É legittima la resistenza allo Stato?
Pierre – François Moreau
Ho scelto di trattare non un tema ma una questione, una questione che, tutto considerato, Spinoza non pone quasi mai proprio in questa forma, ma che arriva talvolta a formulare in termini di domanda: Che cos’è il tirannicidio?
Il tirannicidio è l’azione che consiste nell’ammazzare un tiranno, non nel distruggere la tirannia. Tutti i giuristi e i filosofi del dicias- settesimo secolo non fanno che ripetere questa distinzione e Spinoza non fa eccezione a quest’usanza. Il capitolo 17 del Trattato teologico-politico è in parte consacrato a ripeterla ancora citando come esempio gli Inglesi che, avendo ucciso il loro re, si sono ritrovati ben presto sotto il dominio dispotico di Cromwell, come se ogni volta si ricominciasse tutto daccapo.
Sembra dunque perfettamente inutile, dunque illegittimo, resistere allo Stato. Ma, detto ciò, può darsi che, prima di arrivare alla questione se «sia legittimo resistere allo Stato?», occorra porsi la questione se sia necessario resistere allo Stato dal momento che, all’interno di una filosofia per la quale il diritto è sinonimo di potenza, non si vede quale altra legittimità possa darsi se non la necessità. Che poi i due termini non siano strettamente sinonimi, ce lo può provare il fatto che si danno necessità a breve termine e necessità a lungo termine e che ciò che è necessario dal punto di vista dell’operare del- l’individuo può non esserlo affatto rispetto all’operare dello Stato e della società, pur essendo proprio questi ultimi a proteggere l’individuo sul lungo periodo. È dunque possibile distinguere, almeno in una prima fase, le due questioni. Ed è forse tanto più utile farlo in quanto Thomas Hobbes, che è il solo precedessore che Spinoza citi quando sono in questione il fondamento dello Stato e del Patto, ci dà una risposta chiara su entrambe le questioni, assi- curandoci che la resistenza allo Stato è sia illegittima sia non necessaria.
1. Mi si permetterà dunque una digressione sul filosofo del Leviatano perché, in buona parte, è in rapporto a lui che si può valutare l’originalità di Spinoza, e ciò molto precocemente, dal momento che è già nella lettera 50 che Spinoza è portato dal suo amico Jelles a rispondere alla domanda: «Che cosa distingue il diritto naturale quale è per voi da quello teorizzato da Hobbes?».
Inoltre mi sembra che la posizione di Hobbes sulla questione del rapporto tra legittimità e necessità della resistenza è del tutto tipica della difficoltà che i modelli di pensiero giusnaturalistici incontrano nel riflettere su ciò che è in realtà una resistenza o un’insurrezione, cioè a riflettere non sul diritto alla resistenza o all’insurrezione, ma sulla loro realtà.
(1) Primo aspetto del pensiero di Hobbes: assenza di necessità della resistenza allo Stato. Non si dà mai «necessità» di resistere, ma semplicemente una serie di errori quasi impensabile.
In Hobbes si può dire che la resistenza non è necessaria. Perché? Perché, una volta che il patto sia compiuto, una volta che la società civile sia creata, i sudditi non hanno alcuna necessità interna di resistere. Si può constatare senz’altro che, di fatto, si danno resistenze all’obbedien- za dovuta al sovrano. Vi sono dei sudditi che non obbediscono. Vi sono delle università che insegnano delle cattive dottrine. Vi sono dei pastori che fanno delle cattive prediche dal pulpito. Vi è un parlamento che vuole – o stupidità! – votare le leggi e soprattutto le leggi di bilancio. E poi vi sono delle città o dei giuristi che pretendono di avere dei privilegi o una tradizione giuridi- ca autonoma. Ma tutto ciò, al fondo, non rinvia a una necessità interna di resistenza, ma al fatto che non è stato loro spiegato quali doveri abbiano nei confronti del sovrano.
Quando si legge il Behemoth, l’altro grande libro di Hobbes insieme al Leviathan, ci si rende contro che le origini della Guerra Civile inglese risalgono al fatto che il sovrano non è stato abbastanza atten- to a spiegare ai suoi sudditi quali erano i fondamenti del Patto e perché essi dovevano obbedirgli. Tutto avviene dunque come se le molteplici occasioni di resistenza, che sono altrettanti germi di Guerra civile, vale a dire di dissolu- zione del patto e di ritorno allo stato di natura, fossero in fondo impensabili nella loro realtà. Come se non vi fosse nulla che, spontaneamente spingese i sudditi a opporsi allo Stato, come se il diritto naturale avesse cessato di funzionare a partire dal momento del Patto.
(2) Secondo aspetto: assenza di legittimità della resistenza e sue eccezioni. Se la resistenza, non essendo «necessaria», è senz’altro totalmente illegitti- ma (vale a dire: allorché essa ha luogo, nulla può giungere a fondarla, dal momento che nulla ha lasciato nel Patto un diritto a disobbedire, a resistere o a ribellarsi per il suddito), il percorso va conseguentemente dall’assenza di necessità all’assenza di fondamento legittimo. La sola eccezione o, piuttosto, le sole eccezioni sono molto deboli, ma non lo sono nello stesso senso.
