György Lukács e il recupero del fondamento ontologico del Marxismo
di
ESTER VAISMAN
Introduzione
Secondo Nicolas Tertulian, Lukács è diventato la personalità più rilevante della cultura marxista contemporanea (1). A questo riguardo, nell’introduzione al suo saggio Che cos’è il marxismo ortodosso (1919), pubblicato nell’opera Storia e coscienza di classe (1923), sempre secondo Tertulian, Lukács formulò una tesi che ne rivelò l’orientamento teorico di base fin dal tempo di transizione al marxismo. In questo saggio, fece riferimento alle discussioni che animavano i circoli intellettuali dell’epoca rispetto alla definizione autentica di «marxismo ortodosso». Nella sua tesi Lukács sosteneva che un marxista serio potrebbe accettare, in principio e sotto forma d’ipotesi, l’inesattezza di tutte le affermazioni particolari di Marx e riconoscere la necessità di sostituirle con nuovi risultati della ricerca, senza smettere, per questo, di essere un marxista ortodosso. Affermazione paradossale che rappresentava un’attitudine polemica di fronte ad una concezione «dogmatica» di marxismo. Il marxismo autentico non poteva essere identificato con un’adesione e una fedeltà automatiche ai risultati della ricerca di Marx, con una «fede» nell’una o nell’altra tesi, con l’esegesi di una creazione «sacra». Trattandosi di marxismo, l’ortodossia aveva esclusivamente a che fare con il problema del metodo. Distinzione che potrebbe sem- brare molto sottile o, semplicemente, infondata. Ma lo scopo dell’affermazione era quello di sottolineare la dimensione filosofica del marxismo. In fin dei conti, Lukács mostrava di rifiutare la tesi dell’infallibilità di ogni certezza di tipo dogmatico o scolastico. Così, in principio, ogni risultato particolare della ricerca è suscettibile di essere completato, modificato o arricchito. L’ortodossia, in materia di marxismo, significava affermare che Marx aveva trovato un metodo di ricerca appropriato, un metodo che poteva venir sviluppato, perfezionato o approfondito. Lukács si proponeva, così, di sottolineare la natura filosofica di questo metodo e il suo fonda- mentale adogmatismo.
Sempre secondo Tertulian, d’altra parte, il semplice «possedere» uno strumento superiore non è di per sé garanzia di superiorità culturale, e, in questo senso, in una circostanza Lukács è giunto ad affermare che Montaigne sarebbe più interessante di un marxista mediocre. Ma resta una domanda: come mai Lukács insiste nel trattare un tema così insolito nella sua opera della maturità, ovvero la possibile esistenza di un’ontologia in Marx? Una questione che, fatalmente, venne accolta con grande turbamento addirittura dai suoi discepoli più diletti? Una questione che suscitò e continua a suscitare un rifiuto immediato da tutte le parti, la disapprovazione in limini da parte di coloro che si dicono interessati a questo tipo di argomenti di questo tipo, che la intenderebbero come inammissibile. Perché insistere su questo problema «esotico»?
Per trovare la risposta a questo problema si deve per forza riconoscere, anzitutto, che il XX secolo ha assunto o ha affrontato il pensiero di Marx a partire dal modello gnoseologico, sen- za interrogarsi se ciò fosse compatibile con un tale approccio, e, in base ai presupposti della scientificità corrente, suppose che tale compatibilità esistesse. D’altra parte, questo primo pre- supposto rimanda ad un altro, e cioè all’acriticità contemporanea in generale, per mezzo di cui la scientificità poggia e deve poggiare su qualche tipo di fondamento gnoseologico (teoria della conoscenza, logica o epistemologia). Cosciente del peso e delle conseguenze del predominio del gnoseologismo in filosofia, Lukács si pronunciò criticamente a questo proposito varie volte, ma una, in particolare, è incontrovertibile per la denuncia che porta. Questo passo si trova subi- to nella prima pagina (non a caso) dei Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale:
Non sarà una sorpresa per nessuno – meno che mai per l’autore di queste righe – se il tentativo di basare sull’essere il pensiero filosofico intorno al mondo va incontro a molteplici resistenze. Gli ultimi secoli di pensiero filosofico sono stati dominati dalla gnoseologia, dalla lógica e dalla metodologia e il loro dominio è ben lontano dall’essere sorpassato (2).
Un altro esempio di questo tipo di preoccupazione di Lukács si trova nella stessa Ontologia e, più precisamente, nel capitolo sull’«Ontologia del momento ideale», nel contesto della di- scussione sul fenomeno dell’ideologia. In essa, il filosofo ungherese scrive dei severi commenti contro la tendenza dominante a trattare il fenomeno citato a partire da ciò che definisce come «criterio gnoseologico». Ossia, secondo Lukács, il fatto che il criterio gnoseologico sia diventato il criterio fondamentale e, praticamente, esclusivo, nel determinare ciò che è e ciò che non è ideologia, deriva dal predominio della problematica della conoscenza nel campo filosofico, predominio che ha finito per indebolire l’interesse per la questione ontologica. Così, la posizio- ne gnoseologica si riferisce al sapere e, come tale, emerge in quanto attributo del campo della soggettività. La posizione ontologica, invece, si riferisce direttamente al campo dell’essere e, pertanto, alla stessa oggettività. In questa citazione è fondamentale, per la forza chiarificatrice dell’enunciato, fare riferimento alle ultime formulazioni di J. Chasin a riguardo, quando, al po- sto di utilizzare l’espressione formulata da Lukács, utilizza la nozione di posizione ontologica e, in questo modo, si giustifica:
con essa [la posizione ontologica] si vuole mettere in guardia contro l’unilateralità decorrente dalla postura gnoseologica (sempre una forma meramente speculativa nei confronti della morfologia, del funzionamento, ossia, dell’organizzazione e attività della soggettività), istigando e, se rigorosamente praticata, orientando con fermezza a pensare le cose nei loro nessi, verso una totalità più piena di determinazioni. L’espressione, poi, cerca di segnalare e di indurre alla pratica intellettuale di carattere ontologico, concepita nella sua forma più consistente e conseguente (3).
È oltretutto giocoforza riconoscere che è qualcosa di molto diverso discutere la questione ontologica al giorno d’oggi rispetto a due secoli fa, a dir poco. Ora, il clima teorico in cui era inserita la questione fino al XVIII secolo, era completamente differente da quello in cui viviamo oggi, e dal quale siamo direttamente o indirettamente condizionati. Questa indicazione non è un dato ovvio, ma ha lo scopo di problematizzare una grave tendenza che Lukács certamente non ignorava:
Le difficoltà di affrontare dovutamente la questione ontologica oggi sono enormi ed erano già note a Lukács, nonostante il filosofo ungherese, morto nel 1971, non avesse assistito al pieno trionfo delle concezioni che consacrarono l’uomo derelitto, denominazione, questa, usata da lui quando, ad esempio, si riferiva a Heidegger (4).
Interessarsi ed applicarsi oggi allo studio del pensiero di Lukács è innegabilmente e temporaneamente un sacrificio intellettuale di grande portata, così come la stessa dedicazione allo studio del pensiero di Marx, e ciò valorizza molto le iniziative, purtroppo scarse, indirizzate al suo studio. Ciò non implica un’accoglienza compiacente di testi e di tentativi, e neppure l’occultamento delle discordanze. Al contrario, induce alla polemica ed anche alla combattività critica. La condotta opposta, la transigenza in tutti gli ambiti, anche nella forma dell’opportunismo accademico, è qualcosa che banalizza la teoria e degrada la pratica, com’è stato messo in evidenza radicalmente e malinconicamente dal nostro secolo.
Con la brevità che è qui opportuna, potremmo forse affermare che la questione ontologica è il problema più antico della riflessione filosofica che la storia del pensiero registri. E, forse, non sarebbe esagerato affermare che ciò che intendiamo per filosofia, cioè, una forma specifica di pensare che ebbe origine tra i greci, cominciò con la pratica dell’ontologia, senza che questo termine esistesse e senza che i primi praticanti avessero pensato di creare una disciplina speci- fica con una denominazione determinata. In questo modo, potremmo segnalare che il pensiero grego ebbe inizio con la questione ontologica e con i presocratici, nella misura in cui essi cer- carono di determinare l’elemento primordiale dell’universo e la realtà effettiva del mondo, di ciò che effettivamente esiste. La creazione effettiva di questo dominio avverrà circa trecento anni dopo, con le tematizzazioni di Platone e, soprattutto, come disciplina stabilita in Aristotele. Però, com’è risaputo, nessuno dei due filosofi denominò tale impegno riflessivo di ontologia. Ciò avvenne molto tempo dopo, in Germania, nel XVII secolo, ad opera di Christian Wolff. Le affermazioni di Chasin, a questo riguardo, sono illuminanti:
la storia reale dell’ontologia è la parte più antica ed intricata della filosofia, dato che nacque da una questione di carattere o di spirito ontologico: di che cos’è fatto il mondo, chiedevano i presocratici, qual è l’elemento primordiale dell’universo? Nata come ontologia, senza che si chiamasse così, senza che avesse un altro nome diverso da filosofia, essa fu, per circa due millenni e mezzo, anzitutto ontolo- gia (metafisica) o, esplicitamente, da Platone e Aristotele fino a Leibniz – Christian Wolff, l’ontologia fu l’atmosfera e l’impalcatura della riflessione (5).
