Il Materialismo analitico e il problema della spiegazione funzionale applicata al Materialismo Storico
di
Stefano Bracaletti
Introduzione
Con l’espressione «marxismo analitico» o «marxismo della scelta razionale» [rational choice marxism], è possibile definire un insieme di autori che cercano un nuovo approccio ai concetti fondamentali del materialismo storico, quali sfruttamento, classe, lotta di classe, agire collettivo, usando gli strumenti e le tecniche della filosofia e della scienza sociale analitica contemporanea. Esso è quindi apertamente «revisionista», ma lo è nel senso migliore, come lo è stata la teoria critica per quanto riguarda la connessione di teoria e ricerca empirica. Il «revisionismo» del marxismo analitico è non solo di contenuto, ma anche metodologico e questo ribalta anche il punto di vista su quello che viene considerato il lato debole del marxismo. Questa corrente mostra un’esigenza di chiarezza e rigore non comuni nella tradizione marxista. Viene data grande importanza all’esatto significato dei concetti, al processo di deduzione attraverso il quale si arriva a determinate conclusioni e a quanto queste conclusioni possono sostenere asserzioni marxiane tradizionali[1].
Gli esponenti più significativi – sui quali si è concentrata la critica – sono Jon Elster, Jhon Roemer e Gerald A. Cohen. Il primo, nel suo monumentale Making sense of Marx, cerca di rileggere i testi marxiani alla luce dei principi dell’individualismo metodologico[2]. Roemer quale economista in A general theory of exploitation and class, costruisce una teoria dello sfruttamento che prescinde dalla teoria del valore-lavoro. L’obbiettivo teorico di Cohen nel testo Karl Marx’s theory of History. A defence, che analizziamo in questo articolo, è duplice. Da una parte – attraverso una serrata analisi dei testi marxiani – proporre una versione «fondamentalista» del materialismo storico che insiste sulla centralità delle forze produttive, e del loro sviluppo, rispetto alle relazioni di produzione. La struttura economica di una società è costituita esclusivamente dalle relazioni di produzione. Le forze produttive sono ciò su cui queste relazioni si basano ma devono essere tenute rigorosamente distinte dalle relazioni stesse [3]. Dall’altra inquadrare la teoria della storia di Marx nella forma della spiegazione funzionale [4]. Le relazioni di produzione hanno certe caratteristiche perché, grazie ad esse, favoriscono lo sviluppo delle forze produttive. La sovrastruttura ha certe caratteristiche perché, grazie ad esse, conferisce stabilità alle relazioni di produzione. Solo questa forma di spiegazione, infatti, riesce ad armonizzare, secondo Cohen, il primato delle forze produttive e la massiccia influenza che su queste esercitano le relazioni di produzione[5]. La forma della spiegazione funzionale non è un tipo di spiegazione diverso da quella causale ma un suo tipo particolare, legata al concetto di «fatti disposizionali» [dispositional facts] e di «leggi di conseguenza» [consequence laws]. Una consequence law è una asserzione condizionale il cui antecedente è un’asserzione causale ipotetica, definita appunto fatto disposizionale. Formalmente: se si dà il caso che, qualora un evento del tipo E accada, esso provochi l’evento F, allora un evento del tipo E accade[6]. E in modo ancora più preciso: se una situazione è tale che, date certe condizioni, il realizzarsi di una classe di eventi E determina il realizzarsi di una classe di eventi F, allora l’evento e appartenente ad E si realizza. Si può anche dire allora che in una spiegazione di questo tipo un fatto disposizionale [dispositional fact] spiega l’incidenza del tipo di evento menzionato nell’antecedente del rapporto ipotetico che specifica la disposizione. Così, ad esempio: se si dà il caso che (o tutte le volte che), in una data condizione di una determinata società, qualora venga eseguita la danza della pioggia (E) al tempo t1 essa abbia come effetto la coesione sociale (F) al tempo t2 [7](la frase in corsivo è il fatto disposizionale: qualora si realizzasse un certo evento, esso avrebbe un certo effetto) allora la danza della pioggia E si verifica[8]. La società x si trovava al tempo t in una particolare situazione per cui la danza della pioggia avrebbe avuto delle conseguenze positive (in quanto avrebbe provocato la coesione sociale) quindi la danza della pioggia si verificò. Ed ancora: tutte le volte che il descrivere il conflitto industriale in un certo modo, da parte della stampa borghese, è utile (funzionale) alla classe capitalistica, allora il conflitto viene descritto in quel modo. La nazione y si trovava in una situazione tale (ad esempio di scioperi ripetuti) per cui descrivere il conflitto industriale in un certo modo sarebbe stato utile alla classe capitalistica (in quanto, ad esempio, avrebbe tolto consensi agli scioperanti) quindi il conflitto industriale fu descritto in quel modo. Tutte le volte che l’aumento della scala di produzione ha come effetto le economie di scala[9], allora l’aumento della scala di produzione si verifica. E passando anche qui al caso concreto: nell’industria x l’aumento della scala di produzione si è verificato perché l’industria è del tipo in cui l’aumento della scala di produzione ha come effetto le economie di scala[10]. Il rapporto causale è quindi tra il fatto disposizionale e l’evento singolo che rientra nella classe di eventi che formano l’antecedente del condizionale.Questa forma di spiegazione è definibile consequence explanation. La spiegazione funzionale può essere sempre ad essa riportata. Si osservi che dal modo in cui questo tipo di spiegazione è qui presentato risulta chiaro che non si tratta di un rapporto di causa-effetto rovesciato. Nell’esempio della danza della pioggia, la coesione sociale non è collocata davanti al fatto che la provoca per poterlo spiegare in qualche modo. È il rapporto tra fatto disposizionale e occorrenza dell’evento in questione, che ha valore esplicativo. Nelle consequence explanations è necessario soltanto che il fatto disposizionale sia, in generale, verificato. Riferendosi ai precedenti esempi quindi: se si riesce a stabilire in un numero sufficiente di casi che, in effetti, se l’aumento della scala di produzione ha come effetto le economie di scala, l’aumento della scala di produzione si verifica, se il descrivere il conflitto industriale in un certo modo, da parte della stampa borghese, è utile (funzionale) alla classe capitalistica, il conflitto viene descritto in quel modo e così via, allora l’inferenza dal rapporto disposizionale al fatto singolo è corretta. Riuscire a specificare un meccanismo attraverso il quale questa relazione di funzionalità si attua serve senz’altro a creare una base più solida, ma non è, per il tipo di relazione che abbiamo analizzato, un requisito necessario. Data una certa base di conferma del fatto disposizionale, ci si può fermare a questo livello oppure supporre semplicemente che questo meccanismo esista anche se non si è in grado di identificarlo con precisione[11]. È questo il punto di disaccordo sostanziale tra Cohen ed Elster che invece ritiene imprescindibile l’essere in grado di identificare con precisione questi meccanismi per poter accettare la validità della spiegazione funzionale[12].
Per quanto riguarda l’altro obbiettivo teorico del libro – cioè, come già richiamato, proporre una versione del materialismo storico che ponga in primo piano il concetto di sviluppo delle forze produttive – esso viene perseguito partendo da un insieme di analisi che cercano di definire con precisione, sulla base dei testi marxiani, l’estensione e l’ambito di applicabilità dei concetti di forza produttiva e di relazioni di produzione e il rapporto tra di essi. Partendo da questa base Cohen si propone poi di mostrare – attraverso una serrata analisi della Prefazione alla Critica dell’Economia politica e in seguito cercando di estendere i risultati ottenuti alle analisi di Marx sulla struttura economica capitalistica – come il concetto di sviluppo delle forze produttive sia centrale in tutta l’opera marxiana. In generale tutto il lavoro di Cohen sui testi marxiani – in modo fedele alla tradizione della filosofia analitica – consiste sostanzialmente nella costruzione di insiemi coerenti di proposizioni, legate insieme da regole logico-deduttive, sulla base di termini il cui significato è definito in modo rigoroso.
1. La definizione dei concetti di forza produttiva e di relazioni di produzione
Le forze produttive, possono essere definite da un punto di vista estensionale, intensionale e teoretico. Dal punto di vista estensionale abbiamo da una parte i mezzi di produzione (a loro volta suddivisi in strumenti di produzione, spazi in cui la produzione si svolge e materiale grezzo) e dall’altra la forza lavoro. Nel concetto di forza lavoro considerata come forza produttiva, rientrano naturalmente le facoltà di coloro che producono: forza, capacità, conoscenza, inventiva ecc. Dal punto di vista intensionale per qualificarsi quale forza produttiva «qualcosa deve essere passibile di uso da parte di un agente della produzione in modo tale che la suddetta produzione si verifichi (almeno parzialmente) come risultato del suo uso, e inoltre in modo tale che rappresenti lo scopo di qualcuno che quel determinato oggetto contribuisca così alla produzione»[13]. Dal punto di vista teoretico, infine, si hanno quattro condizioni: un oggetto può definirsi una forza produttiva se 1) la sua proprietà da parte di qualcuno contribuisce a definire la posizione di costui all’interno della struttura economica della società; 2) si sviluppa nel corso della storia; 3) contribuisce a spiegare la relazioni di produzione della società in cui si è sviluppato; 4) il suo sviluppo può essere ostacolato o favorito dalle relazioni di produzione in cui è inserito[14]. L’obbiettivo di questo insieme di definizioni è eliminare – dove è possibile – l’ambiguità legata al concetto di «forza produttiva» e arrivare a una reale operatività dei concetti. Partendo da esse è chiaro, ad esempio, che qualsiasi elemento di natura in senso lato spirituale, non può, neanche metaforicamente, essere annoverato tra le forze produttive. La religione, la morale, la legge possono certo motivare o spingere, attraverso vari meccanismi l’uomo a produrre, ma non entrano nella produzione materiale dell’oggetto. Allo stesso modo non fanno parte delle forze produttive quegli oggetti che pur di natura fisica, ineriscono soltanto alla forma sociale di un determinato processo produttivo. Cohen cita l’esempio[15] che Marx fa nelle teorie sul plusvalore, di un soldato chiamato a sorvegliare degli schiavi. La sua presenza non è necessaria ai fini diretti della produzione, nel senso che se egli non ci fosse, il processo produttivo in sé non cambierebbe. Non sono neppure le condizioni tecniche del suolo che lo impongono. Data la forma sociale egli è però necessario, perché altrimenti il lavoro coatto non sarebbe possibile[16].
Le forze produttive e le persone costituiscono gli elementi delle relazioni di produzione. Le relazioni di produzione possono essere tra una persona (o gruppo di persone) e un’altra persona (o gruppo di persone) o tra una persona (o gruppo di persone) e una forza produttiva (o gruppo di forze produttive)[17]. Le relazioni di produzione sono sia relazioni di proprietà di persone su forze produttive o su persone, sia relazioni tra persone che presuppongono quelle relazioni di proprietà. Con l’espressione proprietà Cohen intende non una relazione legale ma una di controllo effettivo. Tuttavia a questo stadio dell’esposizione, per ragioni di comodità, le relazioni di produzione sono espresse in termini legali, cioè in termini di diritti di proprietà[18]. È ora possibile schematizzare il rapporto di proprietà di ciascun tipo di produttore immediato in relazione alla sua forza lavoro e ai mezzi di produzione[19]:
la sua forza lavoro Mezzi di produzione che usa
1) Schiavo possiede no no
2) Servo della gleba in parte in parte
3) Proletario sì no
4) Produttore sì sì indipendente
Abbiamo quindi tre produttori subordinati e un produttore indipendente. Applicando le distinzioni richiamate alla nota 19, si aggiungono a queste quattro forme pure altri cinque casi misti, non connotabili con un termine preciso che completano lo schema:
La sua forza lavoro Mezzi di produzione che usa
5) possiede no sì
6) possiede in parte sì
7) possiede no in parte
8) possiede in parte no
9) possiede sì in parte
Sono necessarie alcune precisazioni. Sotto 4) rientra sia il piccolo contadino che produce per la semplice sussistenza (questa è stata la forma predominante fino a un certo punto dello sviluppo sociale), sia la produzione di merci non capitalistica. I casi 5) e 6) sono chiaramente impossibili perché mostrano una situazione con un insieme di diritti incoerenti. In 5), ad esempio, un individuo è l’unico possessore di tutti i mezzi di produzione che usa e quindi ha pieno titolo di usarli senza che nessun altro interferisca, ma non può usare liberamente se stesso. Il caso 7) non è logicamente impossibile ma è di scarso interesse (uno schiavo, per esempio, cui è permesso di possedere qualche attrezzo). Il caso 8) rappresenta storicamente una possibile forma di transizione tra il servo della gleba e il proletario. Può riferirsi a servi che hanno perso la terra ma che conservano ancora doveri feudali tradizionali. Il caso 9) si riferisce a un proletario che possiede parte dei mezzi di produzione che usa, o a un artigiano indipendente (o coltivatore) nella stessa situazione. Come precisato da Elster [20], possono rientrare sotto 9) anche lo sfruttamento attraverso il capitale usurario e attraverso il capitale commerciale, che Marx considera come forme di transizione. Nell’usura i mezzi di produzione sono usati come garanzia e quindi non appartengono più completamente al produttore. Nello sfruttamento attraverso il capitale commerciale – precisamente nel già citato système du travail à domicile – sono le materie prime che non appartengono al produttore[21]. È importante sottolineare che nel primo schema lo status di subordinazione che caratterizza le prime tre figure è fondamentale per definire il proletario. Nel caso del servo della gleba e dello schiavo infatti, il rapporto con la propria forza lavoro e coi mezzi di produzione è sufficiente a definirli come tali, mentre si può essere possessori della forza lavoro e non possessore dei mezzi di produzione e tuttavia non essere proletari: è il caso dei liberi professionisti[22]. Viceversa da un punto di vista rigorosamente analitico si può dare il caso[23] di chi possiede i mezzi di produzione ma è comunque costretto a vendere la propria forza lavoro (non il proprio prodotto come nell’esempio di Marx del Verleger), perché l’uso dei mezzi di produzione in modo completamente autonomo non è redditizio, se i rapporti capitalistici non sono sufficientemente estesi, a causa di problemi legati alla commercializzazione del prodotto o/e al reperimento della materia prima[24].
