Chaos sive natura. L’incontro di Nietzsche con la filosofia di Spinoza*

Massimiliano Biscuso

                                                                                                                                                                                                                         Non è mia intenzione tentare una ricostruzione esaustiva dell’interpretazione nietzscheana (1) di Spinoza (2); più semplicemente cercherò di gettare luce sugli effetti che l’incontro con la filosofia di Spinoza ha prodotto in Nietzsche in un momento cruciale del suo pensiero (quello in cui elabora la teoria dell’eterno ritorno e la nozione di amor fati e progetta Così parlò Zarathustra), che da allora in poi assumerà una connotazione definitiva, commentando un appunto postumo di quel periodo, commento che svilupperà un percorso all’interno dei testi nietzscheani credo non privo di interesse (3).

1. L’incontro
1.1. Una solitudine a due

Il 26 agosto 1881, a Sils Maria, come si legge in calce al frammento, Nietzsche progettò un’opera in quattro libri, che avrebbe dovuto intitolarsi Lineamenti di un nuovo modo di vivere. Qui leggiamo:
PRIMO LIBRO, nello stile del primo tempo della nona sinfonia. Chaos sive natura: «Della disumanizzazione della natura». Prometeo viene incatenato sul Caucaso. Scrivere con la crudeltà del Krato$, «della potenza» (4).
L’espressione «Chaos sive natura» è indubbiamente il calco della celeberrima espressione spinoziana «Deus sive Natura». Il frammento è contenuto in un ampio quaderno (5), che raccoglie numerose riflessioni stese tra l’estate e l’autunno del 1881 e solo in parte utilizzate per La gaia scienza e Al di là del bene e del male. In questo quaderno sono contenute, poco prima e poco dopo il passo sopra riportato, ampie annotazioni su Spinoza. Ma non sono le prime tracce dell’incontro di Nietzsche con Spinoza; il 30 luglio, cioè neppure un mese prima, Nietzsche aveva scritto all’amico Franz Overbeck:

Sono veramente sbalordito ed incantato! Ho un precursore e quale precursore! Non conoscevo quasi Spinoza: che adesso abbia desiderato di leggerlo è stato un «atto istintivo». Non solo la tendenza generale della sua filosofia è uguale alla mia – fare della conoscenza l’affetto più potente – io mi ritrovo ancora in cinque punti capitali della sua dottrina; questo pensatore, il più abnorme e solitario che sia esistito, è appunto il più vicino a me in queste cinque cose: egli nega il libero arbitrio; gli scopi; l’ordine morale del mondo; il disinteresse; il male. Se, certo, anche le differenze sono enormi, queste sono da attribuire soprattutto alla differenza dei tempi, della cultura, della scienza. In summa: la mia solitudine [Einsamkeit] – che, come accade in alta montagna, spesso mi toglieva il fiato e mi faceva trasudare sangue dai pori – è ora, per lo meno, una solitudine a due [Zweisamkeit]. Meraviglioso! (6).

Dobbiamo tuttavia diffidare dal prendere alla lettera quanto scrive Nietzsche: innanzi tutto non è vero che abbia letto Spinoza; Nietzsche non lesse mai alcuna opera del filosofo nederlandese, lesse invece il secondo volume della storia della filosofia moderna di Kuno Fischer, dedicato a vita, opere e dottrina di Spinoza (7), che aveva chiesto proprio a Overbeck poche settimane prima (8). E neppure le entusiastiche parole dedicate alla concordanza tra i due sistemi di pensiero possono essere accettate senza riserve: possia- mo subito constatare, pur senza tentare un commento dettagliato della lettera, che ci porterebbe troppo distanti dal percorso che intendiamo seguire, come esse non corrispondano pienamente a quanto in quegli stessi giorni Nietzsche va scrivendo di Spinoza. Nel frammento 11 [193] Nietzsche riporta diversi passi dell’opera di Fischer, nei quali si citano alcuni capisaldi del- l’etica spinoziana, per poi opporre ad essi il proprio punto di vista. Così, ad esempio, alla affermazione per cui «la nostra ragione è la nostra più grande potenza», perché permette l’accordo tra gli uomini mentre le passioni li dividono (9), Nietzsche obietta che «tutto ciò è PREGIUDIZIO. Una ragione di questo tipo non esiste affatto, e senza lotta e passione tutto diventa debole, l’uomo e la società»; oppure alla affermazione che il primo e unico fondamento della virtù è l’aspirazione all’autoconservazione (10), Nietzsche contrappone la tesi: «l’egoismo primitivo, l’istinto gregario, sono più antichi della ‘volontà di autoconservazionè» (11).

Occorre piuttosto concentrare l’attenzione sull’espressione che apre la lettera, e che va indagata per cogliere le opposte esigenze in essa celate: «precursore». Cosa significa per Nietzsche avere un precursore? La risposta più immediata è che per il «solitario» Nietzsche non ci possono essere precursori: se «solitudine» significa scelta di una propria filosofia, che rigetta aristocraticamente ogni affinità e comunanza con altre filosofie, se la filosofia coincide insomma con uno stile di pensiero che si vuole irripetibile, allora sarà possibile al massimo una corrispondenza «monumentale» (12), che non supera la solitudine in una forma di comunità, ma al massimo moltiplica se stessa rispecchiandosi nell’altro: una Zweisamkeit, «una solitudine a due», appunto.

E, tuttavia, l’espressione «precursore» non è affatto innocente; essa evoca, necessariamente, un processo storico nel quale una posizione è preceduta genealogicamente da un’altra. È quanto ammette d’altronde lo stesso Nietzsche pochi anni più tardi: «Se penso alla mia genealogia filosofica, mi sento connesso al movimento antiteleologico, cioè spinoziano della nostra epoca» (13) – dove, si noti adesso per inciso, il tratto peculiare dello spinozismo è individuato non nel fare dell’intelletto la passione più poderosa, come nella lettera a Overbeck, bensì nella negazione del finalismo.

Ebbene, l’incontro di Nietzsche con la filosofia di Spinoza avverrà, per un verso, all’interno di una scena segnata dal confronto, sempre agonistico, con un pensatore rispetto al quale Nietzsche può trovare, positivamente, uno spirito che gli corrisponde, oppure, negativamente, una figura che rappresenta il tipo «malriuscito» del filosofo; per un altro verso, entro un processo culturale (la morte di Dio, il nichilismo) nel quale Spinoza giuoca un ruolo decisivo, e di cui Nietzsche si vuole supremo interprete e insieme superatore.

Ora, fin dal tempo della propria giovanile formazione, Goethe e Schopenhauer avevano suggerito a Nietzsche rispettivamente lo spazio e il tempo in cui sarebbe potuto avvenire l’incontro con Spinoza. Quando l’incontro si realizzerà, tramite la lettura del volume di Kuno Fischer, di gran lunga la più importante fonte di conoscenza della filosofia spinoziana (14), lo spazio e il tempo nei quali esso si inscrive saranno quindi già determinati.

1.2. Goethe o dello spazio

Come ogni buon studente tedesco, Nietzsche conosceva fin da giovane le opere di Goethe e quindi anche le opinioni del grande poeta intorno alla filosofia di Spinoza. L’immagine goethiana di Spinoza si allontanava significativamente da quella dell’«ateo di sistema» che si era imposta nella cultura tedesca fin dalla diffusione dell’articolo Spinoza del Dictionnaire di Bayle e che aveva trovato un’ultima e solida sintesi nelle Lettere sulla dottrina di Spinoza di Jacobi; non solo Goethe riteneva spinozismo e ateismo «due cose diverse» (15), ma desiderava lodare e poter chiamare Spinoza «theissimum ed anzi christianissimum» (16). Infatti, da un lato Goethe rovesciava l’argomento bayleano dell’«ateo virtuoso», ritenendo che un uomo «tranquillo, meditativo, studioso» come Spinoza non potesse essere ateo, perché una vita grata a Dio e agli uomini non può sorgere da principi rovinosi (17). Dall’altro, Goethe dava un’interpretazione ilozoista dello spinozismo, secondo la quale la natura è un tutto vivente e la divinità ne è l’intimo principio animatore, per cui essa va ricercata in tutte le cose, anche nelle più umili, in herbis et lapidibus (18).

Tuttavia Nietzsche non riprende l’immagine neospinoziana della natura offertagli da Goethe; piuttosto Goethe rappresenta per Nietzsche un modello esemplare  di  appropriazione  di  Spinoza,  di  traduzione  del  geometrismo morale nel proprio orizzonte vitale. Rievocando in un passo di Poesia e verità il giovanile incontro con la filosofia di Spinoza, Goethe scriveva:
La quiete di Spinoza che tutto appiana, si opponeva al mio continuo anelare ed aspirare, che non lascia nulla in pace; il suo metodo matematico era il corrispettivo del mio modo poetico di pensare, e proprio quella regolare trattazione che si voleva trovare non adeguata ad argomenti morali, faceva di me il suo appassionato discepolo e il suo più deciso ammiratore (19).

Le ansie e le aspirazioni stürmisch si acquietavano nell’irenismo matematizzante spinoziano, e Spinoza poteva rappresentare il modello che avrebbe guidato Goethe alla ricerca della olimpica serenità della vecchiaia. Tenendo presenti queste pagine, Nietzsche scrive nel Crepuscolo degli idoli:
Goethe – non un avvenimento tedesco, ma europeo: un grandioso tentativo di superare il XVIII secolo con un ritorno alla natura, con uno spingersi in alto, alla naturalità del Rinascimento, una specie di autosuperamento da parte di questo secolo. – Di esso egli portava in sé gli istinti più forti: la sentimentalità, l’idolatria per la natura, l’elemento antistorico, quello idealistico, quello non realistico e rivoluzionario […]. Prese in aiuto la storia, la scienza naturale, l’arte antica, pure Spinoza [cors. M.B.], e soprattutto l’attività pratica; si circondò soltanto di chiusi orizzonti; non si distaccò dalla vita, ma ci si mise dentro; non era privo di coraggio e prese tutto quanto era possibile sopra di sé, addosso a sé, in sé. Quel che lui voleva era totalità; combatté la scissione tra ragione, sensibilità, sentimento, volontà […]; si impose una disciplina per la totalità, creò se stesso… […] Un tale spirito divenuto libero sta al centro del tutto con un fatalismo gioioso e fiducioso, nella fede che sia biasimevole soltanto quel che se ne sta separato, che ogni cosa si redima e si affermi nel tutto – egli non nega più… Ma una fede siffatta è la più alta di tutte le fedi possibili: l’ho battezzata con il nome di Dioniso (20).

Lo studio di Spinoza diviene, nella riflessione nietzscheana, una delle esperienze fondamentali che hanno fatto maturare in Goethe quel «fatalismo gioioso e fiducioso» che porta alla fede nella totalità, cioè a non negare più, a dire di sì alla vita nella sua interezza. Significato analogo assumerà per Nietzsche la «scoperta» di Spinoza annunciata nella lettera a Overbeck: un pensatore che, al di là dei punti di concordia e di differenza, lo induce a dire di sì alla vita, a dare forma teorica all’affermazione dell’esistenza per mezzo delle nozioni di eterno ritorno ed amor fati.

1.3. Schopenhauer (e Fischer, Jacobi, Feuerbach e altri ancora) o del tempo

Una ben diversa modalità di leggere Spinoza, o meglio il rapporto della filo- sofia di Spinoza con la propria, era invece suggerito al giovane Nietzsche da Schopenhauer. Discutendo nel capitolo finale dei Supplementi al Mondo come volontà e rappresentazione della propria filosofia, Schopenhauer precisa che essa si distingue dal panteismo (cioè dal pensiero degli eleati, di Scoto Eriugena, Bruno, Spinoza e Schelling) non per l’en  kai  pan (21), cioè per il riconoscimento che l’«essere di tutte le cose sia assolutamente uno e medesimo», ma per il pan qeo$: come potrebbe il mondo, si chiede Schopenhauer, essere una teofania se «questo concetto deve essere assegnato anche ai fenomeni terribili ed orribili»? Inoltre il dio dei panteisti è un’incognita, mentre la volontà è la cosa a noi più nota; ed ancora, mentre nel sistema schopenhaueriano si lascia spazio al rinnegamento della volontà, cioè al riconoscimento del carattere negativo del princi- pio metafisico, nel panteismo questo non è possibile: «Panteismo è essenzialmente ottimismo: se però il mondo è il meglio», in quanto manifestazione di dio, allora l’uomo «ha da accontentarsene» (22).

