Gli agganci etici dell’Ontologia di Lukács

di

GUIDO OLDRINI

Ogni buon conoscitore dell’Ontologia di Lukács (1) sa della genesi assai difficoltosa e incerta dell’opera (2); sa che, a dispetto della sua imponenza, essa è una creazione non originaria ma derivata, e derivata precisamente da un antecedente progetto di etica, cui da tempo l’autore stava pensando e lavorando (ci sono persino studiosi convinti, a torto, che la sua stesura renda definitivamente superflua la stesura dell’etica). Dopo l’avvio del lavoro all’Ontologia, l’etica come tema specifico viene messa provvisoriamente da parte, né purtroppo l’autore ha più modo e tempo in seguito di tornarvi sopra, sebbene ne mantenga sino alla fine la speranza; tanto è vero che – senza nemmeno bisogno di ricorrere alle testimonianze private dell’epistolario (scambio di lettere con Ernst Bloch, con Adam Schaff, con il curatore della edizione dei suoi Werke, Frank Benseler, e con altri colleghi stranieri ancora) – chi scorra le pagine conclusive del testo postremo dell’autore, i Prolegomena all’Ontologia, si imbatte ripetutamente in note a piè di pagina, dove egli conferma il suo intento di elaborare, a prosecuzione del lavoro ontologico già svolto, «una teoria storico-sociale delle attività umane», cioè a dire appunto un’etica marxista. Come che sia, ontologia ed etica stanno in Lukács fin da principio interrelate; lo slogan di continuo ricorrente nelle sue pagine, soprattutto negli appunti dei Versuche zu einer Ethik3, «Keine Ethik ohne Ontologie», sta lì a provarlo meglio di ogni altro argomento. Ma la storia dei rapporti tra le due opere non finisce con questa premessa. Il passo ulteriore verso l’etica, le tracce profonde lasciate in essa dal suo nesso generativo con l’Ontologia o, per esprimermi al- trimenti, gli stretti agganci ontologici dell’etica non cancellano la valenza della reciproca, cioè a dire gli agganci etici già ben manifesti nell’Ontologia stessa. Credo quindi possa riuscire di qualche utilità un loro riesame in breve, volto al chiarimento di quanti, quali e di qual portata siano questi agganci, soprattutto di come essi operino spianando i lineamenti della via marxista di Lukács all’etica. Senza naturalmente la pretesa di schizzarne il repertorio completo, tanto meno poi di sondarli in profondo dal punto di vista critico, se ne tenta qui di seguito nulla più che una ricostruzione sommaria.
1. Sta nella natura propria dell’ontologia, così come la intende e la argomenta Lukács, cioè come «ontologia dell’essere sociale», che al suo più alto livello essa sbocchi nella determi- nazione del comportamento etico dell’uomo, nella disamina delle condizioni a cui soltanto l’etica può venir riconosciuta come tale e nella esplicitazione di che cosa realmente significhi per l’uomo il suo innalzamento al livello di «persona». Ora la linea di congiunzione principale dell’ontologia con l’etica passa dal riconoscimento che, stante l’unitarietà dell’essere sociale, unitaria deve altresì risultare la sua concezione, e che perciò tutto il campo di questioni tradizio- nalmente demandato all’etica e fondato sulla «libertà morale» non può venir disgiunto in alcun modo, come un che di autonomo (secondo la via kantiana), dalla sfera dell’essere in generale. Naturalmente nell’Ontologia non si trovano risposte già pronte alle domande e istanze etiche; le sue formulazioni suonano sempre soltanto come provvisorie, come lo sfondo generalissimo di semplici ipotesi o di suggerimenti teorici; muovendosi ancora solo «sul terreno della pura ontologia generale», esse stanno in attesa che una teoria etica sviluppata, cui talora nell’opera si rimanda esplicitamente, le assuma, le rielabori, le integri e le connetta insieme in un tutto dottrinalmente organico e articolato. Da punto di partenza per il nesso con l’etica fa l’oggettività dell’essere in quanto tale. È l’on- tologia a fornire il terreno oggettivo della costruzione, un’oggettività per altro indirettamente già venuta alla ribalta nel campo di trattazione lukacsiana dell’estetica. Se il nesso tra estetica ed etica corre come un ininterrotto filo rosso lungo tutta l’opera di Lukács, nella sua estetica matura, nella grande Estetica, esso è in più luoghi tematizzato espressamente. Numerose que- stioni che lo concernono sono già infatti per loro conto necessariamente ontologiche. A voler- ne ricordare, di scorcio, solo alcune: l’immanenza come esigenza imprescindibile del formare artistico; il fattore etico implicito in quello che Lukács chiama «il cammino del soggetto verso il rispecchiamento estetico»; il ruolo intermedio, espresso dalla categoria della particolarità (Besonderheit), che entrambe le discipline hanno tra universalità e individualità, pur con tutte le discrepanze dovute alla loro diversa collocazione e funzione nell’ambito dell’essere sociale. Dopo che il discorso dell’Estetica cade sulla «missione dell’arte come memoria dell’umani- tà», sollevando «la questione del dover-essere nel rispecchiamento mimetico-evocativo della realtà nei suoi effetti adeguati», ecco che a Lukács viene subito fatto di chiosare: «I problemi che abbiamo trattato da ultimo sono già, intrinsecamente, di natura etica»4. Ciò accade poi di nuovo quando la trattazione verte su complessi categoriali come la categoria della particolarità, la problematica artistica del piacevole e della bellezza naturale, l’innalzamento della soggetti- vità creativa al livello dell’universale umano, caso, quest’ultimo, dove più stretti e pronunciati si fanno i rapporti tra le due sfere e si appalesa anche l’esistenza di un terreno a loro comune: fermo naturalmente restando che, in ragione della loro autonomia reciproca, il «dover essere» dell’una non possiede la stessa valenza né lo stesso significato che ha per l’altra. A riprova di quanto la rilevanza del contrasto tra immanenza e trascendenza in estetica faccia da ponte di trapasso essenziale con l’oggettività dell’Ontologia mi limito a richiamare i passi dove, insistendo sulla funzione emancipatrice dell’arte da ogni vincolo religioso-trascendente, Lukács mostra come culmini nella «mondanità [Welthaftigkeit] dell’etica» quell’orientamento all’immanenza che già l’estetica esibisce5. Essa si porta ideologicamente dietro la convinzione che in tutte le comunità umane gli imperativi morali funzionano solo e finché sono immanenti al mondo, che ogni «dover essere» socialmente conseguente si regge su una regolamentazione  i cui princípi vengono non dal di fuori ma dalla struttura intrinseca, dall’«in-sé oggettivo» delle comunità stesse. Già vitale in forma onnicomprensiva durante l’età classica (Aristotele, Epi- curo), recuperato ideologicamente nel corso dell’età moderna (Machiavelli e Hobbes, Spinoza e Goethe), lo spirito di una tale etica dell’immanenza in senso marxista impone scelte precise: la lotta senza quartiere contro ogni ideologia di natura spiritualistica o trascendente, compresa quella mistificata forma di trascendenza che è l’«ateismo religioso», il superamento e rovescia- mento materialistico dell’ideologia della trascendenza e in più, come tratto marxista specifico, una concezione dell’immanentismo (del materialismo) non meccanicistica ma dialettica. Quale che sia però la valenza di queste teorie e formulazioni nell’Estetica, poiché il vero campo di battaglia tra immanenza e trascendenza resta tuttavia, con la sua concretezza, proprio l’etica, è ai nessi categoriali stabiliti dall’Ontologia che bisogna ricorrere, se si vuole afferrare il giusto senso dialettico di questo immanentismo: segnatamente a tutta la lunga serie di analisi dell’Ontologia sfocianti nel riconoscimento che fattore ontologicamente decisivo nel processo attivato dal lavoro è il rapporto tra le categorie di teleologia e causalità.
A suo tempo Hegel, svolgendo un’analisi concreta della dialettica del lavoro, «mostrando il posto concreto che la finalità umana consapevole occupa all’interno del contesto causale complessivo», come farà poi anche Marx nel Capitale, aveva già colto quel rapporto con un acume tale da indurre Lenin a parlare di spunti precisi di precorrimento del materialismo storico6. Lukács vi si riattacca di- rettamente. Sulla falsariga di Marx, egli rileva una concreta coesistenza reale e necessaria fra causalità e teleologia. Queste restano certo contrap- poste, ma soltanto entro un processo reale unitario, la cui mobilità è fondata sulla interazione di questi opposti e che, per tradurre in realtà tale interazione, fa sì che la causalità, senza per altro toccarne l’essenza, divenga anch’essa posta [II, p. 17; tr. it., II/1, p. 24].