Sulla base del pensiero di Marx, Lukács comprende il significato di ontologia, in quanto riconoscimento degli enti, ed è ciò che si può concludere da alcune sue affermazioni che si trovano alla fine della sua ultima intervista. Data l’importanza della posizione che formula, vale la pena citarla integralmente:
Marx prima di tutto ha elaborato, e questa io ritengo sia la parte più importante della teoria mar- xiana, la tesi secondo cui la categoria fondamentale dell’essere sociale, ma ciò vale per ogni essere, è che esso è storico. Nei manoscritti parigini Marx dice che c’è una sola scienza, cioè la storia, e anzi addittura aggiunge: «Un ente non oggettivo è un non-ente». Vale a dire, non può esistere uma cosa che non abbia qualità categoriali. Esistere significa, quindi, che qualcosa esiste in un’oggettività di forma determinata. Cioè, l’oggettività di forma determinata costituisce quella categoria a cui l’ente in questione appartiene (6).
E, prima che l’intervistatore possa intervenire impugnando forse affermazioni di questo tipo o affermando che si tratta di posizioni già difese lungo la storia della filosofia, Lukács enfatizza:
Qui l’ontologia si distingue nettamente dalla vecchia filosofia. La vecchia filosofia, infatti disegna- va un sistema di categorie all’interno del quale comparivano anche le categorie storiche. Nel sistema categoriale del marxismo ogni cosa è primariamente un qualcosa fornito di una qualità, una cosalità e un essere categoriale. «Ein ungegenständliches Wesen ist ein Unwesen» […]. Sotto questo profilo il marxismo si distingue in termini estremamente netti dalle concezioni del mondo precedenti: nel marxismo l’essere categoriale della cosa costituisce tutto l’essere della cosa, mentre nelle vecchie filosofie l’essere categoriale era la categoria fondamentale all’interno della quale si sviluppavano le categorie della realtà (7).
Dal fatto di aver stabilito le differenze centrali della posizione ontologica identificabile nell’opera di Marx rispetto alla vecchia filosofia, non segue che il filosofo ungherese abbia stabilito una qualche relazione di somiglianza con quelle filosofie, sorte nella contemporaneità, che si affermano come portatrici di una nuova ontologia. Tutt’al contrario! Infatti, come segnala bene Tertulian, il confronto fra l’approccio ontologico di tre pensatori così diversi tra loro, Nicolai Hartmann, il primo Heidegger e Lukács, non deve celare l’opposizione fondamentale che esiste fra il pensiero ontologico di Hartmann e Lukács, da un lato, e l’«ontologia fondamentale» proposta da Heidegger dall’altro (8).
Le ragioni di questa diversificazione sono molteplici, e Lukács non ha mai smesso di espri- mersi, spesso in modo molto critico, sul pensiero di Heidegger (nelle sue diverse opere filosofiche, ma anche nello studio polemico dedicato, nel 1948, alla Lettera sull’Umanesimo e publicato con il titolo di Heidegger redividus) (9).
1. Cronologia intellettuale di G. Lukács
1.1 Da «L’anima e le forme» a «Storia e coscienza di classe»
Non è qui il caso di riprendere dettagliatamente la traiettoria intellettuale, così estesa e sinuosa, del filosofo ungherese. In un articolo da me pubblicato (10), ho richiamato fin da subito l’attenzione del lettore sul fatto che «Lukács può essere considerato come uno dei pensatori più rilevanti della cultura marxista contemporanea. Tale giudizio non è proposto soltanto dagli interpreti che in un modo o nell’altro si sono allineati attorno all’opera del pensatore unghere- se, ma anche dei suoi avversari» (11). Oltretutto, valendomi della testimonianza di Tertulian, ho indicato che «l’evoluzione intellettuale di György Lukács offre un’immagine singolare della formazione e del divenire di una personalità nelle condizioni agitate di un secolo non meno singolare, per la sua complessità e per il carattere drammatico della sua storia» (12).
La difficoltà di determinare in poche righe il nocciolo teorico di Lukács, sia prima della sua adesione al marxismo che dopo, è dovuta al fatto che l’autore «è passato per le più diverse ed eterogenee esperienze spirituali» (13), in tal modo che una delle questioni più polemiche è quella che riguarda le continuità e le discontinuità del suo pensiero. Anche qui non è il caso di dilungarci troppo su un tema così importante, ma non potremmo tralasciare la tesi polemica «di coloro che considerano il ‘vero Lukács’ quello delle opere della gioventù, e per i quali la fase di maturità della sua opera, cioè, la fase rigorosamente marxista, costituirebbe un’evidente involuzione» (14). Inoltre, è di fondamentale importanza riportare un altro problema, sempre ricordato e vincolato alla traiettoria polemica dell’autore: le sue «autocritiche». Nonostante non sia questa la sede per discutere adeguatamente di ciò, sarebbe interessante focalizzare il tema da un altro punto di vista, forse più fecondo, indagando ciò che segue: «quale altro pensatore contemporaneo è stato capace di rinunciare criticamente e deliberatamente, come ha fatto lui diverse volte, al prestigio di opere consacrate? Rinuncia che è arrivata al punto di divorziare da esse, di manifestare un’assoluta mancanza d’identità autorale per testi che avrebbero fatto, singolarmente, la gloria inconfessata e sempre agognata di una carriera di qualsiasi persona, anche di quelle migliori e più rispettabili. Questo distacco è sinonimo di un’enorme esigenza nei confronti di se stesso, che non si è mai abbassato fino all’arroganza e alla pedanteria, nep- pure ad autoproclamazioni di merito o a millanterie di autosufficienza, su cui pesi l’immensa solitudine teorica in cui rimase forzato il suo lavoro» (15).
György Lukács nacque nel 1885 a Budapest, nel quartiere Leopolstadt, come ci racconta l’autore nel suo Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo (16). Il primo libro che pubblicò fu Storia dello sviluppo del dramma moderno (1911), per il quale l’autore ricevette, a quell’epoca, un premio letterario. Di pari passo, nella pienezza della gioventù, ciò che Lukács aveva ricercato era «una forma d’interpretazione delle manifestazioni letterarie che non fosse una mera astrazione dei loro contenuti peculiari. Nella contrapposizione teorica in cui si trovava e sotto l’adesione al neokantismo, non era andato oltre l’equazione rappresentata, a quell’epoca, nella Storia dell’evoluzione del dramma moderno: quella della pura sintesi intellettuale tra sociologia ed estetica, sotto l’egida ed il supporto di Simmel, invece che partire ‘dalle relazioni dirette e reali tra la società e la letteratura’, come dirà nella Prefazione a Arte e società, in cui afferma, anche, che ‘non può sorprendere come da una posizione così artificiosa siano derivate costruzioni astratte’, sempre insoddisfacenti, persino quando azzeccano qualche determinazione vera» (17).
Ciò nonostante, fu soltanto con la pubblicazione dell’opera L’anima e le forme (1911) che il filosofo ungherese «richiamò l’attenzione di diversi membri dell’élite europea […]. L’ulti- mo saggio del libro, che molti commentatori considerano un testo capitale di questo insieme, fu consacrato all’apologia della tragedia. Agli occhi del giovane Lukács, la tragedia appariva come un’incarnazione portata alle ultime conseguenze della vita essenzializzata, come il modo supremo di articolazione di questa forma in cui egli vedeva la condizione inalienabile della vera arte» (18).
Pubblicò poi la Teoria del romanzo (1914-1915) che, a fianco de L’anima e le forme, rappresenta il passaggio lukacsiano da Kant a Hegel, che in quest’ultimo raggiunge il proprio culmine. È il percorso che lo conduce, senza abbandonare il territorio delle cosiddette scienze dello spirito (Dilthey, Simmel, Weber), dalla filosofia e dalla nascente sociologia tedesca di Simmel verso una forma di scienza dello spirito accoppiata o trapassata dall’hegelismo, responsabile dell’orditura di L’anima e le forme e, con un maggior accentuazione, della Teoria del romanzo. Queste opere sorsero inoltre sotto l’influsso – qui poco importa stabilire se si trattasse di un influsso diretto o indiretto – dell’«estetismo della filosofia della vita (Lebensphilosophie), che predominava nel pensiero tedesco all’inizio del secolo scorso» (19).