In particolare, il carattere della filosofia postkantiana è una forma di panteismo, anzi, più propriamente di spinozismo, che di esso conserva i difetti fondamentali, la divinizzazione del mondo e l’ottimismo:
Siccome in seguito alla critica kantiana di ogni teologia speculativa, i filosofanti in Germania si riversarono quasi tutti su Spinoza, ne è risultato che l’intera serie di tentativi falliti, nota sotto il nome di filosofia postkantiana, non è che spinozismo acconciato senza gusto, rivestito di ogni sorta di discorsi incomprensibili e per giunta anche deformato; quindi io voglio, dopo aver esposto la relazione della mia dottrina con il panteismo in generale, indicare anche quella nella quale essa sta con lo spinozismo in modo speciale. Essa dunque sta a questo come il Nuovo Testamento sta al Vecchio. Ciò che il Vecchio Testamento ha in comune col Nuovo è lo stesso Dio-Creatore. Analogamente a ciò, presso di me, come presso Spinoza, il mondo esiste per interna forza e da se stesso. Solo che in Spinoza la sua substantia aeterna, l’interno essere del mondo, che egli stesso chiama Deus, anche per il suo carattere morale e per il suo valore, non è che Jehova, il Dio-Creatore, che applaude la sua creazione e trova che tutto è riuscito benissimo, panta  kala  lian. Spinoza non gli ha tolto altro che la personalità. Anche presso di lui, dunque, il mondo, e tutto quello che vi è, è eccellente e quale dev’essere: perciò l’uomo non ha altro da fare che vivere, agere, suum Esse conservare, ex fundamento pro- prium utile quaerendi (Eth IV, pr. 67): egli deve quindi rallegrarsi della sua vita, finché dura; proprio secondo il Kohelet, IX, 7-10. In breve, è ottimismo: perciò il lato etico è debole, come nel Vecchio Testamento; anzi, è perfino falso ed in parte rivoltante (23).

Il paragone Spinoza-Vecchio Testamento = Schopenhauer-Nuovo Testamento (che l’anno precedente anche Feuerbach nei Principi di una filosofia dell’avvenire aveva utilizzato per illustrare il rapporto tra il proprio pensiero e quello di Spinoza) mostra chiaramente come per il pensatore tedesco la filosofia spinoziana sia una forma ancora immatura, ma in parte corretta (la comprensione dell’unità del tutto, la negazione del carattere personale del principio metafisico della realtà), di filosofia. Si tratta di una interpretazione che Nietzsche incontra anche in altri testi, come nella Storia del materialismo di Lange, il quale parla degli spinozisti tedeschi del Settecento come dell’«estrema sinistra» dello schieramento che combatte la scolastica e l’ortodossia, che si avvicina al materialismo «quanto possono permetterlo gli elementi mistico-panteisti della dottrina di Spinoza» (24); oppure in Pensiero e realtà di Spir, il quale colloca il pensiero di Spinoza in una posizione intermedia tra l’acosmismo eleatico e il puro ateismo (25).

Molti anni dopo, Nietzsche ritrova questo tipo di interpretazione nelle considerazioni conclusive che Kuno Fischer dedica alla «Caratteristica e critica della dottrina di Spinoza». Paragonando le opposte interpretazioni di Jacobi e Feuerbach, Fischer mette in luce in carattere ancipite del pensiero di Spinoza, a metà strada tra affermazione e negazione della teologia:
Secondo Jacobi il baricentro della dottrina di Spinoza sta nella formula «Deus sive natura»: esso è la divinità concettualizzata, naturalizzata, negata, ovvero ateismo. Per  Feuerbach  il  baricentro della  dottrina  di  Spinoza sta  nella  formula «Natura sive Deus»: esso è la natura concettualizzata, universalizzata, trasformata in un’essenza sovrasensibile, negata, ovvero teologia. Qui vediamo chiaramente come in entrambi la stessa visione della filosofia di Spinoza stia alla base del medesimo riconoscimento e del medesimo rigetto in giudizi opposti. Infatti precisamente nel medesimo riguardo il primo interpreta questo sistema come ateismo, il secondo come teologia (26).

In queste pagine Kuno Fischer offriva a Nietzsche un’immagine del ruolo storico di Spinoza ben diversa dall’impostazione hegeliana che pure ispirava lo storico della filosofia, secondo la quale Spinoza avrebbe rappresentato l’anello intermedio tra Cartesio e Leibniz: un pensatore a metà strada tra teologia e ateismo, sovrannaturalismo e naturalismo. Forse, tra i «signori metafisici» e Nietzsche stesso…

2. Il tempo dell’incontro
2.1. Morte di Dio e caos

Leggiamo di nuovo il frammento che stiamo commentando: «Chaos sive natura: Della disumanizzazione della natura. Prometeo viene incatenato sul Caucaso». Le domande che dobbiamo porci sono tre: 1) perché «Chaos sive natura» in luogo di «Deus sive Natura»? 2) cosa significa il sottotitolo del primo libro della progettata opera Lineamenti di un nuovo modo di vivere, cioè «Della disumanizzazione della natura»? 3) cosa significa l’enigmatica espressione «Prometeo viene incatenato sul Caucaso»?

Per rispondere alla prima questione, e insieme avviare la risposta alle altre due che con la prima sono intimamente intrecciate, dobbiamo tener presente la nozione di «morte di Dio». Essa è l’argomento centrale del terzo libro de La gaia scienza (che, pubblicato nel 1882, si basa soprattutto sulle riflessioni del 1881): annunciata nel celeberrimo aforisma 125, «L’uomo folle», come fine nella fede in un sistema di senso già dato e venerato per secoli, in punti di riferimento stabili e certi, la morte di Dio apre il terzo libro: «Dio è morto – si legge nell’aforisma 108 –: ma stando alla natura degli uomini ci saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si additerà la sua ombra», cioè suoi sostituti (la Stabilità, l’Ordine, la Regolarità, il Progresso, l’Umanità ecc.) in cui credere e capaci di dare senso all’esistenza. Bisogna perciò stare all’erta per non prestar fede, dopo la morte di Dio, alle sue ombre. È quanto ammonisce l’aforisma successivo, il 109, che vale la pena riportare per intero:
Stiamo all’erta. Guardiamoci dal pensare che il mondo sia un essere vivente. In che senso dovrebbe estendersi? Di che vorrebbe nutrirsi? Come potrebbe crescere e aumentare? Sappiamo già a un dipresso che cos’è l’organico: e dovremmo interpretare quel che è indicibilmente derivato, tardivo, raro, casuale, percepito da noi soltanto sulla crosta terrestre, come un essere sostanziale, universale, eterno, come fanno coloro che chiamano l’universo un organismo? Di fronte a ciò sento disgusto. Guardiamoci bene dal credere che l’universo sia una macchina: gli rendiamo un troppo alto onore con la parola «macchina». Guardiamoci dal supporre esistente universalmente e in ogni luogo qualcosa di così formalmente compiuto come i movimenti ciclici delle stelle nostre vicine: basta uno sguardo alla via lattea per domandarci se non esistano movimenti molto più imperfetti e più contraddittori, come pure stelle con eterne traiettorie rettilinee di caduta o altre cose del genere. L’ordine astrale in cui viviamo è un’eccezione; quest’ordine e la considerevole durata, di cui è la condizione, hanno reso nuovamente possibile l’eccezione delle eccezioni: la formazione dell’organico. Il carattere complessivo del mondo è invece caos per tutta l’eternità, non nel senso di un difetto di necessità, ma di un difetto di ordine, articolazione, forma, bellezza, sapienza e di tutto quanto sia espressione delle nostre estetiche nature umane [cors. M.B.].
A giudicare dal punto di vista della nostra ragione, i colpi mancati sono di gran lunga la regola, le eccezioni non sono la meta segreta e l’intero congegno sonoro ripete eternamente il suo motivo che non potrà mai dirsi una melodia: e, infine, anche la stessa espressione
«colpo mancato» è un’umanizzazione che include in se stessa un biasimo. Ma come potremmo biasimare o lodare il tutto? Guardiamoci dall’attribuirgli assenza di sensibilità e di ragione, ovvero l’opposto di essa: l’universo non è perfetto, né bello, né nobile e non vuol diventare nulla di tutto questo, non mira assolutamente ad imitare l’uomo! Non è assolutamente toccato da nessuno dei nostri giudizi estetici e morali! Non ha neppure un istinto d’autoconservazione e tanto meno istinti in generale: non cono- sce neppure leggi. Guardiamoci dal dire che esistono leggi della natura. Non vi sono che necessità: e allora non c’è nessuno che comanda, nessuno che presta obbedienza, nessuno che trasgredisce. Se sapete che non esistono scopi, sapete anche che non esiste il caso: perché soltanto accanto ad un mondo di scopi la parola «caso» ha un senso. Guardiamoci dal dire che morte sarebbe quel che si contrappone alla vita. Il vivente è soltanto una varietà dell’inanimato e una varietà alquanto rara. Guardiamoci dal pensare che il mondo crei eternamente qualcosa di nuovo. Non esistono sostanze eternamente durature: la materia è un errore, né più né meno del dio degli Eleati. Ma quando la finiremo di star circospetti e in guardia! Quando sarà che tutte queste ombre d’Iddio non ci offuscheranno più? Quando avremo del tutto sdivinizzato la natura! Quando potremo iniziare a naturalizzare noi uomini, insieme alla pura natura, nuovamente ritrovata, nuovamente redenta!

Porsi nell’ottica della morte di Dio significa negare tutto quanto è prodotto «dalle nostre estetiche nature umane», cioè «ordine, articolazione, forma, bellezza, sapienza»: l’ente viene messo in forma, e quindi ordinato, secondo un principio, che, ipostatizzato, si identifica con Dio o con le sue proiezioni («ombre»). Così intorno a Dio tutto divene «mondo» (27). La negazione di Dio è quindi, al tempo stesso, negazione del mondo: il mondo si rivela caos, ossia mancanza di forma, divenire puro. Sinteticamente, si può sostenere che caos significhi tanto disordine quanto apertura (28): designando come caos «il carattere complessivo del mondo» Nietzsche ha inteso da un lato negare ogni stabilità e ordine, dall’altro sottolineare l’apertura a nuove interpretazioni dell’esistente, legittimate proprio dall’assenza di un qualsiasi principio di ordine precostituito. Anzi, il prospettivismo, la rivendicazione di una pluralità tendenzialmente illimitata di possibili interpretazioni dell’esistenza, che Nietzsche ascrive alla propria filosofia quale suo carattere essenziale, è legittimato proprio dalla morte di Dio e delle sue ombre:
«In realtà, noi filosofi e «spiriti liberi», alla notizia che il vecchio Dio è morto, ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presentimento, d’attesa – finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno, – finalmente possiamo di nuovo scioglier le vele alle nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo; ogni rischio dell’uomo della conoscenza è di nuovo permesso; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinnanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così «aperto» (29).