Insomma, se la ricerca dei mezzi adatti per attuare i fini del lavoro implica la conoscenza dei rapporti causali effettivi, la posizione dei fini esige una scelta tra possibili alternative, l’in- serimento nei rapporti causali di combinazioni del tutto nuove, la modifica del loro modo di operare. Ma, dato che ciò può avvenire solo entro l’ontologica insopprimibilità delle leggi della na- tura, l’unico mutamento delle categorie naturali può consistere nel fatto che esse – in senso ontologico – vengono poste; il loro esser-poste è la mediazione del loro subordinarsi alla deter- minante posizione teleologica, per cui al contempo dell’intrecciarsi, posto, di causalità e tele- ologia si ha un oggetto, processo ecc. unitariamente omogeneo [cfr. II, p. 20; tr. it., I/1, p. 27].
Vediamo così fare la sua comparsa, tra i «mutamenti ontologici» fondamentali che il salto dalla sfera dell’essere biologico alla sfera dell’essere sociale provoca nell’uomo, il fenomeno di «una prassi caratterizzata dal dover-essere (vom Sollen)», categoria che per Lukács – come già per Hegel – si dà nella sua forma «elementare, iniziale, originaria dell’esistenza umana», connessa direttamente con «l’essenza teleologica del lavoro». Anche in questo caso infatti egli prende le mosse «dalla compresenza ontologica di teleologia e causalità posta, giacché il nuovo che sorge nel soggetto è un risultato necessario di questa costellazione categoriale»:  il momento determinante immediato di ogni azione intenzionata come realizzazione non può non presentarsi come dover-essere, non fosse altro perché ogni passo avanti nella realizzazione viene deciso stabilendo se e come esso favorisca il raggiungimento del fine [II, p. 61 sgg.; tr. it., II/1, p. 71 sgg.].

Ne risulta invertito il decorso naturale ordinario, dove il soggetto ha sempre solo a che fare con una causalità necessaria e non, come qui, con una «causalità posta». Lukács precisa:
La posizione di un fine rovescia […] questo andamento: il fine è (nella coscienza) prima della sua realizzazione e nel processo che vi conduce ogni passo, ogni movimento viene guidato dalla posizione del fine (dal futuro). Sotto questo profilo il significato della causalità posta consiste nel fatto che gli anelli, le catene causali ecc. vengono scelti, messi in movimento, lasciati al loro movimento ecc., per favorire la realizzazione del fine stabilito all’inizio [II, p. 61 sgg.; tr. it., II/1, p. 71 sgg.].

