de les réduire à une unité véritablement cohérente, pas plus qu’à la tension de deux ou plusieurs tendances clairement identifiable» (La récurrence du vide chez Louis Althusser, in AA.VV., Lire Althusser aujourd’hui cit., p. 45). A mio parere Matheron esagera la disomogeneità di questi testi nei quali, almeno su un piano puramente teorico, è possibile trovare l’unità di un progetto.
[4] «[…] identifying anti-finalism as the defining characteristic of any consequent ‘materialism’, the late Althusser was resuming the Spinozistic critique of Hegelian teleology summed up in the category of ‘a process without a subject or goals’» (G. Elliott, Ghostlier demarcations. On the posthumous edition of Althusser’s writings, «Radical Philosophy» 90 (1998), p. 27).
[5] A proposito delle possibili interpretazioni del materialismo aleatorio Breton scrive: «Si indovina che qui l’epiteto era più importante del sostantivo. Ma, a rigore, si potrebbe esitare tra due interpretazioni, a seconda che il materialismo si risolva nel pensiero conseguente dell’aleatorio o che, per un estremo scrupolo, si voglia accordare agli atomi un peso di realtà o di esistenza preliminare alla loro fortuita combinazione. Mi ricordo, a questo proposito, la critica althusseriana della tesi ‘riformista’, che postula la priorità dell’esistenza delle classi sulla lotta che esse condizionano, mentre per i rivoluzionari ‘la lotta delle classi e l’esistenza delle classi sono una sola e medesima cosa’ e la lotta, anziché sopraggiungere a posteriori, ‘costituisce la divisione stessa delle classi’. Nel materialismo aleatorio dovrebbe essere lo stesso, gli atomi non precedono il loro incontro. ‘Bisogna dunque mettere al primo posto’ il loro rapporto. Il primato della relazione non può allora che opporsi al materialismo sostanzialista della materia, inconsapevole reificazione del sostantivo» (S. Breton, Althusser aujourd’hui, «Archives de philosophie» 56 (1993), 3, pp. 417-430; trad. it. in Sul materialismo aleatorio cit., pp. 187-188).
[6] Elliot ritiene che il «late Althusserian aleatorism […] is but a unilateral inflection of a recurrent Althusserian tendency» (G. Elliott, Ghostlier demarcations cit., p. 28); in particolare l’autore ritiene che il tema della necessità della contingenza sia un vero e proprio filo rosso all’interno delle differenti fasi della produzione teorica althusseriana. Fabrice Alcandre e Christophe Brochard ritengono invece che «la ‘follia’ separ[i] radicalmente la filosofia marxista di Althusser dal divenire dell’ultima filosofia di Althusser» (L’ultima filosofia di Althusser cit., p. 170). Anche Negri trova che il materialismo aleatorio sia una vera e propria Kehre nella produzione althusseriana e che «comme dans toute ‘Kehre’ philosophique, des éléments de continuité et des éléments innovateurs s’entremêlent, mais les seconds conquièrent l’hégémonie» (A. Negri, Pour Althusser. Notes sur l’évolution de la pensée du dernier Althusser, in AA.VV., Sur Althusser. Passages cit., p. 83).
[7] François Matheron ha mostrato come il termine ‘vuoto’ ricorra in tutta l’opera di Althusser sin dagli inizi ed in particolare come esso appaia, secondo un senso per nulla univoco, nel momento in cui egli cerca di elaborare i suoi concetti centrali: «Si l’on veut bien admettre que l’oeuvre d’Althusser est en grand partie aporétique […] on peut alors être tenté de comprendre l’insistance du vide dans son oeuvre comme l’indice récurrent de difficultés théoriques, voire comme une sorte de surenchère sur la difficulté» (F. Matheron, La récurrence du vide chez Louis Althusser cit., p. 26).
[8] Matheron ricorda come «cette catégorie de la rencontre n’est pas une découverte tardive d’Althusser: elle constitue l’une des tendances fondamentales des articles réunis dans Pour Marx» (ivi, p. 40).