Ora, si badi bene perché il punto è dirimente, la «messa in forma» del caos è criticata solo in quanto strategia per rendere pensabile l’essere da parte della specie. Si tratta, asserisce Nietzsche, di «errori» dimostratisi «utili e adatti alla conservazione della specie», quali «che esistano cose durevoli, che esistano cose uguali, che esistano oggetti, materie, corpi, che una cosa sia quel che essa appare, che il nostro volere sia libero, che quanto è per me bene, lo sia anche in sé e per sé» (30). Questi errori, profondamente incorporati e quindi funzionali alla vita, possono essere «smascherati» come errori solo affermando la verità, che il mondo è caos, che non esistono né sostanze durature né libertà del volere. Ma per poter parlare di conflitto tra «conoscenza» ed «errori utili alla conservazione dell’esistenza» bisognerebbe rinunciare proprio all’assoluto pluralismo delle interpretazioni. Che oggi il conflitto si sviluppi nel singolo pensatore, che il problema sia comprendere «fino a che punto la verità sopporti di essere incorporata», come ribadisce Nietzsche in chiusura dell’aforisma, non cambia minimamente i termini del problema. Ma appunto in Nietzsche il conflitto non assume la forma della contraddizione fra errori utili alla conservazione e conoscenza, con la conseguente negazione della validità conoscitiva dell’errore, bensì quella della «vitalistica» «battaglia» tra «frammenti» diversi ed ostili «della vita stessa», essendo gli errori nati dal bisogno di rendersi pensabile e prevedibile il divenire/caos da parte della specie, e la conoscenza sorta dal bisogno di singoli pensatori, che prima desiderarono la «quiete» o il «dominio», poi elaborarono una raffinata scepsi e nuovi principi, quali «estrinsecazioni di un intellettuale istinto del giuoco, innocenti e felici come tutti i giuochi». Sicché la differenza fra errore e verità non riesce a istituirsi, con la inevitabile conclusione che il conflitto tra errori utili alla conservazione dell’esistenza e conoscenza si traduce nella delegittimazione delle strategie conoscitive della specie (= errori) e nel riconoscimento della sola validità delle conoscenze e dei giudizi di valore dei singoli.

Così il mondo apparirà a Nietzsche né un ordine dotato in sé di senso, perché Dio glielo ha conferito o perché è in esso intrinseco, né l’effetto della natura «estetica» della specie, ma soltanto qualcosa che il singolo crea. Annunciando il superuomo nell’episodio Sulle isole beate, Zarathustra afferma che «pensare un Dio» significa «volontà di verità: che tutto sia trasformato sì da poter essere pensato, visto e sentito dall’uomo», significa negare il divenire insegnando le menzogne dell’Uno e dell’Imperituro, e soprattutto negare la libera creatività che sola può redimere dalla sofferenza («che cosa mai resterebbe da creare se gli dei esistessero!»), sicché «ciò che avete chiamato mondo, deve ancora essere da voi creato».
Per gli uomini che ascoltano l’annuncio di Zarathustra, e che potrebbero diventare, se non superuomini, almeno «i padri e gli antenati del superuomo», il mondo non è dunque qualcosa di già dato, sia pure come «ordine, articolazione, forma, bellezza, sapienza» creati dalla natura estetica della specie, ma piuttosto «deve diventare la vostra ragione, la vostra immagine, la vostra volontà, il vostro amore!» (31).

Ora, e passiamo al secondo punto dell’analisi, se la sdivinizzazione della natura coincide con la negazione di «ordine, articolazione, forma, bellezza, sapienza», ciò implica, conseguentemente, la naturalizzazione dell’uomo. Sdivinizzare il mondo significa disumanizzare la natura e quindi riconoscere nell’uomo un essere naturale. «Il mio compito: la disumanizzazione della natura e poi la naturalizzazione dell’uomo, una volta che egli sia giunto al puro concetto di ‘natura’» (32).
Certo, bisogna intendersi sul significato di natura e di naturalismo. In nessun modo natura può significare in Nietzsche l’ordine necessario e causale della realtà materiale, e naturalismo il riconoscimento dell’appartenenza dell’uomo a quest’ordine o il principio filosofico che induce a comprendere ogni fenomeno in quest’ordine. Natura è esattamente l’opposto: è caos, è «difetto di ordine, articolazione, forma, bellezza, sapienza», e naturalismo è riconoscimento di tale realtà. Una formula più tarda di tale attitudine filosofica è «pessimismo della forza», e forse la migliore descrizione di esso è un ampio frammento intitolato Religione, risalente all’autunno 1887 e poi rielaborato nell’estate 1888 in vista del suo inserimento nella Volontà di potenza.
Qui Nietzsche abbozza una genealogia della religione e la sua trasformazione nel pessimismo della forza: l’uomo primitivo, nel quale predomina la paura del male inteso come «il caso, l’incerto, il primitivo», si sottomette ad esso cer- cando in questo modo di alleviare la sua paura. «Ora tutta la storia della cul- tura rappresenta una diminuzione di quella paura del caso, dell’incerto, dell’improvviso. Cultura significa appunto imparare a calcolare, imparare a pensare secondo la causalità, imparare a prevenire, imparare a credere alla necessità». Lo stadio ultimo di questa evoluzione sarà allora rappresentato dal  «pessimismo della forza», il quale ha una tale sicurezza di sé, una tale forza, che prende piacere proprio dal caso, dall’incerto, dall’improvviso; non ha più bisogno di giustificare il male, «trova che il male insensato è il più interessante. Se prima ha avuto bisogno di un Dio, ora lo delizia un disordine cosmico senza Dio [cors. M.B.], un mondo del caso, in cui il terribile, l’ambiguo, il seducente, appartiene all’essenza…». Spogliato così il mondo di quanto lo rendeva prevedibile e sensato, anche l’immagine dell’uomo cambia agli occhi del pessimista della forza: «L’animalità ora non suscita più orrore; un’intelligente e felice tracotanza a favore dell’animale nell’uomo è in tali tempi la forma trionfante della spiritualità» (33).
Disumanizzazione della natura significa dunque affermazione del disordi- ne cosmico, negazione dell’ordine e della regolarità attribuiti dalle nostre estetiche nature umane al divenire casuale, incerto e imprevedibile, infine, riconoscimento dell’animalità dell’uomo.

Rimane da chiarire, infine, l’enigmatica espressione «Prometeo viene incatenato sul Caucaso». L’aforisma 109 della Gaia scienza si chiudeva con un’esclamazione: «Prometeo non si è ancora liberato del suo avvoltoio!», poi eliminata in bozze (34). Ora, sappiamo che l’aforisma ha come tema principale le «ombre di Dio», ossia i prodotti delle nostre estetiche nature umane: ebbene, queste sono l’avvoltoio che tormenta Prometeo, sono le catene che lo legano al Caucaso, sono il pegno che Prometeo deve pagare per l’impresa di aver rive- lato le arti necessarie alla civilizzazione agli uomini. In effetti Nietzsche scrive nell’aforisma 300 de La gaia scienza, «Preludi della scienza», che, come le scienze non sarebbero nate e progredite, se non le avessero precedute maghi, alchimisti e astrologi, così un giorno la religione sarà forse sentita come un esercizio preparatorio affinché «singoli uomini possano godere l’intero autoappagamento di un dio» (cors. M.B.).
E conclude:
È lecito chiedersi se, senza quella scuola e quella preistoria religiosa, l’uomo avrebbe imparato a sentir fame e sete di se stesso e a saziarsi e a colmarsi di sé. Non dovette  Prometeo  in  un  primo momento  supporre  erroneamente d’aver rubato la luce e pagarne il fio, per giungere infine a scoprire che era stato lui nella sua brama di luce a creare la luce, e che non soltanto l’uomo, ma anche il dio era stata opera delle sue mani e argilla nelle sue mani? Che ogni altra cosa era soltanto immagine del plasmatore di immagini? Così come l’illusione, il furto, il Caucaso, l’avvoltoio e l’intera tragica Prometheia di ogni uomo della conoscenza? 

Insomma: Prometeo come simbolo della natura estetica dell’umanità, che crea forme per ritrovarsi in esse. È un passo dal sapore feuerbachiano (35): si deve creare dio per poi sentire se stessi come un dio. Prometeo incatenato sul Caucaso e non ancora liberato dal suo avvoltoio è «l’uomo della conoscenza» che ha già rubato il fuoco a Zeus ma non ha ancora compreso di esserne lui l’inventore, è il filosofo che ha ridotto dio alla natura, ma ancora pensa che la natura sia divina. Ma, al contrario di Feuerbach, la riappropriazione di quanto alienato in dio, non è a vantaggio del genere, ma del singolo, dell’uomo della conoscenza.

Dovrebbe essere chiaro ormai il motivo per cui secondo Nietzsche Spinoza non ha compiuto fino in fondo la strada della sdivinizzazione della natura e della naturalizzazione dell’uomo. La filosofia spinoziana, che afferma una sostanza unica ed eterna, un ordine necessario e immutabile, che identifica dio e natura, e concepisce l’uomo come essere naturale, supera solo parzialmente la paura dell’umanità primitiva, crede ancora nelle «ombre di Dio»: non sono sufficienti la negazione della teleologia, della personalità di Dio e della eccezionalità dell’uomo rispetto alle altre creature per lasciarsi del tutto alle spalle Dio e avventurarsi nel mare aperto del «nuovo infinito».

Qualche anno più tardi, ma dalla medesima prospettiva ermeneutica e avendo sempre presente quel passo della monografia di Kuno Fischer in cui si attribuiva a Feuerbach l’interpretazione dello spinozismo come natura trasformata in un’essenza sovrasensibile («Natura sive Deus»), Nietzsche ritorna sull’incapacità di Spinoza di portare fino in fondo la sdivinizzazione della natura. Vi sono pensatori che, pur negando Dio e la finalità, continuano a pensare ad un mondo capace di eterna novità, cioè ad attribuire ad una forza finita, determinata, di grandezza immutabilmente uguale, come è «il mondo», la capacità miracolosa di un infinito riplasmare le sue forme e situazioni […]. Si tratta ancora del vecchio modo religioso di pensare e di desiderare, una specie di bisogno nostalgico di credere che in qualche cosa il mondo sia tuttavia uguale all’antico, amato, infinito e illimitatamente creativo Dio; che in qualche cosa tuttavia «l’antico Dio viva ancora» – quel bisogno nostalgico di Spinoza che si esprime nelle parole «deus sive natura» (egli sentiva addirittura «natura sive deus») (36).

2.2. La storia del nichilismo europeo

Qual è, invece, il ruolo svolto dallo spinozismo nella morte di Dio? Solo negli ultimi anni della sua attività, lavorando al problema del nichilismo europeo, Nietzsche si porrà esplicitamente questa domanda. Ne uscirà confermata la convinzione del carattere ancipite dello spinozismo: filosofia che giuoca un ruolo fondamentale nella «crisi della coscienza europea», per citare la celebre formula di Paul Hazard, ma che è incapace di superare tale crisi, a causa della sua inconseguenza, della nostalgia verso Dio che ancora la nutre.

Secondo il frammento 2 [127], contenuto in un manoscritto databile tra l’autunno 1885 e l’autunno 1886, il nichilismo, «il più sinistro fra tutti gli ospiti», si genera dal «tramonto del cristianesimo» e, più in generale, dell’«interpretazione morale del mondo». In questo processo di autodissolu- zione del cristianesimo, innescato dal senso della veracità «altamente sviluppato nel cristianesimo» che «prova disgusto per la falsità e mendacità di tutta l’interpretazione cristiana del mondo», si producono alcuni «tentativi filoso- fici di superare il ‘Dio morale’»: Nietzsche cita in particolare Hegel e «il panteismo», senza ulteriori specificazioni. E accenna poco dopo al carattere nichilistico della scienza moderna, che spoglia di senso e scopo il mondo, aggiungendo l’enigmatica espressione: «Critica dello spinozismo» (37).

L’espressione però riceve un senso ben preciso da un ampio frammento di poco successivo, in cui Nietzsche, dopo aver delineato la storia del nichilismo in dieci punti, si sofferma sull’«enorme influsso» esercitato in questo processo dallo spinozismo:
Lo spinozismo ha esercitato un enorme influsso:
1) tentativo di accontentarsi del mondo così com’è.
2) Felicità e conoscenza resi ingenuamente interdipendenti (ciò esprime una volontà di ottimismo, in cui si tradisce un individuo profondamente sofferente).
3) Tentativo di sbarazzarsi dell’ordine morale del mondo, per conservare «Dio», un mondo sussistente PRIMA della ragione
«Se l’uomo non si ritiene più cattivo cessa di esserlo». Bene e male sono solo interpretazioni e in nessun modo un fatto, un in sé. È possibile oggi riconoscere l’origine di questo tipo di interpretazione; si può fare il tentativo di liberarsi così len- tamente dalla radicata costrizione a interpretare moralmente (38).