Da una tale dialettica del dover-essere nel lavoro, come categoria dell’essere sociale, scaturisce altresì la categoria del valore, di nuovo anzitutto in senso economico. Economicamente parlando, ogni lavoro comunque intenzionato ha per suo effetto necessario un qualche genere di valore economico (valore d’uso, valore di scambio), la cui proprietà specifica sta in ciò, che esso «è nello stesso tempo valore (porre alternativo) e legge oggettiva». Lukács vi si riporta, sottolineando energicamente non solo il suo già implicito «connotato ontologico» ma anche le «tendenze del suo dispiegarsi»:
A questa oggettività bisogna perciò tener fermo, anche se – o perché – con questo si è ancora molto lontani da una esposizione completa del fenomeno ontologico stesso. Il fatto che venga designato come valore – praticamente in tutte le lingue – non è per nulla accidentale. Il rapporto reale, oggettivo, indipendente dalla coscienza, che qui noi designiamo con il termine valore, è infatti, senza pregiudizio di questa sua oggettività, – in ultima analisi, ma solo in ultima analisi, – anche il fondamento ontolo- gico di tutti quei rapporti sociali che noi chiamiamo valori; e per questo tramite anche di tutti quei tipi di comportamento socialmente rilevanti che vengono chiamati valutazioni [I, p. 617; tr. it., I, p. 326].

È dunque proprio a partire dal condizionamento del retroterra oggettivo dei valori, da questo loro fermo, insopprimibile radicamento sul terreno ontologico, che possono venir compiuti passi avanti importanti per la teorizzazione del loro «dispiegamento» in valori non economici (o non più solo economici) e con ciò, insieme, per l’intelligenza della dialettica che si instaura tra loro, secondo i princípi della teoria marxiana. Appartiene alla natura del metodo dialettico, oltre che ai convincimenti personali di Marx, che nell’ambito dell’essere sociale l’elemento econo- mico (le legalità economiche oggettive) e quello extraeconomico (le posizioni teleologiche, le scelte ideali alternative) si convertano di continuo l’uno nell’altro, stiano cioè in interazione reciproca. Tutto insomma, spiega Lukács nell’Ontologia, sempre con riferimento primario agli atti propri del processo del lavoro,  avviene nel quadro di un complesso reale inscindibile: dal punto di vista ontologico non si tratta di due atti autonomi, uno ideale e uno materiale, che in qualche maniera vengono a collegarsi tra loro e ciascuno dei quali, nonostante questo collegamento, mantiene la propria essenza; invece la possibilità di ognuno dei due atti, isolabile solo nel pensiero, è vincolato con necessità ontologica all’essere dell’altro [II, p. 297; tr. it., II/2, p. 335].

Quanto più la società si socializza, tanto più i suoi processi costitutivi, ideali e materiali, mostrano una inscindibile coesistenza; dove, per «la totalità dell’essere sociale», come ribadiscono i Prolegomena [I, p. 308; tr. it., p. 331], «la coesistenza – essendo il motore storico – resta il fattore ontologico fondamentale». Lo prova al meglio proprio l’analisi marxista del   duplice significato che ha la categoria del valore. Esso, da un lato, sorge e si dispiega anzitutto in correlazione con la crescita oggettiva delle forze di produzione, come prodotto dello sviluppo sociale; dall’altro, in quanto valore sociale (ideale in genere), esso si innalza oltre il terreno dell’economia, cioè «tende a chiamare in vita mediazioni sociali in cui si hanno tipi di alternati- ve qualitativamente nuovi, che non è possibile dominare in termini solo economici». Ma se l’un lato si lega all’altro nel senso che il valore economico funge da «motore della trasformazione in fatto sociale di ciò che è puramente naturale, del completarsi della umanizzazione dell’uomo nella sua socialità» [I, p. 678; tr. it., I, pp. 390-391], ciò avviene senza che ne vada, per via di questo legame, dell’essenza e della qualità intrinseca del valore stesso. La «funzione ontologica primaria», fondante, dell’economia, teorizzata dal marxismo, non implica nessuna gerarchia di valore. Essa fa rilevare soltanto il semplice stato di fatto, confor- me all’essere, che una determinata forma dell’essere è l’insopprimibile base ontologica di un’altra, e il rapporto non può essere né inverso né reciproco. Una tale constatazione è in sé del tutto avalutativa [II, p. 78; tr. it., II/1, p. 90].

Riassumendo, al valore socialmente inteso non si giunge che mediante atti consapevoli. D’altronde il riconoscimento del carattere fondativo di ogni decisione alternativa presente nel processo del lavoro si trae già di per sé dietro – quale che sia il campo investito da tale decisio- ne – un concetto generale di valore, ossia «la polarità alternativa fra valido e non-valido» [II, p. 313; tr. it., II/2, p. 353]: polarità che l’Ontologia mette bene in guardia fin da subito, nella sua parte storica, dall’interpretare secondo moduli d’ordine volontaristico o soggettivistico [I, p. 616 sgg.; tr. it., I, p. 325 sgg.]. Fondamento ontologico oggettivo, creazione di valori a carattere sociale e valutazioni mantengono una interdipendenza continua, da Lukács riassunta così:

Noi riteniamo: la necessità sociale per cui i valori vengono posti è con eguale necessità ontolo- gica al contempo presupposto e conseguenza del carattere alternativo degli atti sociali degli uomini. Nell’atto dell’alternativa è necessariamente contenuta anche la scelta fra ciò che ha valore e ciò che è contrario al valore [I, p. 677; tr. it., I, p. 390].  Lì il valore, ogni genere di valore, ha la sua fonte: il che conferma una volta di più, se mai occorresse ancora, l’incidenza risolutiva dell’ontologia, il peso che essa riveste nella genesi di tutte le determinazioni categoriali aventi un ruolo in ambito assiologico.