Cohen è riuscito dunque a definire con precisione il concetto di forze produttive e a chiarire, se si accettano i risultati ottenuti, come esse siano gli elementi, insieme alle persone, delle relazioni di produzione. Ha mostrato, inoltre, quali rapporti sussistono tra persone e forze produttive, cioè quali tipi di relazioni di produzione sono in vigore, cercando di mettere in evidenza tutte le possibili forme sociali. Il concetto di relazioni di produzione sembra quindi delinearsi come una combinatoria, un insieme di elementi fissi in connessione tra loro secondo varie possibilità descrivibili con precisione[25].
Emerge da queste chiarificazioni analitiche e da queste definizioni una distinzione più profonda tra proprietà materiali e sociali degli oggetti e degli individui, ben nota nell’ambito di tutta l’opera marxiana.Vengono citati a questo proposito vari passi dei Grundrisse, del Capitale e dalle teorie sul plusvalore. Per esempio, essere uno schiavo (per un essere umano), essere capitale (per un mezzo di produzione), sono proprietà che emergono solo all’interno di determinate relazioni economiche. Esse quindi sono proprietà relazionali. Nel settore della circolazione – come Marx spiega nel secondo libro del Capitale – ci sono vari costi, quali quello della contabilità bancaria, determinati esclusivamente dalla forma capitalistica della produzione. Allo stesso modo si può tenere distinta la crescita economica e le funzioni necessarie dell’organizzazione del processo lavorativo dalla loro forma capitalistica, lo scientific management o il taylorismo dove l’obiettivo dell’aumento di produttività si trasforma inevitabilmente in controllo capillare sui lavoratori. Questa distinzione tra proprietà sociali\relazionali e materiali ne richede una ulteriore tra relazioni sociali di produzione e relazioni materiali di produzione [work relations][26]. Queste ultime sono i rapporti tra uomini all’interno del processo lavorativo considerati da un punto di vista puramente tecnico (ad esempio quanti uomini ci vogliono per far funzionare una determinata macchina, o per sorvegliare un certo impianto, come devono interagire)[27].
A proposito di questa insistenza sull’opposizione tra «materiale» e «sociale» in Marx, E.M. Wood[28] ha espresso riserve piuttosto severe. Secondo la Wood, Marx distingue in effetti tra produzione come tale o «produzione in generale» e la produzione così come esiste concretamente, in maniera storicamente determinata. Il suo scopo principale tuttavia è criticare gli economisti classici che iniziano la loro analisi con la produzione materiale in generale e poi trattano il processo capitalistico come se fosse questa produzione in generale, e non una forma storicamente determinata, e come se il capitale stesso fosse un entità fisica e non un rapporto sociale. Marx non è interessato all’opposizione tra «materiale» e «sociale» ma a definire il «materiale» attraverso il «sociale». Il processo di produzione materiale deve essere definito fin dall’inizio, in opposizione al modo di procedere degli economisti classici, come un processo sociale. In questo ambito – in particolare nell’analisi del processo lavorativo – Marx vuole quindi mostrare ciò che l’astrazione nasconde, non ciò che essa svela. Paradossalmente quindi – secondo la Wood – Cohen, non comprendendo questo aspetto, compie lo stesso errore che Marx critica. Le osservazioni della Wood non colgono però l’impostazione di fondo del lavoro di Cohen[29] che consiste – come già abbiamo avuto modo di sottolineare – nel definire campi del discorso diversi da livello analitico, in cui ogni definizione, alla Wittgenstein, riceve il suo senso solo all’interno del campo stesso, così come la forma di spiegazione in atto trova legittimità solo in relazione a quel preciso insieme di definizioni. Secondo questa impostazione le proprietà relazionali o sociali, all’interno della determinata struttura economica in cui sorgono, hanno la stessa importanza delle proprietà materiali. Ad esempio, quindi, non è logicamente corretto dire che un uomo non è uno schiavo come tale o che dei mezzi di produzione non sono capitale in sé. Le varie entità fisiche (vale naturalmente per le forze produttive) hanno differenti insiemi di proprietà (un insieme di proprietà sociali ed un insieme di proprietà materiali) entrambe ad un certo tempo t, altrettanto reali ed effettuali anche se possono essere prese e analizzate separatamente[30]. A questo livello di astrazione quindi, riuscire a definire con precisione due insiemi distinti di caratteristiche sociali e materiali che valgono per tutte le società, offre un punto di partenza per una spiegazione storica che si muova su un piano di sufficiente universalità, nella quale possono poi essere integrati i fattori storico sociali contingenti.
2. Il rapporto tra forze produttive e relazioni di produzione
Come abbiamo anticipato in apertura, il complesso apparato concettuale fin qui delineato da Cohen vorrebbe far emergere in Marx, in termini rigorosi, la possibilità di una descrizione esclusivamente materiale della società. Questa descrizione costituisce la premessa del nucleo centrale del lavoro ricostruttivo di Cohen, che consiste nell’analisi della Prefazione del ’59 alla Critica dell’Economia politica. Obbiettivo di questa analisi è dimostrare in modo inequivocabile come Marx attribuisca priorità alle forze produttive e al loro sviluppo rispetto alle relazioni di produzione e come questa priorità possa essere, in generale, sostenuta in modo coerente. Dalla Prefazione del 1859 Cohen estrapola le asserzioni centrali che riportiamo: 1) Le relazioni di produzione corrispondono a un certo stadio dello sviluppo delle forze produttive materiali; 2) ad un certo punto del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in conflitto con le relazioni di produzione all’interno delle quali avevano funzionato fino a quel momento; 3) da forme di sviluppo delle forze produttive queste relazioni diventano ostacoli; 4) comincia allora un’epoca di rivoluzione sociale; 5) nessuna formazione sociale si estingue prima che tutte le forze produttive per le quali c’è spazio all’interno di essa si siano sviluppate; 6) nuove, più elevate relazioni di produzione non appaiono mai prima che le condizioni materiali della loro esistenza siano maturate nel grembo stesso della vecchia società.
Da questo insieme di asserzioni emergono – secondo Cohen – due idee fondamentali e cioè che a) le forze produttive tendono a svilupparsi nel corso della storia e b) la natura delle relazioni di produzione di una società è spiegata dal livello di sviluppo delle sue forze produttive[31].
La prima è definita da Cohen tesi dello sviluppo [development thesis], la seconda tesi della supremazia (sottinteso: delle forze produttive) [primacy thesis]. La development thesis è presente, secondo Cohen, come sfondo teoretico in tutte le sei asserzioni. La primacy thesis è presente nella prima asserzione e deve essere interpretata nei termini che abbiamo illustrato precedentemente. Ciò che infatti essa afferma – secondo Cohen – attraverso l’espressione «Le relazioni di produzione corrispondono alle forze produttive», è che le prime sono come effettivamente sono in quanto funzionali (nel senso visto all’inizio di «favorevoli allo sviluppo») alle seconde.
La development thesis afferma una pretesa allo stesso tempo più forte e più debole della tesi seguente, che definiamo a.1: le forze produttive si sono sviluppate attraverso la storia. Più forte, perché asserisce una tendenza universale allo sviluppo. Le forze possono essersi sviluppate per un insieme di ragioni non connesse fra loro e questo è sufficiente a stabilire a.1 ma non la development thesis, la quale richiede che sia insito nella natura delle forze produttive il fatto che si sviluppino. Più debole, in quanto non sostiene che le forze si siano sviluppate sempre e neanche che esse non tendano mai a declinare. Le circostanze possono operare in un senso o in un altro. Per quanto riguarda la primacy thesis, essa afferma che cambiamenti delle forze produttive provocano cambiamenti delle relazioni di produzione ma non specifica, da un punto di vista quantitativo, quale deve essere il cambiamento delle forze affinché avvenga un susseguente mutamento delle relazioni. Si può dire, sottolineando gli aspetti dinamici, che per ogni insieme di relazioni di produzione c’è un margine di ulteriore sviluppo delle forze produttive sufficiente per il cambiamento in quell’insieme di relazioni, ma chiaramente la soglia più o meno precisa può essere messa in luce solo caso per caso.
C’è un punto della assai densa analisi di Cohen che merita un’attenta considerazione[32], perché mostra con chiarezza il senso del suo lavoro sui testi marxiani (che consiste, come abbiamo accennato in apertura, nella costruzione di un insieme coerente di proposizioni, legate insieme da regole logico-deduttive, sulla base di termini il cui significato è definito in modo rigoroso). Le asserzioni 2), 3) e 4) della Prefazione, infatti, sostengono che lo sviluppo si manifesta con la contraddizione tra forze produttive e relazioni di produzione e che questa contraddizione è risolta a favore delle forze produttive. Sono cioè le relazioni che mutano non viceversa. Questo può essere sostenuto (e quindi le sei asserzioni della Prefazione possono costituire un insieme coerente) solo se il verbo «corrispondere» nell’asserzione 1) è preso, nel suo significato rigoroso, in senso non simmetrico: sono le relazioni che corrispondono alle forze e non viceversa. Le forze produttive sono il polo primario e sono quindi le relazioni di produzione che mutano in caso di conflitto. È evidente che tutto il discorso sulla spiegazione funzionale ha la sua radice logica in questa non-simmetria e allo stesso tempo la fonda.
Questa non simmetria non esclude comunque che possano sussistere esempi del condizionamento contrario, cioè dalle relazioni alle forze. L’insieme delle sei proposizioni lascia aperta questa possibilità (di fatto esse non asseriscono che tutti i cambiamenti alle relazioni in produzione avvengano in conseguenza di cambiamenti nelle forze produttive). Esse neppure specificano le origini del cambiamento. Origini che possono essere, almeno in alcuni casi, proprio nelle relazioni di produzione (vedi nota 46). Marx stesso, fa osservare Cohen[33], non ha mai escluso che questo condizionamento opposto si verificasse. Tuttavia, non vi è nessuna generalizzazione nel corpus marxiano di questo rapporto contrario come vi è (sulla base, lo ripetiamo, delle sei asserzioni e della logica della spiegazione funzionale) del rapporto che vede le forze produttive come dato primario. A livello testuale la primacy thesis può essere quindi accettata e la prima asserzione può essere interpretata nel modo che abbiamo esposto.
Cohen prende poi in considerazione[34] le asserzioni 5) e 6) della Prefazione separatamente dalle altre quattro, cercando di coglierne il significato preciso. La 5) può essere interpretata sia in modo forte che in modo debole a seconda dei riferimenti empirici che vengono adottati. Se interpretata in modo forte, presenta, naturalmente, secondo uno schema alla Popper, maggiori possibilità di essere falsificata[35].
La 5) tuttavia non asserisce – secondo Cohen – che quando una determinata struttura economica si sfalda ne emerge necessariamente una migliore, ma lascia aperta la possibilità alla regressione. Allo stesso modo essa non implica il suo contrario e cioè: se le forze produttive hanno raggiunto il punto del massimo sviluppo, la struttura economica si sfalda. Può subentrare una forma di stagnazione, di fossilizzazione[36]. Per quanto riguarda l’asserzione 6), attraverso l’espressione «condizioni materiali» essa esprime semplicemente il fatto che una nuova struttura economica non può realizzarsi se all’interno della vecchia non è stato raggiunto un determinato livello di produttività. Neppure la 6) implica – secondo Cohen – il suo contrario. Non implica cioè l’asserzione: «se le forze produttive sufficienti per una nuova, più elevata struttura economica, si sono sviluppate, allora quest’ultima effettivamente emerge». Questo tipo di evoluzione può non avvenire, possono darsi casi di fallimenti (miscarriages) storici, di situazioni di stallo in cui i vecchi rapporti permangono. Prese isolatamente quindi la 5) e la 6) hanno, sostanzialmente, una serie di pretese deboli.
Se tuttavia esse vengono lette insieme alle altre asserzioni il quadro cambia in modo radicale. La 2) la 3) e la 4)[37] infatti ci dicono che, quando le relazioni di produzione diventano un ostacolo alle forze produttive, subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Se c’è una rivoluzione, cioè un cambiamento della struttura economica, le forze produttive devono aver raggiunto il massimo sviluppo [questa conclusione deriva necessariamente dalla 5)]. Non possono esserci quindi fossilizzazioni né regressioni e neppure miscarriages, astrattamente ammessi da una lettura isolata delle 5) e 6)[38].