Una prima eccezione è evidentemente il diritto del suddito alla fuga, dal momento che ciascuno dei sudditi ha sottoscritto il Patto per preservare la propria sicurezza. Se il sovrano ne ordinasse la morte, mettendo in gioco la sua sicurezza, questo suddito ha evidentemente il diritto di cercare di sottrarglisi. Questo diritto non fonda tuttavia un dovere per il sovrano di lasciar fug- gire il suddito e ancor meno un dovere per gli altri sudditi di dargli man forte. Al contrario: essi continuano ad essere legati dal Patto e, secondo Hobbes, debbono dar man forte per riacciuffare colui che fugge. Il diritto non di resistere ma di fuggire è dunque un diritto estremamente limitato. Appare come l’ultimo vestigio del diritto naturale, in un certo senso puramente negativo, sotto il regime del Patto.
L’altra eccezione all’assenza di resistenza (ma vedremo presto che non si tratta di un’eccezione per Hobbes) è semplicemente quella che si potrà chiamare il riconoscimento del fatto compiuto. Non si tratta propriamente di una legittima- zione della resistenza, ma, poiché io non sono entrato nella società civile che per- ché il sovrano mi avrebbe protetto, allorché constato che, in definitiva, il sovrano non è più in grado di proteggere i sudditi (per esempio, in un caso di guerra civile nella quale il sovrano ha perduto il suo potere), in questo momento io sono eso- nerato dai miei obblighi. E ciò non perché il sovrano abbia fallito nei suoi compiti – dal momento che non ne aveva – ma semplicemente perché il Patto è in certa misura puramente e semplicemente scomparso. O, più esattamente (dal momen- to che non si dà mai un puro ritorno allo stato di natura), la guerra civile ha dato vita a un altro sovrano verso il quale sono automaticamente legato dallo stesso patto. Ecco perché, quando il re Carlo I ha perduto il potere e Cromwell l’ha conquistato, io sono esonerato dalle mie obbligazioni nei confronti del re, ma sono altrettanto legato nei confronti di Cromwell dalle stesse obbligazioni. In un certo senso, io non devo più obbedienza al sovrano che non mi protegge più, ma devo altrettanta obbedienza a quello che l’ha rimpiazzato. Ciò che vi è in mezzo – e che resta impensabile – è il momento della morte del primo.
In questa politica, costituita sotto le categorie giuridiche, vi è un prima e un dopo la morte del sovrano, morte reale o morte giuridica che sia. Ma questa morte stessa resta impensata. Essa governa un passaggio senza che mai tale passaggio possa essere preso in esame per se stesso. Prima della scomparsa del sovrano, gli debbo obbedienza. Dopo la comparsa del nuovo sovrano, debbo obbedienza a quest’ultimo. Ma non ho mai il diritto di resistere: tra i due momenti, è avvenuto qualcosa, che governa il resto, ma che non può mai essere preso in esame per se stesso. La permanenza del potere sopravvive alla caduta di colui che lo esercita. Si ha l’impressione di trovarsi in una delle tragedie di Shakespeare, voglio dire in una delle tragedie storiche di Shakespeare, nelle quali un Riccardo è sostituito da un Enrico, un Enrico è sostituito da un Riccardo, senza che mai i sudditi vengano ad essere esonerati dalla loro obbedienza. Il vincitore in battaglia viene a prendere un posto da poco lasciato libe- ro, che è quello del designato dal Patto. Ma la battaglia come tale non è mai legittima in alcun momento. Ci si trova dunque davanti a qualcosa che appa- re come l’ultima parola della dottrina hobbesiana del Patto: l’impossibilità di pensare la sostituzione di un sovrano da parte di un altro. Tutto avviene nella logica di «Il re è morto, viva il re!». Ma chi ha ucciso il re? Mai nella filosofia di Hobbes ci viene detto chi ha ucciso il re o chi ha il diritto di uccidere il re.
Colui che vuole ucciderlo è un cattivo suddito, colui che lo ha ucciso è colui che è divenuto re a sua volta, cioè è il nuovo sovrano e noi ne siamo i sudditi. Tra i due momenti, non è avvenuto nulla: il che vuol dire che tutto ha avuto luogo.
2. Ora, come giudicare le modificazioni che Spinoza opera rispetto a questa teoria del Patto? Dato questo punto di partenza che enuncia la sostituzione del sovrano come al tempo stesso non necessaria, illegittima e sempre già compiuta, come interviene lo spinozismo con la sua enunciazione dell’identità di diritto e potenza?