Il passo sottolinea in modo assai chiaro come alcuni dei tratti peculiari della modernità, scopertamente nichilistici, siano il risultato dello spinozismo, e in particolare non ricercare un senso dell’esistenza oltre questo mondo, credere che la conoscenza porti la felicità e ritenere che bene e male siano solo interpretazioni e non ‘fatti’. Da questo punto di vista si può affermare che lo spinozismo è la filosofia della rivoluzione scientifica, in cui il causalismo e il meccanicismo concludono nella mancanza di senso dell’esistenza, mentre all’affermazione di leggi naturali si affida il compito di mantenere l’ordine e la regolarità propri del vecchio cosmo teologico («ombre di Dio»). Lo spinozismo innesca perciò un processo che fatalmente deve rimanere incompiuto, perché non si rinuncia a divinizzare il mondo e quindi a conservare Dio, almeno nella forma della credenza nei prodotti delle «nostre estetiche nature umane» (39).

Tra maggio e giugno 1887 Nietzsche riprende la monografia di Fischer (40)  in vista della stesura di un capitolo della Volontà di potenza che doveva essere dedicato a I metafisici. Le considerazioni sulla filosofia di Spinoza sono ampie (occupano ben quattro pagine (41) e cercano di coglierne gli aspetti più caratteristici. In generale Nietzsche ritiene che la filosofia di Spinoza si basi su «un’esperienza psicologica, interpretata in maniera erronea e generale» (42).
Erronea perché, muovendo da un punto di vista edonistico, secondo il quale bisogna cercare la gioia duratura in ciò che non è né individuale né caduco, e insieme da un punto di vista naturale-egoistico, per cui virtù e potenza sono la stessa cosa, Spinoza fa della conoscenza l’affetto più potente, la «signora di tutti gli altri affetti» (43). L’assunzione della matematica come norma di verità serve a Spinoza a sconfiggere gli errori e i pregiudizi, e perciò a conseguire una gioia eterna, che deriva dal rivolgersi a un bene schietto e non caduco: «come se – commenta Nietzsche – la durevolezza di una cosa garantisse la durevolezza della mia affezione per essa!» (44). Generica, in quanto si tratta della generalizzazione delle peculiarità e delle idiosincrasie dell’individuo Spinoza, il quale «è un logico che divinizza il suo istinto»; dalla credenza di aver conosciuto tutto assolutamente, trae «il più grande sentimento di potenza» e «una specie di ‘amor di Dio’, una gioia per l’esistenza, qualunque sia, per ogni esistenza»; dalla abnorme valutazione del ragionar chiaro, deriva al contrario lo «sprezzante rifiuto di tutti i beni della vita», la «costante svalutazione di tutto» (45).

E tuttavia i risultati sono notevoli, considerati alla luce della storia del nichilismo: se la filosofia antica e la teologia cristiana davano un senso all’esistenza ricercandone un fine (46), la filosofia di Spinoza nega risolutamente che Dio agisca in vista di un fine. Il che significa, di fatto, negare l’esistenza del male e quindi non richiedere più che il mondo venga riscattato dal raggiungimento del fine.
Se tutto in fondo accade per opera della potenza divina, tutto è nel suo genere per- fetto, nessun male esiste nella natura delle cose; se è vero che l’uomo è totalmente non libero, è anche vero che non c’è malvagità nella natura della volontà umana; le disgrazie e il male non sono nelle cose, ma solo nell’immaginazione dell’uomo (47).

Il risultato sembra quindi una posizione di pensiero non più nichilistica, in quanto afferma il valore autonomo di ogni esistenza. Ma sembra soltanto; in effetti, la gioia per ogni esistenza deriva solo dal vedere l’esistenza non nella sua natura effimera, ma dal punto di vista logico, come effetto della natura divina. Nel famoso frammento di Lenzer Heide intitolato Il nichilismo europeo e datato 10 giugno 1887, Nietzsche ritorna sul significato della filosofia di Spinoza all’interno della storia del nichilismo per chiedersi – e qui sta la novità rispetto agli altri testi che abbiamo adesso discusso – che rapporto abbia l’affermazione panteistica dell’esistenza alla luce della dottrina dell’eterno ritorno. Questo appare, da un lato, «la forma estrema del nichilismo», perché afferma la eterna mancanza di senso: «la vita, così com’è, senza senso e scopo, ma inevitabilmente ritornante, senza un finale nel nulla»; ma, dall’altro, esso è oggetto di una credenza che nasce dall’«energia del sapere e della forza» (48). Insomma, l’eterno ritorno è tanto la forma estrema del nichilismo quanto il mezzo del suo superamento, perché la vita quale si rivela nell’eterno ritorno è sopportabile e desiderabile solo per gli uomini «più forti» e «sicuri della loro potenza», di cui parla la fine del frammento (49).

Ora, però, si apre dinanzi a Nietzsche una prospettiva paradossale: se abbracciare la teoria dell’eterno ritorno significa affermare l’esistenza per quello che è, senza desiderare null’altro, è anche vero che «‘il tutto perfetto, divino, eterno’ costringe del pari a credere all’‘eterno ritorno’». Tanto il pessimismo della forza quanto il panteismo sembrano giungere alle medesime conclusioni. Ma questa non può essere in alcun modo una prospettiva accettabile per Nietzsche, che al contrario «aspira a una antitesi del panteismo»:
Domanda: assieme alla morale viene resa impossibile anche questa posizione affermativa panteistica rispetto a tutte le cose? In fondo solo il Dio morale è infatti superato. Ha un senso pensare a un Dio «al di là del bene e del male»? Sarebbe un panteismo in questo senso possibile? Togliamo dal processo la rappresentazione del fine e affermiamo, ciononostante, il processo? – Così sarebbe se qualcosa entro questo processo venisse raggiunto in ogni momento di esso – e sempre lo stesso. Spinoza pervenne a una tale posizione affermativa in quanto ogni momento ha una necessità logica; e trionfò, con il suo fondamentale istinto logico, rispetto a una tale struttura del mondo (50).

Il panteismo si configura come superamento del Dio morale, ossia come affermazione della necessaria causazione del mondo (= processo), che ha il suo senso in sé e non lo riceve dal fine che dovrebbe raggiungere (se il mondo fosse creato da un Dio morale); da questo punto di vista, dunque, il panteismo converge con la teoria dell’eterno ritorno nel negare il fine del processo. Se ne distingue, però, sotto tre aspetti: a) il panteismo afferma l’eterna produzione del mondo da parte di Dio, mentre la teoria dell’eterno ritorno nega appunto tale  infinita produzione, perché  se  l’esistenza  avesse  un  traguardo  finale, «esso sarebbe già stato raggiunto»; b) per il panteismo il mondo ha un senso in se stesso, l’eterno ritorno afferma esattamente il contrario, la mancanza di senso eterna; c) infine per Nietzsche si giunge all’affermazione dell’eterno ritorno non tanto perché è la più logica delle teorie (sebbene, sia detto per inciso, l’eterno ritorno continui ad apparire a Nietzsche anche «la più scientifica di tutte le ipotesi possibili») (51), ma grazie all’«energia del sapere e della forza», mentre Spinoza afferma la necessità di ogni esistenza solo grazie al suo «istinto logico».
Insomma, conclude Nietzsche, «il suo caso è solo un caso singolo» (52). Come dire: non ha una vera rilevanza, è segno di una tendenza minoritaria o addi- rittura insignificante nella storia del nichilismo europeo: altro che l’«enorme influsso» dello spinozismo! Ennesima metamorfosi dell’esorcismo nei con- fronti dello spettro di Spinoza…

3. Lo spazio dell’incontro
3.1. L’esperienza nietzscheana dell’eternità

È tempo ormai, dopo questo ampio ma necessario esame del ruolo dello spinozismo nel nichilismo europeo, di tornare al frammento postumo dell’e- state 1881 che stiamo commentando. Ho già ricordato come il titolo dell’ope- ra, di cui Chaos sive Natura avrebbe dovuto costituire il primo libro, fosse Lineamenti di un nuovo modo di vivere [Entwurf einer neuen Art zu Leben]. È evidente che questo nuovo modo di vivere è legato all’affermazione dell’eterno ritorno, un’intuizione che si era presentata alla mente di Nietzsche proprio in quello stesso mese d’agosto (53), e che doveva essere l’argomento del quarto e ultimo libro dei Lineamenti, il cui contenuto è così sintetizzato:
«‘Annulus aeternitatis’. Desiderio di rivivere tutto infinite volte» (54).

Ora, dobbiamo chiederci quale legame si debba ipotizzare tra le suggestioni spinoziane, tratte dalla lettura del lavoro di Kuno Fischer, e l’intuizione dell’eterno ritorno, tra l’amor dei intellectualis e l’amor fati, cioè tra l’affermazione panteistica e quella dionisiaca dell’esistenza. Più di una volta è stata notata non solo la continguità temporale tra la «scoperta» di Spinoza e l’intuizione dell’eterno ritorno dell’uguale (55), ma anche l’affinità fra l’affermazione spinoziana dell’essere e quella nietzscheana dell’esistenza (56). In effetti Nietzsche sembra presentare la dottrina dell’eterno ritorno come riconoscimento dell’eternità, della perfezione e della necessità della vita, che va accettata per quello che è, senza ricercare al di là di essa un principio metafisico-religioso che la giustifichi. Ma questo non significa affatto, come pure è stato sostenuto, che Spinoza rappresenti una posizione filosofica «precorritrice» di quella nietzscheana.

Se infatti Nietzsche confessa la propria ammirazione per la bejahende Stellung di Spinoza, in modo da evocarla come pietra di paragone e di imitazione monumentale (una volta, ma una volta sola, l’eterno ritorno è potuto sembrare a Nietzsche la ripresa della visione spinoziana dell’essere sub specie aeternitatis (57), tuttavia l’atteggiamento prevalente è quello non dell’accomunamento, ma dell’agone, nel quale la filosofia spinoziana è svalutata, ridotta a sintomo di ressentiment e di spirito di vendetta, così da far risaltare l’eccezionalità del proprio pensiero. Sicché l’amor fati appare non riaffermazione ma replica all’amor dei intellectualis (58), e l’incontro si rivela una sfida.

Un primo esempio può essere tratto dallo stesso titolo Lineamenti di un nuovo modo di vivere: si può ipotizzare che esso sia stato suggerito dalla lettura di un passo del Trattato sull’emendazione dell’intelletto, parafrasato da Fischer (che Nietzsche annota durante la seconda lettura (59), in cui Spinoza parla di un «nuovo modo di vivere» indotto dal pensiero della nullità delle cose caduche. Analogamente, ma in opposizione a Spinoza, Nietzsche pensa a un nuovo modo di vivere, sia del singolo uomo sia dell’intera umanità nichilistica europea, indotto dal pensiero dell’eterno ritorno, che attribuisce il massimo valore proprio alla nostra vita caduca. L’opera progettata da Nietzsche appare quindi come un Anti-trattato sull’emendazione dell’intelletto, una sfida agonistica a colui che solo pochi giorni prima era stato definito «precursore».

Infatti, l’eterno ritorno dell’uguale non vuole essere la semplice affermazione dell’unica e necessaria sostanza, bensì la rivendicazione del valore del finito e del transeunte. «Contro il valore di ciò che rimane in eterno uguale a se stesso (vedi l’ingenuità di Spinoza, come pure di Descartes) c’è il valore di ciò che è più breve e fugace, il seducente scintillio dorato sul ventre del serpente vita» (60). L’eterno ritorno (il serpente vita) conferisce valore a ciò che è transeunte, ai modi finiti, eternandoli. Tuttavia una tale interpretazione dello spi- nozismo appare singolarmente subalterna a quella di scuola hegeliana, «acosmista»: come se in Spinoza non si desse un’ontologia dei modi finiti e questi fossero soltanto mere parvenze dileguanti nella sostanza.