Fino a questo momento Cohen si è mosso su un piano testuale-logico. È stato messo in luce il significato testuale di un insieme di proposizioni ed è stata chiarita la loro sintassi. Sono stati inoltre messi in luce sia i rapporti tra queste proposizioni sia tutte le loro possibili implicazioni. Nel tentativo di uscire dal campo esclusivamente logico-sintattico Cohen introduce ora tre asserzioni, che diventano una base per costruire un’argomentazione sostanziale a favore della primacy thesis e della development thesis, dando loro una reale forza interpretativa. Queste asserzioni sono: c) gli uomini sono razionali; d) la situazione storica degli uomini è una situazione di scarsità; e) gli uomini hanno l’intelligenza che permette loro di migliorare la situazione in cui si trovano[39]. Esse dovrebbero riferirsi ai tratti più generali possibili della natura umana e delle situazioni che l’uomo si trova ad affrontare, ed essere quindi valide universalmente e in maniera sovrastorica. In effetti la loro generalità, se da una parte le rende meno vulnerabili alle tradizionali critiche marxiste al concetto di «natura umana», dall’altra le rende, da un certo punto di vista, un nucleo metafisico, cioè – nel significato dato a quest’espressione nell’epistemologia contemporanea – un insieme di asserzioni talmente generali da non poter essere neppure confrontate con asserzioni singolari riguardanti i fatti empirici, in quanto potrebbero trovare troppe conferme. Cohen stesso non si astiene dal sottolineare, anche se da un altro punto di vista, alcune loro debolezze: l’asserzione d) dà priorità assoluta – egli fa osservare – agli interessi materiali senza una valutazione relativa di questi ultimi rispetto ad altri ambiti della vita umana, di carattere culturale e sociale. La razionalità astratta a cui l’asserzione c) fa riferimento può rimanere solo un modello rispetto alle concrete situazioni storico-sociali. Ciò che sarebbe razionale scegliere può essere ostacolato e soffocato da molteplici fattori. Inoltre una caratteristica altrettanto generale della natura umana sembra essere l’inerzia. Essa, anche se non opposta alla razionalità, può essere un ostacolo all’applicazione pratica di quest’ultima. Nonostante questo l’evidenza storica ci mostra che le forze produttive, non solo vengono progressivamente sostituite da forme sempre più avanzate[40], ma effettivamente, tranne che in casi eccezionali, non regrediscono mai (è quella che Cohen chiama broad generalization della development thesis). Se allora, nonostante la loro vulnerabilità, teniamo presente le tre asserzioni summenzionate, riusciamo, almeno parzialmente, a spiegare questo fatto. Ci sono quindi buone ragioni per accettarle[41]. Vedremo tuttavia che le tre asserzioni sulla razionalità umana sollevano – oltre a quelli già evidenziati da Cohen stesso – problemi non trascurabili e che il loro status teorico è tutt’altro che limpido.
Alcune precisazioni sono necessarie anche per quanto riguarda la primacy thesis: la natura delle relazioni di produzione è spiegata dal livello di sviluppo delle forze produttive. È chiaro innanzitutto – fa osservare Cohen – che un certo livello di forze produttive è compatibile soltanto con un certo tipo o certi tipi di strutture economiche. La schiavitù per esempio, non potrebbe essere la situazione sociale di produttori all’interno di una società basata su una tecnologia informatica, se non altro perché il livello di cultura necessario a chi lavora con quel tipo di tecnologia presto lo spingerebbe a ribellarsi contro il suo status di schiavo[42]. Si ripresenta qui il problema della non-simmetria del rapporto di corrispondenza. A rigor di logica infatti si potrebbe evidentemente sostenere che se la tecnologia di alto livello esclude la schiavitù, la schiavitù esclude la tecnologia di alto livello, data la bassa produttività e il basso grado di sviluppo delle capacità intellettuali dei lavoratori (e quindi della ricerca scientifica) che caratterizza la prima e che quindi non si può parlare di autonomia e priorità delle forze produttive. È proprio la development thesis che permette – secondo Cohen – di rispondere a questa obiezione. Se le forze produttive tendono a svilupparsi, le relazioni di produzione o cambiano a loro volta oppure ad un certo momento non sono più compatibili con le prime, innescando una contraddizione. A questo punto sono le relazioni di produzione che devono cedere il passo, altrimenti non ci sarebbe più sviluppo delle forze produttive. Ma l’assenza di sviluppo delle forze produttive non è possibile secondo il modello assiomatico qui presentato, perché sarebbe in contraddizione con la development thesis. Deve avvenire un cambiamento nelle relazioni di produzione che sono quindi sempre qualcosa di secondario rispetto alle forze produttive[43]. Il nucleo di questo ragionamento può ora prendere la forma definitiva della spiegazione funzionale che abbiamo spiegato all’inizio del capitolo:
We hold that the character of the forces functionally explains the character of the relations. The favoured explanations take this form: the production relations are of kind R at time t because relations of kind R are suitable to the use and development of the productive forces at t, given the level of development of the latter at t [44].
Ed ancora:
The proposition that the production relations condition the development of the productive forces is, it should now be clear, not only compatible with, but entailed by, what we assert as the most important way in which the forces determine the relations. The effect of the relations on the forces is emphasized in our reading of the primacy thesis. It is that effect which explains the nature of the relations, why they are as they are. The forces would not develop as they do were the relations different, but that is why the relations are not different – because relations of the given kind suit the development of the forces. The property of a set of productive forces which explains the nature of the economic structure embracing them is their disposition to develop within a structure of that nature [45].
Abbiamo poco fa richiamato l’asimmetria che deve essere necessariamente attribuita al concetto di corrispondenza per dare un effettivo valore esplicativo alla spiegazione funzionale. Da una lettura attenta di questi due enunciati emerge con chiarezza proprio la difficoltà di tener ferma la priorità delle forze produttive sulle relazioni di produzione e allo stesso tempo mostrare che le relazioni hanno comunque una loro necessità, espressa dalla logica della spiegazione funzionale (favoriscono lo sviluppo…stabilizzano ecc.). A differenza che nell’analisi dei concetti di forza produttiva e di relazioni di produzione, nel corso della quale – come abbiamo cercato di mostrare – i vari livelli di descrizione non hanno priorità ontologica l’uno sull’altro, quando esamina la Prefazione del ’59 e il concetto generale di sviluppo delle forze produttive, Cohen è come se oscillasse sempre tra due piani, uno semplicemente epistemologico ed uno ontologico, in cui le forze produttive sono qualcosa di primario e di più fondamentale rispetto a tutti gli altri livelli di analisi della realtà umana e della società. Ciò pone, come vedremo, difficoltà insormontabili.
Il procedimento di ricostruzione analitica che abbiamo esposto, viene ulteriormente applicato da Cohen elaborando un insieme coerente di proposizioni, che egli tenta di legare l’una all’altra in maniera deduttiva e che dovrebbero riassumere il modo in cui Marx applica i concetti della Prefazione alla struttura economica capitalistica. Anche queste proposizioni sebbene non facciano parte di un insieme così compatto e facilmente identificabile a livello testuale come quello della Prefazione, possono, secondo Cohen, essere ricavate dai testi marxiani. Allo stesso modo dovrebbe emergere, anche da esse, come filo conduttore la forma della spiegazione funzionale.
È necessario partire, innanzitutto, dall’assunzione che vi è un livello minimo di produttività al di sotto del quale il capitalismo non può venire in luce. Questo livello è compreso tra la massima produttività possibile nell’ambito della piccola proprietà della terra e della piccola impresa artigiana e un livello molto alto[46]. Questo intervallo è quello in cui il capitalismo è adatto allo sviluppo delle forze produttive. È allora possibile formulare le seguenti asserzioni: A) la struttura economica capitalistica emerge quando e perché le forze produttive raggiungono un livello oltre il quale non possono svilupparsi all’interno della struttura esistente; B) la struttura economica capitalistica si mantiene perché e fino a quando è ottimale per un ulteriore sviluppo delle forze produttive. Poiché A) e B) hanno pretese molto forti, sarebbe difficile sostenerle direttamente. Cohen formula allora – sulla base della precedente assunzione sui livelli di produttività – l’asserzione C) (in cui sostanzialmente la stessa assunzione confluisce) che ha pretese più deboli: C) la struttura economica capitalistica nasce e si mantiene perché è adatta allo sviluppo della produttività tra i due livelli menzionati (cioè quello minimo e quello massimo)[47]. L’asserzione C) implica, ma non è implicata da, l’asserzione D): la struttura economica capitalistica è adatta allo sviluppo delle forze produttive tra quei determinati livelli, essendo quest’ultima chiaramente più debole. A questa asserzione Cohen aggiunge l’asserzione E): nessun altra struttura economica (sempre entro quei determinati livelli naturalmente) è altrettanto adatta (quindi, per chiarire: la struttura economica capitalistica è la più adatta allo sviluppo delle forze produttive). Queste due ultime asserzioni – cioè D) ed E) – saranno sostenute e argomentate in modo da sostenere indirettamente C) che in sé ha pretese ancora troppo forti. E) è necessaria all’interno dell’argomentazione perché C) non è plausibile se E) non è vera. Infatti la predisposizione del capitalismo a sviluppare le forze produttive non potrebbe spiegare la sua esistenza e generalizzazione se ci fossero altri tipi di strutture economiche che portano allo stesso risultato[48]. La complessa argomentazione di Cohen per sostenere D) ed E) e quindi indirettamente C) – sviluppata, come abbiamo detto, mettendo insieme e cercando di far quadrare l’evidenza testuale più disparata – parte da due definizioni di capitalismo, ricavabili anch’esse, naturalmente dagli scritti marxiani. La Definizione strutturale: la struttura economica capitalistica è una forma di produzione in cui i lavoratori sono liberi. La Definizione modale: la struttura economica capitalistica è una forma di produzione per il valore di scambio, cioè per l’accumulazione. Cohen cerca di mostrare che la definizione strutturale implica quella modale e viceversa. Cioè: F) se i lavoratori sono lavoratori liberi, la produzione è produzione per l’accumulazione; G) se la produzione è produzione per l’accumulazione, i lavoratori sono lavoratori liberi [49].
Accanto all’evidenza testuale e a qualche riferimento storico l’argomento più significativo a favore sia di F) che di G) è una sorta di dimostrazione per assurdo; Cohen parte, cioè, immaginando una situazione opposta a quella asserita e la sviluppa mostrando come essa non sia sostenibile, cioè come non sia possibile che esista una società in cui i lavoratori sono liberi, ma la produzione non è produzione per l’accumulazione o viceversa in cui la produzione è produzione per l’accumulazione, ma i produttori non sono lavoratori liberi. Le due definizioni, strutturale e modale, e la loro reciproca implicazione avranno un ruolo fondamentale nel seguito dell’argomentazione. Torniamo ora alle asserzioni D) ed E)[50]. Per sostenere D) Cohen parte dall’assunzione (valutabile e verificabile storicamente) che solo la produzione per l’accumulazione determina lo sviluppo delle forze produttive da livelli medi a livelli alti, perché solo in una forma di produzione in cui l’obiettivo è l’accumulazione, cioè il valore di scambio per il valore di scambio, il surplus viene continuamente reinvestito, ampliando così la base produttiva. Perché ciò avvenga, tuttavia, deve essere stato raggiunto – Marx insiste su questo punto [51] – un livello di produttività sufficiente per permettere effettivamente la formazione di nuovi mezzi di produzione e l’investimento in ricerca e sviluppo. Se questo livello non è stato raggiunto le forze produttive aumentano irregolarmente e lentamente. Formalizzando questo discorso si hanno le seguenti due proposizioni: H) la produzione per l’accumulazione sostiene lo sviluppo delle forze produttive da livelli medi a livelli alti; ed I): la produzione per l’accumulazione richiede un determinato sviluppo della produttività. Se si aggiunge a H) e I) la definizione modale (la produzione capitalistica è produzione per l’accumulazione), segue da queste tre proposizioni che: L) la produzione capitalistica sostiene lo sviluppo delle forze produttive da livelli medi a livelli alti – cioè l’originaria asserzione D) che resta così dimostrata – ed M) la produzione capitalistica richiede un livello minimo di produttività. Rimane da dimostrare l’asserzione E): la struttura economica capitalistica è la più adatta allo sviluppo delle forze produttive. Per costruire una valida argomentazione a favore di quest’ultima asserzione Cohen propone di riscrivere la D) e la E), considerate insieme, nella forma di un doppio condizionale (indicando così una condizione necessaria e sufficiente). La D) e la E), prese insieme, diventano allora: se la struttura economica è capitalistica le forze produttive progrediscono sistematicamente [che definiamo asserzione O)] e se le forze produttive progrediscono sistematicamente la struttura economica è capitalistica [asserzione N)][52]. Più esattamente la O) può essere fatta corrispondere alla D) e la N) alla E)[53]. Per quanto riguarda la O), essa è già stata «dimostrata» come L)\D). Vediamo quindi la N). Essa è logicamente equivalente all’affermazione che le strutture economiche non capitalistiche non promuovono uno sviluppo produttivo sistematico[54] ovvero che le classi dominanti delle società non-capitalistiche non promuovono lo sviluppo sistematico delle forze produttive. Avvalendosi ancora delle due precedenti definizioni di capitalismo, strutturale e modale, e della loro reciproca implicazione, Cohen sviluppa la seguente argomentazione. Nelle strutture economiche non capitalistiche il lavoro non è libero, i produttori sono legati agli sfruttatori da legami involontari, non da qualche risultato di una contrattazione sul mercato del lavoro. In questo caso se i produttori non sono lavoratori liberi, la produzione non sarà per l’accumulazione del valore di scambio[55]. Lo scopo della produzione di ricchezza sarà soltanto il consumo cioè il valore d’uso. Colui che sfrutta il lavoro tenterà quindi di estrarre soltanto un surplus limitato poiché c’è un limite alla quantità che egli può desiderare e consumare. Per questo motivo colui che sfrutta il lavoro non ha interesse a promuovere la produzione di un output sempre più grande, cioè non ha interesse che le forze produttive si sviluppino e migliorino costantemente. In una struttura economica non capitalistica, quindi, le forze produttive non progrediscono sistematicamente. E viceversa, quindi, se le forze produttive progrediscono sistematicamente, la struttura economica è capitalistica, cioè l’asserzione N) [e quindi la E)].
