Caso e necessità in Vico

Caso e necessità nella nuova scienza vichiana

di Marco Vanzulli

La storia ideale eterna trova limpida espressione nelle degnità, che ne costituiscono i principi e ne forniscono al tempo stesso i contenuti. Degnità, in quanto traduzione letterale di assioma, indica una verità immediatamente evidente, relativa però non all’ordine delle conoscenze matematico-geometriche, ma a quello delle conoscenze antropologiche e storico-sociali. Va a questo proposito menzionato un dato su cui ci soffermeremo maggiormente in seguito e cioè che il titolo completo dell’opera recita: Principi di Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni. È questa «eterna comun civile natura»[4] delle cose umane che viene descritta nelle degnità, gli elementi della nuova scienza[5]. Alcune degnità hanno un carattere universale, si riferiscono cioè agli uomini in quanto tali, altre si soffermano invece sulla mentalità di epoche storiche specifiche, altre ancora espongono il corso  tipico delle cose umane. È a queste ultime che, nel contesto di questo lavoro, dobbiamo far ora cenno. La degnità LXV afferma: «L’ordine delle cose umane procedette: che prima furono le selve, dopo i tuguri, quindi i villaggi, appresso le città, finalmente l’accademie»[6]; e la successiva degnità LXVI: «Gli uomini prima sentono il necessario, dipoi badano all’utile, appresso avvertiscono il comodo, più innanzi si dilettano del piacere, quindi si dissolvono nel lusso, e finalmente impazzano in istrappazzar le sostanze»[7]; ancora, la successiva degnità LXVII: «La natura de’ popoli prima è cruda, dipoi severa, quindi benigna, appresso dilicata, finalmente dissoluta»[8]; infine, la degnità LXVIII: «Nel gener umano prima sorgono immani e goffi, qual’i Polifemi; poi magnanimi ed orgogliosi, quali gli Achilli; quindi valorosi e giusti, quali gli Aristidi, gli Scipioni affricani; più a noi gli appariscenti con grand’immagini di virtù che s’accompagnano con grandi vizi, ch’appo il popolo fanno strepito di vera gloria, quali gli Alessandri e i Cesari; più oltre i tristi riflessivi, qual’i Tiberi; finalmente i furiosi dissoluti e sfacciati, qual’i Caligoli, i Neroni, i Domiziani […] E questa con l’antecedenti Degnità danno una parte de’ princìpi della storia ideale eterna, sulla quale corrono in tempo tutte le nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini»[9]. La storia ideale eterna indica dunque la successione delle varie posizioni e la connessione regolare della trasformazione storica, ossia lo sviluppo tipico di qualsiasi civiltà. Secondo le sue linee storico-politiche generali, tale ordom – che è insieme ordo rerum et idearum – si trova tracciato anche nella Conchiusione dell’opera: per comprendere la repubblica di Platone «nella quale gli uomini onesti e dabbene fussero supremi signori» occorre prendere le mosse «da’ primi incominciamenti delle nazioni». E partendo dai giganti, dispersi nell’erramento ferino, con l’atto iniziale fondante l’umanità, la religione del fulmine, Vico descrive un processo, basato fondamentalmente sulle vicende del popolo romano e sulla sua lotta di classe, che, dopo un percorso secolare, giunge alla repubblica popolare. Quest’ultima, benché sia da Vico descritta in modo assai positivo, degenera, secondo l’insegnamento platonico, nella corruzione e la pace sociale lascia il posto alla guerra civile e all’anarchia. A questa situazione si danno come possibili tre rimedi: o la monarchia, in cui uno abbia in mano tutti gli ordini e le leggi con la forza delle armi, ma, al fine di conservare il potere, renda contento, nella religione e nella libertà, il popolo; o la conquista da parte di nazioni migliori – perché più virtuose – e più ‘giovani’; o infine il ricorso[10].

La storia ideale eterna, dunque, in quanto descrizione dello sviluppo tipico, dell’andamento regolare del processo socioculturale, sembra indicare una sorta di necessità del divenire e del trasformarsi delle vicende civili dei popoli. Ma come procede lo studioso nello scoprire l’ordine di questo divenire?