In effetti appare chiara la difficoltà di Nietzsche a tener ferma la distinzione tra affermazione panteistica dell’esistenza e affermazione della vita indotta dall’eterno ritorno: entrambe hanno come esito il «dire di sì», sicché il momento critico-negativo appare difficilmente giustificabile, in ogni caso subordinato, in entrambe le prospettive. Ciò appare manifesto nella dottrina dell’amor fati, che è strettamente intrecciata all’eterno ritorno già dal titolo del celebre aforisma che apre il quarto libro de La gaia scienza, «Per l’anno nuovo»: l’«anno nuovo» altro non è, infatti, che la nuova prospettiva di vita aperta dall’annulus aeternitatis, dall’eterno ritorno.
Io vivo ancora, io penso ancora: io devo vivere ancora perché devo ancora pen- sare. Sum, ergo cogito: cogito, ergo sum. Oggi ognuno si permette di esprimere il suo augurio e il suo più caro pensiero: ebbene, voglio dire anch’io che cosa oggi mi sono augurato da me stesso e quale pensiero quest’anno, per la prima volta, m’è venuto in cuore – quale pensiero deve essere per me fondamento, garanzia, dolcezza di tutta la vita futura! Voglio imparare sempre di più a vedere il necessario nelle cose come fosse quel che che v’è di bello in loro: così sarò uno di quelli che rendono belle le cose. Amor fati: sia questo d’ora innanzi il mio amore! Non voglio muovere guerra contro il brutto. Non voglio accusare, non voglio neppure accusare gli accusatori. Guardare altrove sia la mia unica negazione! E, insomma: quan- do che sia, voglio soltanto essere, d’ora in poi, uno che dice sì! (61)

Ma se qui la negazione sembra ridursi al «guardare altrove», a una semplice e insignificante eccedenza rispetto all’affermazione del «necessario delle cose», in effetti l’amor fati impone che si ami tutto, tutto essendo necessario, anche quello che guardare non si vorrebbe. Perciò Nietzsche sarà portato in seguito a pensare l’amor fati come il compimento di un cammino che prende le mosse proprio dalla negazione, dal «dire di no», per poter poi giungere alla «posizione dionisiaca verso l’esistenza»:
Una filosofia sperimentale come quella che io vivo, anticipa a mò di prova anche la possibilità del nichilismo sistematico, senza che sia perciò detto che essa si fermi a un «no», a una negazione, a una volontà di «no». Essa vuole anzi giungere, attraverso un tale cammino, al suo opposto – a un’affermazione dionisiaca del mondo così com’è, senza detrarre, eccepire o trascegliere – vuole il circolo eterno: le stesse cose, la stessa logica e illogicità dei nodi. Lo stato più alto che un filosofo possa raggiungere è la posizione dionisiaca verso l’esistenza: la mia formula per ciò è amor fati… (62).
Ma, ancor più radicalmente, si deve affermare che volere «il circolo eterno», porsi cioè nella prospettiva dell’eterno ritorno significa non poter guardare altrove, significa cioè non solo accettare il cammino che dalla negazione porta alla affermazione, ma volere anche tutto quello che è accaduto: l’affermazione dei valori contrari alla vita, il cristianesimo, la metafisica, il nichilismo… È appunto questo che Nietzsche non potrà mai accettare.
Ad onta di tante sue dichiarazioni, egli non farà mai veramente propria l’«affermazione dionisiaca del mondo così com’è»: essa può essere solo una formula retorica della sua personalissima posizione verso l’esistenza o, meglio, una tentazione – come l’incantesimo panico del meriggio, in cui la natura si addormenta «con un’espressione d’eternità sul volto» e «tutto è avvolto in una rete di luce e per così dire sepolto in essa»: è «una morte ad occhi aperti» che coglie l’«uomo attivo»; ma poi «si leva il vento tra gli alberi, mezzogiorno è passato, la vita lo strappa di nuovo a sé» (63)  –. L’eternità è infatti nient’altro che la morte, la «quiete dell’inorganico», e volere l’eternità non sarà altro che volere la morte. E solo nell’immobilità della morte il mondo può apparire perfetto e il compito del filosofo può sembrare quello di benedire l’eternità (64).

Come da un sogno, Nietzsche si risveglia: ed abbandona l’affermazione del mondo «così com’è» per il suo opposto, per la lotta e la critica, addirittura per la maledizione (e Maledizione del cristianesimo suonerà il sottotitolo de L’anticristo, l’opera «conclusiva» di Nietzsche, in cui si compendia il ben più ampio progetto de La volontà di potenza). Una pagina dello Zarathustra, nella sua polemica implicita ma trasparente contro Spinoza e Leibniz, sembra annunciare la definitiva posizione di Nietzsche:
In verità, io non posso soffrire nemmeno coloro per i quali ogni cosa è buona e questo è addirittura il migliore dei mondi. Io chiamo costoro i contenti di tutto. L’essere contenti di tutto, in modo da avere gusto per tutte le cose: non è il migliore dei gusti! Io onoro le lingue e gli stomaci ritrosi e schifiltosi, che hanno imparato a dire «io» e «sì» e «no». Ma masticare e digerire tutto – questo è davvero da maiali! Dire sempre di «sì» – questo solo l’asino l’ha imparato, e chi ha uno spirito come il suo! Il giallo profondo e l’ardente rosso: così vuole il mio gusto, – a tutti i colori esso mescola il sangue. Ma chi dà il bianco alla sua casa, mi tradisce un’anima imbiancata. Gli uni innamorati di mummie, gli altri di spettri; ambedue nemici in eguale misura di tutto quanto sia carne e sangue – oh, come sono ambedue contrari al mio gusto! Io, infatti, amo il sangue (65).

Dunque, l’eterno ritorno è la formula personalissima che Nietzsche propone come cifra della sua esperienza di accettazione del «mondo così com’è», che non si cura di coniugarsi contraddittoriamente con la sua critica e il suo rifiuto. Come incontrarsi e dialogare con Nietzsche-Zarathustra? Come poteva Nietzsche incontrare un altro? «Questa, insomma, è la mia strada, – dov’è la vostra?» (66).

3.2. Un’amicizia stellare?

Appare allora chiaro che l’amor fati è «lo stato più alto che un filosofo possa raggiungere» (67) solo in quanto è «la mia formula per la grandezza dell’uomo» (68), e che la grandezza dell’uomo sia la grandezza dell’uomo Nietzsche è ribadito con la medesima formula in due scritti testamentali, quali sono Ecce homo e Nietzsche contra Wagner: «amor fati è la mia più intima natura» (69).
In questo modo, se pure l’amor fati nasce dall’incontro con la filosofia di Spinoza, viene subito vissuto come rovesciamento polemico dell’amor dei spinoziano, che è ripetutamente «smascherato» nei suoi presupposti psico- logici «viziosi», quale forma di ressentiment contro la vita e di spirito di vendetta di un «infermo solitario» (70) – in una sequela di accuse, del cui sedicente acume Nietzsche si compiace, ma che in effetti riescono imbarazzanti per la loro superficialità (71).

A Nietzsche non solo sfugge completamente come in Spinoza la conoscenza di terzo genere sia il segno del massimo potenziamento del corpo e della mente dell’uomo, ma anche la dimensione collettiva dell’amor dei, che è esplicitamente ribadita nello scolio alla proposizione 40 della quinta parte dell’Etica: «la nostra Mente, in quanto intende, è un eterno modo del pensare che è determinato da un altro eterno modo del pensare, e questo a sua volta da un altro e così all’infinito; così che tutti insieme costituiscono l’eterno e infinito intelletto di Dio» (72). Ora, se è vero che Fischer non cita espressamente tale scolio, tuttavia, menzionando l’Epistola 64, ricorda che «l’insieme di tutte le idee è l’intelletto assolutamente infinito» (73), appunto il modo infinito dello scolio, e quindi ne riconosce la dimensione comunitaria.

Ma non sono, questi, spunti che potessero interessare il pensatore aristocratico, che disdegnava ogni commercio con il gregge umano. Anzi, come già ricordato, Nietzsche, respingendo la proposta spinoziana di vedere nella ragione, che ci unisce agli altri uomini, «la nostra più grande potenza» (74), non aveva saputo cogliere nelle proposizioni 32-37 della quarta parte dell’Etica nulla più che un errore di prospettiva (75).
Come sia possibile, poi, giudicare erronea una prospettiva diversa da un’altra tenendo fermo un rigoroso prospettivismo, senza ritornare a una qualche forma di ontologia, è difficoltà cui ho già accennato. E allora l’incontro con la filosofia di Spinoza che altro è stato se non l’incantesimo di un meriggio estivo, il sogno di una impossibile «amicizia stellare»? (76).

                                                                                                                                                                                                                  

Note
*     Il testo è la rielaborazione della conferenza tenuta il 2 maggio 2005 presso la Fondazione Corrente in Milano. Ringrazio Fulvio Papi e Vittorio Morfino, rispettivamente direttore della Fondazione Corrente e organizzatore del ciclo di seminari spinoziani che lì si è tenuto, per avermi offerto l’occasione di ritornare sul tema con cui inagurai i miei studi filosofici. Dedico questo lavoro alla memoria di Marco Maria Olivetti, che per primo mi guidò in quegli studi.

1     Le opere di Nietzsche sono citate da Werke. Kritische Gesamtausgabe, hrsg. v. G. Colli u. M. Montinari, Berlin, De Gruyter, 1967 sgg. (d’ora in poi WFN, seguito dall’indicazione del volume e del tomo); tr. it. Opere di Friedrich Nietzsche, edizione italiana diretta da G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1964 sgg. (d’ora in poi OFN, seguito dall’indicazio- ne del volume e del tomo). Considerata la perfetta omogeneità tra l’edizione tedesca e quella italiana quanto a numero di volumi e di tomi (eccetto per Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882, WFN V, 2 e Frammenti postumi (1881-1882), OFN V, 2, dove l’edizione tedesca, apparsa successivamente, corregge la numera- zione dei frammenti postumi di quella italiana), citerò per brevità la sola edizione italia- na; si intende comunque che tutte le traduzioni sono state riviste sull’originale tedesco.

2    Le opere di Spinoza sono citate da Spinoza Opera, im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, hrsg. v. C. Gebhardt, Heidelberg, Carl Winter’s Universitätsbuchhandlung, 19752 (1925); in particolare: Tractatus de intellectus emendatione II, pp. 1-40; Ethica II, pp. 41-308. Mi sono avvalso della traduzione e delle note di E. Giancotti dell’Etica, Roma, Editori Riuniti, 19952 (1988).