Lo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1914, ed i suoi effetti sugli intellettuali di sinistra (assimilati dalla socialdemocrazia), determinano il progetto di redazione della Teoria del romanzo. Essa «è venuta in essere in un clima interiore di permanente disperazione circa le sorti del mondo» (20), afferma Lukács, che più di una volta ha utilizzato una formula di Fichte per caratterizzare l’immagine che aveva di quel tempo: «epoca della peccaminosità consumata» (21). Questa visione infernale di un’Europa senza brecce né orizzonti, tessuta di un pessimismo eticamente modulato, fa del Lukács di Teoria del romanzo un utopista primitivo, per utilizzare un’espressione quasi identica che lui stesso usava. Può così affermare: «La Teoria del romanzo non ha un carattere conservatore, bensì esplosivo» (22).
E più concretamente: «metodologicamente, è un libro di storia dello spirito. Ma penso che sia l’unico di storia dello spirito a non essere di destra. Dal punto di vista morale, considero tutta quell’epoca condannabile e, nella mia con- cezione, l’arte è buona quando si oppone a questo decorso» (23).
Non è possibile, qui, addentrarsi ulteriormente in questa importante fase della vita dell’autore, ma è necessario addurre che «il divenire intellettuale di Lukács presenta un interesse unico, possedendo valore paradigmatico per il destino dell’intellettualità europea del XX secolo» (24). Storia e coscienza di classe, il suo libro più rinomato, è stato «riconosciutamente, uno sforzo intellettuale rilevante, nel senso di porre in evidenza un campo di riflessione teorica, fino ad allora relegato in secondo piano. In questo libro sono riuniti vari studi del periodo che va dal 1919 al 1922. Infatti, nel secondo decennio del XX secolo, l’opera di Lukács si è rivestita di un’importanza decisiva nella misura in cui ha rappresentato il tentativo, indipendentemente dagli imbarazzi e dagli insuccessi, di riconoscere e mettere in risalto la natura e le funzioni complesse della sfera ideologica» (25). In altre parole, Storia e coscienza di classe, nonostante il suo iperhegelismo, riconosciuto dallo stesso autore nella Prefazione del ̓67, ha rappresentato una reazione importante alle disavventure del marxismo ufficiale che sottovalutava il ruolo della soggettività all’interno dei processi storici. Non possiamo però addentrarci in una discussione delle tesi esposte in questo insieme di saggi. Nella Prefazione del ̓67, l’autore rivede in modo autocritico il contenuto di Storia e coscienza di classe, rivelando, tra l’altro, il «dualismo tematico ed intimamente contraddittorio» delle sue prese di posizione dell’epoca. Sebbene non si voglia abbozzare un’analisi critica del libro, è opportuno mettere in rilievo che esso venne scritto in un momento di transizione intellettuale dell’autore verso il marxismo, come lui stesso riconobbe:
Io almeno trovo nel mio mondo ideale di allora, nella misura in cui sono in grado di ritornare con la memoria a questi anni, tendenze simultanee, da un lato, ad un’assimilazione del marxismo e ad un’attivazione politica e, dall’altro, ad una costante intensificazione di impostazioni problematiche caratterizzate nel senso di un puro idealismo etico (26).
Inoltre, la critica di Lukács della sua opera degli anni Venti si colloca su di un terreno deci- sivo sul piano filosofico. Questa la sua posizione: Storia e coscienza di classe – senz’altro in discordanza con le intenzioni soggettive dell’autore – rappresenta oggettivamente una tendenza all’interno della storia del marxismo, che, senza dubbio, con grandi differenze nel fondamento filosofico e nelle conseguenze politiche, rappresenta sempre, volontariamente o involontariamente, è diretta contro i fondamenti dell’ontologia del marxismo (27).
Insomma, Lukács, nel 1967, all’età di 82 anni, redige la Prefazione in cui analizza criticamente l’insieme dei saggi pubblicati nel 1923 e chiarisce quali circostanze lo abbiano portato a rigettarlo. Per seguire tutti gli elementi presenti nella famosa «autocritica» di Lukács occorre- rebbe tenere anche conto della sua relazione diretta con la sua tendenza intellettuale dell’epoca (28).
1.2 Dall’«Estetica» all’«Ontologia dell’essere sociale»
Importanti interpreti di Lukács, quali Oldrini (29) e Tertulian (30), hanno considerato che la fase di maturità del filosofo ungherese ha avuto inizio nel 1930, data a partire dalla quale Lukács ha cominciato a dedicarsi a studi sull’arte attraverso una chiave di lettura analitica fondata sul pensiero di Marx. Oldrini, cercando di scoprire il momento in cui ha avuto inizio il processo che ha condotto Lukács alla redazione della sua opera postuma, utilizza le testimonianze del critico sovietico Michail Lifschitz (31) e degli ungheresi István Hermann (che era stato uno dei primi alunni di Lukács) e László Szikai (direttore dell’Archivio Lukács di Budapest). Queste testimonianze «hanno insistito con particolare energia sulla ‘importanza storica’ della svolta del ’30, mostrando – oltre ogni ombra di dubbio – come proprio lì, a Mosca, si formi il Lukács maturo» (32).
È noto che, nel primo periodo di esilio a Mosca, avvenuto all’inizio del 1930, mentre lasciava l’esilio a Vienna, Lukács ha lavorato con Riazanov, che a quel tempo curava l’edizione dei manoscritti giovanili di Marx e iniziava la pubblicazione della MEGA, rimasta incompleta con la sua espulsione dal PCUS (nel 1931) e con la scomparsa posteriore durante le epurazioni staliniste. Fu un’esperienza fuori del comune, responsabile probabilmente della sua inflessione rispetto al pensiero marxiano, e della quale si ricordò con grande entusiasmo fino alla fine della vita, come, per esempio, nell’intervista alla «New Left Review» nel 1968:
«Quando ero a Mosca, nel 1930, Riazanov mi ha mostrato i manoscritti di Marx elaborati a Parigi nel 1844. Ti puoi immaginare la mia eccitazione: la lettura di questi manoscritti ha cam- biato tutta la mia relazione con il marxismo ed ha trasformato la mia prospettiva filosofica» (33). Secondo Oldrini, questa svolta ha avuto un carattere ontologico, nella misura in cui si fondava sulla critica alla filosofia speculativa di Hegel in cui Marx, influenzato in parte dagli scritti di Feuerbach, le riconosceva l’oggettività in quanto proprietà originaria di tutti gli enti (34). Oldrini ritiene, in questo senso, che «quanto i presupposti e le linee direttrici della ricerca di Lukács dopo il ’30 debbano fin da subito alla teoria materialistica marxiana dell’oggettività», nono- stante ciò non significhi necessariamente che si debbano tralasciare, nell’analisi di questo lungo periodo che sfocia nell’Ontologia dell’essere sociale, «gli inconvenienti e i limiti che fin qui le derivano dall’assenza, a suo fondamento, di un esplicito progetto ontologico. Que- sto progetto per ora in Lukács manca del tutto» (35).
Inoltre, è necessario rammentare che tale «svolta», per così dire, sebbene presenti differenze sostanziali con i suoi testi giovanili, non è «frutto di una brusca e inattesa inversione di rotta, di un revirement verificatosi all’improvviso, senza preparazione, nell’ultimo decennio di vita del filosofo. Alle sue spalle sta piuttosto una lunga storia, meritevole di attenzione» (36). Queste fasi intermediarie del pensiero, che includono, secondo Oldrini, «ad esempio gli scritti berlinesi o quelli moscoviti o quelli del rientro postbellico in Ungheria» (37), meriterebbero uno studio più premuroso, legato al contesto più ampio dell’opera lukacsiana. Qui si tratta però d’identificare in modo sommario i moventi teorici che mettono in relazione la grande Estetica con l’ultimo lavoro di Lukács. In questo momento dell’esposizione, riteniamo opportuno seguire l’analisi di Oldrini e Tertulian, poiché, a nostro modo di vedere, sono gli interpreti che con più acutezza sono riusciti a captare il vincolo tra l’Estetica e l’Ontologia.
Così posta la questione, anzitutto in termini cronologici, è ancora Oldrini ad indicare alcune piste importanti:
Qualche data anzitutto, sulla scorta delle notizie fornite da Benseler, Tertulian e Mezei, per orien- tarci e muoverci con disinvoltura entro la selva dei fatti. A una Ontologia Lukács non pensa che molto tardi, come introduzione al progetto di un’etica marxista, per il quale egli era venuto raccogliendo gran quantità di materiali preliminari già almeno dalla fine degli anni ’40, e. che si rafforza (ma viene anche messo temporaneamente tra parentesi) con l’inizio del lavoro alla grande Estetica, databile al 1955: lavoro poi proseguito fino al 1960 (38).