Alcune degnità indicano un metodo fondamentalmente genealogico, di tipo non aprioristico: «Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise»[11], recita la degnità XIV e la successiva specifica: «Le propietà inseparabili da’ subbietti devon essere produtte dalla modificazione o guisa con che le cose son nate; per lo che esse ci possono avverare tale e non altra essere la natura o nascimento di esse cose»[12], mentre la degnità CVI ricorda che: «Le dottrine debbono cominciare da quando cominciano le materie che trattano»[13]. Il metodo vichiano appare dunque di tipo genetico-critico, non essenzialistico, nella misura in cui risolve la natura di una cosa nella sua costituzione genetica, riportandola alla complessità di condizioni che ne hanno determinato la nascita-natura. La natura sorge nel tempo. La natura di ogni oggetto dato appartiene interamente all’ordine del fenomeno storico ed esclude il rimando a qualsivoglia altro ordine di significato. Perlomeno ciò è quanto stabilisce lo scienziato delle «nazioni», che definisce con ciò stesso l’autonomia del proprio ambito disciplinare. In ciò è da vedersi la vicinanza di Vico al metodo della scienza moderna, che registra la guisa, ovvero il modo, il come, fermandosi «sopra certi primi oltre i quali sia stolta la curiosità di domandare altri primi, che è la vera caratteristica della scienza»[14]. La scienza ricerca l’uniformità, la tendenza, la costanza o, con la terminologia vichiana, l’eterno. Occorre infatti «meditare questo mondo di nazioni nella sua idea eterna, per quella propietà di ciascuna scienza, avvertita da Aristotile, che ‘scientia debet esse de universalibus et aeternis’»[15]. Il metodo della nuova scienza deve unire filosofia e filologia, fino ad allora rimaste separate. La filologia, il certum, è intesa da Vico in un senso assai ampio, perché le parole rimandano alle cose, non sono comprensibili senza le cose che esse significano o significavano e, viceversa, le cose risultano comprensibili solo attraverso le parole che le significano o che le significavano. Come mostra lo scavo etimologico, le parole sono composte di strati che sono gli strati delle cose, cioè, in ultima analisi, delle vicende storiche[16]. Di esse si occupa dunque la filologia: leggi, guerre, commerci, costumi dei popoli, ossia l’insieme della tradizione storica. Scrive Vico nella Spiegazione della dipintura proposta al frontispizio con cui si apre la Scienza Nuova: «l’etimologie delle lingue natie sieno istorie di cose significate da esse voci su quest’ordine naturale d’idee, che prima furono le selve, poi i campi colti e i tuguri, appresso le picciole case e le ville, quindi le città, finalmente l’accademie e i filosofi (sopra il qual ordine ne devono dalle prime lor origini camminar i progressi)»[17]. Ritroviamo, in questo passo sull’etimologia, la degnità LXV: non solo le parole signficano le cose, ma l’etimologie sono «istorie di cose» che si modellano su un «ordine naturale d’idee». In ciò consiste l’unione del certum col verum, cioè con la filosofia, intesa come regola di sviluppo, legge del corso delle cose umane, senza la cui luce la filologia rimarrebbe un caotico insieme di dati ordinabili soltanto cronologicamente – e secondo delle cronologie arbitrarie. Il certum è ciò che è peculiare, ma anche ciò che è conosciuto e indubitabile, mentre il verum è il commune, ciò che appartiene a molti[18]. Del resto, nella Scienza Nuova, Vico si è proposto appunto il compito di schiarire la caoticità della tradizione antica e di portare i cosiddetti tempi oscuri al livello di una conoscenza vera e certa. Anche la filosofia non può stare però senza la filologia: il verum senza certum è privo di contenuto e sterile. Vico si vanta di essere stato il primo a congiungerli. Croce si è entusiasmato per questa reciprocità di storia e filosofia, ha visto in Vico «il secolo decimonono in germe», cioè un confuso filosofo dello spirito, un genio, nella desolazione culturale dell’Italia della sua epoca, anticipatore dei grandi temi dell’idealismo storicistico ottocentesco[19]. Da parte nostra, si tratta di continuare questa disamina, per vedere quale sia in realtà il rapporto d’implicazione reciproca tra l’ambito del tempo e quello dell’idea.