La prima cosa da rilevare è che, all’opposto di ciò che avviene in Hobbes, in Spinoza la resistenza allo Stato è necessaria. Non solamente essa è necessaria, ma essa è al tempo stesso della più alta necessità. Nel senso che, necessa- riamente, il cittadino si risveglia ogni mattino nemico dello Stato ed è questo quanto viene affermato nella lettera 50 a Jelles. In Hobbes il diritto naturale si arresta al momento stesso del Patto. In Spinoza esso persiste. Detto in altri termini, prima del Patto gli uomini sono divisi dall’odio, dalla discordia, dalla gelosia, dalla violenza. Anche se qualche volta, già prima del Patto, essi hanno interesse ad allearsi e ad aiutarsi l’uno con l’altro, l’odio e la discordia preval- gono. Una volta che il Patto abbia avuto luogo, si costituisce la società. Spinoza dunque afferma il Patto e lo descrive nel capitolo XVI del Trattato teologico-politico, ma poi all’inizio del capitolo XVII ci annuncia: «tutto ciò è vero in teoria, ma non è affatto vero in pratica». E ogni volta che si arriva ai temi più spinoziani dell’opera, prendendo le distanze da quelli a cui essa sem- bra prossima, ecco sempre ricomparire questa distinzione tra teoria e pratica.
Che cosa è che non funziona in pratica? Il fatto è che, una volta che il Patto ha avuto luogo, non è cambiato niente mentre in Hobbes, al contrario, era cambiato tutto. Certamente, lo Stato si è costituito, ma io sono altrettanto cattivo di prima, altrettanto geloso, altrettanto invidioso, ho sempre altrettanto poca voglia di lavorare e altrettanta invidia nei confronti di coloro che sono più ricchi e ho la stessa sorda gelosia nei confronti di coloro che sono potenti. E se sono io ad essere ricco e potente, ho sempre lo stesso disprezzo nei confronti dei più deboli e dei più poveri. Tanto dal lato dei dirigenti che da quello dei diretti, dunque, tutto è predisposto perché lo Stato vada neces- sariamente in rovina all’indomani stesso della sua creazione. Di qui la frase di Tacito, che Spinoza ripete strappandola al suo contesto romano, che dichiara: «Roma non è mai stata minacciata dai nemici esterni quanto lo è stato dai suoi cittadini». Spinoza cita questa frase sopprimendone il sogget- to, Roma, quando scrive: «Uno Stato, quale che sia, non è mai minacciato dai nemici esterni quanto lo è dai suoi stessi cittadini». Altrimenti detto, la condizione dello Stato spinozista è di essere quotidianamente messo a rischio dai propri cittadini. Ciò che è stupefacente non è che lo Stato vada in rovina, ma al contrario che qualche volta uno Stato riesca a sussistere.
Ripeto dunque che ogni cittadino si risveglia ogni mattino con il desiderio naturalissimo di distruggere lo Stato. Si potrebbe obiettare che la distruzione dello Stato comporterebbe la sua stessa distruzione. Nella resistenza allo Stato, il quale protegge il suddito e assicura non soltanto la sicurezza, ma anche – come noterebbe Hobbes – lo sviluppo della scienza, della civiltà, di tutti i vantaggi della cooperazione, vi è in germe la distruzione dello Stato e quest’ultima condurrà a lungo termine alla distruzione dell’individuo stesso. Ma, beninteso, soltanto un essere razionale può calcolare questi mali a lungo termine e accettare di sacrificare un bene immediato per un bene a più lungo termine. Occorre ammettere che la maggior parte degli uomini sono passio- nali e non razionali.
Di conseguenza, la maggior parte degli uomini è mossa da quello che ho chiamato, in un precedente lavoro, lo «strato passionale anti-politico». Nell’insieme delle passioni umane possibili, ve ne è un certo numero (l’avere naturalmente più voglia di riposare che di lavorare, il dete- stare quelli che sono al di sopra di me, il disprezzare quelli che sono al di sotto di me, l’attendere spontaneamente da qualunque rivoluzione sociale la guari- gione di tutti i miei mali) che costituisce questo «strato passionale anti-poli- tico» che è presente in ogni uomo da quando è divenuto cittadino e che rende molto più probabile il crollo dello Stato piuttosto che la sua prosecuzione. Detto altrimenti, la struttura delle passioni umane, vale a dire la struttura del diritto naturale (dal momento che il diritto naturale è innanzitutto costi- tuito dal sistema delle passioni) fa sì che la resistenza allo Stato sia sempre spontaneamente necessaria. Essa è inscritta nelle leggi della natura.
Prima di domandarsi se la resistenza allo Stato è legittima, prima di domandarsi se si ha il diritto (in un altro senso) di resistere allo Stato, occorre dunque constatare che la prima cosa che facciamo è di resistervi. Parcheggiamo la nostra auto nei posteggi vietati, cerchiamo di pagare meno tasse, se solo ci è data la possibilità di ingannare il fisco; se ci fosse dato di arrivare in ritardo al lavoro, lo faremmo. Si potrebbe domandare allora come avviene che, malgrado tutto, un certo numero di Stati continui a esistere, a prelevare le imposte, a evitare di essere perpetuamente immobilizzato dal traffico. Vi è innanzitutto la risposta hobbesiana: lo Stato ha dei mezzi per farci paura e per costringerci a lavorare, a pagare le nostre imposte e a rispettare le decisioni della giustizia.