[9] CS, p. 555; trad. it. cit., pp. 58-59.
[10] CS, p. 555; trad. it. cit., p. 58.
[11] Pierre Raymond esprime dei dubbi sull’interpretazione althusseriana di Epicuro (cfr. Althusser et le matérialisme, in Pierre Raymond (édité par), Althusser philosophe, Paris, PUF, 1997, p. 174) I dubbi sono condivisibili e tuttavia sembra che riguardo a questi testi, ancor più che altrove, sia assai più rilevante ciò che Althusser attribuisce agli autori della corrente sotterranea che la conformità dell’interpretazione alla materialità della lettera.
[12] CS, p. 560; trad. it. cit., p. 66.
[13] CS, p. 561; trad. it. cit., p. 69.
[14] CS, p. 560; trad. it. cit., p. 67.
[15] UT, p. 92; trad. it. cit., p. 146.
[16] UT, pp. 106-107; trad. it. cit., pp. 164-165.
[17] UT, pp. 105-106; trad. it. cit., p. 163.
[18] UT, p. 104; trad. it. cit., pp. 160-161.
[19] CS, p. 565; trad. it. cit., p. 76.
[20] CS, pp. 567-568; trad. it. cit., pp. 80-81.
[21] CS, p. 571; trad. it. cit., p. 86.
[22] CS, p. 571; trad. it. cit., pp. 86-87.
[23] Cfr. F. Papi, Scrivere dopo Derrida: l’architettura, «Oltrecorrente» 2 (2000), pp. 191-198.
[24] CS, p. 555; trad. it. cit., p. 59.
[25] CS, p. 556; trad. it. cit., p. 59.
[26] CS, p. 559; trad. it. cit., pp. 63-64.
[27] CS, p. 560; trad. it. cit., pp. 65-66. A proposito scrive giustamente Dinucci: «La struttura degli elementi è particolare: non ci sono soggetti. Infatti ogni soggetto che, a un dato livello, ha la possibilità di legarsi ad un altro, può essere visto, al livello sottostante, come il risultato di un legame che ha già ‘preso’. Lo staterello può aggregare gli altri Stati, ma è esso stesso un aggregato di popolo e Principe; il Principe a sua volta è aggregato di ‘fortuna’ e ‘virtù’; la virtù è l’incontro tra ‘la volpe’ e ‘il leone’, e così via. Questa caratteristica è molto importante poiché non implica una negazione totale dell’idea di soggetto, bensì una sua decostruzione, una sua limitazione e contestualizzazione» (F. Dinucci, Materialismo aleatorio. Saggio sulla filosofia dell’ultimo Althusser, Pistoia, Edizioni C.R.T., 1998, p. 12).
[28] CS, p. 560; trad. it. cit., p. 67.
[29] CS, p. 566; trad. it. cit., p. 78.
[30] CS, pp. 571-572; trad. it. cit., pp. 87-88.
[31] CS, pp. 584-586; trad. it. cit., pp. 107-109.
[32] CS, p. 587; trad. it. cit., pp. 110-111.
[33] CS, p. 580; trad. it. cit., p. 100.
[34] «[…] ogni incontro è aleatorio nei suoi effetti in quanto, prima di questo stesso incontro, nulla negli elementi dell’incontro disegna i contorni e le determinazioni dell’essere che ne sortirà. Giulio II non sapeva di nutrire nel suo seno romagnolo il suo nemico mortale, né sapeva che questo mortale stava per sfiorare la morte e trovarsi fuori della storia al momento decisivo della Fortuna, per andare a morire in una oscura Spagna, sotto una fortezza sconosciuta. Questo significa che, nell’essere degli elementi che concorrevano all’incontro, non c’era alcun disegno, neanche solo un abbozzo, di alcuna determinazione dell’essere uscito dalla ‘presa’ dell’incontro, ma che al contrario ogni determinazione di questi elementi non è assegnabile che nel ritorno all’indietro del risultato sul suo divenire, nella sua ricorrenza» (CS, pp. 580-581; trad. it. cit., pp. 100-101).