Il tempo è rappresentato da Tacito, un grande storico, che ha saputo cogliere ciò che è, descrivendo il carattere particolare di un popolo, così come avviene ne La Germania. L’idea trova il suo rappresentante in Platone, che ha considerato la società come deve essere, vedendola attraverso la filosofia. Nella Vita scritta da se medesimo, Vico racconta come, con la lettura di Platone «incominciò in lui, senz’avvertirlo, a destarsi il pensiero di meditare un diritto ideale eterno che celebrassesi in una città universale nell’idea o disegno della providenza, sopra la quale idea son poi fondate tutte le repubbliche di tutti i tempi, di tutte le nazioni: che era quella repubblica ideale che, in conseguenza della sua metafisica, doveva meditar Platone, ma, per l’ignoranza del primo uom caduto, nol poté fare»[20]. Platone non riuscì cioè nel suo intento, perché mancò di un metodo genealogico, che considerasse la stessa società perfetta, anziché come mera costruzione razionale operata da filosofi, come risultato di uno sviluppo storico che aveva preso le mosse dal «primo uom caduto», cioè – trasformando il racconto teologico in assunto antropologico – dall’umanità delle origini. La considerazione platonica della repubblica ideale si trasforma, in Vico, nel rilevamento storiografico dell’ordine sociale, intrinseco ad ogni cultura e collocabile in un continuo processo. Esso vien così perdendo ogni valenza aprioristica. A riprova di come l’idea di Platone non sia da intendersi, in Vico, nel suo significato metafisico, basterebbe soltanto ricordare come l’autore a cui Vico attribuisce la felice sistemazione di un sapere unitario sia Grozio, che «pone in sistema di un diritto universale tutta la filosofia e la filologia in entrambe le parti di questa ultima, sì della storia delle cose o favolosa o certa, sì della storia delle tre lingue, ebrea, greca e latina, che sono le tre lingue dotte antiche che ci son pervenute per mano della cristiana religione»[21].

Vi è, dunque, un ordine eterno, che è «appo tutte le nazioni uniforme, quantunque sien surte e incominciate in tempi tra loro differentissimi, ovunque se ne dieno le medesime occasioni delle stesse umane bisogne, sopra le quali egli ha costanti le sue origini e i suoi progressi»[22]. L’ordine eterno si dà, in Vico, alla luce di uno sguardo di tipo antropologico, che vede, nelle società umane, comuni, o universali, momenti formativi e costitutivi, «ovunque se ne dieno le medesime occasioni delle stesse umane bisogne». Lo sviluppo tipico non implica, pertanto, la necessità propria di una filosofia dello spirito – con il dualismo che essa sempre comporta tra il piano dell’essenza e quello del fenomeno, tra l’universale e l’individuale, tra il razionale e l’empirico, e in cui, con tutta la sua immanenza, ciò che si manifesta rimanda sempre a un’origine altra del suo manifestarsi – ma è da intendersi come un registro che il filosofo ha desunto dall’osservazione della sua materia e che, senza coincidere con nessuna di esse, scorre nelle storie delle nazioni, le quali costituiscono infatti delle varianti che possono anche allontanarsi sensibilmente dalla regolarità propria del modello. Eccone un esempio: «I greci filosofi affrettarono il natural corso che far doveva la loro nazione, col provenirvi essendo ancor cruda la loro barbarie, onde passarono immediatamente ad una somma dilicatezza, e nello stesso tempo serbaronv’intiere le loro storie favolose così divine com’eroiche; ove i romani, i quali ne’ lor costumi camminarono con giusto passo, affatto perderono di veduta la loro storia degli dèi […] e conservarono con favella volgare la storia eroica che si stende da Romolo fino alle leggi Publilia e Petelia, che si truoverà una perpetua mitologia storica dell’età degli eroi di Grecia»[23]. Quindi, i Greci costituiscono una variante dello sviluppo tipico, essendo passati quasi repentinamente da una condizione di barbarie ad una assai raffinata. Ciò che accadde in Grecia accadde anche in Francia, «nella quale perché di mezzo alla barbarie del mille e cento s’aprì la famosa scuola parigina, dove il celebre maestro delle sentenze Piero Lombardo si diede ad insegnare di sottilissima teologia scolastica, vi restò come un poema omerico la storia di Turpino vescovo di Parigi, piena di tutte le favole degli eroi di Francia che si dissero ‘i paladini’, delle quali s’empieron appresso tanti romanzi e poemi. E, per tal immaturo passaggio dalla barbarie alle scienze più sottili, la francese restonne una lingua dilicatissima, talché, di tutte le