Ma Spinoza non fa molto affidamento su questa risposta, nella misura in cui, per lui, la paura, vale a dire la passione generata dall’avere di fronte a sé la forza, è effettivamente sempre utile in ultima istanza, ma non può funzio- nare come strumento permanente e unico di continuazione dello Stato. Semplicemente, lo Stato spinozista ha una superiorità sullo Stato hobbesiano. Dal momento che ciò che gli si oppone è uno strato passionale, a tali passioni esso può a sua volta opporre delle altre passioni. Per fare marciare i cittadini, perché ogni mattina si presentino al lavoro, perché ogni anno paghino le imposte e perché ogni giorno parcheggino le loro auto nei posteggi autorizzati, lo Stato può disporre, oltre della paura, di altre forme di pressione che sono la devozione per il sovrano, l’amore di patria, l’interesse ben compreso etc., vale a dire tutto un insieme di passioni alcune delle quali sono estremamente pericolose.
Per esempio, tutte quelle che mischiano il politico con il religioso sono sì molto efficaci, fintantoché l’apparato religioso funziona in accordo con l’apparato politico, ma anche estremamente nocive allorché l’apparato religioso che si è messo in funzione si rivolge contro l’apparato politico. Così, fare uso della superstizione per fare funzionare lo Stato è sì una buona garanzia per il sovrano, ma anche il peggiore dei pericoli per lui, nella misura in cui i preti potrebbero insegnare al popolo a detestare colui che finora gli avevano insegnato ad adorare. Tutto ciò è ben noto. Ma vi è anche tutta una serie di altre passioni che può entrare in gioco. E, beninteso, oltre a delle passioni in senso stretto, lo Stato dispone di altri mezzi per ottenere i suoi scopi: da una parte gli interessi e l’equilibrio delle istituzioni (si tratta di una dimensione che sarà oggetto di molte analisi nel XVIII secolo) e, d’altro lato, l’ordine simbolico. Rinvio a quanto viene detto, negli altri capitoli del Trattato teologico-politico, sulla circoncisione degli Ebrei, sul codino dei Cinesi etc.
Lo Stato non è dunque disarmato di fronte allo stato passionale anti-politico, perché ha a suo servizio delle altre forme di necessità che gli permettono in qualche modo di resistere alla resistenza e che danno vita al gioco com- plesso delle passioni, degli interessi, dei simboli. Questi giochi gli permettono, per un certo tempo almeno e per un certo tempo soltanto (perché ci accorgiamo che l’eternità dello Stato è sempre un’eternità provvisoria) di resistere alla necessità della propria disgregazione.
Veniamo a un’ultima questione. Una volta che si è appurato che la resistenza è qualcosa di necessariamente inscritto nei modi di funzionare del corpo e della mente dei sudditi, vi è ancora bisogno di domandarsi se questa resistenza è legittima. In altri termini: la resistenza è, alla fin fine, sempre nociva? O invece bisogna ammettere che, già dal punto di vista delle esigenze che ci hanno condotto a fondare lo Stato, la resistenza, e perfino i suoi sviluppi in disobbedienza e ribellione attiva, si rivela funzionale all’interesse degli individui, vale a dire a quell’interesse per il quale hanno dato vita al Patto (nella misura in cui si dà un Patto)? È reperibile, nei testi di Spinoza, oltre alla descrizione di una simile necessità, l’ammissione di una legittimi- tà relativa ovvero di una necessità a lungo termine?
Mi sembra che ciò si verifichi tre volte nei testi spinoziani. Vi sono, mi sembra, tre resistenze che appaiono ammissibili, almeno di primo acchito:
– la «resistenza profetica»;
– quella che chiamerò più avanti la «resistenza restauratrice»;
– infine ciò che si potrebbe chiamare la «resistenza indignata».
Vi sono dunque tre casi nei quali la resistenza allo Stato appare non soltanto necessaria a monte (cioè: governata dalle leggi di natura), ma anche necessaria a valle (cioè, per non menzionare che il punto finale, utile come minor male a fronte del fatto che lo Stato non è più capace di imporsi o che cerca di imporre ciò che è negativo e nocivo a tutti). Mi sembra tuttavia che, anche in questi tre casi, il riconoscimento spino- ziano della legittimità della resistenza allo Stato sia sempre attenuata e alla fin fine sempre resa praticamente ineffettuale dalla considerazione di ciò che la Storia ci insegna sulle conseguenze della resistenza.