In Conversando con Lukács (1967), alla domanda dell’intervistatore sulla presenza, nella sua Estetica, di alcuni presupposti ontologici non sempre espliciti, il filosofo ungherese non solo indica alcuni elementi dell’opera in preparazione – l’Ontologia –, ma risponde anche af- fermativamente39. Possiamo identificare nella testimonianza dello stesso Lukács delle indica- zioni ragionevoli per ammettere l’esistenza di elementi di carattere ontologico nella sua opera pubblicata originalmente nel 1963. Nello stesso senso, Oldrini, basandosi su una lettera inviata dall’autore a Ernst Fischer e su un’altra a sua sorella, afferma che subito dopo la conclusione dell’Estetica, ha inizio il lavoro all’Etica. E ancora: E che presto gli si faccia strada anche la convinzione della necessità imprescindibile, per esso, di un capitolo introduttivo a carattere ontologico, lo testimoniano le conversazioni con gli allievi e, più e meglio, quanto dichiara a Werner Hofmann in una lettera del 21 maggio 1962: che cioè «bisognerebbe procedere ancora avanti in direzione di una concreta ontologia dell’essere sociale» (40).
L’aver indicato l’esistenza probabile di un filo conduttore, soprattutto tra l’Estetica e l’On- tologia, non implica la conclusione immediata che Lukács vi abbia aderito, anche se, come afferma Oldrini, «anche là dove c’è già in germe la cosa, il nesso concettuale, manca la parola che lo esprima»41. In realtà, Lukács nutriva dei seri dubbi e sospetti rispetto al termine stesso
«ontologia», e riluttava ad utilizzarlo: «Come quella che si trae dietro la connotazione conferi- tale da Heidegger, essa ha infatti dapprima per lui solo una connotazione negativa»42. Tuttavia, il contatto con l’opera di Ernst Bloch, Questioni fondamentali della Filosofia. Per l’ontologia dell’ancora non essere [Philosophische Grundfragen, I. Zur Ontologie des Noch-Nicht-Seins], pubblicata nel 1961, e con la voluminosa opera di Nicolai Hartmann sull’Ontologia, cambia la posizione di Lukács nei riguardi di questo termine. Tertulian arriva addirittura ad affermare che «gli scritti ontologici di Nicolai Hartmann hanno avuto il ruolo di catalizzatore nella riflessione di Lukács; essi gli hanno trasmesso, certamente, l’idea di ricercare nell’ontologia e nelle sue categorie le basi del suo pensiero» (43).
In questo modo, l’approccio alla stessa Estetica cambia di configurazione: sebbene essa sia stata elaborata, cronologicamente, prima dell’Ontologia, ci sono chiari indizi che rendono possibile l’ipotesi che, in termini logici, fossero già presenti i problemi ontologici, anche se l’espressione «ontologia» non viene utilizzata, sia perché Lukács la associava all’esistenzialismo, sia perché lui stesso non si era reso conto della possibilità di un’ontologia su basi materia- liste. Il fatto è che, nel frattempo, «la tesi che l’opera d’arte ‘è là’, che essa esiste come essere di fatto anteriormente all’analisi delle sue condizioni di possibilità, non rappresenta certo una novità del Lukács ultimo» (44). Infatti, a partire dalla testimonianza dello stesso autore, si nota questo nesso tra l’analisi dell’opera d’arte e questioni di ordine ontologico. Nella prefazione all’edizione francese dell’opera Il mio cammino fino a Marx, pubblicata nel 1969, l’autore afferma: «Se per l’Estetica il punto di partenza filosofico consiste nel fatto che l’opera d’arte è lì, che essa esiste, la natura sociale e storica di questa esistenza fa sì che tutta la problematica si sposti verso un’ontologia sociale» (45).
2. Dall’Ontologia dell’essere sociale ai Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale
Ancora una volta è Tertulian ad offrirci un’informazione preziosa riguardo al momento pre- ciso in cui ha inizio l’elaborazione dell’ultima opera di Lukács: maggio 1960, data in cui, secondo i suoi progetti, avrebbe dato inizio agli scritti dell’Etica (46). Tuttavia, «sappiamo ciò che è successo dopo: i lavori preparatori dell’Etica si trasformarono in un manoscritto volu- minoso, l’Ontologia dell’essere sociale, concepita come un’introduzione necessaria all’opera principale» (47).
Si deve ricordare, qui, che la questione del genere è presente in Marx almeno dai Manoscritti economico-filosofici del 1844, e che anche in Lukács è presente a modo suo. Questa ipotesi è molto più plausibile della continuità del problema etico posto nella fase premarxista o di transizione a Marx. Tutto sta ad indicare che nell’Estetica e nell’Ontologia e, in particolare, nei Prolegomeni, esiste il presupposto che la «configurazione della conformità con il genere» è «determinata in ogni caso dalle circostanze storico-sociali», che la «coscienza che l’individuo appartiene al genere umano non sopprime le relazioni sociali con la classe»; che «il genere» è, per la sua natura ontologica, un risultato di forze in lotta reciproca messe in movimento socialmente: un processo di lotte di classe nella storia dell’essere sociale; e d’altra parte, reci- procamente, questo processo acquista significato alla luce della teoria del suo sviluppo verso il «genere».
La necessità di un’Ontologia nel contesto del marxismo si pone, per Lukács, non solo in con- siderazione di tutti i problemi che s’incontrano e utilizzando un’acutezza sempre più grande in questo campo – tanto sul piano teorico, quanto sul piano pratico –, ma, soprattutto, in funzione del profilo essenziale del mondo del capitale contemporaneo. In questo modo, l’Ontologia non si pone per Lukács come una mera preferenza personale o una semplice opzione intellettuale, ma come una sfida storico-concreta.
Infine, il recupero dell’ontologia nella prospettiva lukácsiana è l’affermazione che il reale esiste, il reale ha una natura, e questa esistenza e questa natura si possono catturare intellettual- mente. E, nella misura in cui è catturabile, può essere modificata dall’azione coscientemente condotta dagli individui. Postulare, in questo modo, l’ontologia, è riscattare la possibilità di comprensione e trasformazione della realtà umana. Insomma, è porre il fatto che il reale non è un’illusione dei sensi o qualcosa da gestire o semplicemente da manipolare. È l’affermazione che la soggettività si può oggettivare nella conquista dei nessi reali e della loro trasformazione.
A proposito dei Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, sono necessarie alcune informazioni aggiuntive. Secondo Tertulian, questi manoscritti «possiedono il valore di testamento, per il fatto di essere stati l’ultimo grande testo filosofico di Lukács. Vennero scritti, infatti, poco prima della sua morte» (48). Sulle ragioni che condussero il filosofo a scrivere i suoi Prolegomeni dopo aver terminato l’Ontologia, c’è disaccordo tra gli interpreti. Ciononostante, a questo proposito, la cosa mi- gliore da fare è procedere con i piedi di piombo e sollevare soltanto alcune ipotesi, facendo attenzione a non affermare nulla categoricamente:
Secondo qualche testimonianza (specialmente quella di Istvan Eörsi, suo traduttore in ungherese), Lukács aveva qualche dubbio circa il modo in cui era organizzata la materia dell’Ontologia, suddivisa in una parte storica […] e in una parte teorica, il che avrebbe potuto dar luogo a qualche ripetizione. Concepiti come un discorso strettamente teorico, che aveva il compito di fissare i punti base dell’Ontologia, i Prolegomeni non conoscono questa dicotomia (49).
Però, tra gli studiosi dell’opera lukácsiana, circolò la notizia che Lukács si sarebbe deciso a riscrivere l’Ontologia per le critiche che aveva ricevuto dai suoi alunni, critiche consegnate in un testo pubblicato «in traduzione italiana alla fine degli anni Settanta nella rivista ‘Aut-aut’ e successivamente in inglese e in tedesco» (50) con il titolo Annotazioni sull’ontologia per il compagno Lukács (51).
Questo avvenimento potrebbe essere importante per spiegare la decisione di Lukács, così, ancora secondo Tertulian, «considerando che i Prolegomeni sono stati scritti dopo che Lukács era venuto a conoscenza delle critiche formulate da questo gruppo di filosofi, suoi amici e discepoli, ci si potrebbe domandare se la decisione di scrivere post festum una lunga introduzione all’opera non sia stata presa, appunto, per rispondere alle loro obiezioni. Ora, una lettura dei Prolegomeni alla luce delle Annotazioni mostra con ogni evidenza che Lukács non ha cambiato di una virgola le sue posizioni di fondo» (52). Pertanto, l’ipotesi più plausibile è che Lukács sia rimasto con l’impressione di non essere riuscito ad esprimere con chiarezza e pro- fondità le sue intenzioni iniziali, fatto che lo condusse ad elaborare un’Ontologia propriamente detta.