viventi, sembra aver restituito a’ nostri tempi l’atticismo de’ greci e più ch’ogni altra è buona a ragionar delle scienze, come la greca; e come a’ greci così a’ francesi restarono tanti dittonghi, che son propi di lingua barbara, dura ancor e difficile a comporre le consonanti con le vocali»[24]. Lo stesso fenomeno – il fatto cioè che la mitologia romana non sia giunta fino a noi e che la sua storia, raccontata in lingua prosaica, costituisca però, sotto il profilo del contenuto storico, un analogon della mitologia greca, giunta come favola e come poesia – ha però una spiegazione anche dal lato della storia romana, e cioè «che Romolo fondò Roma in mezzo ad altre più antiche città del Lazio, e fondolla con aprirvi l’asilo […] perché, durando ancora le violenze, egli naturalmente ordinò la romana sulla pianta sulla quale si erano fondate le prime città del mondo. Laonde, da tali stessi princìpi progredendo i romani costumi, in tempi che le lingue volgari del Lazio avevano fatto di molti avvanzi, dovette avvenire che le cose civili romane, le qual’i popoli greci avevano spiegato con lingua eroica, essi spiegarono con lingua volgare; onde la storia romana antica si truoverà essere una perpetua mitologia della storia eroica de’greci. E questa dev’essere la cagione perché i romani furono gli eroi del mondo: perocché Roma manomise l’altre città del Lazio, quindi l’Italia e per ultimo il mondo, essendo tra’ romani giovine l’eroismo; mentre tra gli altri popoli del Lazio, da’ quali, vinti, provenne tutta la romana grandezza, aveva dovuto incominciar a invecchiarsi»[25]. La regolarità della storia romana consiste nella gradualità dei suoi passaggi evolutivi. La spiegazione di tale sviluppo ha luogo unicamente sul piano delle interne motivazioni storiche, politiche, geografiche, sul piano cioè della «modificazioni o guise» delle cose. A determinare la differente storia delle nazioni, per esempio qui della greca e della romana, vi sono dunque degli ineliminabili elementi costitutivi di contingenza, che in realtà però forniscono quasi tutto ciò che indica l’identità di un popolo: il come (dove, in quali condizioni storiche) un popolo è sorto spiega il che cosa un popolo sia diventato. La contingenza del reale corso storico di un popolo ne dà così la peculiare natura, non la necessità, a tutti comune, propria della storia ideale eterna. Occorre, inoltre, ricordare che pochi popoli han percorso il ciclo totale, sono giunti a sviluppo pieno, soggetti alla casualità dell’esistere come gli individui. Infatti, «questo corso di cose umane civili non fecero Cartagine, Capova, Numanzia, dalle quali tre città Roma temé l’imperio del mondo: perché i cartaginesi furono prevenuti dalla natia acutezza affricana, che più aguzzarono coi commerzi marittimi; i capovani furono prevenuti dalla mollezza del cielo e dall’abbondanza della Campagna felice; e finalmente i numantini, perché sul loro primo fiorire dell’eroismo furono oppressi dalla romana potenza, comandata da uno Scipione Affricano, vincitor di Cartagine ed assistito dalle forze del mondo. Ma i romani, da niuna di queste cose mai prevenuti, camminarono con giusti passi, faccendosi regolare dalla provvedenza per mezzo della sapienza volgare, e per tutte e tre le forme degli Stati civili, secondo il loro ordine naturale, ch’a tante prove in questi libri si è dimostrato, durarono sopra di ciascheduna finché naturalmente alle forme prime succedessero le seconde; e custodirono l’aristocrazia fin alle leggi Publilia e Petelia, custodirono la libertà popolare fin a’ tempi d’Augusto, custodirono la monarchia finché all’interne ed esterne cagioni che distruggono tal forma di Stati poterono umanamente resistere»[26]. O ancora: «Finalmente, valicando per l’Oceano, nel Nuovo Mondo gli Americani correrebbon’ora tal corso di cose umane, se non fussero stati scoverti dagli Europei e gli Patacones verranno a quelle nostre giuste stature, ed umani costumi, se gli lasceranno fare il naturale loro corso»[27]. Si dice cioè che i popoli indigeni americani, se non fossero stati scoperti dagli europei, avrebbero raggiunto il momento più alto del loro ciclo storico («tal corso di cose umane»). Troviamo quindi, sulla base di un modello dello sviluppo socioculturale, un’implicita critica della conquista e della colonizzazione. Non certo un giudizio in sé sulla conquista (ché anzi può talvolta essere rimedio all’incipiente imbarbarimento e al ricorso), ma su questa dell’America dal punto di vista dei conquistati, attinto in base al punto di vista della nuova scienza.