3. Come è noto, il Trattato teologico-politico si apre con due capitoli dedicati rispettivamente alla profezia e al profeta. In questi due capitoli, Spinoza accetta a titolo di inventario, o piuttosto come inventario immediatamente uti- lizzabile, ciò che la Sacra Scrittura ci dice dei profeti. Egli accetta cioè che i profeti sono quanti hanno una rivelazione divina e, apparentemente, questa rive- lazione divina può essere superiore alle leggi dello Stato o può essere superio- re a quanto lo Stato in quel momento è in grado di intendere delle sue proprie leggi. I profeti sono coloro che, non certo in virtù dell’intelletto, non certo in virtù di un ragionamento, ma in virtù di una rivelazione, vale a dire in virtù di un sentimento acuto della giustizia e della carità, richiamano i cittadini alle esigenze fondamentali di ciò che occorre pur chiamare la «vita in comunità». Ed eccoci ora arrivati molto vicini al titolo del nostro colloquio: perché ci sia comunità, occorre che tra gli uomini si diano giustizia e carità. Si può vivere allora in uno Stato che applica questa giustizia e questa carità; si può vivere in uno Stato nel quale le leggi stesse sono fondate sulla giustizia e sulla carità. Si tratta a prima vista del caso degli Ebrei. Ma anche in quest’ultimo caso, i diri- genti dello Stato possono averlo dimenticato o possono gestire la giustizia e la carità in un modo che non è affatto immediatamente evidente per tutti.
Perciò, anche se le leggi dello Stato sono buone – Spinoza lo accetta per l’es- senziale nel caso dello Stato degli Ebrei, qualora si faccia eccezione del verme nascosto nel frutto, vale a dire della legge istitutiva del sacerdozio la quale va progressivamente a sopprimere le condizioni di vita di quello Stato, per l’essenziale e, tolta quell’eccezione, ben costruito – può capitare che si diano dei momenti nei quali la legge si perde o nei quali la sua applicazione non è immediatamente riconosciuta da tutti i cittadini. In questi casi, il profeta sembra essere colui che chiama a resistere al cattivo sovrano, in nome della giustizia e della carità, vale a dire di una legge più fondamentale.
Si potrebbe dunque individuare, seguendo i primi capitoli del TTP, una prima forma di resistenza legittima: la resistenza profetica, ovvero l’atto di colui che, avendo una rivelazione divina, vale a dire un accesso immediato alle esigenze della giustizia e della carità, si erge contro un sovrano che va contro queste stesse esigenze. Qui Spinoza sembra riprendere ciò che dice il testo biblico. Mi sembra tuttavia che, se si va a guardare il capitolo successivo del TTP, l’ammissione da parte di Spinoza di una resistenza profetica legittima venga estremamente attenuata.
E ciò per due ragioni:
in primo luogo, come Hobbes e un certo numero di altri autori, Spinoza insiste sulla questione dei criteri che permettono di riconoscere un profeta. Forse che ogni individuo ha il diritto di ergersi contro lo Stato in nome di quelle che delle altre dottrine chiamerebbero delle «leggi naturali», ma che Spinoza non chiama mai così? Forse che ogni individuo ha il diritto di dire che lo Stato non rispetta le leggi elementari della giustizia e della carità e che il sovrano è divenuto perciò illegittimo (chiamando con ciò i cittadini a resistergli)? La risposta di Spinoza è chiarissima: no, assolutamente no. Si danno dei segni in virtù dei quali si riconosce un profeta. E «io», semplice cittadino, non posseggo quei segni. Non ho il potere di fare dei miracoli; non so risusci- tare i morti. In conseguenza, debbo ammettere che Dio non mi ha dato i mezzi per ergermi contro lo Stato. In ultima analisi, la sola forza, il solo diritto che io possa avere per ricollegarmi alle esigenze di giustizia e carità passano dunque per quell’intermediario che è la voce dello Stato stesso. Io non posso dunque resistere allo Stato perché sarebbe un opporre lo Stato a se stesso.
Ma, si potrebbe dire, anche se io non ho il mezzo di fare dei miracoli, vi sono tuttavia sempre delle persone che dicono di poterne fare e vi sono anche dei testimoni che affermano che ne hanno fatti. Dunque, lasciamo da parte la maggioranza dei cittadini e interessiamoci al vero e proprio profeta.
Che fare quando un profeta si erge contro lo Stato? I due primi capitoli del TTP sembravano aver ammesso la legittimità dell’azione del profeta. Ma, se si guarda a ciò che Spinoza ne dice nel capitolo XVIII del TTP, si ha l’impres- sione di assistere a uno strano rovesciamento. Qui Spinoza trova nel testo sacro stesso che vi sono dei sovrani biblici, dei quali la Sacra Scrittura ci dice che sono stati sovrani particolarmente pii, dunque dei sovrani che ci sono dati come modelli, e che però hanno messo in prigione dei profeti. Dunque il sovrano mette in prigione i profeti e, poiché la Bibbia non lo condanna, ha ragione a farlo.