Ma quali sarebbero, esattamente, il locus ed il ruolo dei Prolegomeni all’interno di questa impresa enorme alla quale Lukács dedicò i suoi ultimi anni di vita? Ancora una volta, Tertulian fornisce informazioni concrete: «Concepiti, dunque, come introduzione al testo principale dell’Ontologia, i Prolegomeni tuttavia ne rappresentano di fatto una vasta conclusione» (53). Per di più, al contrario di una certa interpretazione corrente nell’ambiente accademico brasiliano, che oltre a non rilevare alcuna novità apportata dall’ultima opera, cerca di fare una distinzione attribuendo alla prima lo status di «grande» Ontologia e, alla seconda, di «piccola» Ontologia (54), Tertulian segnala che «i Prolegomeni non sono affato una semplice ripetizione delle idee sviluppate nel grande corpus dell’Ontologia dell’essere sociale; essi, invece, sono portatori di accenti nuovi e, talora, di contributi inediti» (55), nonostante il loro carattere ripetitivo e la presenza, a volte, di lacune in alcuni passaggi specifici.
Dal nostro punto di vista, uno dei principali contributi inediti di questi scritti si riferisce alle relazioni individuo e genere, che non ha ancora ricevuto un trattamento analitico da parte degli interpreti. Comunque, in compenso, Lukács assicura che «il posto centrale della genericità, il superamento della mutezza che essa possiede nella natura non è affatto uma singola ‘trovata’ geniale del giovane Marx. Sebbene la questione assai di rado compaia apertamente, con questa esplicita terminologia, nelle sue opere succesive, Marx non ha mai cessato di vedere nello sviluppo della genericità il criterio ontologico determinante del processo evolutivo dell’umanità» (56).
Secondo il filosofo ungherese, la categoria della genericità esplicita il concetto «sovvertitore circa l’essere e il divenire storico-sociale del genere umano» (57) instaurato da Marx. Lukács identifica il luogo genetico di questa concezione, cioè del superamento del genere muto naturale e l’avvento del genere propriamente umano, precisamente nella prassi, che costituisce il modo per mezzo del quale si processa l’«adattamento attivo» e a partire dal quale avviene, in modo contraddittorio e diseguale, la costituzione processuale dell’essere sociale. In altri termini, «la base ontologica del salto [dal genere muto al genere non più muto] è stata la trasformazione dell’adattamento passivo dell’organismo all’ambiente in adattamento attivo, fatto per cui sorge in linea generale la socialità come nuovo modo di genericità» (58). In questo contesto, l’individualità non è intesa da Lukács come un dato minimo originario, ma come una categoria che si costituisce, anche storicamente, in base ad una «determinazione reciproca» con la genericità, ma non solo. Si tratta di un processo estremamente lento – un processo delle stesse relazioni sociali –, affinché il problema dell’individualità possa apparire come un problema non solo reale, ma anche universale. Inoltre, «lo sviluppo reale dell’individualità […] è un processo assai complicato, il cui fondamento d’essere sono bensì le posizioni teleologiche [teleologischen Setzungen] della prassi con tutto ciò che le accompagna, ma che non ha esso stesso carattere teleologico». Infine, ci troviamo di fronte a un processo che si svolge tanto in senso oggettivo quando soggettivo, cioè, «in conseguenza della prassi, l’uomo, che continua a svilupparsi in termini di multilateralità sempre più dispiegata si trova di fronte a una società […] mediante cui l’incarnazione oggettiva della genericità non soltanto cresce sempre più variegata sotto molti profili, ma inoltre pone esigenze sempre più numerose e diversificate ai singoli uomini in essa attivi praticamente» (59). Vale a dire, a un certo punto della sociabilità c´è una molteplicità quasi infinita di decisioni alternative da prendere verso cui il singolo individuo sociale è costante- mente provocato, o davvero obbligato, data la differenziazione e la complessificazione della società nel suo insieme. Infine, è importante mettere in risalto che Lukács, quando percepisce la convergenza o divergenza tra sviluppo sociale e individuale, sembra non concepire la forma- zione degli individui umani come puri prodotti meccanici del genere perché, in caso contrario, si cancellerebbero i tratti specifici dell’essere sociale e resterebbe appena la relazione naturale muta tra la specie e il suo esemplare.
3. Alcuni aspetti del lavoro come base per una nuova ontologia
Gettando le fondamenta dello studio dell’essere nella sociabilità, Lukács ci rimanda all’ana- lisi del lavoro come alla categoria più rilevante che permetterebbe la riflessione sugli elementi più significativi per il riconoscimento specifico dell’essere, centrato nelle relazioni embricate della vita in società. Attribuendo al lavoro un interesse particolare nell’ontologia dell’essere sociale, Lukács ci fornisce un nuovo orientamento nel campo dell’investigazione teorica per comprendere la problematica dell’essere umano di fronte alla natura e alle diverse forme di sociabilità, avendo come base il processo storico-sociale.
In questo modo, considerando il lavoro come possibilità ontologica e come l’elemento chiave per la comprensione dei fattori costitutivi della sociabilità, il sistema teorico-metodologico lukacsiano si distingue da ogni tradizione filosofica, rivelandosi come una nuova ontologia. All’interno di questo sforzo, Lukács riconosce, nonostante i limiti teorici delle loro analisi, il grande contributo di Aristotele e Hegel nel fornire i presupposti ontologici per comprendere il lavoro nella sua posizione teleologica:
Non sorprende per nulla, quindi, che grandi pensatori grandi e fortemente interessati all’essere so- ciale, come Aristotele e Hegel, abbiano afferrato con tutta chiarezza il carattere teleologico del lavoro, tanto che le loro analisi strutturali richiedono solo qualche completamento e nessuna correzione di fondo per conservare anche oggi validità (60).
Nelle considerazioni sul lavoro all’interno dell’Ontologia dell’essere sociale, Lukács mette in risalto che, nonostante il contributo hegeliano sia stato grande, a causa della sua matrice idealistica scompare la relazione con il mondo oggettivo. Così, Hegel avrebbe riconosciuto nel lavoro soltanto l’attività dello spirito e, pertanto, la sua formulazione rimarrebbe su un piano astratto.
Lukács ha percepito chiaramente che la comprensione del lavoro come attività umana con- creta del mondo degli uomini è stata realizzata da Marx grazie al modo con cui riconosceva la relazione dell’essere umano con la sua stessa mondanità. Per Marx è possibile capire l’essere umano soltanto a partire dalla sua azione, dalla sua attività reale, concreta. E, tra le attività che gli esseri umani hanno realizzato socialmente nel corso dei tempi, influenzando direttamente la propria esistenza sensibile e conferendo un orientamento alle proprie attitudini e affetti, nessuna può essere considerata così importante, e per così lungo tempo, come il lavoro:
L’ammissione della teleologia nel lavoro, dunque, è in Marx qualcosa che va molto oltre i tentativi di soluzione proposti dai suoi predecessori anche grandi come Aristotele e Hegel, già in quanto per Marx il lavoro non è una delle tante forme fenomeniche della teleologia in generale, ma l’unico punto in cui è ontologicamente dimostrabile la presenza di un vero porre teleologico come momento reale della realtà materiale (61). L’originalità di queste concezioni di Marx fa affermare a Lukács che «ogni esistente dev’es- sere sempre oggettivo, ossia, dev’essere sempre parte di un complesso concreto» e le «forme di esistere» sono sempre «determinazioni della stessa esistenza» (62).
Se, da una parte, la critica di Marx si volge fortemente contro l’idealismo hegeliano, dall’altra, riconoscendo nel lavoro il punto medio tra pensiero e azione, offre la possibilità di una nuo- va riflessione di comprensione della problematica del vecchio materialismo. Nella distinzione tra il materialismo di Marx ed il materialismo meccanicista, Lukács riconosce che è Marx, ancora una volta, a permetterci una nuova riflessione, a concepire l’uomo come essere attivo, responsabile dell’autoformazione del suo genere (63).
Nella discussione sulla realtà o non realtà del pensiero, Lukács mette in evidenza il grande contributo di Marx nel riconoscere, all’interno del processo reale di produzione e riproduzione della vita degli uomini, l’importanza del pensiero per la costruzione della prassi. Al contrario di ciò che concepiva il materialismo meccanicista, Marx accentua il fatto che, nel processo di costruzione della vita obiettiva degli uomini, la coscienza non può essere considerata come un mero epifenomeno.
Per Lukács, il punto centrale della problematica risiede esattamente in questa inversione. La coscienza, qui, lungi dall’essere considerata come un epifenomeno, risultato delle azioni concrete degli uomini, consiste in un atto simultaneo al fare pratico, consiste cioè nello stabilire (setzen) delle finalità inerenti al processo di lavoro.