Ricapitolando: il punto di partenza è l’assunzione che il capitalismo richiede un minimo di produttività per emergere. Vengono poi formulate le asserzioni A), B, C) [sintesi di A) e B) e con pretese meno forti], D) [implicazione più debole di C)] ed E). Come abbiamo detto queste due ultime asserzioni vengono sostenute e argomentate in modo da sostenere indirettamente C) che in sé ha pretese ancora troppo forti. E) è necessaria all’interno dell’argomentazione perché C) non è plausibile se E) non è vera. Infatti la predisposizione del capitalismo a sviluppare le forze produttive non potrebbe spiegare la sua esistenza e generalizzazione se ci fossero altri tipi di strutture economiche che portano allo stesso risultato. A questo punto vengono introdotte due definizioni di capitalismo, sulla base dell’evidenza testuale marxiana, strutturale e modale. Viene introdotta e argomentata – sempre sulla base dell’evidenza testuale marxiana – un’ulteriore assunzione: che solo la produzione per l’accumulazione rende possibile lo sviluppo delle forze produttive da livelli medi a livelli alti. Sulla base di quest’assunzione e della reciproca implicazione tra definizione strutturale e modale si arriva alle H) I) L) [cioè l’originaria asserzione D)] e alla M). La M) è l’asserzione che all’inizio di tutto il ragionamento era confluita nella D)[56]. Rimane da dimostrare la E). Quest’ultima e la D) vengono allora riscritte come N) ed O), nella forma, cioè, di un doppio condizionale. Scrivendole in questo modo è possibile sviluppare in modo rigoroso l’argomentazione successiva nella quale, ancora una volta, la definizione strutturale e modale e la loro reciproca implicazione giocano un ruolo fondamentale.
Ancor più che nel caso della precedente analisi condotta sulla Prefazione, ci troviamo di fronte ad un tour de force analitico totalmente immanente al testo con scarsissimi riferimenti empirici e storici. Il concetto di spiegazione funzionale, inoltre, definibile con una certa chiarezza per quanto riguarda la Prefazione, sembra qui perdersi in una serie di proposizioni il cui collegamento è a volte difficile da seguire e dove si ha la sensazione che sia data per scontata la sovrapposizione tra coerenza lingustico-testuale e processi reali[57].
Proprio il limite di un approccio analitico-linguistico ha attirato l’attenzione di quei critici interessati, oltre che alla coerenza logica, ad un raffronto tra concetti e fatti empirici ed evidenza storica concreta.
È su questo aspetto che vogliamo ora soffermarci. Nel loro importante articolo Rationality and class struggle, Levine e Wright formulano cinque proposizioni che riassumono l’intero discorso di Cohen sulla Prefazione e sul primato delle forze produttive[58]: 1) Tesi della compatibilità. Un dato livello di sviluppo delle forze produttive è compatibile solo con un insieme limitato di relazioni di produzione; 2) tesi dello sviluppo. Le forze produttive tendono a svilupparsi attraverso la storia; 3) tesi della contraddizione. Dati i vincoli reciproci che sussistono tra forze e relazioni di produzione (tesi della compatibilità) e la tendenza delle forze produttive a svilupparsi (tesi dello sviluppo), con un tempo sufficiente a disposizione le forze produttive si svilupperanno finché non sono più compatibili (cioè sono in contraddizione) con le relazioni di produzione entro le quali si sono sviluppate fino a quel momento; 4) tesi della trasformazione. Quando le forze e le relazioni di produzione diventano incompatibili (e ciò prima o poi accadrà dato il persistere della società di classe), le relazioni cambieranno in maniera tale che la compatibilità tra forze e relazioni di produzione sia ristabilita; 5) tesi dell’ottimalità. Quando un dato insieme di relazioni diventa un ostacolo all’ulteriore sviluppo delle forze produttive esso viene sostituito da un nuovo insieme di relazioni che è funzionalmente ottimale per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive.
Partendo da queste cinque proposizioni Levine e Wright hanno messo in luce diversi problemi non trascurabili inerenti alla ricostruzione «assiomatica» del materialismo storico proposta da Cohen. Innanzitutto, le idee – espresse nelle asserzioni c), d), e)[59] – alla base della development thesis – di una razionalità sovrastorica e di una scarsità assoluta come motivi dell’agire umano sono difficili da sostenere. Riguardo alla scarsità, ad esempio, sostengono Levine e Wright, ogni epoca storica (e probabilmente ogni classe sociale) sembra avere un proprio termine di riferimento: quante calorie sono necessarie per una dieta adeguata, quanto e con quanta intensità si può lavorare, la durata media della vita ecc[60]. Anche la stessa razionalità sembra determinata dai rapporti di produzione ed essere comunque una razionalità inerente ad un soggetto che si muove all’interno di quei rapporti con fini determinati storicamente e definibili razionali solo ed esclusivamente per lui, in quanto appartenente ad una determinata classe sociale. Nel feudalesimo, ad esempio, il miglioramento, pur lento e faticoso, dei mezzi di produzione usati in agricoltura non fu l’esito di un astratto impulso e di un’astratta necessità ad aumentare la capacità produttiva davanti alla scarsità naturale, ma fu determinato dalla razionalità «concreta» dei signori feudali, che avevano bisogno di ricavare un maggior surplus dai contadini per finanziare le proprie continue guerre per la supremazia sui territori. La razionalità «concreta» del contadino feudale – visto comunque il lento sviluppo delle forze produttive in questo periodo – lo avrebbe invece, probabilmente, indotto a preferire una società senza sviluppo delle forze produttive ma senza signori, senza guerre e senza sfruttamento. Dal suo punto di vista non c’era nulla di razionale nel modo in cui le forze produttive si sviluppavano. Essendo i contadini la classe subordinata, la loro razionalità non poteva tradursi in azione collettiva, mentre veniva loro imposta la razionalità della classe dominante[61]. Lo sviluppo delle forze produttive dipende quindi sempre da una specifica razionalità di classe.
Levine e Wright sottolineano anche che nel discorso di Cohen manca totalmente qualsiasi riferimento ad un attore razionale reale, storicamente determinato, che incarni l’aspetto più direttamente pratico espresso dalle tre asserzioni sulla razionalità, cioè quello del cambiamento nei rapporti di produzione. Questa mancanza evidenzia in particolare i lati deboli della tesi della contraddizione e della tesi della trasformazione. Nel modo di produzione asiatico ad esempio – data la particolare struttura dello Stato e delle forze produttive stesse – c’era un’evidente incompatibilità tra relazioni di produzione e sviluppo delle forze produttive che rimasero stagnanti per secoli. Tuttavia non si arrivò mai a una situazione di contraddizione – situazione che dovrebbe implicare uno sforzo, un’attività volta al cambiamento – perché non c’era nessuna classe, cioè in questo caso nessun attore razionale collettivo, in grado di farsi carico di questo cambiamento, lottando contro la classe al potere e promuovendo lo sviluppo delle forze produttive. A causa, infatti, della centralizzazione del potere statale, della mancanza di autonomia politica delle città e del fatto che i mercanti facevano parte della classe dominante, non riuscì ad emergere, come invece avvenne in occidente, una classe imprenditoriale protocapitalistica[62]. Inoltre è difficile asserire che, se sussiste una contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione sono questi ultimi che devono necessariamente cambiare per lasciare spazio allo sviluppo delle prime. Se si esce infatti dai presunti automatismi descritti dalle cinque proposizioni, viene in primo piano sempre il problema dell’agire razionale della classe che dovrebbe promuovere il cambiamento sociale e quindi il problema delle sue capacità e possibilità d’azione (nel senso di risorse organizzative, ideologiche e materiali disponibili). È assai discutibile sostenere che, se una classe sociale ha interesse a un cambiamento dei rapporti sociali, ha anche le capacità necessarie a promuovere questo cambiamento. Com’è storicamente ed empiricamente dimostrabile le capacità della classe lavoratrice dipendono da una serie di fattori non legati allo sviluppo delle forze produttive[63] bensì di ordine ideologico e politico che possono anche agire in senso sfavorevole. Possono essere in atto, all’interno della società capitalistica, processi sistematici di segmentazione nel mercato del lavoro, divisioni razziali ed etniche con i loro effetti sulle differenze occupazionali all’interno della classe lavoratrice. Quest’ultima può risentire anche di influenze negative più indirette da parte del sistema legale borghese. Inoltre lo stesso sviluppo delle forze produttive può risultare comunque negativo per la classe operaia, indebolendola invece che rafforzandola. I miglioramenti straordinari nel sistema di telecomunicazioni e in quello dei trasporti, ad esempio, ha permesso alla borghesia di organizzare la produzione su scala globale, sfruttando i paesi dove il costo del lavoro è più basso. In questo modo la produzione diretta è stata separata dalla sua coordinazione tecnica, rendendo così più facile il controllo sui lavoratori. L’enorme sviluppo della tecnologia bellica, inoltre, ha reso molto più difficile l’azione di movimenti insurrezionali di qualsiasi tipo[64]. C’è inoltre il problema dei costi legati al processo di cambiamento che potrebbero essere intollerabilmente elevati e scoraggiare qualsiasi attore razionale anche se il risultato, in caso di successo, potrebbe essere per lui vantaggioso. Se quindi le capacità e le possibilità d’azione della classe operaia (cioè dell’attore razionale che dovrebbe riuscire a risolvere la contraddizione tra forze e relazioni di produzione a favore delle prime) dipendono da fattori e dinamiche proprie delle relazioni di produzione e non possono essere derivate dallo sviluppo delle forze produttive come tali, non si può più attribuire un primato alle forze produttive e dire che le relazioni sono spiegate in modo funzionale dalla loro tendenza a favorire lo sviluppo delle prime[65].
Levine e Wright osservano, infine, che la mancanza di riferimenti empirici in relazione al rapporto tra forze produttive e rapporti di produzione nel capitalismo trova riscontro anche in un problema inerente all’applicazione della tesi della compatibilità alla società capitalistica. Cohen rifiuta la tradizionale idea marxiana di crisi dello sviluppo delle forze produttive basata sull’aumento della composizione organica del capitale e la caduta del saggio del profitto (la diminuzione del saggio del profitto toglierebbe incentivi all’investimento riducendo lentamente anche l’innovazione tecnica e quindi lo sviluppo delle forze produttive). Le relazioni di produzione, nel capitalismo avanzato, non bloccano lo sviluppo delle forze produttive in assoluto, bensì il loro sviluppo razionale, poiché hanno come fine un aumento continuo del valore di scambio e quindi del consumo (ovviamente solvibile) di ogni tipo e non l’aumento del tempo libero a disposizione dell’individuo, anche se ciò sarebbe tecnicamente possibile. La tesi della compatibilità sembra allora equivalente, per quanto riguarda la società capitalistica, ad un’affermazione molto più generale e vaga e cioè che le relazioni di produzione non sono in grado di migliorare la condizione umana in generale e quindi sono degli ostacoli ad un’azione razionale in senso lato.