Altrimenti detto, il testo biblico sembra contraddittorio, nella misura in cui, da un lato – e Spinoza lo ripete nei due primi capitoli – esso ci presenta un’analisi non statuale dei profeti, conferendo loro un accesso assoluto alla giusti- zia e alla carità, il che sembra ben implicare che la dimensione assoluta di quest’accesso possa opporsi alle leggi dello Stato. Mentre, d’altro lato, la Bibbia stessa, così come Spinoza la interpreta negli ultimi capitoli del TTP, restringe quest’accesso dei profeti alla giustizia e alla carità all’obbedienza alle leggi dello Stato e considera i profeti come punibili se non rispettano tali leggi. E soprattutto, insistendo sul fatto che la Bibbia indica che i re che lo hanno fatto sono pii, Spinoza considera legittima la repressione di questi profeti da parte dello Stato.
Vi è dunque come un circolo nelle esigenze di giustizia e di carità. Non abbiamo altri modi di conoscere la giustizia e la carità se non quelli che ci fornisce lo Stato stesso.
Il nostro solo accesso alla giustizia e alla carità è semplicemente la concretizzazione che ne è data attraverso le leggi che lo Stato ci propone. Si potrebbe forse attenuare a sua volta quest’attenuazione? Si potrebbe fare uscire dal testo spinoziano qualcosa come un appello alla legge naturale? Può darsi almeno in un caso. Ma, quando Spinoza lo enuncia, non lo fa che per limitarlo. Come va considerata infatti la massima evangelica:
«occorre porgere l’altra guancia»? Ciò che è interessante è che Spinoza prende in esame questa massima semplicemente allo scopo di limitarne l’uso. Egli dice: non è una massima universale, non è possibile che in un certo momento della storia, vale a dire allorché lo Stato degli Ebrei è abba- stanza disgregato e lo Stato dei Romani non applica la sua legge in modo abbastanza rilevante in Palestina, momento nel quale Gesù si trova. In quel dato momento, porgere l’altra guancia, vale a dire accettare una forma estrema di carità come legge al posto delle leggi dello Stato, appare come un male minore, non come una massima coestensiva con l’eternità dello Stato, ma riferita precisamente ai momenti nei quali lo Stato sta perdendo, alme- no provvisoriamente, la sua forza.
Il che vuol dire che la possibilità stessa di avere un accesso non statuale alle esigenze di giustizia e carità è determinata dal ritmo della vita statuale. È soltanto quando, senza che lo Stato ce lo permetta, la debolez- za dello Stato ci autorizza a farlo, che noi possiamo passare in qualche misura al di là dell’autorità dello Stato per mantenere un minimum di socievolezza.
Ecco dunque una tesi che non è del tutto interna a una prospettiva hob- besiana, ma forse semplicemente perché Spinoza ci dà forse il modo di ipo- tizzare una qualche conoscenza del bene e del male differente dalla conoscenza del giusto e dell’ingiusto, ciò che non è dato in Hobbes ma che è invece discusso all’interno della quarta parte dell’Etica. Anche qui, però, tale conoscenza viene considerata come una sorta di evasione eccezionale rispetto al necessario passaggio al diritto naturale attraverso l’instaurazio- ne dello Stato.
Dunque, per ciò che concerne l’accesso profetico alla giustizia e alla carità, siffatta legittimazione profetica della resistenza allo Stato, per quanto, come si è visto, sussista forse in alcuni casi, è sempre limitata al momento della sua enunciazione. E, se la si estendesse oltre misura, essa comporterebbe più male che bene, sia per lo Stato sia per i cittadini. Vale a dire, essa insegnerebbe ai cittadini a non rispettare lo Stato e condurrebbe dunque alla guerra civile, dunque farebbe l’infelicità di tutti.
4. Passiamo ora al secondo caso, quello che ho chiamato della legittimità restauratrice.
Non si può sopprimere la tirannia anche se si può sopprimere un tiranno. Ciò vuol dire che, quando uno Stato è mal costruito, quando esso è stato definitivamente pervertito, vi è poco da sperare da una rivoluzione, dal momento che questa rivoluzione non farebbe che ristabilire un altro tiranno al posto del tiranno soppresso. Ma che succede invece se prima si è stati in uno Stato ben costruito e poi questa buona costruzione dello Stato è stata alterata, ma non soppressa? In questo caso, Spinoza sembra accettare che possa darsi una resistenza allo Stato.
Il TTP ne cita almeno un esempio: quello degli Olandesi. L’insurrezione degli Olandesi contro la Spagna, la guerra degli Ottant’anni, non è considera- ta legittima da Spinoza se non perché essa si configura non come una rivoluzione, ma come una restaurazione.