2. Ma la questione non si esaurisce nella genericità di un semplice rimando al terreno dell’assiologia. Anche quanto Lukács dice circa l’altro, più delicato problema in questione, la genesi delle determinazioni di valore a carattere etico, presuppone i nessi categoriali stabiliti dall’On- tologia. Ogni qualvolta essa chiama in causa l’individuo, segnatamente nel capitolo della sezio- ne sulla riproduzione concernente «La riproduzione dell’uomo nella società» [II, p. 227 sgg.; tr. it., II/1, p. 256 sgg.], l’insorgenza nel comportamento umano di valori propri alla sfera etica, se non sono quelli che tengono banco, debbono venire almeno evocati; e anche qui, come in tutti gli altri casi del genere, Lukács li evoca per semplici cenni, rinviando il nocciolo della questio- ne a una trattazione ulteriore (alla sua teoria etica in progetto). Che cosa propriamente significa la formula Keine Ethik ohne Ontologie? In che senso l’etica presuppone un fondamento ontologico? Riportiamoci alle considerazioni testé svolte. Abbiamo visto essere una conseguenza dell’accettazione a titolo prioritario della teoria materialistica marxiana dell’oggettività, conseguenza già implicita nell’ontologia, che l’oggettività, la base materiale, stia a fondamento anche del giro di problemi dell’essere sociale in ogni suo ambito.

Lo stesso deve dunque aver luogo anche per le determinazioni di valore riguardanti l’etica. Anche lo specifico tipo di prassi umana che interessa l’etica è l’agire in base a princípi derivanti da posizioni teleologiche consapevoli, le quali presuppongono a loro volta, come loro condizione indispensabile, la libertà di scelte tra alternative. Culmina infatti qui, con l’etica, la cerchia dei problemi di quell’ontologia di secondo grado, dove l’oggettività naturale primaria viene innalzata a nuova formazione, a oggettivazione di carattere sociale, al livello cioè che Lukács chiama appunto «seconda natura». Nei Versuche egli annota in proposito: «Trapasso effettivo dall’oggettività al comportamento (ontologicamente non separabili l’uno dall’altra), ma senza soppressione dell’oggettività reale» (7).
Nell’etica si va però al di là del semplice «dover essere» concernente l’individuo. Fin dall’epoca del suo protomarxismo (Storia e coscienza di classe, saggio su Moses Hess) Lukács batte sul punto che «la prassi dell’azione individuale» ristretta al «dover essere» nel senso di Kant «non può essere che una prassi apparente», incapace «di scuotere le fondamenta della realtà»; e, contrapponendo a Kant, con tutte le riserve del caso, «il realismo di Hegel», ammonisce che non il «dover essere», vuota costruzione aprioristica spalancata su un futuro utopico, ma la «dialettica veramente storica» funge da chiave di volta del problema:
Infatti, è proprio nel presente che si può svelare nella sua piena concretezza ciò che è processuale in ogni oggettività, dato che il presente mostra nel modo più evidente l’unità tra il risultato e il punto di partenza del processo (8).

Va da sé che ben altra maturazione il problema ottiene in seguito, grazie all’apparato categoriale dell’Ontologia. Anzitutto essa chiarisce meglio, mediante categorie appropriate, che cosa significa, che cosa comporta e come si determina l’accennato processo di trascendimento dalla morale verso l’etica, dove «la coscienza soggettivo-astratta della moralità» si innalza a «coscienza etico-sociale dell’uomo intero». La moralità non viene da sé a capo del conflitto tra doveri; solo nell’etica si offre lo spazio adatto e lo strumento perché i conflitti si risolvano. L’etica sta infatti, oltre la morale, come categoria che la integra e la supera, sul terreno della concretezza pratica, della realtà umanamente concreta. Del modo in cui l’azione etica scavalca la morale, media tra individuo e società, socializza impulsi e inclinazioni personali9, Lukács dà una esemplificazione motivata e ravvicinata in campo artistico, trattando della Minna von Barnhelm di Lessing10, dramma che si fonda appunto sull’«incessante convertirsi della morale astratta in un’etica umanamente concreta, individualizzata, risultante di volta in volta dalla situazione concreta». Evidente anche qui, per il chiarimento di questa dialettica tra morale ed etica, l’influsso del realismo antikantiano della lezione di Hegel. Con Hegel, Lukács sostiene il carattere storicamente progressivo della trasgressione degli imperativi: non solo cioè che, contro il diniego di Kant, «gli imperativi e i divieti morali generali entrano tra loro in contrasto», generando conflitti, ma che proprio dai conflitti deriva il trapasso dialettico della morale in etica:

Essi formano una questione centrale e ineliminabile di ogni esistenza umana sociale […]. Il conflitto diventa acuto solo quando gli uomini sono messi nell’alternativa fra sistemi morali in lotta fra loro, sono costretti e disposti a compiere una scelta e a trarne tutte le conseguenze. Così – nel conflitto – la sfera morale supera se stessa (11).

In secondo luogo, la sua ontologia a matrice marxista scarta e ricusa per principio ogni agnosticismo etico fondato su assunti del tipo di quello fatto valere da Max Weber, la «impossibilità di sostenere ‘scientificamente’ prese di posizioni pratiche» (Weber, ma anche Rickert, Croce, i pragmatisti ecc.). Altrettanto dicasi riguardo al dilemma weberiano tra etica dell’intenzione ed etica della responsabilità («Scheinantinomie von Gesinnungs- und Folgeethik», la definiscono i Versuche (12), risultando nel marxismo sempre indispensabile la permanenza di entrambi i poli: in quanto, da un lato, la posizione dell’intento teleologico di ogni azione vale in etica come pre- supposto necessario ma non risolutivo, se non viene accompagnato dal processo di causazione degli effetti corrispondenti; mentre, dall’altro, non si danno mai effetti a rilievo etico, che non conseguano a posizioni teleologiche, a precise e prioritarie scelte d’ordine etico.