[35] «[…] da qui infine ciò che possiamo chiamare un’affinità e completezza degli elementi in gioco nell’incontro, la loro ‘capacità di coesione’, perché questo incontro ‘faccia presa’, cioè ‘prenda forma’, dia infine nascita a delle Forme, e nuove – come l’acqua ‘fa presa’ quando il ghiaccio la circonda, o il latte ‘si rapprende quando caglia’, o la maionese quando si addensa» (CS, p. 579; trad. it. cit., p. 98).
[36] CS, p. 556; trad. it. cit., p. 60. Questa è la forma della constatazione del fatto attraverso la lettura di Heidegger: «Il mondo è così per noi un ‘dono’, un ‘fatto di fatto’ che non abbiamo scelto, e che si ‘apre’ davanti a noi nella fatticità della sua contingenza, anche al di là di questa fatticità, in quel che non è solo una constatazione, ma un ‘essere–al–mondo’ che attiva ogni Senso possibile. ‘Il Da–sein è il guardiano dell’essere’. Tutto è racchiuso nel ‘da’. Cosa resta alla filosofia? Una volta ancora, ma in un’ottica trascendentale, la constatazione dell’‘es gibt’ e dei suoi requisiti, o piuttosto dei suoi effetti nel loro ‘dato’ insormontabile» (CS, p. 557; trad. it. cit., p. 61).
[37] Sul passaggio dalla filosofia come constatazione del fatto alla filosofia come assalto al potere cfr. L. Pinzolo, Il materialismo aleatorio. Trasformazioni della scienza della storia, «Oltrecorrente», 1 (2000), p. 155.
[38] CS, p. 564; trad. it. cit., pp. 74-75.
[39] UT, p. 87; trad. it. cit., p. 138.
[40] «Il materialista, al contrario, è un uomo che prende il treno in corsa (il corso del mondo, il corso della storia, il corso della propria vita), ma senza sapere da dove viene il treno né dove va. Egli monta su un treno a caso, quello che gli capita, e vi scopre le installazioni fattuali del vagone e da quali compagni è fattualmente circondato, quali sono le conversazioni e le idee dei suoi compagni di viaggio e quale linguaggio determinato dal loro contesto sociale essi parlano (come i profeti della Bibbia). Per me tutto ciò era, o piuttosto divenne a poco a poco, come scritto in filigrana nel pensiero di Spinoza» (UT, p. 89; trad. it. cit., pp. 141-142).
[41] CS, p. 572; trad. it. cit., p. 87.
[42] PM, p. 18; trad. it. cit., p. 35. Stesso concetto di fatticità all’opera nel discorso immaginario di Mary Burns: «ci sono (‘es gibt’) qui degli uomini e delle donne che sono stati gettati per strada, a cui hanno bruciato le case, divelto le recinzioni delle terre (Faktum) e che sono partiti a piedi, con la pancia vuota, sulle grandi strade che conducono alle città, per trovarvi una possibilità di ingaggio, di che lavorare, non importa a che prezzo, per non morire di fame. Sono venuti sino a qui, hanno trovato la porta della fabbrica aperta, e li hanno accolti come medicanti per un tozzo di pane. Dietro le alte mura, vi erano le torri della gentry industriale locale, che possedeva tutto nella fabbrica e faceva regnare la sua legge implacabile» (PM, pp. 17-18; trad. it. cit., p. 34).
[43] CS, p. 556; trad. it. cit., p. 59.
[44] CS, p. 561; trad. it. cit., p. 67.
[45] Entrambe queste logiche sono presenti in Marx che oscilla tra una concezione storico-aleatoria del modo di produzione ed una filosofico-teleologica (cfr. CS, pp. 586-591; trad. it. cit., pp. 109-115).
[46] Queste condizioni non sono, «come in Kant, delle condizioni di possibilità a priori, ma delle condizioni di semplice esistenza materiale in tutti i sensi del termine». UT, p. 109; trad. it. cit., p. 167.