È così d’altronde – rinvio ai lavori di Catherin Secretan su tale questione– che nel corso della guerra, in linea di massima, gli Olandesi legittimavano la loro rivoluzione. Il discorso dei rivoluzionari olandesi durante il periodo della rivolta – e Spinoza è completamente coerente con loro – consisteva nel dire: noi avevamo un certo numero di privilegi con i duchi di Borgogna, il re di Spagna non rispetta più questi privilegi tradizionali, noi ci battiamo per restaurarli. Il che vuol dire, tradotto in linguaggio spinozista, che lo Stato delle Province Unite era ben costruito, il re di Spagna ha rovesciato questa costruzione, gli Olandesi si sono battuti per restaurare un equilibrio che il re di Spagna aveva sconvolto.
Altrimenti detto, Spinoza considera la resistenza allo Stato spagnolo come valida nella misura in cui cerca semplicemente di ristabilire un modello anteriore. Questa rivoluzione non ha dunque legittimità che nel quadro di uno schema circolare: ci si è allontanati da un equilibrio e vi si ritorna.
E, tuttavia, perfino questa legittimità è parziale e limitata. Allorché Spino- za, qualche anno dopo, scrive il Trattato politico, egli si trova davanti a un fatto che non può non considerare. Questa rivoluzione è stata essa stessa oggetto di un’altra rivoluzione. Nel 1672, nelle Province Unite, lo Stato repub- blicano è crollato ed è stato rimpiazzato da uno Stato che, certamente, ha ancora una forma esteriore repubblicana, non essendo stata restaurata for- malmente la monarchia, ma nel quale Guglielmo d’Orange ha ripreso il pote- re e ha restaurato a suo profitto un potere molto più monarchico nei fatti di quanto non lo fosse il potere dei reggenti.
Come discute Spinoza di questa situazione? Ancora, di nuovo, in termini di restaurazione. Il modello di analisi elaborato nel 1670 viene conservato e spo- stato di un posto. Spinoza ci dice: il regime più antico era un regime comitale, la rivoluzione aveva soppresso il conte, pur lasciando l’equilibrio, dunque le istituzioni erano quasi complete ma con una mancanza perché non c’era nessuno che potesse occupare il posto del conte. L’evento della presa del potere da parte di Guglielmo d’Orange, con un nuovo movimento pendolare, ha restaurato l’equilibrio più antico. Così una legittimità restauratrice rischia sempre di vedersi opporre un’altra legittimità ancor più restauratrice. Anche qui, la legittimità della resistenza allo Stato sembra seriamente atte- nuata dal movimento della storia che le fa seguito.
5. Infine, terzo caso: quello che ho chiamato della legittimità dell’indignazione. L’istituzione dello Stato non sopprime evidentemente le passioni. Ho appena citato quello che chiamo lo «strato passionale anti-politico» – dunque il gioco delle passioni, il sistema delle passioni, che fa di ogni cittadino un nemi- co dello Stato. Ma vi è un altro strato passionale essenziale. È quello che costituisce l’identità di ogni cittadino, che fa che ogni cittadino si riconosca come un individuo e come un individuo che ha un certo numero di diritti, di doveri ovvero, in un altro linguaggio, ha una sua propria dignità e delle sue proprie condizioni di esistenza.
In effetti, per poter perdurare nell’esistenza, un individuo ha bisogno non soltanto di mangiare e di bere, di avere una casa e di poter riprodursi, ma ancora di potersi guardare in faccia, di potersi guardare tutte le mattine nello specchio. Vale a dire di poter ammettere che è un libero cittadino, che se tra- smette i suoi diritti a un altro lo fa per giustizia etc. etc.
Beninteso, tutto ciò può essere perfettamente falso. Il peggiore dei ladri tiene un discorso sull’onestà, l’ultimo degli schiavi è pronto a parlare della sua libertà, e colui il cui intelletto è soggiogato crede di agire per il suo proprio libero arbitrio. Come ognuno sa, l’ubriaco, il chiacchierone o la chiacchierona, il bambino che desidera il latte, sono mossi da cause che sono loro totalmen- te esterne, ma credono ogni volta di agire per delle cause interne. Vale a dire che, nella visione che ogni individuo ha di se stesso, rientra una parte necessaria di illusione. Ogni individuo è opaco a se stesso e, come afferma Spinoza nella «Prefazione» del Trattato teologico-politico, ignora se stesso.
Ma non basta denunciare quest’illusione. Occorre essere consapevoli che quest’illusione che costruisce l’individuo è un fatto. Quest’illusione è parte egemonica di quello che è un individuo. Dunque, prima dello strato passionale antipolitico, vi è uno strato passionale che costruisce l’identità immaginaria (che è l’identità reale). Poiché quest’identità immaginaria reale è essenziale all’individuo, è evidente che attaccarla frontalmente darà alla vittima l’impressione che la si voglia distruggere. Di qui deriva quel certo numero di enunciati spinoziani che potrebbe farci pensare a qualcosa di simile ai diritti dell’Uomo. Ma che, in effetti, non è affatto fondato sugli stessi presupposti dei discorsi sui diritti dell’Uomo. Si può anche tenere un discorso spinoziano – e si vede talvolta effettivamente Spinoza tenere questo discorso – su qualcosa che lascia pensare ai diritti eterni dell’Uomo. Salvo che, beninteso, questi diritti sono immaginari. Ma, per il fatto di essere immaginari, non sono meno efficaci. Ad essere efficace non vi è forse che l’immaginario.