In terzo e ultimo luogo, questa genesi immanente dei valori da scelte connesse con l’ininter- rotto cangiamento dello status del reale ne comporta inevitabilmente anche la storicità. Dove lo sviluppo economico provoca un mutamento della struttura sociale, si verificano altresì muta- menti qualitativi nelle sue sfere extraeconomiche, inclusa la sfera dei valori etici. Ma – come la metodologia marxista insegna – questa determinatezza storica dei valori, questa loro relatività, è anch’essa solo relativa. Avviene per l’etica, secondo il marxismo, lo stesso di quanto già rico- nosciuto dal Lenin dei Quaderni filosofici per la gnoseologia, cioè che nessuna relativizzazione critica della conoscenza può venir radicalizzata sino a tanto da annullare il suo rapporto con l’assolutezza: «nella dialettica (oggettiva) anche la differenza tra relativo e assoluto è relativa. Per la dialettica oggettiva nel relativo c’è l’assoluto» (13). Analoga la dialettica operante tra i valori etici:

Infatti, nonostante la loro molteplicità, i valori non economici non costituiscono una varietà di- sordinata di meri fatti singoli semplicemente legati al proprio tempo. Poiché la loro genesi reale, per quanto ineguale e contraddittoria, ha luogo a partire da un essere che si svolge secondo un processo – in ultima analisi – unitario e poiché possono coagularsi in autentiche posizione di valore soltanto le alternative socialmente tipiche e significative, al polo opposto il pensiero ordinativo è indotto a omo- geneizzarli in un sistema costruito solamente sul piano del pensiero, regolato secondo forme logiche [I, p. 680; tr. it., I, p. 393].

A questa «falsa antinomia circa la teoria dei valori: relativismo storicistico da un lato, dogmatismo logico-sistematico dall’altro», Lukács oppone il tertium datur ontologico, quello che «prende le mosse dalla continuità reale del processo storico sociale»: Naturalmente occorre rinunciare radicalmente alla ‘eterna’ validità dei valori, trascendente il processo.
I valori sono tutti, senza eccezione, nati nel corso del processo sociale in uno stadio determinato, e per l’appunto in quanto valori […]. La continuità della sostanza nell’essere sociale è però la continuità dell’uomo, della sua crescita, dei suoi problemi, delle sue alternative. E nella misura in cui un valore, nella sua realtà, nelle sue realizzazioni concrete, entra in questo processo, diviene componente attiva di questo, nella misura in cui incarna un momento essenziale della sua esistenza sociale, si conserva con ciò e in ciò la sostanzialità del valore stesso, la sua essenza e la sua realtà [I, pp. 681-682; tr. it., I, p. 394].
I valori etici sono dunque valori in quanto la loro oggettività e storicità stanno in funzione dello sviluppo complessivo della società:

Nella sua determinatezza oggettivo-causale questo forma una mossa totalità; giacché però viene costruito dal sommarsi causale di posizioni alternativo-teleologiche, ogni momento che immediata- mente o mediatamente lo fonda o l’ostacola deve sempre essere fatto di posizioni alternativo-teleolo- giche. Il valore di queste posizioni è deciso dalla loro vera intenzione, divenuta oggettiva nella prassi, intenzione che può dirigersi all’essenziale o al contingente, a ciò che porta avanti o che frena ecc. […]. È per questa via che i valori si conservano nel complessivo processo sociale ininterrottamente rinnovantesi, per questa via essi, a loro modo, divengono parti integranti reali dell’essere sociale nel suo processo di riproduzione, elementi del complesso chiamato essere sociale [II, pp. 85-86; tr. it., II/1, pp. 97-98]. Entrambi i momenti, assolutezza e relatività dei valori, hanno nella dialettica etica il loro ruolo. Il momento della necessità della conservazione dei valori acquisiti dipende dal grado di contributo reale che essi danno allo sviluppo della società.

Se però – avverte Lukács – questo momento viene scorrettamente assolutizzato, si cade in una concezione idealistica del processo storico-sociale; per converso, se viene negato del tutto, si cade in quell’assenza di idea (Begrifflosigkeit) che è tratto indelebile di ogni praticistica Realpolitik, anche quando a parole ci si richiami a Marx [II, p. 113; tr. it., II/1, p. 128].

Non va infatti mai dimenticato che anche l’importanza crescente […] delle decisioni soggettive nelle alternative è in primo luogo un fe- nomeno sociale. Con ciò non viene affatto a relativizzarsi in senso soggettivistico l’oggettività del processo di sviluppo, […] ma è il medesimo processo oggettivo che, nel corso del suo sviluppo, pone compiti i quali possono essere messi e tenuti in movimento solo per il crescente rilievo delle decisioni soggettive [II, p. 114; tr. it., II/1, p. 129].

Siffatta chiarificazione in chiave marxista della problematica concernente i valori etici permette l’ulteriore passo avanti della connessione della dialettica di assoluto e relativo (già all’opera nella dialettica di Hegel) con l’ideologia di classe (in Hegel inesistente). Il contesto dei valori si fa strada lungo la storia in diretto rapporto con quelli che sono, volta per volta, gli ideali e gli interessi delle classi dominanti. Come riferiti a quel dominio, i valori in questione sono assoluti; essi vengono imposti, assorbiti e sentiti come modelli di comportamento, come elementi che tengono insieme la vita sociale. Gli sviluppi posteriori di quest’ultima, con le sue metamorfosi, ne mettono in crisi l’assolutezza, poi anche la validità; così essi si relativizzano o scompaiono, parallelamente al venire in essere di altri valori, che sono altrettanto relativi (in quanto esprimono nuovi interessi di classe o gli interessi di una classe nuova), ma che altrettan- to necessariamente tendono ad assolutizzarsi, sostituendosi ai valori assoluti precedenti, via via che i nuovi rapporti di classe si impongono. La teoria di questa dialettica storica dei valori etici costituisce la trama di fondo della teoria marxista dell’etica.