Sulla base di questo presupposto, Lúkacs comincia a comprendere che le relazioni intricate degli individui, sia nello scambio reciproco con la natura, sia con gli altri individui, non pos- sono essere analizzate dal punto di vista meramente gnoseologico, ossia, a partire dalle loro categorie rappresentate astrattamente. Questo atteggiamento non significa, però, l’ammissione dell’impossibilità di conoscere l’individuo nella sua immanenza. Al contrario, per la sua natura sociale, lo si potrà comprendere soltanto a partire dall’analisi delle sue realizzazioni, ossia, dall’esteriorizzazione di quelle finalità che sono state possibili per l’attività reale della sua esi- stenza sociale. Il lavoro sarà, allora, la pista che permetterà di riconoscere l’individuo nella sua relazione «critico-pratica» come essere capace d’intervenire nel mondo.
A partire dai fondamenti onto-metodologici del pensiero di Marx, Lukács cerca dunque di analizzare l’essere sociale nella sua complessità. Per fare ciò, trova nel lavoro (in quanto rap- presentazione concreta delle aspirazioni degli esseri umani nelle diverse forme di sociabilità) il suo modello di analisi. Servendosi di questo procedimento analitico-astrattivo, in un primo momento decompone la totalità sociale, per ritornare, in un secondo momento e a partire dal fondamento ottenuto, al complesso dell’essere sociale e, in questo modo, comprenderlo nel suo carattere di totalità. Su questo procedimento metodologico, è importante la sua osservazione:
Bisogna però non dimenticare mai che, considerando così isolatamente il lavoro, si compie un’astrazione. La.socialità, la prima divisione del lavoro, il linguaggio, ecc. sorgono bensì dal lavoro, non però in una successione temporale che sia ben determinabile, ma invece, quanto alla loro essenza, simultaneamente. È, perciò, un’astrazione sui generis quella che noi compiamo; dal punto di vista metodologico ha un carattere analogo a quelle astrazioni di cui abbiamo diffusamente parlato analiz- zando l’edificio concettuale del Capitale di Marx (64).
Pertanto, l’analisi di Lukács non prende le mosse da rappresentazioni legate a forme pure o astratte, formulate anteriormente. Per lui, il complesso dell’essere sociale dev’essere considerato insieme «alla loro essenza», e può essere compreso non solo come dato meramente rappre- sentato, ma può anche essere concepito nella sua totalità reale, espressa in concetti.
Attraverso questo processo di astrazione si riconosce, nelle forme «apparenti» della vita sociale, il risultato delle mediazioni, stabilite come sintesi dell’azione collettiva degli individui nel loro carattere di genere. Con questo procedimento, ci sarebbe così un superamento dell’im- mediato, ed il fatto già si mostra nuovo, poiché, a partire dalle implicazioni percepite, presenti nello stesso processo di lavoro, gli individui possono riconoscersi in quanto prodotti e produt- tori della propria attività. Con questo riconoscimento, Lukács rende possibile la comprensione dell’essere umano come individuo e genericità per il fatto di essere il risultato delle obiettiva- zioni create a partire dal suo stesso lavoro. Il lavoro sarà visto, così, come la prima attività che implica un’azione collettiva, considerata essenzialmente sociale e che rende possibile all’uomo il distinguersi dalla natura, passando ad esercitare su di essa la propria azione trasformatrice, diventando responsabile per il proprio destino in quanto essere umano.
4. Finalità e possibilità nella dinamica della vita sociale. Lukács e Aristotele
Dal punto di vista dell’ontologia, Lukács osserva che, nella visione tradizionale, l’essere viene stabilito sulla base di categorie date dal pensiero astratto, in una visione cosmologica universale, che non sempre ha una rappresentatività nella vita sociale. Mette in risalto, però, l’importanza dell’analisi di Aristotele per la comprensione dell’essere, in quanto concezione che costituisce la premessa di tutto l’orientamento metodologico dell’indagine ontologica po- steriore, riconoscendo, nella teoria della dynamis (65), un primo sforzo teorico che permette la comprensione del lavoro nel suo carattere di possibilità e di finalità. A principio delle sue consi- derazioni sul lavoro, Lukács scorge il doppio carattere di questa attività in Aristotele e lo indica:
Aristotele distingue nel lavoro due componenti: il pensare e il produrre. Con la prima viene posto il fine e vengono ricercati i mezzi per attuarlo, con la seconda il fine così posto giunge ad attuazione (66).
Argomenta, ancora, che le formulazioni di Aristotele sulla prassi e sulla poiesis hanno portato un grande contributo a questo tema, influenzando molti pensatori nel corso della storia delle idee e permettendo, posteriormente, allo stesso Marx, la rielaborazione del concetto di prassi. Secondo Aristotele, ogni attività dell’uomo si manifesta in vista di una finalità che, orientata dall’anima, cerca sempre il proprio perfezionamento. In questo senso, la finalità di ogni essere è l’attività, dal momento che è attraverso di essa che si realizza lo scopo dell’anima o dell’essere nella sua immanenza. È questa finalità che unifica i movimenti e le azioni dell’essere orientati dalla ragione che, nel suo intendere, è l’essenza specifica dell’essere umano. Così, la finalità di tutte le attività umane sarebbe la stessa manifestazione della vita nella razionalità.
La teoria di Aristotele porta a scoprire il significato dell’essere o di ciò che gli conferisce il senso dell’essere che è. Essa cerca le connessioni interne che danno impulso all’essere verso quell’obiettivo o finalità determinata. Afferma che sono le cause naturali che portano lo sviluppo dell’essere verso una determinata direzione. In questo modo, tutto è guidato verso una certa direzione da questo impulso interno dell’essere, che proviene dalla stessa natura, dalla sua struttura e dalla sua entelechia (67). Per Aristotele, c’è una chiara contraddizione fra il mondo dei fenomeni apparenti e le verità che possono essere conosciute dall’intelligenza (la scienza stessa – episteme) (68). È attraverso questa contraddizione che l’uomo si spinge alla ricerca della vera essenza delle cose che si «nascondono» dietro le apparenze.
La conoscenza sarebbe, in questa analisi, la ricerca delle serie causali, o ragioni, che unisco- no i principi delle cose fra di loro. Attraverso il metodo (69), è possibile il legame tra l’intuizione e la conoscenza sensibile. C’è, in Aristotele, l’idea dei presupposti di una conoscenza anteriore che non possono essere dimostrati ma soltanto nominati, descritti. A partire da ciò, si stabilisce l’universalità o la generalità della scienza. Per mezzo di questa conoscenza si potrà realizzare ogni attività umana, tanto la prassi, considerata come l’attività etica e politica, come la poiesis, vista come l’attività produttiva.
In Aristotele, tuttavia, ogni metodo d’indagine della realtà ha un elemento che precede l’os- servazione, e che è dato dall’intuizione dei sensi, poiché la realtà oggettiva apparente non è al- tro che la decorrenza di fenomeni da eliminare, giacché «ricoprono» la vera essenza dell’essere nella sua immanenza (70).
La metafisica sarebbe, così, la possibilità della conoscenza più alta, la ricerca cioè dei fondamenti della totalità dell’essere, mentre attraverso l’intuizione siamo capaci di acquisire la sapienza. È solo per mezzo di questa conoscenza che possiamo allontanarci dal mondo delle apparenze e penetrare nell’essenza per svelare l’essere nei suoi fondamenti. Per l’uomo è necessario ricercare le cause che determinano il mondo com’è. Superando i limiti delle opinioni correnti, si arriva alla vera conoscenza o il più vicino possibile ad essa (71). Pertanto, per Aristotele, conoscere è scoprire le cause, in uno svelamento del movimento interno dell’essere, fino ad arrivare alla Causa Prima di tutto questo processo. Per lui, ogni causa è un principio, sia del movimento, sia della stessa esistenza dell’essere, e possiamo intenderla in quattro sensi: mate- ria, forma, motore e fine.
La materia, come pura disponibilità ad essere trasformata in qualche forma, è chiamata ma- teria prima. Se non è determinata dalla forma, essa è caotica e tende a ritornare alla sua forma indeterminata.
A sua volta, la forma è ciò che determina quello che l’essere è in sé e per se stesso. È la forma che permette di definire ciò che l’essere è, attribuendogli il concetto. La forma non è creata, bensì eterna. Non si rinnova nel processo di generazione, originando nuovi esseri della stessa specie. Il composto di forma e materia è la sostanza.
Il motore, cioè, la complessità dell’essere per manifestarsi come essere, ha bisogno di un movimento, di un altro motore (causa efficiente), in un processo continuo fino ad arrivare alla Causa Prima o Primo Motore. La finalità è l’ordinamento dell’Universo, è ciò che dà senso all’essere. Il fine è concepito come causa, ma anche come principio. In questo modo, dire che il fine è il principio equivale a dire che l’essere, quando nasce, porta già in sé il proprio principio. Significa che il suo sistema si chiude in se stesso e si rinnova eternamente, e la sua esistenza è lo stesso processo di realizzazione di questo fine.