Ma c’è anche un altro non tracurabile problema (cfr. nota 63) che rimane irrisolto nello schema della spiegazione funzionale proposto da Cohen. Si tratta del riuscire a spiegare in modo non teleologico come a partire da certe forze produttive vengano selezionate proprio le relazioni di produzione migliori per quanto riguarda l’efficienza e l’ulteriore sviluppo delle prime. Un modello che può costituire un primo passo in questa direzione è quello di Van Parijs[66]. Secondo questo modello l’instaurarsi delle relazioni di produzione più adatte può essere interpretato come un processo di apprendimento per prova ed errore, basato sul rinforzo. Ad un certo livello di sviluppo delle forze produttive gli individui provano a mettere in atto diverse relazioni di produzione, rendendosi conto che, dal punto di vista di quello sviluppo, alcune sono migliori di altre. Essi scelgono quindi queste relazioni finchè un ulteriore sviluppo delle forze produttive impone la scelta di altre relazioni. Van Parijs definisce le relazioni che di volta in volta si impongono ‘attrattori’ [attractors], cioè degli equilibri localmente stabili nello spazio delle possibili relazioni di produzione. Il rinforzo agisce da meccanismo di collegamento, facendo in modo che alcune persone riconoscano i vantaggi del nuovo insieme di relazioni e si diano da fare per attivarle. Il problema di questo schema è che – nel procedimento di prova ed errore che spinge il sistema nella sua posizione ottima – il rinforzo deve ad un certo punto estendersi all’intera formazione sociale e non solo ad alcune sue parti. Si danno allora due possibilità: 1) i cambiamenti sono troppo rari per cui c’è solo una minima possibilità che le conseguenze positive inerenti a nuove relazioni di produzione si realizzino e vengano «registrate» (cioè giungano a coscienza negli individui, attuando appunto il meccanismo del rinforzo, e quindi si estendano prima o poi a tutto il modo di produzione); 2) i cambiamenti sono troppo rapidi e frequenti per cui non si produce mai uno stato di equilibrio nel senso precedentemente visto. Una soluzione può essere – sostiene Van Parijs – il rinforzo inteso come alleviamento della tensione[67]. In questo schema non saranno – come sostiene Cohen – le forze produttive ottimali a prevalere, bensì quelle non eccessivamente subottimali in termini di tensione sociale che possono provocare. È chiaro tuttavia che se si accetta questo tipo di interpretazione non si possono più spiegare le relazioni di produzione con la funzione di promuovere lo sviluppo delle forze produttive. La metafora evoluzionista dell’attrazione verso posizioni di stabilità deve essere sostituita da quella della repulsione da posizioni di instabilità eccessiva. Van Parijs sostiene inoltre, concordando con Cohen, che possono essere i valori e le credenze su ciò che è giusto e ingiusto a collegare gli «imperativi sistemici», ovvero un rigido determinismo tecnologico, alla lotta di classe e all’azione politica. Naturalmente i valori per avere questa funzione non devono rientrare nella sfera ideologica, non devono, cioè, essere proiezioni e razionalizzazioni di semplici interessi. Può allora essere valida l’interpretazione di Cohen (cfr. nota 63) e di Romer (che come vedremo propone una sua teoria di come diversi stati sociali sono percepiti come ingiusti e progressivamente superati). Questo tipo di approccio richiede una concezione ultima della giustizia con cui giudicare se in un determinato modo di produzione sussiste lo sfruttamento. Questa concezione ultima può essere fornita, secondo Van Parijs, dal principio differenziale di Rawls, per cui le relazioni di produzione sono legittime se – nonostante le disuguaglianze – i meno avvantaggiati stanno meglio rispetto a qualsiasi situazione alternativa.
Nostante l’interesse di questo approccio, resta secondo noi il problema di collegare una concezione della giustizia – a maggior ragione una che non sia una semplice razionalizzazione di interessi occulti – agli individui concreti (o alle masse) che devono averla come principio orientativo delle proprie azioni. Se non si dà per scontato che si diffonda spontaneamente, tramontata l’idea del partito-guida, chi si prende cura di diffonderla e rafforzarla? Si potrebbero inoltre rivolgere a questo modello le stesse obiezioni mosse da Levine e Wright alle ipotesi di fondo di Karl Marx’s theory of History. La razionalità di coloro che anticipano le conseguenze positive delle nuove relazioni di produzione non è mai così astratta e universalizzabile in modo asettico attraverso il meccanismo del rinforzo, ma è sempre una razionalità di classe che si risolve a favore di qualcuno e a svantaggio di qualcun altro.
Si osservi infine che l’insieme di critiche di Levine e Wright ne sottendono una più profonda di circolarità che mina alla base lo schema della spiegazione funzionale. Se infatti non valgono più le premesse su una razionalità astorica che spinge al costante miglioramento delle forze produttive indipendentemente dalle relazioni di produzione sussistenti, non si può più affermare che lo sviluppo delle prime costituisce un livello più profondo rispetto alle relazioni. Queste, infatti, nelle loro forme particolari e uniche per un certo livello di sviluppo delle forze produttive non possono più essere considerate semplicemente funzionali a quello sviluppo, bensì necessarie. Non ha più senso parlare di un primato delle forze produttive scindendo un aspetto dall’altro.
Cohen[68] ha cercato di rispondere a queste obiezioni. Levine e Wright – egli sostiene – avrebbero confuso la pretesa espressa dalla development thesis, cioè che le forze produttive hanno una tendenza autonoma a svilupparsi con quella, diversa, che le forze produttive hanno una tendenza a svilupparsi autonomamente. Le razionalità di classe che si affermano storicamente e sono l’impulso immediato allo sviluppo delle forze produttive non sono comunque autonome ma si affermano solo se, alla lunga, sono associate con una struttura di classe che fa sì che si affermi l’impulso più profondo allo sviluppo delle forze produttive, espresso dalle tre asserzioni sulla razionalità umana. Questa risposta non sembra tuttavia molto convincente in quanto sposta semplicemente il problema su un altro livello. Cohen ha comunque ammesso [69] che in vari punti di Karl Marx’s theory of History varie formulazioni legate a queste tre asserzioni sono ambigue. In particolare emerge l’immagine di individui astratti che lavorano e collaborano per aumentare la produttività e ridurre il carico di lavoro, quando invece, almeno nel capitalismo, il motivo per cui le forze produttive progrediscono è la ricerca del profitto da parte dei capitalisti che sono costretti dalla concorrenza ad introdurre nuove tecniche produttive (non solo, come abbiamo visto nel precedente capitolo, risparmiatrici di lavoro ma anche di capitale). Queste ambiguità testimoniano comunque la difficoltà apparentemente irrisolvibile del problema di dare un fondamento al concetto di supremazia delle forze produttive[70].
Sulla base di un attento esame della posizione di Elster e dei requisiti proposti da quest’ultimo per un uso valido della spiegazione funzionale nelle scienze sociali[71], Cohen[72] ha anche riesaminato la sua posizione epistemologica, affermando che la consequence explanation basata sui dispositional facts – così come è stata esposta nel testo del ‘78 – rimane la forma di spiegazione con la quale si può rendere coerente il materialismo storico, ma deve essere distinta dalla spiegazione funzionale. Quest’ultima è tale solo se risponde a quei requisiti. Questa precisazione non altera tuttavia i termini del discorso precedente. Nella spiegazione funzionale ciò che importa è il meccanismo di feedback, quindi le conseguenze effettive (benefiche o comunque stabilizzatrici). Nella consequence explanation basata sui dispositional facts, ciò che conta è la disposizione ad avere certe conseguenze. Indirettamente quindi Cohen riconosce l’obiezione di Elster per cui la spiegazione funzionale deve sempre esibire un meccanismo. L’aggira distinguendo tra spiegazione funzionale e consequence explanation.
Tuttavia questa distinzione non riesce ad eliminare, secondo noi, alcuni punti oscuri legati a questo tipo di spiegazione. Essa sembra infatti ritornare ad uno schema induttivo pre-popperiano. I fatti disposizionali devono essere – come si ricorderà – verificati in un numero sufficiente di casi. Sufficiente quanto? Con quali criteri statistici viene attuata la verificazione? Rimane in secondo piano, inoltre, l’unica base possibile che potrebbe, allo stato attuale delle conoscenze, risolvere almeno parzialmente questi problemi e fornire uno statuto accetabile al concetto di funzione, cioè, come abbiamo richiamato all’inizio del capitolo, la teoria dei sistemi. Qui esso trova infatti una collocazione non ingenua attraverso la specificazione e la coerente organizzazione concettuale di altri termini quali appunto sistema, ambiente, caratteristiche di stato del sistema, autoregolazione, equilibrio[73]. Anche se forse si potrebbe obbiettare che l’analisi sistemica lavora in modo non storico, perdendo la «logica specifica dell’oggetto specifico», al di fuori di questo contesto, la nozione di stabilità/stabilizzazione sembra richiedere, in effetti, almeno il riferimento ai comportamenti individuali attraverso i quali essa si attua e si mantiene. Un punto inoltre in cui la consequence explanation sembra mostrare la sua debolezza è – sostiene ancora Elster[74] – l’interpretazione della teoria dell’evoluzione. Accettare le consequence explanation implica infatti considerare comunque coerente le teorie della biologia pre-darwiniana. Secondo queste teorie, l’emergere di determinate caratteristiche in un organismo poteva essere spiegato dal fatto che esse erano adatte all’ambiente (quindi, nei termini che conosciamo: tutte le volte che una certa caratteristica fisica facilita l’adattamento all’ambiente, questa caratteristica emerge) anche se non si riusciva a spiegare il meccanismo profondo per cui ciò avveniva. Darwin mostrò che era l’impostazione stessa ad essere sbagliata. Il principio esplicativo non era l’adattabilità ecologica (cioè l’adattamento all’ambiente) ma l’adattabilità riproduttiva. Elster però sembra non considerare che la teoria di Darwin fu contestata dai suoi contemporanei a causa di due lacune. Non indicava quale fosse l’origine della variabilità dei caratteri e, come quella di Lamarck, non proponeva un meccanismo convincente per spiegare come i caratteri ereditari fossero trasmessi da una generazione all’altra. Sono stati gli sviluppi novecenteschi della genetica che hanno risposto a questi interrogativi. La mutazione e la ricombinazione genetica, che hanno luogo nella riproduzione sessuata, sono state identificate dagli scienziati come la fonte della variabilità ereditabile. La consequence explanation, tuttavia, potrebbe in effetti basarsi eccessivamente sul modello della selezione naturale. Il determinismo tecnologico di Cohen potrebbe forse trovare un riscontro storico-empirico in alcune ricerche[75]. Rimane tuttavia aperto il problema di fornire delle solide motivazioni teoriche del perché attribuire priorità assoluta alla tecnologia come fattore determinante che condiziona il resto della società. A livello epistemologico rimangono i problemi richiamati nel corso dell’esposizione legati al particolare rapporto funzionale che sussiste tra forze e relazioni di produzione e alla sostanziale difficoltà – se non impossibilità – di dare priorità a un livello o all’altro. Le due enunciazioni formali di questo rapporto, che abbiamo citato alla fine del secondo paragrafo rimandano già un idea di circolarità, così come le varie precisazioni espresse da Cohen sul diverso tipo di corrispondenza che sarebbe espresso nella spiegazione funzionale. Questo rapporto potrebbe inoltre essere del tutto irriducibile, dal punto di vista storico, economico e sociologico, ad enunciazioni di tipo generale[76].
A prescindere comunque dalle difficoltà epistemologiche e dalle molteplici possibilità di lettura del concetto di corrispondenza e non corrispondenza su cui ci siamo soffermati, vogliamo osservare, per concludere, che la ricostruzione analitica di Karl Marx’s theory of History è forse fin troppo perfetta. La stupefacente coerenza logica ottenuta, in modo non sempre perspicuo, e gli automatismi descritti, difficilmente possono essere proposti fuori da un ambito linguistico-testuale, pena una forma di meccanicismo di staliniana memoria, ormai insostenibile. Come spesso accade in questi casi il libro ha pregi che prescindono dal suo intento di fondo. Esso, come abbiamo avuto modo di vedere, specialmente nella prima parte, propone illuminanti analisi ed esempi su cosa effettivamente siano le forze produttive e le relazioni di produzione e sui loro rapporti effettivi, nonché, se si accetta l’impostazione analitica, una chiarificazione del livello di astrazione a cui può muoversi una possibile teoria della storia. Il lavoro complessivo di Cohen resta comunque la parola definitiva su possibilità e limiti sia di una forma di ortodossia marxista sia del concetto di spiegazione funzionale applicata al materialismo storico.
Note
* Questo articolo cosituisce una riduzione del secondo capitolo della mia tesi di dottorato Individualismo metodologico e spiegazione funzionale nel Marxismo analitico anglossassone.
[1] Sul marxismo analitico si possono vedere: AA.VV, Le marxisme analitique anglosaxon, «Actuel Marx» 7 (1990); T. Berger e K. Offe, Functionalism vs. rational choice: some questions concerning rationality of choice «Theory and society» 11 (1982), pp. 521-526; J. Bohman, Making Marx an empiricist: on recent «analytic» Marx interpretation, «Praxis intenational» 3 (1986), pp. 341-352; A. Carling, Rational choice marxism, «New left review» 160 (1986) pp. 24-62; A. Kirkpatrick, Philosophical foundations of analitical marxism, «Sciences and society» 58 (1994), pp. 34-52. A. Levine e E.O. Wright, Rationality and class struggle, «New left review» 123 (1980), pp. 47-68. A. Levine, E. O. Wright e E. Sober, Marxism and methodological individualism, «New left review» 162 (1987), pp. 67-84. M.A. Lobowitz, Is «analitical marxism» marxism?, «Sciences and society» 52 (1988), pp. 191-214. E. Mandel, How to make no sense of Marx, «Canadian Journal of Philosophy» suppl. a 5 (1986), pp. 135-161. D. Schweikrt, Reflections on anti-marxism: Elster on Marx’s functionalism and labour theory of value, «Praxis International» 8 (1988), pp. 109-122. P. Van Parijs, Functionalist marxism rehabilitated: a comment on Elster, «Theory and society» 11 (1982), pp. 497-511. A. Wood, Historical materialism and functional explanation, «Inquiry» 29 (1986), pp. 11-27. E.M. Wood, Rational choice marxism – is the game worth the candle?, «New left review» 177 (1989), pp. 1-88.