Detto in altri termini, su che cosa si fonda l’attitudine immaginaria degli individui? Gli individui, nella loro qualità di sudditi o cittadini, sono convinti di essere riconoscenti verso i loro benefattori, sono convinti di fare rispettare i loro diritti familiari e la fedeltà delle loro donne, l’innocenza delle loro figlie. Sono convinti di obbedire a delle persone onorabili, dunque a sovrani che non sono degli ubriaconi e non passeggiano per la strada con prostitute etc. Tutto ciò può essere perfettamente illusorio. Vi sono persone che sanno che le loro donne li ingannano e lo accettano, vi sono persone che sono perfettamente disoneste e che sanno di stare obbedendo a disonesti e così via. E ciò non impedisce allo Stato di continuare a esistere.
Ma – Spinoza lo afferma più volte – allorché il sovrano o il principe va direttamente contro queste rappresentazioni, per esempio quando esige che qual- cuno torturi se stesso, che qualcuno denunci il proprio benefattore, allorché il Principe passeggia per la strada in stato di ubriachezza in compagnia di pro- stitute, allorché si discredita moralmente, in quel momento egli suscita l’indignazione dei cittadini e, in certo modo, legittima la rivolta contro di lui. Ma perché questa rivolta è legittima?
Semplicemente perché il sovrano ha soppresso egli stesso le ragioni per le quali i cittadini continuavano a obbe- dirgli. E sembra che si dia qui una sorta di legittimità fondata sulla passio- ne dell’indignazione che rinvia alla costruzione immaginaria di ciò che è l’in- dividuo, uno strato dell’individualità che è forse ancora più arcaico in cia- scuno rispetto a quello anti-politico.
Detto ciò, occorre però attenuare anche questa legittimità, per due ragioni. Innanzitutto, perché, come Alexandre Matheron fa rilevare da molto tempo, l’indignazione è una passione negativa e vi sono ben poche possibilità di costruirvi sopra una nuova fondazione positiva dello Stato. Dunque, una rivol- ta fondata sull’indignazione sopprimerà forse un sovrano, ovvero una forma di Stato che ha suscitato indignazione. Ma nulla ci permette di credere che essa saprà fondare uno Stato costruito in modo migliore. A un livello più profondo, non lo farà perché, nella misura in cui la costruzione dello Stato è largamente immaginaria, ciò che il carattere intollerabile del comportamento del principe mette in gioco è più la rappresentazione che la realtà.
Ci si può ben immaginare delle forme di Stato nelle quali il sovrano si mostra ubriaco in pubblico, a condizione che si sia preso la briga, o che sia recepita nella tradizione la possibilità, di costruire una forma di rappresen- tazione ideologica nella quale, per esempio, l’ubriachezza è un carattere nazionale e una forma del tutto legittima di socialità. Vi è un certo numero di sovrani, nel mondo attuale, che approfitta largamente di questa possibilità. È forse totalmente impossibile richiedere a qualcuno di denunciarsi da solo o di denunciare i suoi benefattori o i suoi cari? Ma no! La storia lo ha abbondantemente provato.
Forse che la storia ha smentito Spinoza? No, per niente. Spinoza dice che è impossibile farlo direttamente. Ciò implica dunque che sia perfettamente possibile a un sovrano il condurre indirettamente qualcuno a farlo, se si trova una passione che è più forte. Dunque, se il principe, invece di domandare stupidamente a un cittadino di denunciare suo padre o un suo benefattore, mette in gioco una passione che sia, per esem- pio, la devozione allo Stato o la devozione a una causa comune, che avrà più peso del rispetto verso il padre o del rispetto verso il benefattore, o l’affetto per se stessi, otterrà questi comportamenti in modo del tutto semplice perché gli sarà riuscito di riorganizzare la costruzione immaginaria dell’identità in modo tale che questi comportamenti appaiano più fecondi e più pro- duttivi ai cittadini che il comportamento inverso.
Di conseguenza, anche da un punto di vista spinoziano, occorre ben ammettere che la legittimità fondata sull’indignazione è del tutto relativa. Essa non concerne che gli attacchi più diretti del comportamento del princi- pe contro l’illusione che dà forma all’individualità. Altrimenti detto, in tutti e tre i casi, la prospettiva spinoziana permette sì di pensare ciò che si verifica quando c’è una crisi, ma allo stesso tempo non permette affatto di sperare che, dalla crisi, esca un durevole miglioramento della struttura dello Stato.
In tutti e tre i casi, questa difficoltà rinvia a una ragione che è, credo, la convinzione più profonda di Spinoza, vale a dire l’opacità che per gli uomini hanno le loro stesse azioni e le cause delle loro azioni.
[Traduzione di Francesco Piro]