3. Più sullo sfondo restano ancora nell’Ontologia, e non potrebbe essere altrimenti, i line- amenti di una teoria marxista della personalità dell’uomo. Scontato di nuovo per il marxismo l’assunto che «la personalità, con tutta la sua problematica, è una categoria sociale», si tratta di indagare ontologicamente, entro la sua problematica, quale specifica categoria sociale essa rispecchi e incarni, quali specifici tratti suoi propri presenti. L’ontologia generale (anche a li- vello sociale) non ha competenza nello specifico; essa non può far altro che indicare il campo d’azione, il terreno generale di operatività del comportamento etico riferito all’individuo. È nel quadro del processo di riproduzione sociale complessivo da essa descritto che l’individuo, ogni volta di nuovo alle prese con il suo processo di riproduzione individuale (parziale rispetto al tutto), non solo trova un ruolo, ha una sua parte propria, ma ne costituisce ontologicamente la «base d’essere». L’immagine ontologica più corretta dell’uomo durante il suo sviluppo è, per Lukács, un tertium datur rispetto a due falsi estremi astratti: la sua passività di oggetto di legalità economiche che lo trascendono e che lo schiacciano, e la sua idealizzazione come entità senza radici sociali. Persona può diventare soltanto quella individualità per-sé che viene in es- sere grado a grado, tramite atti consapevoli e scelte alternative, nel corso del processo oggettivo di sviluppo della società. Lukács vi si sofferma con speciale attenzione nella seconda sezione dei Prolegomena [I, p. 40 sgg.; tr. it., p. 40 sgg.], dove si dice riguardo a questo punto del farsi uomo dell’uomo, del suo assurgere a individualità personale:

Lo sviluppo reale dell’individualità [Individualität], che è sempre fondata nel sociale e non sempli- cemente nella natura, dalla mera singolarità [Einzelheit] naturale è un processo assai complicato, il cui fondamento d’essere sono bensì le posizioni teleologiche della prassi con tutto ciò che le accompagna, ma non ha esso stesso carattere teleologico. Il fatto che in stadi relativamente elevati dell’evoluzione gli uomini, più o meno consapevolmente, vogliano essere delle individualità e il fatto che questo loro proposito spesso diventi il contenuto di posizioni teleologiche, non mutano il dato di fondo. Non fosse altro perché occorre un lungo sviluppo dei rapporti sociali, che inizialmente è lentissimo, per far emergere come reale e soprattutto come universale il problema dell’individualità [I, p. 44; tr. it., p. 45].

Ora l’intensificazione dei rapporti sociali, l’ampliarsi quantitativo e qualitativo delle attività svolte dagli uomini rendono sempre più indispensabile per la vita sempre più sociale dell’uomo singolo, nell’interesse stesso della sua personale riproduzione, «un ampliamento del campo di manovra della possibilità nel reagire […] alla realtà»: non soltanto il dominio adeguato delle reazioni alla realtà, che appunto vanno moltiplicandosi, ma inoltre la costruzione di un’unità del reagire determinata, che dia ordine anche soggettivo alle sue attività [I, pp. 177-178; tr. it., pp. 188-189].

Questa «unità del reagire determinata» è in germe la persona. Tramite la mediazione del comportamento etico, essa, rapportandosi consapevolmente al mondo altro da lei, si forgia in- sieme in se stessa, forgia il suo proprio per-sé; e da lì prende avvio il processo della umaniz- zazione consapevole dell’uomo, in ciò che di più essenziale per l’uomo esso rappresenta. La vera «essenzialità umana» – scrive Lukács – «è qualcosa di diverso, qualcosa di più che la mera singolarità dell’esemplare singolo. E infatti […] uno dei contenuti centrali della storia è il modo in cui l’uomo da mera singolarità (da esemplare della specie) si è sviluppato a uomo reale, a personalità, a individualità» [II, p. 228; tr. it., II/1, p. 256].
In nessun caso dunque il «modo ontologico [Seinswesen] dell’individualità», per dirlo ancora con i Prolegomena [I, p. 298; tr. it., p. 320], può essere un presupposto, un (giusnaturalistico) punto di partenza originario, assunto come prius dello sviluppo. La pretesa essenza a priori della persona non esiste. È all’inverso la storia (lo sviluppo sociale) che via via la produce; le sue inclinazioni, disposizioni, capacità, qualità ecc. vengono fuori solo poco per volta nel corso dell’attuarsi dei suoi comportamenti, come loro conseguenza, e ciò tanto più quanto più spinto avanti è il suo processo di socializza- zione, da prospettiva e traguardo ultimo facendo le esigenze del genere umano all’altezza dei risultati frattanto prodotti dalla storia.  Numerosi anche su quest’ultimo tema, l’umanità in quanto genere, gli agganci etici riscon- trabili nell’Ontologia. Si tratta per vero di un tema che il Lukács tardo affronta già quando, nell’Estetica, viene a parlare dell’opera d’arte come del «modo di espressione più adeguato e più alto dell’autocoscienza dell’umanità», un prodotto dove sono depositate le esperienze del genere umano o «la riproduzione interiore, sintetica e concentrata» del cammino da esso per- corso. Non per nulla già lì si dice circa quella soggettività che in etica «regola precisamente il lato soggettivo della prassi umana»:

È chiaro che ogni azione di carattere etico è intesa a conservare e a perfezionare il genere umano; e poco importa che questo riferimento sia più o meno consapevole nell’individuo agente di volta in volta. Poiché il senso del dovere o la sua violazione, la virtù o il vizio ecc. fanno parte, attraverso le conseguenze da essi prodotte, dei mattoni di quell’edificio che la specie rappresenta per gli uomini  (14).