Dalla metafisica di Aristotele si ricava che la teoria sarebbe il primo punto in cui si dà il fondamento della prassi umana. La vita razionale degli uomini avrebbe, così, un principio nella teoria che fonda tutta la loro attività pratica. Questa attività, tuttavia, implica sempre una cre- scita, un processo che si mette in cammino a partire da un’origine, evolvendo verso forme finite dell’essere. L’importanza di questa analisi di Aristotele sta nel fatto di avere, nel suo sistema, un’idea di crescita attraverso la conoscenza, e in questo processo esiste sempre la possibilità di una crescita, il cui fine ultimo è la libertà (72).
A partire da questa analisi, ci pare che, in Aristotele, conoscenza, natura e libertà si mostrino separate e autonome. Il fare pratico non ha soltanto il significato di utilità, ma è un modo di manifestazione dell’essere. È attraverso la prassi che l’essere si manifesta ed evolve. In questo modo, teoria e pratica si armonizzano. L’attività pratica esercita un influsso sulla teoria e, seb- bene sia l’essere il principio di tutto, è la finalità che spiega la nozione di essere perfetto e finito. Attraverso questa riflessione vediamo che, se l’essere umano è orientato dalla razionalità, tutte le sue azioni si dirigono armoniosamente verso la causa finale. E, al contrario, quand’egli svincola le proprie azioni da questa finalità, c’è un distanziamento dalla sua stessa natura nel suo carattere sociale. Negare la causalità, in questo processo, è non permettere un’articolazione armoniosa delle potenze e delle facoltà degli stessi uomini.
Conclusione
Sulla base della dynamis aristotelica, Lukács afferma che anche nella vita sociale possiamo comprendere l’evoluzione della società nel suo carattere di possibilità. Riconosce nella sociabi- lità un processo orientato verso una finalità, e che la vita degli uomini acquista significato nella misura in cui si producono le nuove forme di esistenza sociale. Le forme originarie (società più semplici) sarebbero subordinate alle loro forme posteriori (società più complesse), nonostante le specificità di ogni grado di cui si compone l’essere.
Nella misura in cui le forme originarie sono presenti nelle nuove forme dell’essere della società, c’è sempre un vincolo fra le nuove necessità e le necessità dell’essere sociale nella sua genesi, cioè la natura stessa dell’uomo.
Siccome le società più semplici porterebbero, nella loro stessa genesi e in quanto possibilità, gli elementi che costituiranno le nuove sociabilità nelle loro forme più complesse, le forme di essere anteriori starebbero, in questo processo, fornendo il supporto ontologico che renderebbe possibile l’emergenza di nuovi gradi in cui il nuovo stampo dell’essere sociale sarebbe fondato, incamminandosi verso società sempre più complesse, e la finalità del lavoro troverebbe il suo senso in quanto istanza di necessità che si stabilirà per la vita in gruppo.
Mentre la finalità, in Aristotele, si trova già nella genesi dell’essere, per Lukács le nuove possibilità presenti nel processo di lavoro si moltiplicano per la stessa relazione stabilita nelle molteplici e complesse manifestazioni della realizzazione delle finalità. In modo diverso da Ari- stotele, in Lukács il processo storico non porta in sé il proprio fine ultimo in forma determinata. La relazione tra finalità e oggettività può formarsi in diversi modi a seconda delle particolarità di ogni formazione sociale. All’interno della complessità propria della totalità sociale nelle società più evolute, le azioni degli uomini potranno orientarsi verso possibilità sempre nuove. Così, ogni momento diventa unico e le combinazioni tra le possibilità che cominceranno a par- tire da quel momento saranno infinite.
Nonostante il predominio delle condizioni a cui gli uomini sono sottomessi, essi possono orientare questo processo verso una direzione o verso un’altra, rompendo ad ogni momento i vincoli con la forma anteriore che l’ha generato. Se non fosse così, essi non avrebbero mai potuto superare la loro condizione di natura originaria nel processo di rottura con l’ambiente naturale, creando le mediazioni per un’esistenza sociale sempre più complessa e ramificata.
Questo approccio porta alla luce considerazioni importanti di carattere metodologico per la comprensione dell’essere umano e del processo della sua storicità. Così, come momento di realizzazione effettiva delle aspirazioni umane in una certa situazione di esistenza, il lavoro sarebbe l’unico elemento capace di spiegare gli andamenti dell’uomo nella sua vita in società, dato che permetterebbe, attraverso un’analisi post festum, la ricostruzione dei suoi modi di vita nel corso del suo sviluppo. Però, in Lukács, questo sviluppo non segue una linearità, ed il passaggio da una forma di essere ad un’altra avviene in forma di rottura, poiché contiene in sé un salto ontologico e, pertanto, manca un’evoluzione orientata verso un fine determinato. Solamente il lavoro, come forma originaria che ha generato questa nuova forma di essere, permane come filo conduttore che garantisce una continuità del processo storico-sociale, ma sempre in combinazioni molteplici, che rendono possibili risultati a loro volta molteplici, e che, spesso, sfuggono al controllo cosciente degli uomini.
Se, in Aristotele, si trova un finalismo e, per questo, possiamo ammettere soltanto la cono- scenza delle cose quando di fatto conosciamo il fine per il quale esse esistono, cioè il loro fine ultimo, in Lukács, al contrario, c’è sempre la possibilità di una trasformazione della realtà. Il lavoro è così la possibilità immanente della conoscenza necessaria attraverso cui gli uomini, in un atto decisivo di autonomia e scelta tra le varie alternative presenti nelle sfera della vita sociale, rendono possibile questa trasformazione, avviandosi verso forme sempre più elevate di essere.
[Traduzione dal portoghese di Matteo Raschietti, rivista da Marco Vanzulli]
Note
1 N. Tertulian, L’évolution de la pensée de Georg Lukács, «L’Homme et la Société» 20 (1971), p. 15 sgg.
2 G. Lukács, Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, tr. it. di A. Scarponi, Milano, Guerini e Asso- ciati, 1990, p. 3.
3 E. Vaisman, Dossiê Marx: itinerário de um grupo de pesquisa, «Ensaios Ad Hominem», 1, tomo IV, Santo André/Ijuí, Estudos e Edições Ad Hominem, Editora Unijuí, 2001, p. V.
4 Ivi, p. III.
5 Ibidem.
6 G. Lukács, Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo, tr. it. di A. Scarponi, Roma, Editori Riu- niti, 1983, p. 191.
7 Ibidem.
8 N. Tertulian, La rinascita dell’ontologia, tr. it. di G. Persanti, Roma, Editori Riuniti, 1986, pp. 8 e 9.
9 Ibidem.
10 E. Vaisman, O «Jovem» Lukács: Trágico, Utópico, Romântico?, «Kriterion» 112 (2005), pp. 293-310.
11 Ivi, p. 294.
12 N. Tertulian, L’évolution de la pensée de Georg Lukács cit., p. 15.
13 Ibidem.
14 Ibidem.
15 E. Vaisman, O «Jovem» Lukács: Trágico, Utópico, Romantico? cit., p. 294.
16 Si tratta di un’intervista a István Eörsi ed Erzsébet Vézer, a partire da uno schema scritto da Lukács. Eörs, scrive una nota iniziale in cui compare questo chiarimento: «Quando György Lukács venne informato della gravità della sua malattia, si mise a lavorare intensamente per portare a termine, a ritmo accelerato, la revisione dell’Ontologia dell’essere sociale. Il rapido peggioramento del suo stato di salute, gli impe- diva tuttavia di compiere quel lavoro, per lui cosi importante, ad un livello che fosse all’altezza dei suoi canoni di qualità. Decise, quindi, di buttar giù un abbozzo di autobiografia, in parte per il minore impegno teorico che tale attività comportava, in parte per rispondere a un desiderio della moglie defunta. Ma, una volta pronto l’abbozzo, fu evidente che non aveva più l’energia per elaborarlo in uno scritto esauriente. Perfino il puro atto manuale di scrivere era diventato qualcosa che oltrepassava sempre più le sue forze. Poiché, però, non avrebbe tollerato di rimanere inattivo, seguì il consiglio degli allievi che gli erano vicini, cioè di parlare della sua vita in presenza di un registratore. Cosa che fece, pur con uno sforzo sempre più pesante, rispondendo alle domande di Erzsébet Vezér e mie sulla traccia del suo abbozzo autobiográfico» (G. Lukács, Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo cit., p. 23).