3    Gli studi sul rapporto Nietzsche-Spinoza non sono molti, anche se negli ultimi quindici anni il tema è stato affrontato con maggior frequenza rispetto al passato. Come spesso accade per la letteratura critica nietzscheana, si tratta di lavori di modesto livello, fatta salva qualche eccezione, organizzati secondo la struttura «per somiglianze e differenze» (ma accentuanti per lo più le affinità) e/o secondo l’ambigua categoria di «precorrimento». È questo innanzi tutto il caso dell’unica monografia dedicata all’argomento, quella di W.S. Wurzer, Nietzsche und Spinoza, Meisenheim am Glan, Hain, 1975 (su cui cfr. M. Biscuso, Spinoza e Nietzsche in un recente libro di W.S. Wurzer, «Il Cannocchiale» (1978) [ma in realtà (1981)], 3, pp. 27-32), che cerca, anche a costo di indebite forzature dei testi, di istituire un perfetto parallelismo fra Nietzsche e Spinoza; si tratta tuttavia di un utile punto di partenza per la sistematicità con cui sono raccolti i materiali (tra l’altro nella Einleitung sono citati e brevemente menzionati i pochi contributi della prima metà del Novecento). Cfr. inoltre Y. Yovel, Spinoza and other heretics, Princeton (N.Y.), Princeton University Press, 1989, tr. fr. Spinoza et autres hérétiques, Paris, Seuil, 1991 (cap. «Spinoza et Nietzsche. Amor dei, amor fati», pp. 399-434; sull’importante libro di Yovel cfr. M. Biscuso, Spinozismo e modernità (Y. Yovel, Spinoza et autres hérétiques), «Il Cannocchiale» (1992), 3, pp. 85-96, spec. pp. 94-95, dove mostro meriti e limiti del- l’interpretazione del rapporto Nietzsche-Spinoza avanzata da Yovel, evidenti questi ultimi soprattutto nel trascurare il ruolo dello spinozismo nella storia del nichilismo); A.G. Biuso, Nietzsche e Spinoza, «Archivio di Storia della Cultura» 4 (1991), pp. 93-140 (Spinoza «precursore» dell’amor fati); G. Whitlock, Roger Boscovich, Benedict de Spinoza and Friedrich Nietzsche: the untold story, «Nietzsche-Studien» 25 (1996), pp. 200-220 (Spinoza e Boscovich sono gli autori che hanno maggiormente influenzato il maturo pensiero di Nietzsche; cfr. inoltre nota 36); H.R. Mora Calvo, De Spinoza a Nietzsche: breves consideraciones sobre la libertad de la voluntad, el orden moral del mundo y el amor al destino, «Revista de Filosofia de la Universidad de Costa Rica» 37 (1999), pp. 123-134 (l’amor Dei e il conatus ricordano l’amor fati e la volontà di poten- za); R. Schacht, The Spinoza-Nietzsche Problem, in Desire and Affect: Spinoza as Psychologist, ed. by Y. Yovel, New York, Little Room Press, 1999, pp. 211-232 (differen- ze e soprattutto affinità nelle rispettive teorie degli affetti e tra i concetti di conatus e di volontà di potenza); E. Kiss, «… die Erkenntnis zum mächtigsten Affekt zu mache…». Baruch Spinoza als Vorbild von Friedrich Nietzsches Zarathustra, «Prima Philosophia» 13 (2000), 2, pp. 99-124 (Spinoza come modello del profeta Zarathustra); H.-J. Gawoll, Nietzsche und der Geist Spinozas. Die existenzielle Umwandlung einer affirmativen Ontologie, «Nietzsche-Studien» 30 (2001), pp. 44-61 (si sottolinea, senza spiegarne suf- ficientemente le ragioni, la netta differenza tra la «liquidazione» operata negli scritti editi dell’idealismo ascetico di Spinoza e l’affinità che si riscontra negli inediti nel pen- sare una «ontologia affermativa»); B. Look, «Becoming who on is» in Spinoza and Nietzsche, «Iyyun. The  Jerusalem  Philosophical  Quarterly»  50  (2001), pp.  327-338 (oltre le diverse commonalities tra Spinoza e Nietzsche menzionate da quest’ultimo nella lettera a Overbeck, bisogna aggiungere l’idea nietzschena di «diventare ciò che si è», riscontrabile dopo un’attenta analisi anche nell’Etica); R. Loock, Spinoza menschliche Knechtschaft – Nietzsches Ressentiment, in Affekte und Ethik. Spinozas Lehre im Kontext, hrsg. v. A. Engstler u. R. Schnepf, Hildesheim, Zürich, New York, Olms, 2002, pp. 279-296 (affinità e differenze fra i due diversi concetti). Come è noto, Spinoza e Nietzsche sono due autori di Deleuze: un’esplicita relazione tra i due pensatori era stata posta nel cap. 2 «Sur la difference de l’Ethique avec une Moral» di Spinoza: philosophie pratique, Paris, Les Editions de Minuit, (1970) 19812, pp. 27-43 (Deleuze nota «trois grandes ressemblances» tra Spinoza e Nietzsche: la denuncia della coscienza, dei valori di bene e male e delle «passioni tristi»); prende le mosse da Deleuze, per mostrare come Spinoza e Nietzsche si incontrino sul «piano dell’immanenza», J. Philippe, Nietzsche and Spinoza: new personae in a new plane of thought, in J. Khalfa (ed.), Introduction to the philosophy of G. Deleuze, New York, London, Continuum, 2002, pp. 50-63. Non ho potuto prendere visione di E. Curley, Behind the geometrical method: a reading of Spinozas  Ethics,  Princeton, Princeton University  Press, 1988, pp.  126-135; né  di  P. Zaoui, La «grande identité» Nietzsche-Spinoza, quelle identité?, «Philosophie» 47 (1995), pp. 64-84.

4    F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente Frühjahr 1881 bis Sommer 1882 (d’ora innanzi NF 1881-1882), WFN, V, 2, 11 [197], Frammenti postumi (1881-1882) (d’ora innanzi FP 1881-1882), 11 [330], in OFN, V, 2, p. 388.

5     Sul quaderno denominato M III 1, cfr. la nota dei curatori di FP 1881-1882 cit., pp. 526-527.

6    F. Nietzsche a F. Overbeck, 30 luglio 1881, in Briefwechsel. Kritische Gesamtausgabe (d’ora in poi BFN), hrsg. v. G. Colli u. M. Montinari, III, 1, Briefe von Nietzsche Januar 1880-Dezember 1884, Berlin, De Gruyter, 1981, p. 111.

7    K. Fischer, Geschichte der Philosophie, II, Descartes’ Schule. Spinozas Leben, Werke und Lehre, Heidelberg, Carl Winter’s Universitätbuchhandlung, 19095 (1854). Nietzsche lesse quest’opera nella terza edizione, apparsa nel 1880 (cfr. BFN, III, 7/1, Nachbericht zur dritten Abteilung, Briefe von und an Friedrich Nietzsche Januar 1880-Dezember 1884, hrsg. von N. Miller, 2003, p. 118).

8    F. Nietzsche a F. Overbeck, 8 luglio 1881, in BFN, III, 1 cit., p. 101.

9    Cfr. K. Fischer, Spinozas Leben, Werke und Lehre cit., p. 518, che espone Spinoza, Ethica, IV, §§ 32-37.

10    Ivi, p. 517, che rimanda a Spinoza, Ethica, IV, pr. 18 sc., § 20 d., § 22 c.

11     NF 1881-1882, 11 [193], FP 1881-1882, 11 [325], p. 386. Testimonianza della lettura della monografia di Kuno Fischer è anche il frammento 11 [194] (ed. it. 11 [326], p. 387), dove si cita dal primo capitolo dell’opera dedicato alla «scuola cartesiana», che discute breve- mente il pensiero di Geulinx e Malebranche. Da notare che l’edizione tedesca apporta una correzione essenziale al frammento 11 [343] (ed. it. 11 [336]): esso è rivolto «Gegen Spencer» (NF 1881-1882, p. 472) e non «Contro Spinoza», come erroneamente riportato in FP 1881-1882, p. 389.

12     Nella seconda delle Considerazioni inattuali, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Nietzsche aveva definito monumentale quella storia che «occorre innanzi tutto all’attivo e al potente, a colui che combatte una grande battaglia, che ha bisogno di modelli, maestri e consolatori, e che non può trovarli tra i suoi compagni e nel presente». La considerazio- ne monumentale della storia, secondo la quale i grandi individui del passato formano «lungo i millenni la cresta montuosa dell’umanità», serve all’uomo d’oggi affinché egli ne deduca «che la grandezza, la quale un giorno esistette, fu comunque una volta possibile, e perciò anche sarà possibile un’altra volta; egli percorre più coraggiosamente la sua strada, perché ora il dubbio che lo assale nelle ore di debolezza, di volere forse l’impossibile, è spazzato via», in OFN, III, 1, pp. 272, 273, 275. Come si può notare, per Nietzsche non si tratta affatto di ricercare una comunione con altri pensatori giudicati affini per interessi e concezioni, ma solo di riconoscere la grandezza altrui, pur nella diversità di prospettive e d’intenti, come mezzo per guadagnare fiducia nel proprio pensiero. Da questo punto di vista la storia monumentale può essere accostata all’«amicizia stellare» di cui parla Nietzsche nel celebre, e bellissimo, aforisma 279 de La gaia scienza, un’amicizia «possi- bile soltanto come coincidenza parziale dei percorsi di due spiriti incamminati ciascuno su una strada propria» (F. Gallo, Nietzsche e l’emancipazione estetica, Roma, Manifesto- libri, 2004, p. 175). Sicché ciascuno resta essenzialmente solo dinanzi al compito della propria vita. Colgo qui l’occasione per segnalare l’importanza di questo libro, che, con finezza e lucidità, coglie nel pensiero nietzscheano «una strategia di emancipazione com- plessa e contraddittoria»; per il nostro lavoro è particolarmente importante aver attirato l’attenzione sul «fallimento di una fondazione intersoggettiva dell’emancipazione». In esso Gallo individua «la ragione principale» per cui Nietzsche cade nell’opposto di ogni prospettiva emancipativa collettiva, nella «barbarie qualunquistica», nello sprezzo «nei confronti delle differenze» (ivi, p. 9). Cfr. spec. il cap. 4, «Vita come arte: l’intersoggetti- vità e l’amicizia», pp. 155-192.

13     Frammenti postumi (1884) (d’ora innanzi FP 1884), 26 [432], in OFN, VII, 2, p. 243. Karl Löwith ha affermato che «la critica radicale di Spinoza alla concezione finalistica fu ripre- sa solo due secoli più tardi da Nietzsche». Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche, tr. it. di O. Franceschelli, Roma, Donzelli, 2000, p. 169; un giudizio che non appare condivisibile, perché trascura le correnti materialistiche sette-ottocente- sche coerentemente antifinalistiche e ispirate in varia misura dal pensiero di Spinoza.

14     Un plausibile elenco delle letture nietzscheane concernenti il pensiero di Spinoza in W.S. Wurzer, Nietzsche und Spinoza cit., pp. 126-138.

15     J.W.  Goethe  a  F.H.  Jacobi,  21  ottobre  1785,  J.W.  Goethe,  Briefe  1764-1786, Gedenkausgabe der Werke, Briefe und Gespräche, XVIII, Zürich, Artemis, 1965, p. 880.

16     J.W. Goethe a F.H. Jacobi, 9 giugno 1785, ivi, p. 851.

17     J.W. Goethe, Dichtung und Wahrheit, Gedenkausgabe der Werke, Briefe und Gespräche, X, Zürich, Artemis, 1965, p. 731. Giustamente Franco Gallo sottolinea l’importanza di Dichtung und Wahrheit, «il modello essenziale di qualsiasi autobiografia per lo scrittore di lingua tedesca e, per Nietzsche, l’antecedente significativo di un’esperienza eccezionale di isolamento e di estraneità rispetto al proprio tempo che si trasforma in esemplare vicenda di Selbstbildung» (Ecce homo: scrittura di sé, monumentalizzazione e narrazio- ne dell’identità. Autobiografia e destinazione postuma della filosofia in Nietzsche tra Goethe,  il  decadentismo  e  Leopardi,  in  corso  di  pubblicazione  nei  Quaderni  del «Magazzino di Filosofia», Milano, Franco Angeli).

18     J.W. Goethe a F.H. Jacobi, 9 giugno 1785, J.W. Goethe, Briefe 1764-1786 cit., p. 852.

19     J.W. Goethe, Dichtung und Wahrheit cit., p. 685.

20    OFN, VI, 3, pp. 150-151.

21     Cito il greco secondo l’uso di Schopenhaeur, cioè senza accenti.

22    A. Schopenhauer, Supplementi al «Mondo come volontà e rappresentazione», tr. it. di G. De Lorenzo, Roma-Bari, Laterza, 1984, pp. 664-666.

23    Ivi, pp. 666-667.

24    F.A. Lange, Storia del materialismo, tr. it. di A. Treves, Milano, Monanni, 1932, p. 325.

25    A. Spir, Denken und Wirklichkeit. Versuch der Erneuerung der kritischen Philosophie, Leipzig, 18762 (1873), pp. 361-362.