E più oltre, nel ribadire la funzione primaria per l’uomo della sua «individualità personale e privata», «centro motore di tutto nella vita e nel pensiero, nel sentimento e nell’azione», viene da Lukács subito precisato che un tale centro essa lo è solo sotto forma di movimento, di auto- superamento, di trascendimento verso il genere:  Questo movimento […] rappresenta un superamento nel triplice senso dialettico; cioè non si tratta mai di distruggere l’individualità personale: essa anzi resta sempre la base di vita cui si attingono le forze essenziali per il suo autosuperamento, la riserva ultima che alimenta gli sforzi in vista sia dei fini prossimi che dei fini supremi. Se dunque l’individualità personale non è mai annullata, ciò non vuol dire che sia semplicemente conservata: il suo elevarsi a un livello superiore del possibile umano-sociale provoca in essa trasformazioni di contenuto e di struttura che implicano un esser-altro qualitativo rispetto al suo modo di essere originario e immediato (15).

Sul tema tornano poi ripetutamente l’Ontologia e i Prolegomena, da un lato ribadendo quanto in profondo a base della personalità umana compiuta stia «la nascita dell’umanità come genere umano non più muto», dall’altro con una più diretta riconduzione del tema alla dottrina di Marx, e non solo a quella marxiana giovanile; poiché – Lukács ne è convinto – anche nel suo periodo maturo «Marx non ha mai cessato di vedere nello sviluppo della genericità il criterio ontologico determinante del processo evolutivo dell’umanità». Questo gli fa scrivere nei Prolegomena:

si tratta del necessario processo di integrazione dei gruppi umani, originariamente piccolissimi, in nazioni e in imperi, per poi esibire, sotto forma di mercato mondiale e di suoi effetti sociali e politici, i primi inizi di una realizzazione dove per la prima volta si presenta di fatto la tendenza a sfociare nell’unità sociale effettiva dell’umanità»;
con conseguenze naturalmente non secondarie, sul terreno etico, anche per l’essenza della personalità umana, crescenti via via che l’unità effettiva del genere, realizzata nella vita, diviene una tendenza evolutiva reale – in ultima analisi – irresistibile. Il fatto che essa abbia avuto bisogno di molto tempo per diventare visibile, per diventare pensabile e per venir pensata, il fatto che le forme in cui si è presentata siano state perlopiù inasprimenti di contrasti ecc., tutto ciò non incide per nulla sulla fondamentalità di questa tendenza: la quale, essendo per l’appunto una tendenza reale, si esprime in termini causali, vale a dire con ine- guaglianze, contraddizioni, producendo antitesi ecc., come tutti gli indirizzi importanti del processo di socializzazione degli esseri umani [I, pp. 264-265; tr. it., pp. 282-283].

Perché ciò avvenga occorre che la coscienza dell’in-sé sorgente nella riproduzione dell’es- sere sociale «accetti come appartenenti al proprio essere – anche individuale – le incarnazioni del genere umano ogni volta venute in essere, che cioè si riconosca mediante una posizione di valore nel valore così sorto» [II, p. 154; tr. it., II/1, p. 175]. Da momento ineludibile di questo elevamento consapevole della coscienza al suo essere-per-sé fa «la realizzazione del vero valo- re mediante posizioni di valore corrette» [II, p. 155; tr. it., II/1, pp. 175-176]. Un nesso dialet- tico stringente lega una volta di più il generale con l’individuale. È il processo sociale generale che pone all’uomo alternative ineludibili; l’attività umana concreta vi risponde, e vi risponde con valutazioni etiche, cioè ogni volta di nuovo «sviluppando o frenando il valore».

Non si perda di vista neanche per un momento il contesto ontologico donde sorgono gli agganci etici riferiti. I princípi ordinatori della società che l’Ontologia enumera «hanno la fun- zione di affermare nei confronti delle aspirazioni particolari degli individui la loro socialità, la loro appartenenza al genere umano quale va venendo in essere nel corso dello sviluppo sociale». Chiarezza su questo rapporto si può fare solo con l’etica, in quanto l’esigenza etica che investe il centro della individualità dell’uomo agente lo costringe a decisioni e scelte tra precetti. È appunto la «scelta-decisione dettata dal precetto interno di riconoscere come proprio dovere quanto si conformi alla propria personalità» quella che «annoda i fili tra il genere umano e l’individuo che supera la propria particolarità»:

La possibilità oggettiva che il genere umano acquisti un essere sociale è creata dallo sviluppo sociale nel suo reale svolgersi. Le contraddizioni interne di questo cammino, che si oggettivano come forma antinomica dell’ordinamento sociale, costituiscono a loro volta la base per cui lo sviluppo del singolo a individualità può al contempo diventare il portatore del genere umano a livello della co- scienza. L’essere-per-sé del genere umano è dunque il risultato di un processo che ha luogo sia nella oggettiva, economica, riproduzione globale, sia nella riproduzione degli uomini singoli [II, p. 294; tr. it., II/1, p. 328].

Ambedue i fattori contrastanti della lotta che sul piano etico si svolge nell’uomo tra singo- larità e genericità, in quanto vengono di continuo riprodotti insieme con il processo del loro superamento, entrano a formare l’unità complessa dell’uomo, inevitabilmente segnata dalla «iniziale casualità del rapporto fra essere biologico e sociale»: Solamente l’incondizionato riconoscimento di questa casualità permette di intendere lo sviluppo dell’uomo dalla sua mera singolarità alla individualità nel quadro del complessivo processo di ripro- duzione della società come un momento decisivo della genesi del genere umano. Infatti soltanto così si può giungere a comprendere che le alternative e le decisioni di valore sono componenti attive del processo totale, necessariamente prodotte dallo sviluppo oggettivo, per cui ambedue i poli estremi dello sviluppo dell’umanità ci risultano chiari nella loro ontologica connessione reciproca [II, p. 295; tr. it., II/1, p. 329].