[47] CS, pp. 581-582; trad. it. cit., p. 103.
[48] CS, pp. 582-583; trad. it. cit., p. 104.
[49] UT, p. 83; trad. it. cit., p. 132
[50] L. Althusser, Filosofía y marxismo cit., p. 36.
[51] CS, p. 574; trad. it. cit., p. 91.
[52] CS, pp. 573-574; trad. it. cit., pp. 89-90.
[53] «Certo anche in Kant la Ragione è un ‘Faktum’, ma questa ragione non ha niente a che vedere con il diverso legato da una congiuntura, ma è una struttura a priori intangibile che sfugge ad ogni congiuntura in quanto struttura a priori ogni oggetto ed ogni congiuntura» (UT, p. 109; trad. it. cit., p. 167). A questo proposito scrive giustamente Tosel: «C’est donc toute la conception du rapport de la structure à la conjoncture qui est transformée, puisque la conjoncture n’est plus un cas préordonné par la matrice structurale et la reproduisant en son identité. Elle est le fait toujours à accomplir de la conjoncture, toujours exposée au risque d’une autre rencontre d’autres éléments ou d’éléments autrement disposés» (A. Tosel, Les aléas du matérialisme aléatoire dans la dernière philosophie de Louis Althusser, «Cahiers Philosophiques» 84 (2001), pp. 7-39: p. 31).
[54] CS, p. 580; trad. it. cit., p. 100.
[55] PM, p. 19; trad. it. cit., p. 36.
[56] CS, p. 554; trad. it. cit., p. 56. Stesso uso della contingenza contro la necessità in questo passo in cui viene contrapposta la teoria della conoscenza di Descartes a quella di Spinoza: «[in Spinoza] Non vi è come in Descartes necessità immanente che faccia passare dal pensiero confuso al pensiero chiaro e distinto, non c’è cogito, non c’è momento necessario della riflessione che assicura questo passaggio. Esso può aver luogo o meno. E l’esperienza mostra che come regola generale esso non ha luogo, salvo nell’eccezione di una filosofia consapevole di non essere nulla» (CS, p. 556; trad. it. cit., pp. 75-76).
[57] CS, p. 556; trad. it. cit., p. 60.
[58] CS, p. 581; trad. it. cit., p. 101.
[59] CS, p. 574; trad. it. cit., p. 91.
[60] In questo senso appare paradigmatica l’interpretazione di Recalcati che vede nel materialismo aleatorio l’affermarsi di un’esigenza etica. Recalcati si sofferma sull’interpretazione althusseriana di Epicureo, il quale fornirebbe una versione dell’atomismo «che include e non esclude l’elemento aleatorio della contingenza, della libertà, della indeterminazione, del soggetto etico». Il tema della contingenza si identificherebbe con il tema della libertà: «Per questo, come scrive Althusser, possiamo riconoscere ‘dans la déviation que produit le clinamen, l’existence de la liberté humaine dans le monde même de la nécessité’» (M. Recalcati, La causa, l’incontro, la traccia: necessità e contingenza tra Althusser e Lacan, «aut aut» 296-297 (2000), pp. 212-213). Per sostenere la sua interpretazione Recalcati è costretto a invertire il senso di un passaggio di Althusser deconstestualizzandolo completamente. La restituzione del contesto mostrerà con evidenza l’insostenibilità di una tale interpretazione: «Che questo materialismo dell’incontro sia stato rimosso dalla tradizione filosofica non significa che sia stato dimenticato: era troppo pericoloso. Così è stato molto presto interpretato, rimosso e sviato in un idealismo della libertà. Se gli atomi di Epicuro che cadono in una pioggia parallela nel vuoto si incontrano, è allora per far riconoscere, nella deviazione che produce il clinamen, l’esistenza della libertà umana nel mondo stesso della necessità. È evidente che basta produrre questi fraintendimenti interessati per tagliar corto con ogni altra interpretazione di quella tradizione rimossa che chiamo materialismo dell’incontro» (CS, p. 554; trad. it. cit., pp. 56-57; corsivo mio).