17 E. Vaisman, O «Jovem» Lukács: Trágico, Utópico, Romantico? cit., pp. 295-296.
18 N. Tertulian, L’évolution de la pensée de Georg Lukács cit., p. 17.
19 Ivi, p. 20.
20 G. Lukács, La teoria del romanzo, tr. it. di F. Saba Sardi, Parma, Pratiche, 1994, p. 44.
21 G. Lukács, Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo cit., p. 59.
22 G. Lukács, La teoria del romanzo cit., p. 52.
23 G. Lukács, Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo cit., p. 59.
24 N. Tertulian, L’évolution de la pensée de Georg Lukács cit., p. 25.
25 E. Vaisman, A Determinação marxiana da ideologia, Universidade Federal de Minas Gerais, FaE (tesi di Dottorato), 1996, p. 57.
26 G. Lukács, Prefazione del ̓67 a Storia e coscienza di classe, tr. it. di Giovanni Piana, Milano, Sugar, 1967, p. VIII.
27 Ivi, p. XVI.
28 «Per molto tempo un equivoco terribile, carico di vari significati, ha aleggiato su questo libro, che Lukács ha rifiutato, energicamente, in una serie di testi scritti tra il 1930 e il 1940. La Prefazione del 1967 non è quindi stato il primo. Gli ammiratori zelanti di un’opera considerata capitale per il marxismo del XX se- colo hanno continuato a considerarlo con rispetto, attribuendone la disapprovazione, da parte dello stesso autore, alla coercizione cui Lukács era stato sottoposto (l’opera di Lukács e quella di Karl Korsch vennero denunciate da Zinoviev nel V Congresso dell’Internazionale Comunista, nel 1924, tacciate come eretiche e revisioniste. Allo stesso tempo, Kautsky, nella sua rivista «Die Gesellschaft», e i socialdemocratici criticarono Korsch e Lukács da un altro punto di vista)» (N. Tertulian, L’évolution de la pensée de Georg Lukács cit., p. 25).
29 Cfr. G. Oldrini, Alle radici dell’ontologia (marxista) di Lukács, «Giornale Critico della Filosofia Italiana»
76 (1997), pp. 1-29.
30 N. Tertulian, Lukács Hoje, in Lukács e a atualidade do marxismo, São Paulo, Boitempo, 2002, pp. 27-48 [testo pubblicato originalmente in portoghese].
31 Esteta e filosofo con cui Lukács ha convissuto nel primo dei suoi due esili in Unione Sovietica. Nella Prefazione al suo volume antologico Arte e Società, pubblicato a Budapest nel 1968, dichiara: «All’Isti- tuto Marx-Engels, ho conosciuto e ho lavorato con Michail Lifschitz, con il quale, nel corso di lunghi e amichevoli colloqui, ho discusso le questioni fondamentali del marxismo. Il risultato teorico più impor- tante di questo chiarimento è stato il riconoscimento dell’esistenza di un’estetica marxista autonoma e unitaria. Quest’affermazione, indiscutibile oggigiorno, sembrava all’inizio degli anni Trenta un paradosso addirittura per molti marxisti» (G. Lukács, Arte e società. Scritti scelti di estetica, tr. it. di E. Arnaud et al., Roma, Editori Riuniti, 1972, vol. I, p. 11). È importante rammentare come in questo campo imperassero ancora le concezioni proprie del quadro di idee formulato dalla Seconda Internazionale.
32 G. Oldrini, Alle radici dell’ontologia (marxista) di Lukács cit., p. 5.
33 G. Lukàcs, Democracia Burguesa, Democracia Socialista e outras questões, in «Nova Escrita/Ensaio», 8 (1981), p. 49. Si tratta dell’intervista rilasciata alla sede distaccata della «New Left Review» a Budapest nel 1968, e pubblicata nel numero 68 della stessa rivista nel 1971.
34 Cfr. G. Lukács, Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo cit., pp.190-191.
35 G. Oldrini, Alle radici dell’ontologia (marxista) di Lukács cit., p. 20.
36 Ivi, p. 2.
37 Ivi, p. 3.
38 Ivi, pp. 3-4.
39 W. Abendroth, H.H. Holz e L. Kofler, Conversazioni con Lukács, tr. it. di C. Pianciola, Bari, De Donato, 1968, pp. 12-13.
40 G. Oldrini, Alle radici dell’ontologia (marxista) di Lukács cit., p. 4. Oldrini si riferisce a G.I. Mezei (a cura di), Ist der Sozialismus zu retten? Briefwechel zwischen Georg Lukács und Werner Hofmann, Buda- pest, Georg-Lukács-Archiv/T-Twins Verlag, 1991, p. 21.
41 G. Oldrini, Alle radici dell’ontologia (marxista) di Lukács cit., p. 20.
42 Ibidem.
43 N. Tertulian, Nicolai Hartmann et Georg Lukács. Une alliance féconde, «Archives de Philosophie» 66 (2003), p. 671.
44 G. Oldrini, Alle radici dell’ontologia (marxista) di Lukács cit., p. 23.
45 Citato in ibidem.
46 N. Tertulian, Lukács: la rinascita dell’ontologia, Roma, Editori Riuniti, 1986, p. 11. Il riferimento è a una lettera del 10 maggio 1960 indirizzata a Ernst Fischer nella quale Lukács annuncia la conclusione dell’Estética e l’intenzione di «avere tra le mani al più presto l’Etica».
47 N. Tertulian, O Grande Projeto da Ética, «Ensaios Ad Hominem» 1 (1999), p. 126.
48 N. Tertulian, Introduzione a G. Lukács, Prolegomeni all’Ontologia dell’essere sociale cit., p. IX.
49 Ivi, p. XI.
50 Ibidem.
51 F. Féher, A. Heller, G. Márkus, M. Vajda, Annotazioni sull’ontologia per il compagno Lukács (1975),
«Aut aut» (fascicolo speciale) 157-158 (1977), pp. 21-41.
52 N. Tertulian, Introduzione a G. Lukács, Prolegomeni all’Ontologia dell’essere sociale cit., p. XI.
53 Ivi, p. XII, ove Tertulian aggiunge: «L’edizione ungherese dell’Ontologia, d’altronde, ha scelto di collo- carli alla fine dell’opera, come un terzo volume, mentre l’editore tedesco ha preferito attenersi alla lettera del progetto di Lukács».
54 Si tratta della valutazione data a questo problema da Carlos Nelson Coutinho. La sua posizione, al riguar- do, è la seguente: «In questo secondo manoscritto [i Prolegomeni], Lukács non sembra essere riuscito a realizzare le proprie intenzioni. Le lacune del metodo di esposizione si accentuano (il testo diviene ripetitivo in modo snervante, senza che la ripresa dello stesso tema presenti nuove determinazioni degli oggetti analizzati, come avveniva chiaramente nell’Estetica» (C.N. Coutinho, Lukács, a ontologia e a política, in R. Antunes e W.D.L. Rêgo (orgs.), Lukács: um Galileu no século XX, São Paulo, Boitempo, 1996, pp. 20-21.
55 N. Tertulian, Introduzione a G. Lukács, Prolegomeni all’Ontologia dell’essere sociale cit., p. XXIV.
56 G. Lukács, Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale cit., p. 40.
57 Ibidem.
58 Ivi, p. 43.
59 Ivi, pp. 45-46.
60 G. Lukács, Per l’ontologia dell’essere sociale, a cura di A. Scarponi, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 19.
61 Ivi, p. 23.
62 G. Lukács, Die ontologischen Grundlagen des menschlichen Denkens und Handelns, in R. Dannemann e W. Jung, Objektive Möglichkeit: Beiträge zu Georg Lukács «Zur Ontologie des gesellschaftlichen Seins», Opladen, Westdeutscher Verlag, 1995, p. 32.
63 Sulle considerazioni di Marx contro il materialismo anteriore, cfr. G. Lukács, Per l’ontologia dell’essere sociale cit., p. 262.
64 G. Lukács, Per l’ontologia dell’essere sociale cit., p. 14.
65 Il termine dynamis, tradotto anche come «potenza» da alcuni autori, ha qui il senso di poter essere. Mettiamo in risalto che la traduzione con «possibilità» (Vermögen) è dello stesso Lukács. Cfr. Aristotele, Metafisica Δ.12,1019a 15.
66 G. Lukács, Per l’ontologia dell’essere sociale cit., p. 24.
67 Cfr. Aristotele, Metafisica K 9, l065 b.
68 Episteme o la stessa scienza, che per i greci ha il senso del sapere che implica un fondamento ultimo.
69 Metodo indica il cammino che deve essere percorso dalla ricerca.
70 Cfr. Aristotele, Metafisica, IV, 6, l011a.
71 Noesis può essere intesa anche come lo stesso pensiero divino che cerca se stesso. Cfr. Aristotele, Metafi- sica, IX, 6, l048 a,b.
72 Su questo concetto di libertà in Aristotele, cfr. V. Armella, El concepto de técnica, arte e produción en la filosofia de Aristóteles, México, Fondo de Cultura Econômica, 1993.