Oltre questa fondazione puramente prospettica l’Ontologia non ha tuttavia gli strumenti per andare. Nell’ottica ontologica da cui Lukács guarda, il compito di vita che ha di fronte a sé l’individuo in quanto individuo singolo, cioè «trasformare la propria singolarità in una perso- nalità autentica, il proprio dato particolare in un rappresentante, in un organo della genericità non più muta», questo compito deve necessariamente restare solo una prospettiva. Evidente la presa di distanza di Lukács da ogni enfasi utopistica alla Bloch (storicamente i conti con Bloch egli li aveva già regolati molto prima di accingersi all’impianto delle sue grandi opere ultime). L’azione individuale sta sempre in dipendenza dalla congiuntura che la rende possibile. Ma né le singole tappe del processo storico, né – tanto meno – il processo storico complessivo possiedono un carattere teleologico. La prospettiva del complesso sta sempre al di là delle tendenze dei singoli:

solo nella misura in cui lo sviluppo economico oggettivo abbia prodotto ontologicamente la possi- bilità di un genere umano essente-per-sé queste tendenze di sviluppo che toccano la persona possono tradursi in realtà su scala sociale […]. La prospettiva quindi non è un affetto soggettivo del tipo della speranza, ma il rispecchiamento e la prosecuzione integrativa, nella coscienza, dello sviluppo economico oggettivo stesso [II, p. 296; tr. it., II/1, p. 330].

E non c’è pagina dell’Ontologia in cui gli agganci con l’etica, per profondi e intensi che essi siano, varchino i limiti prospettici qui così chiaramente fissati.

Note

1       G. Lukács, Zur Ontologie des gesellschaftlichen Seins, in Werke, Bände 13-14, hrsg. von F. Benseler, Darmstadt-Neuwied, Luchterhand, 1984-1986, tr it. di A. Scarponi, Roma, Editori Riuniti, 1976-1981). Avverto che tutti i rimandi all’opera, Prolegomena inclusi, saranno per comodità inseriti direttamente nel testo tra parentesi quadre, con doppia indicazione di paginatura, tedesca e italiana, oltre che con l’aggiun- ta, nel caso dei Prolegomena, del rinvio alla separata edizione italiana di essi (G. Lukács, Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, tr. it. di A. Scarponi, con prefazione di N. Tertulian, Milano, Guerini & Associati, 1990).

2       Ne ho parlato diffusamente anch’io nel cap. IX della mia monografia György Lukács e i problemi del mar- xismo del Novecento, Napoli, La Città del Sole, 2009, p. 329 sgg., al quale il presente scritto si riallaccia e a cui rinvio anche per tutto il relativo apparato bibliografico essenziale.

3       Cfr. G. Lukács, Versuche zu einer Ethik, hrsg. von G.I. Mezei, Budapest, Akadémiai Kiadó, 1994.

4       G. Lukács, Ästhetik. Die Eigenart des Ästhetischen, in Werke cit., Bände 11-12, 1963, I, p. 516, tr. it. di  A. Marietti Solmi e F. Codino, Torino, Einaudi, 1970, I, p. 475.

5       Ivi, II, pp. 835 sgg., 850 sgg., tr. it., II, pp. 1569 sgg., 1582 sgg.

6       Cfr. G. Lukács, Der junge Hegel und die Probleme der kapitalistischen Gesellschaft, Berlin, Aufbau- Verlag, 1954, p. 389 e sgg., tr. it. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1960, p. 472 e sgg.

7       G. Lukács, Versuche zu einer Ethik cit., p. 80.

8       G. Lukács, Moses Hess und die Probleme der idealistischen Dialektik [1926], in Frühschriften II, in Werke cit., Band 2, 1968, pp. 652-653, tr. it. di P. Manganaro e N. Merker, in G. Lukács, Scritti politici giovanili, Bari, Laterza, 1972, pp. 260-261.

9       Cfr. N. Tertulian, Lukács. La rinascita dell’ontologia, Roma, Editori Riuniti, 1986, pp. 73-74 (poi Lukács’s «Ontology», in T. Rockmore (ed.), Lukács Today: Essays in Marxist Philosophy, Dordrecht, Reidel, 1988, p. 264); Id., Le grand projet de l’«Éthique», «Actuel Marx» 10 (1991), pp. 91-92.

10     Cfr. G. Lukács, Minna von Barnhelm [1963], nel suo volume Deutsche Literatur in zwei Jahrhunderten, in Werke cit., Band 7, 1964, pp. 21-38; tr. it. di F. Codino, «Belfagor» 19 (1964), pp. 501-516, che qui cito da G. Lukács, Scritti sul realismo, a cura di A. Casalegno, Torino, Einaudi, 1978, pp. 161-179.

11    Ivi, pp. 24-25, tr. it., pp. 166-167. Come osserva Cesare Cases, attraverso la figura di Tellheim, deutera- gonista del dramma, viene «brillantemente discussa la complicata problematica dello stoicismo nell’Illu- minismo tedesco e in Lessing», e viene illustrata e tenuta ferma «la relativizzazione della morale stoica mediante l’etica» (C. Cases, Über Lessings «Freigeist», in F. Benseler (hrsg.), Festschrift zum achtzigsten Geburtstag von Georg Lukács, Neuwied-Berlin, Luchterhand, 1965, p. 387).

12     G. Lukács, Versuche zu einer Ethik cit., p. 117.

13     V.I. Lenin, Quaderni Filosofici, tr. it. di I. Ambrogio, in Opere complete, Roma, Edizioni Rinascita – Edi- tori Riuniti, vol. XXXVIII, 1969, p. 363.

14     G. Lukács, Ästhetik cit., I, pp. 576-577, tr. it., I, p. 535.

15     Ibid., II, p. 776 (tr. it., II, p. 1517).