[2] Secondo il quale la spiegazione dei fenomeni sociali deve passare attraverso i seguenti tre punti: «1) spiegazione causale di stati mentali; 2) spiegazione intenzionale di azioni individuali secondo le credenze e i desideri che le orientano. 3) spiegazione causale di fenomeni aggregati nei termini delle singole azioni che entrano a comporli» (J. Elster, Making sense of Marx, Cambridge, Cambridge University Press, 1985).
[3] Proprio perché Cohen insiste sul fatto che le forze produttive non fanno parte della struttura economica, la sua impostazione può essere definita determinismo «tecnologico» ma non «economico». «Isolare» in maniera analitica le forze produttive serve come base – attraverso la possibiltà di una descrizione esclusivamente materiale della società – proprio per definire in modo rigoroso la centralità dello sviluppo delle stesse nell’evoluzione dell’umanità.
[4] Con il termine «spiegazione funzionale» s’intende, in generale, che qualcosa (che può essere un comportamento singolo o collettivo, un’istituzione, un gruppo o una classe sociale) viene spiegato attraverso le (presunte) conseguenze benefiche che ha su qualche altra cosa (a sua volta un gruppo, una classe, un’istituzione o addirittura un sistema sociale in senso generale).
[5] Questa reciprocità è espressa dalle quattro notissime asserzioni: 1) il livello di sviluppo delle forze produttive di una società spiega la natura della sua struttura economica; 2) la struttura economica di una società spiega la natura della sua sovrastruttura; 3)la struttura economica di una società determina lo sviluppo delle forze produttive; 4) la sovrastruttura di una società determina la stabilità della struttura economica. La 3) e la 4) in congiunzione con la 1) e la 2) rendono necessario considerare il materialismo come una teoria basata sulla spiegazione funzionale. L’esempio più pregnante – anche se non certo nuovo – è quello dei rapporti giuridici. Il capitalista, per qualsiasi situazione controversa che attenti ai suoi diritti di proprietà, può fare appello al diritto statuito e agli apparati statali preposti a renderlo effettuale. Egli può compiere una serie di azioni perché esiste un sistema di diritti che glielo permette. Se dunque la società è sufficientemente evoluta da possedere tale sistema – per cui la maggior parte dell’attività economica è regolata dal diritto o tende ad esserlo – il potere economico dei suoi membri dipende dai loro diritti giuridici. Ciò non contraddice la tesi del rapporto tra base e sovrastruttura (cioè della supremazia dell’economico) solo se accettiamo il paradigma della spiegazione funzionale. Un insieme di rapporti giuridici si afferma e si mantiene, perchè rende stabili un insieme di rapporti sociali. Secondo lo schema più oltre proposto quindi: se E sono i rapporti giuridici e politici ed F i rapporti di produzione, allora E si afferma perchè in una data situazione (quindi in una serie di società storicamente determinate) esso causa normalmente la stabilità di F. Allo stesso modo, se E sono i rapporti di produzione ed F le forze produttive, E si afferma perché in determinate circostanze esso è solito causare lo sviluppo di F (G. Cohen, Replica ad Elster su marxismo, funzionalismo e teoria dei giochi, in S. Petrucciani, F.S. Trincia (a cura di), Marx in America. Individui, etica, scelte razionali, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 229-231 e Functional explanation: reply to Elster, «Political studies» 28 (1980), pp. 129-130).
[6] G. Cohen, Karl Marx’s theory of History. A defence, Princeton, Princeton University Press, 1978, p. 260.
[7] Quindi: qualora la danza della pioggia fosse funzionale alla coesione sociale. In maniera forse più chiara e allo stesso tempo più generale credo si possa dire: qualora in una determinata società non sviluppata, storicamente identificabile, si verifichino certe condizioni rilevabili di instabilità, la danza della pioggia contribuisce a ristabilire la coesione.
[8] I critici radicali della spiegazione funzionale sostengono che l’asserzione «la danza della pioggia ha la funzione di realizzare la coesione sociale», rovescia in realtà il rapporto causa-effetto. Essa mette l’evento «coesione sociale» prima dell’evento che la causa, cioè la danza della pioggia, e spiega questo evento in base a una dimensione teleologica che porta dalla presunta necessità del fenomeno «coesione sociale» al tempo t1 al realizzarsi della danza della pioggia al tempo t2. Accanto a questa troviamo sostanzialmente due posizioni più concilianti: secondo la prima, che avanza una pretesa debole, l’espressione «la funzione di x è y» equivale a «gli effetti benefici di x sono y» (benefits-statement) ed è in sostanza solo una descrizione di una ristretta classe di effetti utili e non una spiegazione con riferimento a quegli effetti. Secondo un’interpretazione opposta, ogni espressione funzionale è invece riconducibile alla struttura di una frase che risponde ad una domanda perché? (I polmoni hanno x, y, z effetti positivi nel corpo umano equivale a: i polmoni sono dove sono e sono fatti in un certo modo perché hanno x, y, z effetti positivi. Questa frase risponde alla domanda: perché i polmoni sono dove sono e perché sono fatti in un certo modo?). Secondo i sostenitori di questa posizione le spiegazioni funzionali sono, in virtù di questa traducibilità, in se stesse esplicative. È chiaro però, confrontando queste due posizioni, che non è sempre possibile tenerle distinte e determinare con certezza i casi in cui è possibile applicare l’una o l’altra (e la stessa distinzione può apparire, a mio avviso, un po’ artificiosa). Probabilmente per questa ragione Cohen sostiene la posizione in un certo senso intermedia appena spiegata secondo la quale le benefit-statement possono essere corrette e avere un valore esplicativo; la condizione perché ciò avvenga è la possibilità di collegarle ad una asserzione generale che esprima una consequence law (G. Cohen, Karl Marx’s theory of History cit., pp. 249-261).
[9] E quindi è funzionale al risparmio sui costi e all’aumento dei profitti. Infatti, in termini molto semplificati, con economie di scala si intende un fenomeno economico per cui – oltre e solo oltre un certo livello di produzione – partendo da una certa quantità di fattori (input) si ottiene un prodotto (output) più che proporzionale.
[10] G. Cohen, Functional explanation: reply to Elster cit., p. 131.
[11] Cfr. G. Cohen, Reply to Elster on marxism, functionalism and game theory cit. e Functional explanation: reply to Elster cit.
[12] J. Elster, Marxismo, funzionalismo e teoria dei giochi, In S. Petrucciani, F.S. Trincia (a cura di) Marx in America. Individui, etica, scelte razionali cit., pp. 179-222 e in particolare Cohen on Karl Marx’s theory of History, «Political studies» 28 (1980), pp. 121-128. Esaminiamo alla fine alcuni aspetti di questa discussione.
[13] G. Cohen, Karl Marx’s theory of History cit., p. 32.
[14] Ivi, p. 41.
[15] Ivi., p. 33.
[16] Secondo Cohen la scienza è considerabile – attenendosi al testo marxiano – come una forza produttiva. Nei suoi stadi più elevati lo sviluppo delle forze produttive si fonde infatti con lo sviluppo di una ricerca scientifica utile dal punto di vista produttivo. La scienza quindi non fa parte della sovrastruttura. La sovrastruttura consiste di istituzioni legali, politiche, religiose e di altre istituzioni non economiche. Include probabilmente le università ma non include la scienza perché la scienza non è un’istituzione (ivi, pp. 46-47). Tuttavia qui sembra esserci un problema più profondo. Come abbiamo visto, una delle condizioni affinché qualcosa sia teoreticamente definibile come forza produttiva è che possa essere legalmente posseduta da qualcuno. La conoscenza scientifica non sempre soddisfa questo requisito. Il tentativo di ottenere il riconoscimento legale di una qualsiasi forma di conoscenza può infatti essere controproducente, perché comporta il renderla pubblica e quindi accessibile agli altri senza costi. Il sistema dei brevetti non è sempre una soluzione a questo problema, perché in moltissimi casi la conoscenza di base nelle scienze naturali e in matematica non può essere brevettata (J. Elster, Karl Marx. Une interprétation analytique cit., p. 335).
[17] Il concetto di persona non viene approfondito in questo contesto, anche se ha un ruolo particolare all’interno della filosofia analitica. Esso viene definito, ad esempio, da Strawson come un concetto primitivo il cui significato non dipende dal particolare «gioco linguistico» in cui ci si muove. Se così non fosse, non solo i livelli più elementari di discorso quotidiano e filosofico – in cui si attribuiscono predicati a persone – ma anche la vita e la realtà stessa sarebbero impossibili (A. Kirkpatrick, Philosophical foundations of analitical marxism, «Sciences and society» 58, (1994) p. 37).
[18] Tipici diritti di proprietà sono: il diritto ad usare un oggetto x, il diritto al reddito generato dall’uso di x, il diritto a impedire agli altri di usare x, il diritto a distruggere x, il diritto a vendere x ecc. Si possono distinguere, all’interno del concetto di proprietà quattro possibilità: 1) X possiede completamente l’oggetto O nella sua interezza; 2) X possiede parzialmente O nella sua interezza; 3) X possiede completamente una parte di O; 4) X possiede parzialmente una parte di O (G. Cohen, Karl Marx’s theory of History cit., p. 64). Cohen fa osservare che Marx stesso usa dovunque termini legali per definire le relazioni di produzione proprio perché il linguaggio stesso non offre alternative valide. E’ tuttavia possibile esprimere le relazioni di produzione in un altro modo, che prescinde da termini legali ed evitare quindi la impasse per cui essendo la struttura economica costituita da relazioni di proprietà (cioè in termini legali) non è possibile distinguerla dalla sovrastruttura giuridica. Le asserzioni in termini di diritti devono quindi essere traducibili in un linguaggio non legale, proprio per evidenziare senza ambiguità un ambito di realtà non giuridico: al posto del termine diritto Cohen propone quello di potere (power) nel senso di una sfera di capacità effettiva dell’individuo che determina reali limiti e possibilità della sua azione (in senso, appunto, non-normativo, il semplice «essere in grado di»). «x ha il diritto a» diventa allora «x ha la capacità di». Per ogni diritto bisogna formulare una capacità che vi corrisponde (matches). Se quindi x ha la capacità P e questa corrisponde al diritto R possiamo dire che il contenuto della capacità P è lo stesso del diritto R, ma non possiamo inferire che egli ha anche il diritto R. E’ chiaro infatti che il possesso di un potere (capacità) non implica il possesso del diritto corrispondente e viceversa. Posso avere un potere (capacità) ma se non è legittimo non è un diritto. Posso avere un diritto, ma se non è effettivo non è un potere (capacità) (ivi, pp. 220-221).
[19] Ivi, p. 65.
[20] J. Elster, Karl Marx. Une interprétation analytique cit., p. 346.
[21] Elster fa osservare che secondo lo schema di Cohen e secondo la sua definizione strutturale di capitalismo («la struttura economica capitalistica è una forma di produzione in cui i lavoratori sono liberi». Essa sembra ovvia, in effetti, ma – come vedremo più avanti – la sua formulazone ha un senso ben preciso nel lavoro di ricostruzione teorica di Cohen), il sistema delle gilde con, da una parte, il maestro artigiano possessore dei mezzi di produzione e, dall’altra i semplici apprendisti e lavoranti possessori della semplice forza lavoro, rientrerebbe in una forma capitalistica. Tuttavia, come è noto, nel sistema delle gilde e delle corporazioni – a differenza che nel capitalismo – la mobilità del lavoro e dei capitali era proibita. Elster rileva inoltre che il concetto di modo di produzione asiatico non trova spazio in questo elenco, perché quest’ultimo non riesce a caratterizzare la natura del proprietario non produttore. Questo aspetto è invece importante secondo lui in un quadro teorico come quello di Cohen. Se infatti la sovrastruttura politica-legale si spiega con i suoi effetti di stabilizzazione sulla struttura, è importante chiarire come è costituita la classe dominante, se è formata da semplici individui, da collettività intermedie o da una burocrazia statale. Per caratterizzare in modo completo – non solo statico ma anche dinamico – le relazioni di produzione, è quindi necessario precisare oltre alla relazione dei produttori con i mezzi di produzione e con la forza lavoro – come nella tabella di Cohen – anche la natura dei proprietari non produttori e le regole sull’acquisizione e il trasferimento della proprietà (ivi, pp. 347-350).