26    K. Fischer, Spinozas Leben, Werke und Lehre cit., p. 567.

27    F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, § 150, in OFN, VI, 2, p. 79. L’aforisma recita: «Intorno all’eroe tutto diventa tragedia, intorno al semidio tutto diventa dramma satiresco; e intorno a Dio tutto diventa – che cosa? ‘mondo’ forse?». La domanda conclusiva e le virgolette a racchiudere la parola «mondo» hanno lo scopo, a mio avviso, di accentuare la con- nessione tra Dio e mondo, inteso come cosmo, cioè realtà ordinata da Dio; analogamente paragonare il rapporto fra Dio e mondo a quello tra eroe e tragedia ha lo scopo di evidenziare il carattere di rappresentazione dei secondi termini di paragone: alle figure eroe-semidio- Dio corrispondono così le rappresentazioni che si creano intorno a loro: tragedia-dramma satiresco-mondo. In questo modo Nietzsche intende distinguere il concetto di mondo da quello di natura, il primo opera dell’arte divina, secondo una concezione che affonda le sue radici in Platone e che poi è stata assunta dal pensiero creazionistico cristiano e da tanta parte della filosofia moderna (sulla storia dell’«artificialismo», cioè del rapporto tra Dio arte- fice e mondo, cfr. adesso la limpida sintesi di S. Landucci, I filosofi e Dio, Roma-Bari, Laterza, 2005, che prende in esame anche l’altro modello di relazione tra Dio e cosmo, quello tra Dio motore e natura, proprio del naturalismo aristotelico), la seconda ordine autosuf- ficiente rispetto a Dio, e quindi non coinvolta nella morte di Dio, ma da ripensarsi alla luce di questa morte. Analogo rispetto all’aforisma di Al di là del bene e del male è perciò il signi- ficato del rapporto tra Dio e il mondo nel frammento 10 [90]: «Allontaniamo dal concetto di Dio la somma bontà: essa è indegna di un Dio. Allontaniamone parimenti la somma sapienza: è la vanità dei filosofi che ha colpa di questa stravaganza di un Dio come mostro di sapienza. Doveva apparire il più possibile uguale a loro. No! Dio, la somma potenza – que- sto basta! Da essa segue tutto, da essa segue – ‘il mondo’!», Frammenti postumi (1887-1888) (d’ora innanzi FP 1887-1888), in OFN, VIII, 2, p. 153. Analogo ma non uguale, perché qui si negano i caratteri più scopertamente antropomorfici del Dio giudaico-cristiano, per affer- mare un concetto di Dio spinoziano, l’unico ammissibile se fosse possibile affermare Dio (ma non è possibile): la parola «mondo» è anche qui racchiusa tra virgolette a significare, di nuovo, che in quanto divina, cioè prodotta dalle nostre estetiche nature umane, quella potenza non poteva che generare un cosmo ordinato. Spinoza aveva affermato chiaramente che l’essenza di Dio coincide con la sua potenza (cfr. Ethica, I, pr. 34: «Dei potentia est ipsa ipsius essentia»), proposizione che Fischer riporta (Spinozas Leben, Werke und Lehre cit., p. 361), per scrivere poche pagine dopo: «Se Dio non agisce volontariamente, allora neanche il mondo è opera del volere divino, quindi non c’è creazione. Se nell’essenza di Dio non si trova alcuna attività finalistica, allora il mondo […] è la conseguenza necessaria e perciò eterna della causazione divina. Perciò l’ordine del mondo [Weltordnung] deve essere concepito soltanto come nesso causale delle cose e Dio come causa prima, unica, immanente e libera di queste […]. La potenza di Dio è perciò uguale alla natura naturante, e siccome l’essenza di Dio è uguale alla sua potenza, allora ne consegue quella equivalenza tra natura e Dio, che Spinoza esprime nella formula ‘Deus sive natura’» (ivi, p. 371). Che il concetto di Dio come somma potenza sia tipico degli spinoziani lo aveva ribadito Leibniz nei Nuovi saggi sull’in- telletto umano: essi «lasciano a Dio solo una potenza infinita senza riconoscergli né saggez- za né perfezione» (in Scritti filosofici, II, a cura di D.O. Bianca, Torino, Utet, 1967, p. 194). Il passo è richiamato anche da K. Löwith, Dio, uomo e mondo cit., p. 178. In questa nota opera Löwith sostiene la tesi secondo la quale il declino della fede in Dio e dell’antropoteologia permette di rivalutare il mondo naturale per quello che è. Dovrebbe allora apparire chiara la distanza di chi scrive dall’analisi di Löwith, in quanto il filosofo tedesco non distingue a mio avviso con sufficiente rigore tra mondo e natura e quindi interpreta i passi da me discussi nella presente nota e nel corrispondente testo non come negazione dell’ordine artificiale creato dagli uomini (insieme a Dio viene negato anche il mondo), ma come affermazione del mondo naturale finalmente riguadagnato dall’uomo. Il lavoro di Löwith è comunque impor- tante sia per l’eccezionale rilievo accordato a Spinoza – che, non lasciandosi «inquadrare nella storia della filosofia da Cartesio a Nietzsche», in quanto postosi «al di fuori della tradi- zione antropo-teologica di ascendenza biblica» (ivi, pp. 157-158), chiude il processo di mon- danizzazione della filosofia ed è quindi preso in considerazione dopo Nietzsche –, sia per qualche interessante rilievo intorno al rapporto tra Nietzsche e Spinoza (cfr. ivi, oltre alla già citata p. 169, le pp. 151-152, 172-173, 182); sull’interpretazione löwithiana del rapporto Nietzsche-Spinoza, cfr. O. Franceschelli, Eclissi di Dio e ritorno alla natura, prefazione a K. Löwith, Dio, uomo e mondo, cit., pp. VII-XXXVIII, in particolare pp. XXV-XXVII.

28    Questo punto mi sembra ben colto da Heidegger che, concependo il caos «in stretta con- nessione con l’originaria interpretazione dell’essenza dell’alhqeia», cioè – traducendo il «gergo dell’autenticità» in italiano – in connessione con la Teogonia di Esiodo, scrive: «Caos, cao$, cainw significa lo spalancarsi, ciò che si spalanca, la voragine […] l’abisso che si apre (den sich öffnenden Abgrund)», Nietzsche, I, Pfullingen, Neske, 1961, p. 350; cfr. anche pp. 562-570.

29    La gaia scienza, § 343, in OFN, V, 2, p. 205. Si noti che l’aforisma «Quel che significa per la nostra serenità», di cui si è riportata la conclusione, apre il quinto libro, aggiunto in seconda edizione nel 1887.

30    Le citazioni sono tratte dall’aforisma 110 de La gaia scienza, «Origine della conoscenza»; cfr. anche i due aforismi successivi, «Origine del logico» e «Causa ed effetto», che costi- tuiscono, con il 109 sopra riportato nel testo, un complesso solidale.

31     Così parlò Zarathustra, in OFN, VI, 1, pp. 100-103, cors. M.B.

32    NF 1881-1882, 11 [211], FP 1881-1882 11 [307], p. 379.

33    Frammenti postumi (1885-1887) (d’ora innanzi FP 1885-1887), 10 [21], in OFN VIII, 1, pp. 116-118.

34    Note a OFN V, 2, p. 543.

35    «Il mio compito: farmi restituire, come proprietà e prodotto dell’uomo, come il suo orna- mento più bello e la sua più bella apologia, tutta la bellezza e sublimità che abbiamo conferito alle cose e alle immaginazioni. L’uomo come poeta, pensatore, dio, potenza, com- passione. Con quale liberalità da re egli ha colmato di doni le cose per immiserirsi e sen- tirsi povero a sua volta! Questo è il suo più grande ‘altruismo’; come egli ammira e prega, e non sa, e non vuol sapere, che ha creato ciò che ammira. Sono poesie e dipinti dell’umanità primitiva, queste scene della natura ‘reali’: allora non si sapeva poetare e dipinge- re, se non vedendo qualcosa dentro le cose. E noi abbiamo ricevuto questa eredità. Questa linea sublime, questo sentimento di tragica grandezza, questo sentimento di mare mosso – tutto è stato inventato dai nostri antenati. E in generale questo vedere le cose ferme e determinate!» (NF 1881-1882, 12 [34], FP 1881-1882, 12 [200], p. 418; cfr. anche ivi, 12 [26], ed. it. 12 [208], pp. 419-420). Questo frammento, dal tono ancor più decisamente feuerbachiano, al contrario dell’aforisma 300 della Gaia scienza, sembra valorizzare per la specie e non per «singoli uomini» quello che la specie (i «nostri antenati») ha prodotto e ci ha lasciato in «eredità», senza giudicare negativamente, al contrario dell’aforisma 109, i prodotti delle «nostre estetiche nature umane», neppure il «vedere le cose ferme e deter- minate». Forse proprio per questi motivi è stato escluso dalla pubblicazione. Si noti che anche il frammento 11 [211], ed. it. 11 [307], sopra citato, si apriva con le medesime parole: «Il mio compito».

36    Frammenti postumi (1884-1885) (d’ora innanzi FP 1884-1885), in OFN VII, 3, 36 [15]; il frammento è del giugno-luglio 1885. Whitlock sostiene che la ripresa delle teorie di Boscovich, il quale afferma una forza finita e nega la materia, ha consentito a Nietzsche di rovesciare il panteismo spinoziano: l’infinita potenza di Dio, infatti, «implica infinita novità, creazione ex nihilo, infinita estensione e altri avanzi di teologia» (G. Whitlock, Roger Boscovich, Benedict de Spinoza and Friedrich Nietzsche: The Untold Story cit., p. 207).

37    FP 1885-1887, 2 [127], pp. 112-114.

38    Ivi, 2 [131], pp. 118-119.

39    «Le conseguenze nichilistiche dell’attuale scienza naturale […]. Dal coltivarla segue infine un autodisgregamento, un rivolgersi contro di sé, un’antiscientificità. Da Copernico in poi l’uomo scivola dal centro verso una x» (ivi, 2 [127], p. 114); «Tendenza nichilistica delle scienze naturale (‘mancanza di senso’). Causalismo, meccanicismo. La ‘conformità a leggi’ è un intermezzo, un avanzo» (ivi, 2 [131], p. 117).

40    Cfr. ivi, p. 354, dove si parla di letture «nella biblioteca di Coira» avvenute tra metà mag- gio e inizio giugno 1887.

41     Ivi, 7 [4], pp. 248-251.

42    Ivi, p. 251.

43    Ivi, pp. 248-249.

44    Ivi, p. 250.

45    Ivi, pp. 250-251.

46    «La filosofia antica guardava all’uomo come al fine della natura. La teologia cristiana pen- sava la redenzione dell’uomo come fine della provvidenza divina» (ivi, p. 249).

47    Ivi, p. 250.

48    Ivi, 5 [71], pp. 201-202.

49    Ivi, p. 206.

50    Ivi, p. 202.

51     Ibidem. Nietzsche cercò di offrire in numerosi frammenti, mai però pubblicati, evidente- mente perché ritenuti insoddisfacenti, una dimostrazione scientifica dell’eterno ritorno dell’uguale. Poiché il tempo è infinito e la quantità di forza, a cui si riduce in ultimo l’uni- verso, finita, tale forza può estrinsecarsi solo in numero finito, per quanto grande, di fenomeni che, in quanto iscritti in un tempo infinito, non possono che ripetersi nel mede- simo ordine (causale?) in cui si sono già prodotti una volta. Cfr., tra i molti altri possibili frammenti, almeno NF 1881-1882, 11 [148], FP 1881-1882, 11 [235], che è versione preparatoria dell’aforisma 341 de La gaia scienza, «Il peso più grande», in cui Nietzsche comunica per la prima volta il suo «pensiero più abissale». Dal raffronto tra i due testi balza subito all’occhio il fatto che Nietzsche nel testo dato alle stampe abbia rinunciato alla fondazione «fisica» dell’eterno ritorno («Quale che sia lo stato che questo mondo può rag- giungere, deve averlo già raggiunto, e non una ma infinite volte») per proporlo come ipo- tesi non necessariamente verificabile ma comunque plausibile («Che accadrebbe se…»). Sugli studi fisici in vista della fondazione scientifica dell’eterno ritorno, cfr. Antimo Negri, Interminati spazi ed eterno ritorno. Nietzsche e Leopardi, Firenze, Le Lettere, 1994, pp. 194-211. In generale si può affermare – sebbene la complessità dell’argomento richiederebbe ben altro spazio – che Nietzsche da un lato è portato a dare una fondazione fisico- ontologica all’eterno ritorno, dall’altro a rifiutare ogni possibile fondazione ontologica, in quanto confliggente con il prospettivismo e lo sperimentalismo che esige dalla propria filosofia. In questo caso Nietzsche risolve la difficoltà presentando l’eterno ritorno come possibilità (ne La gaia scienza) o come esoterico insegnamento in un libro «per tutti e per nessuno» (nello Zarathustra).

52    FP 1885-1887, 5 [71], p. 202.

53    Cfr. NF 1881-1882, 11 [141], FP 1881-1882, 11 [219], p. 352; cfr. anche lettera a H. Köselitz (P. Gast) del 14 agosto 1881, BFN, III, 1, cit., p. 112, ed Ecce homo, «Così parlò Zarathustra», § 1, in OFN, VI, 3, p. 344.

54    NF 1881-1882, 11 [197], FP 1881-1882, 11 [330], p. 389.

55    Cfr., per citare a mò d’esempio testi molto noti in Italia, F. Masini, Lo scriba del caos.

Interpretazione  di  Nietzsche,  Bologna,  il  Mulino,  1978,  pp.  217-218;  G.  Vattimo,

Introduzione a Nietzsche, Roma-Bari, Laterza, 1985, pp. 83-84.

56    Cfr. nota 3.

57    «Che qualcosa come l’amor dei di Spinoza abbia potuto esser vissuto di nuovo, è il suo grande evento» (FP 1884, 26 [416], p. 240).

58    Ha giustamente scritto Y. Yovel che l’amor fati «è chiaramente una trasformazione polemi- ca dell’amor dei intellectualis che rigetta il primato dell’intelletto e prende come oggetto d’a- more il fatum in luogo del Dio-natura» (Spinoza et autres hérétiques cit., p. 399; cors. M.B.).

59    «Benché io mi rendessi chiaramente conto della nullità dei beni del mondo, non riuscivo a liberarmi del tutto dall’avidità, dalla sensualità e dall’ambizione. Ma sperimentavo una cosa: finché era assorbito in quella contemplazione, il mio spirito RIMANEVA  SOTTRATTO  A QUESTE BRAME – e ciò mi procurava grande conforto. Perché vedevo così che quei mali non erano incurabili. Da principio la nuova vita, rari, brevi momenti» (FP 1885-1887, 7 [4], p. 251, che cita, non del tutto alla lettera nel finale e aggiungendovi corsivi e maiuscoletti, da K. Fischer, Spinozas Leben, Werke und Lehre cit., p. 290, il quale a sua volta parafrasa le prime pagine del Trattato sull’emendazione dell’intelletto). Da notare appunto l’espres- sione «Da principio la nuova vita [Anfangs das neue Leben]», che riassume «mein Geist […] war […] versenkt in die Gedanken einer neuen Lebensweise», il quale a sua volta riprende «mens […] serio de novo cogitabat instituto» del Tractatus de intellectus emen- datione cit., p. 7.

60    FP 1887-1888, 9 [26], p. 11; il frammento è dell’autunno 1887. La «ingenuità» consiste nel credere che la durevolezza di una cosa garantisca la durevolezza della affezione per essa: «Dice Cartesio: ‘ho ritenuto vere molte cose di cui vedo ora la falsità’. Spinoza: ‘ho rite- nuto buone molte cose di cui vedo ora che erano vane e prive di valorè. ‘Se esiste un bene schietto e non caduco, la soddisfazione che esso dà è allo stesso modo durevole e indistruttibile, la mia gioia è eternà. Errore psicologico: come se la durevolezza di una cosa garantisse la durevolezza della mia affezione per essa!» (FP 1885-1887, 7 [4], p. 250).

61     La gaia scienza, § 276, in OFN, V, 2, p. 159. Che la nozione di amor fati nasca nella tempe- rie dell’incontro con Spinoza nell’estate del 1881 lo dimostrano i frammenti in cui essa com- pare le prime volte: nella versione preparatoria, contenuta nel taccuino N V 7, che Nietzsche «ha avuto tra le mani almeno fin dall’autunno 1881» (ivi, p. 527), ma nulla vieta di pensare fin dall’estate, l’aforisma 276 iniziava così: «Prima di tutto il necessario – e questo il più buono e il più bello che sia possibile! Amalo – così facendo ti innalzi al di sopra del fato, altri- menti ne sei lo schiavo» (ivi, p. 548); strettamente legato a questo il frammento 15 [20], (ed. it. 13 [20], p. 434); cfr. anche 16 [22] (ed. it. 15 [20], p. 457). È necessario sottolineare come sia l’amore, cioè la piena adesione di sé al fato e l’incorporazione del fato in sé, a trasforma- re in gioiosa affermazione dell’accadere la sua supina accettazione, designata nell’aforisma 61 de Il viandante e la sua ombra, «fatalismo turco»: contro di esso vale la riflessione secon- do cui «ogni uomo è egli stesso una parte di fato» (interessante ricordare come una simile subalterna accettazione del destino sia denominata in Leibniz «fato maomettano o destino alla turca»: cfr. Teodicea, a cura di V. Mathieu, Bologna, Zanichelli, 1973, p. 72).

62    Frammenti postumi (1888-1889) (d’ora innanzi FP 1888-1889), in OFN, VIII, 3, 16 [32]. 87, 7 [4], p. 250).

63   Il viandante e la sua ombra, § 308. Cfr. anche il capitolo della quarta parte dello Zarathustra, intitolato appunto «Mezzogiorno»: il profeta si addormenta (anche qui con gli occhi aperti) e «il mondo» gli appare «perfetto»; ma si tratta di una «straniante ebbrezza», come si legge alla fine dell’episodio, in cui l’anima di Zarathustra ha rischiato di essere assorbita dalla natura, appellata «scaturigine dell’eternità! ilare orrido baratro meridiano!» (Così parlò Zarathustra cit., pp. 334-337). Ha richiamato l’attenzione sul passo, all’interno di una più ampia discussione sul rapporto tra vita, morte ed eternità, F. Gallo, Nietzsche e l’emancipazione estetica cit., pp. 116-122, che correttamente sottolinea la supremazia della scepsi sull’esperienza panico-materiale (p. 121; cfr. anche ivi, p. 143, dove si parla della preminenza «della critica e dello smascheramento» sulle forme misti- che di esperienza conoscitiva, con significativo richiamo all’amor dei intellectualis). Sulla metafora del Mittag, da intendersi tanto come esperienza panica quanto come momento supremo in cui l’umanità si libera dalla favola del «mondo vero» (Crepuscolo degli idoli cit., p. 76) e supera il nichilismo (Ecce homo cit., p. 340), mi sembra ancora utile la mono- grafia di K. Schlechta, Nietzsches grosser Mittag, Frankfurt a.M., 1954, tr. it. di U. Ugazio, Napoli, Guida, 1981, che ne mette in evidenza la tensione fra i due diversi significati. Non posso infine non menzionare la prossimità con l’aforisma nietzscheano di Le Cimetière Marin di Paul Valery, dove l’esperienza del «Midi sans mouvement» si chiude col celebre verso: «Le vent se lève!… Il faut tenter de vivre!».

64    Cfr. Così parlò Zarathustra, «I sette sigilli», e la poesia Gloria e eternità.

65    Così parlò Zarathustra cit., p. 237. Il riferimento alla dottrina leibniziana del migliore dei mondi possibili è chiaro; l’«anemicità» è una caratteristica dei metafisici, tra cui Spinoza: cfr. nota 71.

66    Ivi, p. 239.

67    FP 1888-1889, 16 [32].

68    Ecce homo cit., p. 306; cors. M.B.

69    Cfr. OFN, VI, 3, rispettivamente pp. 374 e 411.

70    L’espressione è in Al di là del bene e del male, § 5, dove la forma matematica avrebbe la fun- zione di proteggere la filosofia di Spinoza dagli attacchi degli avversari, e quindi tradirebbe «timidezza e vulnerabilità». Che lo spirito di vendetta sia alla radice del pensiero di Spinoza è affermato anche nella poesia A Spinoza, dell’autunno 1884, dal tono antisemita: «Rivolto con affetto all’‘uno in tutto’, / un amor dei beato, che vien dall’intelletto – / via le scarpe! che paese tre volte santo! / Ma sotto questo amore covava vorace / un incendio di vendetta, sinistramente: / – l’odio ebraico rodeva il dio ebraico! – / – Solitario, ti ho riconosciuto?», in Ditirambi di Dioniso e Poesie postume (1882-1888), OFN VI, 4, p. 119; e poi in Al di là del bene e del male, § 25: «Questi ripudiati dalla società, questi lungamente perseguitati, – ed anche gli eremiti per forza, gli Spinoza o i Giordano Bruno – finiscono sempre per diventare, sia pure sotto i più spi- rituali camuffamenti, e forse a loro stessa insaputa, degli assetati di vendetta e dei raffinati avve- lenatori (si dissotterri una buona volta il fondamento dell’etica e della teologia spinozista!)».

71     Mi riferisco a tutti quei luoghi degli ultimi scritti di Nietzsche in cui il Dio di Spinoza non è più la Natura divinizzata, ma un’astrazione metafisica: cfr. La gaia scienza § 372, dove la filosofia di Spinoza è considerata una forma di desensualizzazione e di idealismo estremi, «una specie di vampirismo»; oppure FP 1887-1888, 11 [138], in cui Spinoza è il rappresen- tante dell’«ideale anemico». Particolarmente interessante un passo dell’Anticristo, in cui si tratteggia la decadenza del Dio giudaico-cristiano, comunque legato alla fede popolare, nel Dio dei filosofi: «Persino i più esangui tra gli esangui signoreggiarono su di lui [su Dio], i signori metafisici, gli albini del concetto. Tesserono le loro trame intorno a lui che, ipnotizzato dai loro movimenti, divenne lui stesso un ragno, un metafisico. Tornò allora a tessere il mondo traendolo da se stesso – sub specie Spinozae – ormai si trasfigurava in qualcosa di sempre più sottile ed esangue, divenne ‘idealè, divenne ‘puro spiritò, divenne ‘absolutum’, divenne ‘cosa in sé’… Decadimento di un Dio: Dio divenne ‘cosa in sé’» (p. 185). È da notare che nel Crepuscolo degli idoli Nietzsche chiama «malati tessitori di ragnatele» i filosofi che pongono come principio una vuota astrazione, Dio come causa sui ed ens realissimum (p. 71); e paragona la filosofia di Spinoza a una ragnatela: «Niente è meno greco dell’intessuta ragna concettuale di un solitario, amor intellectualis Dei nello stile di Spinoza» (p. 123). Il paragone del Dio di Spinoza con un ragno che tesse da sé il mondo ha una lunga storia: mi limito a ricordare la remarque A dell’articolo Spinoza del Dizionario storico e critico, dove Bayle approva l’opinione di Bernier, secondo il quale lo spinozismo è riconducibile a quella filosofia indiana che afferma che il mondo è prodotto «alla maniera di un ragno che fa la tela traendola dal proprio ombelico» (P. Bayle, Dictionnaire historique et critique (1697), nou- velle édition, Paris 1820-24, Genève, Slaktine Reprints, 1969, vol. XIII, p. 424). Difficile stabilire se Nietzsche abbia letto la voce «Spinoza» di Bayle: comunque ne aveva avuto notizia almeno dalla lettura di Poesia e verità di Goethe e dalla monografia di Fischer, che la cita a proposito della vita del filosofo (Spinozas Leben, Werke und Lehre cit., pp. 100-102).

72    B. Spinoza, Etica, tr. it. cit., p. 316; cors. M.B. Sulla dimensione inter- (o trans-) individuale del terzo genere di conoscenza e dell’amor dei, e sulla possibilità di intendere la pra- tica della democrazia come scienza intuitiva, hanno richiamato l’attenzione molti impor- tanti interpreti della filosofia spinoziana; per brevità rimando solo alla efficace e più recente sintesi della questione: F. Del Lucchese, Democrazia, multitudo e terzo genere di conoscenza, in Sulla scienza intuitiva in Spinoza. Ontologia, politica, estetica, a cura di F. Del Lucchese e V. Morfino, Milano, Ghibli, 2003, pp. 95-127.

73    K. Fischer, Spinozas Leben, Werke und Lehre cit., p. 406.

74    Ivi, p. 518.

75    Cfr. nota 9 e testo corrispondente.

76    La gaia scienza § 279.