[22] Per cogliere senza ambiguità queste differenze, bisogna quindi definire con precisione una situazione di subordinazione che inerisce ai produttori immediati. Questo può essere fatto attraverso tre caratteristiche che – secondo Cohen – definiscono ulteriormente i proletari: «1)They all produce for others who do not produce for them. The superior controls products they produce, as they do not control products of the superior, who commonly produces nothing. (Master and capitalist are the immediate recipients of the entire product, while the lord receives the surplus part of it 2) Whitin the production process they are commonly subject to the authority of the superior, who is not subject to their authority (The authority may be exercised directly, or delegated to an overseer) 3) In so far as their livelihoods depend on their relations with their superiors, they tend to be poorer than the latter» (G. Cohen, Karl Marx’s theory of History cit., p. 69).
[23] Cohen costruisce due esempi di cui uno con riferimento storico all’industria dell’abbigliamento nordamericano dell’800, in cui i lavoratori si portavano da casa in fabbrica le macchine da cucire (ivi, p. 71).
[24] In termini rigorosamente analitici, quindi, la definizione più appropriata di proletario – tenendo presenti le precisazioni della nota 23 – è appunto: «colui che ha la necessità di vendere la propria forza lavoro allo scopo di guadagnare i propri mezzi di sussistenza» (ivi, p. 72).
[25] E’ qui senz’altro possibile evidenziare un’analogia – anche se l’impostazione analitica e il quadro teorico d’insieme sono diversi – con il saggio di Etienne Balibar, I concetti fondamentali del materialismo storico, che lo stesso Cohen richiama, con apprezzamenti, all’inizio del libro.
[26] G. Cohen, Karl Marx’s theory of History cit., pp. 112-114.
[27] Anche se – come egli stesso fa osservare, citando e commentando la lettera di Marx ad Annekov del dicembre ’46 – l’evidenza testuale non è completamente a favore di questa interpretazione, Cohen, a differenza di altri autori, sostiene (coerentemente con la sua definizione iniziale di forze produttive) che la conoscenza necessaria per organizzare le relazioni lavorative (work relations) fa parte delle forze produttive (una forma di ingegneria gestionale, potremmo dire) mentre le relazioni lavorative in se stesse vanno tenute distinte (cioè non sono definibili una forza produttiva). Egli inoltre considera le work relations intermedie tra le forze produttive e le relazioni di produzione: sono determinate dalle prime e determinano le seconde. Elster, tra gli altri, criticando l’eccessivo strutturalismo di questa impostazione, fa osservare che le work relations possono essere determinate da fattori extraeconomici. Si consideri, per esempio, una macchina che può essere fatta funzionare da tre lavoratori oppure da due anche se in modo meno efficiente. La scelta tra le due possibilità implica chiaramente differenti work relations ed è influenzata dal prezzo relativo del lavoro e della macchina, a sua volta influenzati dalla lotta di classe (J. Elster, Cohen on Karl Marx’s theory of History cit., p. 123).
[28] E. M. Wood, Rational choice marxism – is the game worth the candle?, «New Left Review» 177 (1989) , pp. 70-73.
[29] Tuttavia la Wood tocca qui un punto importante. Questo punto, come vedremo, riguarda da vicino proprio il problema fondamentale del libro, cioè il rapporto che sussiste tra forze produttive (livello materiale) e relazioni di produzione (livello sociale) e la difficoltà, se non impossibilità – nonostante il ricorso a strumenti epistemologici raffinati – di dare priorità alle prime.
[30] La distinzione in termini logici può essere allora posta come segue: quando parliamo di un oggetto o di un essere umano, nessuna caratteristica sociale può essere dedotta da caratteristiche materiali. In modo ancor più stringente, un’entità materiale (oggetto o essere umano) M non è un’entità sociale S in virtù di ciò che è necessario e sufficiente a fare di essa M. Una connotazione distintiva proposta da Cohen di una descrizione sociale è allora la seguente: «una descrizione è sociale se e solo se comporta l’ascrivere a persone – specificate o non specificate – diritti e poteri nei confronti di altre persone» (G. Cohen, Karl Marx’s theory of History cit., p. 94).
[31] Ivi, p. 34.
[32] Ivi, pp. 136-137.
[33] Ivi, p. 138.
[34] Ivi, pp. 138-140.
[35] Cohen (ivi, p. 140) riporta il seguente esempio (tratto dal libro di Marc Bloch I caratteri originali della storia rurale francese). Se il feudalesimo francese nel momento del suo massimo rigoglio produttivo – cioè appena prima che inizi il suo declino – presenta un rapporto input-output di 1-6 (cioè se con una unità di grano da semina vengono prodotte 6 unità di grano da poter consumare), l’interpretazione forte della 5) confronterà questo rapporto con le potenzialità produttive della forma feudale in generale (ricavata prendendo in considerazione altre realtà storiche determinate e scegliendo quella che mostra la maggior produttività oppure una media) che misura, ad esempio, un rapporto 1-10, quindi una maggior produttività. L’interpretazione debole lo confronterà invece con la potenzialità produttiva esclusivamente della forma francese (che nell’esempio è il rapporto stesso 1-6 citato). Nel primo caso, l’asserzione 5) è falsificata, perché evidentemente il feudalesimo francese non ha raggiunto, quando inizia il suo declino, il suo massimo potenziale produttivo. Nel secondo invece rimane valida.
[36] Cohen fa osservare che Marx probabilmente attribuiva questa situazione all’India. Questo caso va inoltre distinto dall’interruzione dello sviluppo per motivi estrinseci quali guerre, malattie, sconvolgimenti naturali, di un’economia che non ha ancora raggiunto il massimo potenziale produttivo.
[37] È chiaro che si deve assumere che la 4) implica necessariamente che la rivoluzione abbia successo – anche se nel testo marxiano e in Cohen stesso questo punto non è precisato con chiarezza – altrimenti si ricade nel caso discusso prima.
[38] Ivi, pp. 138-142. L’espressione «epoca di rivoluzione sociale» nella 4) è comunque estremamente vaga. Ciò non sfugge a Cohen che scrive: «It might be objected that we have mishandled sentence 4 which refers to an epoch of social revolution. It is not a briefish transformation which ensues when forces and relations are in conflict, but a protracted period of transition, possibly lasting centuries. But this enforces only minor qualifications on the above remarks. It means that temporary fossilization and regression are possible. The arrival of the new society may be delayed, and there may be some backward steps on the way to it, but it must come in the end» (ivi, p. 142). L’ultima asserzione sembra però una semplice precisazione dell’autore senza nessuna forza dimostrativa.
[39] Ivi, p. 152.
[40] Cohen sembra molto sicuro di questo aspetto, tanto da non sentire l’esigenza di soffermarvicisi. Elster richiama tuttavia l’attenzione proprio sulla mancanza, nel testo, di un’evidenza storica precisa a favore della development thesis, esprimendo alcune riserve sulla possibilità di riferirsi con certezza ad un incessante ed universale sviluppo delle forze produttive (J. Elster, Cohen on Karl Marx’s theory of History cit., p. 124).
[41] G. Cohen, Karl Marx’s theory of History cit., pp. 152-156.
[42] L’aspetto della compatibilità è giustamente sottolineato anche da Levine e Wright. Esso è essenziale perché, chiaramente, se qualsiasi tipo di relazioni di produzione fosse compatibile con determinate forze produttive queste ultime non spiegherebbero più nulla. Nelle società con un bassissimo livello delle forze produttive, in cui non si produce surplus, non è possibile – secondo Cohen – la formazione di classi sociali. Ognuno, anche lavorando tutto il tempo possibile a sua disposizione, può al massimo produrre i mezzi per il proprio sostentamento. La società capitalistica – per ragioni di competitività inerenti alla sua struttura economica – richiede un surplus sufficientemente alto da permettere l’investimento in ricerca tecnologica e quindi il continuo cambiamento dei metodi produttivi. Questo è possibile solo sulla base di un certo sviluppo delle forze produttive. A sua volta la produzione di un livello di surplus soltanto di media entità non è compatibile con un tipo di società senza classi. Lo sviluppo delle forze produttive da livelli medi a livelli alti richiede infatti grandi sacrifici e nessun individuo razionale li imporrebbe a se stesso in modo volontario. E’ quindi necessaria una disciplina imposta dall’esterno, cioè un sistema che funziona sulla base di imperativi di mercato e di una logica di accumulazione.
[43] (G. Cohen, Karl Marx’s theory of History cit., pp. 156-157). Richiamiamo ancora una volta l’attenzione sul fatto che le tre asserzioni sulla razionalità servono per dare un fondamento solido alla development thesis e quindi alla primacy thesis stessa. Poiché gli uomini sono razionali, le forze di produzione si sviluppano necessariamente attraverso la storia. Sulla base di questa necessità, se le forze produttive entrano in contrasto con le relazioni, sono queste ultime che devono mutare. Per poter indebolire la tesi in modo radicale bisognerebbe dimostrare che le relazioni di produzione tendono a cambiare in una certa direzione nel corso della storia, indipendentemente dallo sviluppo delle forze produttive. Cohen tuttavia non cerca nessuna possibile evidenza empirica in questa direzione per cui il discorso rimane, in un certo senso, troncato a metà.
[44] Ivi, p. 160.
[45] Ivi, p. 161. Per mostrare in che modo le forze produttive possono realmente condizionare le relazioni di produzione Cohen costruisce il seguente esempio, interessante anche se non molto credibile dal punto di vista storico (l’estrazione a sorte). In una società egualitaria con una economia a bassa produttività, viene scoperto il mulino ad acqua. Ne vengono costruiti un paio di esemplari come modello e vengono fatte delle prove in cui una parte della popolazione si presta a lavorarci. In seguito a queste prove tutti si rendono conto che la capacità produttiva migliorerebbe moltissimo grazie all’uso di questi mulini. Tuttavia il lavoro si è rivelato molto duro e nessuno vuole svolgerlo. Si decide allora di estrarre a sorte attraverso una lotteria coloro che dovranno lavorarci. Tuttavia, sempre a causa della durezza del lavoro, ciò non è sufficiente. Bisogna anche trovare dei sorveglianti. Questo ovviamente, non è difficile e un certo numero di persone viene selezionato per questo ruolo. Vediamo quindi che dalla originaria società egualitaria si è formata una struttura di classe: lavoratori, contadini e sorveglianti. In questo esempio è chiaro che il cambiamento nelle forze produttive, cioè l’introduzione del mulino ad acqua è più fondamentale del cambiamento nelle relazioni di produzione. Le relazioni cambiano perché le nuove facilitano appunto il progresso delle forze produttive. Sottolineamo ancora una volta, tuttavia, che Cohen non esclude che – all’interno del rapporto funzionale – si verifichi il condizionamento contrario, dalle relazioni alle forze, ma semplicemente che esista una generalizzazione di ciò a livello testuale nell’opera marxiana e che – come è stato più volte sottolineato – questo condizionamento possa porsi sullo stesso piano di quello delle forze produttive sulle relazioni. Le relazioni possono infatti influire sia sul tipo di sviluppo tecnico ulteriore sia sul tasso di questo sviluppo. Ad esempio: sulla base di un dato sviluppo delle forze produttive sono possibili due tipi di struttura economica capitalistica. Il Governo della prima nazione decide di sviluppare le ferrovie, il Governo dell’altra il settore automezzi. Apparentemente questa differenza nelle forze produttive è qualitativa ed inoltre il rapporto fondamentale tra borghesia e proletariato non cambia. La diversa scelta iniziale, tuttavia, apparentemente casuale, può invece già essere dovuta a una differenza nei rapporti di produzione. Nella seconda struttura infatti potrebbe esserci una maggiore concentrazione di capitali che rende possibili i grandi anticipi di denaro necessari alla costruzione di ferrovie. Questa particolarità non può essere spiegata dal livello delle forze produttive e può portare ad un’ulteriore centralizzazione. Inoltre ognuna di queste due strutture condiziona – come anticipato – sia il tipo di sviluppo tecnico ulteriore, strade piuttosto che ferrovie, pozzi di petrolio piuttosto che energia elettrica (e – aggiungiamo noi, nel caso prevalga l’automobile, pensando a recenti sviluppi – maggior numero di incidenti stradali e maggior inquinamento, con aumento d’invalidi e di malattie e conseguente necessità di investire una parte del reddito complessivo sociale in assistenza. Quindi aumento tasse e sottrazione di risorse ad altri ambiti) sia il tasso di sviluppo che sarà inevitabilmente diverso nell’uno o nell’altro caso (ivi, pp. 161-162).
[46] Cohen accenna alla tecnologia dei computer, ma è chiaro che qui il discorso non può che essere molto vago: quanto alto?
[47] Sostanzialmente C) è una sintesi, con pretese meno forti, di A) e B).
[48] Ivi, pp. 175-176.
[49] Ivi, p. 181.
[50] Come si ricorderà: D) la struttura economica capitalistica è adatta allo sviluppo delle forze produttive tra determinati livelli di produttività E) nessun altra struttura economica [sempre entro quei determinati livelli naturalmente] è altrettanto adatta.
[51] Anche qui Cohen cita una varia evidenza testuale.
[52] Ivi, p. 194.
[53] La E) dice infatti che nessuna struttura è adatta, quanto quella capitalistica, allo sviluppo delle forze produttive, quindi può essere tradotta, senza alterarne il senso, nella forma: se le forze produttive progrediscono sistematicamente la struttura economica è capitalistica.
[54] Per la regola logica del modus tollens, infatti, da: «se x allora y» segue: «se non y allora non x». Quindi l’affermazione: «se le forze produttive progrediscono sistematicamente la struttura economica è capitalistica” implica l’affermazione: “se la struttura economica non è capitalistica allora le forze produttive non progrediscono sistematicamente».
[55] Questo deriva, ancora per modus tollens, dall’asserzione G): se la produzione è produzione per l’accumulazione i lavoratori sono liberi.
[56] Si osservi che in tutta l’argomentazione la definizione modale gioca un ruolo fondamentale. Infatti lo sviluppo logico riguarda il concetto di produzione per l’accumulazione, il valore di scambio per il valore di scambio, sulla base del quale possono essere fatte le asserzioni che abbiamo richiamato [cioè che 1) solo la produzione per l’accumulazione determina lo sviluppo delle forze produttive da livelli medi a livelli alti, perché solo in una forma di produzione in cui l’obiettivo è l’accumulazione il valore di scambio per il valore di scambio, il surplus, viene continuamente reinvestito, ampliando così la base produttiva. Perché ciò avvenga, tuttavia 2) deve essere stato raggiunto un livello minimo di produttività, per cui il surplus è sufficientemente grande da permettere effettivamente la formazione di nuovi mezzi di produzione e l’investimento in ricerca e sviluppo. Se questo livello non è stato raggiunto le forze produttive aumentano irregolarmente e lentamente]. Sulla base poi della definizione modale si possono applicare queste asserzioni al concetto di produzione capitalistica e quindi arrivare alla L) e alla M).
[57] Nel capitolo VIII del libro si trova tuttavia un’interessante trattazione del rapporto tra diritto e relazioni di produzione con diversi riferimenti storici (ivi, pp. 225-230).
[58] A. Levine, E.O. Wright, Rationality and class struggle cit., pp. 53-55.
[59] Come si ricorderà: c) gli uomini sono razionali; d) la situazione storica degli uomini è una situazione di scarsità; e) gli uomini hanno l’intelligenza che permette loro di migliorare la situazione in cui si trovano. Levine e Wright sostengono anche che questo concetto di razionalità astratta e le tre asserzioni hanno un retroterra tipicamente contrattualistico. Io direi piuttosto, con riferimento alla teoria economica, neoclassico. Gli uomini hanno le capacità razionali per realizzare determinati fini. Più precisamente, essi si muovono in una natura ostile e devono scegliere l’impiego di risorse scarse per fini alternativi.
[60] Inoltre – ma di questo Cohen sembra consapevole – sono gli stessi rapporti di produzione che determinano la scarsità. Una più equa distribuzione delle risorse e un loro uso più razionale potrebbero – almeno limitatamente a una nazione o un gruppo di nazioni – ridefinire i parametri della scarsità stessa togliendo ad essa significato come concetto assoluto.
[61] Ivi, pp. 61-62. Inoltre la razionalità che – secondo Cohen – sostiene l’incessante sviluppo delle forze produttive attraverso la storia potrebbe essere – osserva acutamente Carling – nient’altro che una proiezione sovrastorica dell’impulso tipicamente capitalistico all’incessante rivoluzionamento dei metodi di produzione, causato dalla competizione concorrenziale (A. Carling, Rational choice marxism, «New left review», 160 (1986), p. 32).
[62] A.Levine, E.O. Wright, Rationality and class struggle cit., pp. 63-64. Bisogna tuttavia riconoscere che Cohen ha accennato a un aspetto che potrebbe – attraverso la lotta di classe e l’azione politica – costituire il tramite tra sviluppo delle forze produttive e cambiamento dei rapporti di produzione. Si tratta dei valori e delle credenze su ciò che è giusto e ingiusto. Man mano che le relazioni diventano subottimali esse vengono percepite dagli individui come ingiuste e causa di sfruttamento, cosicché nel lungo periodo la loro legittimità viene erodendosi, fornendo una motivazione al cambiamento (G. Cohen, Karl Marx’s theory of History cit. p. 293). Resta tuttavia non spiegato come a partire dalle forze produttive vengano selezionate le relazioni migliori dal punto di vista della efficienza e dell’ulteriore sviluppo delle prime. Una proposta interessante in questo senso è quella di Van Parijs, che fra poco discuteremo.
[63] Le tesi di Cohen sono quelle tradizionali e ormai forse anacronistiche. La classe che promuove questo sviluppo guadagna alleati, la classe che lo blocca li perde. Le crisi diventano sempre più aspre. Aumentano la coscienza di classe e il potenziale rivoluzionario della classe lavoratrice nonché i consensi ad essa attribuiti (G. Cohen, Karl Marx’s theory of History cit., p. 292).
[64] A. Levine, E.O. Wright, Rationality and class struggle cit., pp. 65-66. Forse qui Levine e Wright esagerano le difficoltà inerenti alle possibilità di mobilitazione delle classi inferiori.
[65] Ivi, pp. 65-67.
[66] P. Van Parijs, Functionalist marxism rehabilitated, «Theory and society», 11 (1982), pp. 497-511.
[67] Il rinforzo agisce sulla base di valori soglia assoluti. Fino ad un certo limite l’organismo riesce a convivere con stati di tensione. Oltre questo limite si mette in moto un processo per ritornare allo stato precedente l’aumento della tensione.
[68] G. Cohen, Human nature and social change, in G. Cohen, History, labour and freedom. Themes from Marx, Oxford, Clarendon Press, 1988, pp. 83-106.
[69] Ivi, pp. 3-29.
[70] Cohen ha cercato in seguito di definire in modo più preciso anche i limiti di applicabilità del rigido determinismo tecnologico elaborato nel testo del ’78, ammettendo implicitamente alcuni punti deboli della teoria marxiana. Sia l’antropologia che la teoria della storia, l’economia e la visione della società futura elaborate da Marx sarebbero eccessivamente orientate in senso materialistico, darebbero cioè troppa importanza alle attività di produzione in senso generale. L’antropologia, insistendo eccessivamente sul lavoro creativo, non attribuisce sufficiente importanza al bisogno di definizione di sé. Quest’ultimo così come il bisogno di identità e di appartenenza – connaturati all’uomo – non passano solo attraverso il lavoro creativo e «lo sviluppo delle capacità umane come fine in sé» ma anche attraverso processi più complessi. Di qui la necessità – secondo Cohen – di non trascurare i concetti di identità nazionale, culturale e di genere. L’impatto di questi fattori sul materialismo storico resta da chiarire, anche se essi non indeboliscono la sua forza esplicativa in altri ambiti (G. Cohen, Riconsidering historical materialism, «Nomos» 26 (1983), pp. 227-251).
[71] La versione rozza della spiegazione funzionale, largamente in uso – secondo Elster– nella sociologia e nella politologia marxiste, tende a postulare, nelle dinamiche sociali, degli effetti positivi a breve o lungo termine (in termini economici, psicologici, culturali) per un determinato gruppo o classe sociale (solitamente quella dominante), senza che coloro che ne fanno parte abbiano agito con l’intenzione di far andare le cose in quel modo. È come se queste dinamiche, quindi, avessero uno scopo senza un soggetto sociale che ne sia consapevolmente portatore (J. Elster, Marxismo, funzionalismo e teoria dei giochi cit., pp. 179-182). Non si può però postulare che nella realtà sociale avvenga qualcosa esclusivamente perché è positivo (nel senso di utile, «funzionale», direttamente o indirettamente, a instaurare, perpetuare e legittimare il suo dominio) per una classe o un gruppo e considerare questa una spiegazione, se non si riescono a mettere in luce dei meccanismi attraverso i quali ciò avviene. Questi devono essere meccanismi di feedback (vedi oltre) attraverso i quali l’effetto riproduce la sua causa. La versione sofisticata della spiegazione funzionale deve allora rispondere ai seguenti requisiti: dati un comportamento X, una funzione Y e un’entità Z (gruppo, classe, sistema sociale), X è spiegato dalla sua funzione Y per Z, se e soltanto se: «1) Y è un effetto di X; 2) Y è vantaggioso per Z; 3) Y non è intenzionale per i soggetti che agiscono X; 4) Y (o almeno la relazione causale tra X e Y) non è riconosciuta dai soggetti in Z; 5) Y riproduce X per mezzo di un processo causale di feedback che passa per Z» (J. Elster, Ulisse e le sirene, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 74-75). La difficoltà consiste nel conciliare il punto 3) e il punto 4), cioè la non intenzionalità e l’inconsapevolezza, con la ricerca di un meccanismo di feedback che agisca retroattivamente, in modo che il mantenimento di una struttura determini il darsi di comportamenti che favoriscono essi stessi quel mantenimento. Elster scrive che casi in cui sono rispettate tutte e cinque le condizioni sono rarissimi. Addirittura, secondo lui, uno solo. Viene da una ricerca degli economisti della scuola di Chicago sul comportamento delle imprese sul mercato. Ad uno sguardo superficiale sembrerebbe che esse cerchino semplicemente – attraverso la scelta della combinazione dei fattori di produzione e del livello di produzione – di massimizzare i profitti. I processi decisionali all’interno dell’azienda tuttavia sembrano indicare una realtà diversa. Non la massimizzazione dei profitti, ma un insieme di regole abitudinarie semplici e automatiche. Si è quindi ipotizzato che alcune imprese adottino regole di routine che, casualmente, portano anche a massimizzare i profitti. Le routine di successo tendono a diffondersi tra le aziende o per imitazione o a causa dell’assorbimento delle aziende che falliscono da parte di quelle che hanno successo. Abbiamo qui: X = adottare regole di routine; Y = massimizzazione dei profitti; Z = insieme di aziende. Y è causato da X (questo aspetto è messo in luce dai ricercatori). Y è vantaggioso per Z. Y non è intenzionale per i soggetti che compiono X (le aziende infatti adottano appunto regole di routine, non regole per massimizzare i profitti). Il rapporto tra X e Y non è riconosciuto da Z (le aziende credono che i profitti siano dovuti ad altri fattori). Y infine riproduce X per mezzo di un processo causale di feedback che passa per Z. Infatti le aziende (Z) che massimizzano i profitti (Y) sopravvivono, quindi continuano ad usare X (ivi, p. 78). Tuttavia, come fa osservare anche Cohen , Hardin è riuscito a mostrare molti esempi in cui questo avviene. Questo potrebbe significare che la spiegazione funzionale – purché si proceda con accortezza – è praticabile.
[72] G. Cohen, Functional explanation, consequence explanation and marxism, «Inquiry» 25 (1982), pp. 27-56.
[73] «Un aspetto essenziale della spiegazione funzionale è che essa non mira all’individuazione di cause, ma stabilisce le condizioni di equilibrio. Non importa conoscere per quali vie una determinata funzione venga garantita: ciò che conta è conoscere le condizioni ed i processi adattativi grazie ai quali il sistema mantiene attivo un suo processo. La spiegazione funzionale non preclude ovviamente la ricerca delle cause specifiche di determinati comportamenti del sistema. Tuttavia il numero dei fattori coinvolti, la variabilità e l’interazione delle relazioni (e conseguentemente degli elementi impegnati nel processo), l’impossibilità di un’osservazione dettagliata che non comprometta l’integrità del sistema – in modo particolare quando tale sistema è un vivente – sono i principali limiti posti a una spiegazione posta in termini puramente causali e di conseguenza le ragioni prevalenti per una spiegazione funzionale. E’ importante, quando sia possibile, conoscere le condizioni e le cause interne in forza delle quali il sistema mantiene attivo un determinato processo, ma ciò che conta di più, e che spesso è la sola conoscenza ottenibile, è individuare le condizioni di equilibrio entro cui può variare il sistema mantenendo attivo quel processo» (G. Boniolo-L. Vidali Filosofia della scienza, Milano, Bruno Mondadori, 1999, p. 485). Naturalmente resta il compito di tradurre questi concetti in ambito sociale. Questo è stato tentato in origine da Parsons, ma la sua teorizzazione è caduta in discredito perché orientata in senso troppo conservatore. Il sociologo-filosofo tedesco Luhmann ha recentemente reinboccato questa strada proponendo in modo non banale una teoria dei sistemi sociali che rifiuta come unità di spiegazione la categoria weberiana di azione sifgnificativa – su cui si basa l’individualismo metodologico – e mette in primo piano la nozione di riduzione della complessità.
[74] J. Elster, Explaining technical change, Cambridge, Cambridge University Press, 1983, pp. 66-67.
[75] Cfr. in particolare G. Lensky e J. Lensky Human societies: an introduction to macrosociology, New York, McGraw-Hill, 1974.
[76] «L’astrazione funzionalistica dal processo storico – scrive a questo proposito K.Müller – impoverisce lo schema di Cohen: commisurato allo sforzo analitico, il suo modello risulta relativamente debole, forse paragonabile a quelle ‘ipotesi di adeguatezza’, con cui Weber rimandò alle ‘affinità elettive’ tra il capitalismo moderno e lo Stato razionale, senza peraltro considerare questa una spiegazione» (K. Müller, Il marxismo analitico. Una soluzione tecnica per uscire dalla crisi teorica?, «Marx centouno» 8 [1991], p. 110).