L’ordine eterno, che sembra richiamare una necessità iperuranica, è pertanto composto di fatto con vicende temporali, contingenti, che, costituendone l’unico contenuto, l’unico ambito di applicazione, ne incrinano dall’interno l’apparente assolutezza[28]. Le storie delle nazioni, e non ve ne sono altre ­­- non vi è, in Vico, differentemente da Hegel, una storia universale -possono allora, per un lato, essere considerate contingenti, individuali, per l’altro, possono essere oggetto di uno studio scientifico, nella misura in cui il loro sviluppo è rapportabile e confrontabile con un ordine logico che si è desunto dal loro stesso corso. Ecco il circolo ermeneutico che rimanda internamente l’uno all’altro i piani dell’idea e del tempo. La storia non è né il regno della necessità stoica (il fato) né il regno del caso degli epicurei: «Questo, che fece tutto ciò, fu pur mente, perché’l fecero gli uomini con intelligenza; non fu fato, perché’l fecero con elezione; non caso, perché con perpetuità, sempre così faccendo, escono nelle medesime cose»[29]. La storia non è fato, perché il circolo descritto è regolativo, non è assoluto e imperscrutabile divenire, né, in fondo per la stessa ragione, è caso, perché in essa, sulla base che si è indicata, lo sviluppo segue una regola e quindi è comprensibile e perfino prevedibile. Vico difende il libero arbitrio del cattolicesimo contro il determinismo dell’atomismo (il ‘caso’, l’assenza cioè di una casualità finalistica) e il fatalismo degli stoici. In realtà, all’interno del discorso storico-antropologico della Scienza Nuova, questa polemica assume un diverso significato, poiché, essendo l’oggetto della trattazione costituito di entità non personali, non individuali, ma piuttosto collettive, quali le nazioni e gli istituti sociali, la difesa del libero arbitrio si trova di fatto inscritta in un contesto che la trasforma e la rende valida rispetto ad un altro orizzonte teorico, appunto quello scientifico-metodologico della difesa della regolarità (idea) e della contingenza (tempo) delle vicende dei popoli. E questa scienza si esplica nello studio del come e in base a quali principi le singole vicende delle nazioni, con la loro casualità, hanno dato corso alla comune natura umana, in base alla quale, entrati in società, gli uomini sviluppano la propria vita secondo certe tendenze a tutti comuni. Tale e non altra è infatti la natura umana. Il carattere circolare per cui natura umana e società storiche rimandano l’una all’altra indica bene quali siano i limiti dell’indagine vichiana. La nuova scienza, appunto in quanto scienza, non risponde agli interrogativi ultimi, ma rende conto delle costanti dell’esperienza dei popoli, in quanto costanti storiche. Per fare un esempio, la società degli atei di Bayle e di Polibio è certo da Vico contestata, da un lato in virtù della riconosciuta funzione civile della religione, ma, dall’altro, perché non se ne dà tradizione storica attendibile. Vico smentisce infatti l’osservazione di Antoine Arnauld secondo la quale i popoli delle Antille vivevano senza conoscere Dio[30]. Essendo un’utopia, una realtà extrastorica soltanto immaginata, essa non appare un possibile risultato dell’evoluzione socioculturale, che, strutturalmente, ripete l’identico. E allora non interessa Vico, né la sua scienza. In questo senso, mutatis mutandis, la critica vichiana dell’utopia – per esempio della platonica repubblica giusta – può essere accostata alla critica marxiana del socialismo utopistico. Si scoprono così le costanti culturali e storiche per cui tutte le società si costituiscono intorno a tre elementi fondamentali: una religione condivisa, il culto (sepoltura) dei morti e l’istituzione della famiglia come prima cellula ad un tempo sociale e politica. In questo senso, dunque, la nuova scienza è universale, perché rende possibile uno studio scientifico comparato delle forme di civiltà, un’antropologia comparata dello sviluppo delle società. Le storie sono sempre individuali e contingenti[31], le origini del linguaggio, della religione e degli istituti sociali, secondo una prospettiva poligenetica, sono spontanee ed autoctone presso ciascun popolo. Gli elementi di definizione del discorso vichiano hanno particolare importanza quando si ricordi che Vico non vuol tanto fare lo storiografo, ma lo scienziato, non si limita cioè a narrare la historia rerum gestarum di Roma o della Grecia in quanto tali – attività alla quale, certo, in parte si dedica, ma sempre subordinandola al chiarimento dei principi innovatori che sta introducendo nello studio delle culture[32] – cioè la storia di un tempo particolare, ma intende offrire una trattazione «d’intorno alla comune natura delle nazioni» in generale: «e si avrà tutta spiegata la storia, non già particolare ed in tempo delle leggi e de’ fatti de’romani o de’greci, ma (sull’identità in sostanza d’intendere e diversità de’modi loro di spiegarsi) si avrà la storia ideale delle leggi eterne, sopra le quali corrono i fatti di tutte le nazioni»[33]. Non esiste un piano provvidenziale generale, una storia universale, alla maniera della filosofia della storia hegeliana quale filosofia dello spirito. La provvidenza vichiana – sul significato da attribuire alla quale, tra breve, sarà opportuno soffermarsi – opera all’interno del corso di un popolo; i corsi dei popoli possono incontrarsi (attraverso la conquista o attraverso i rapporti commerciali), ma sono soltanto le circostanze e le occasioni contingenti a dare il senso del fenomeno. È assente in Vico un piano generale che riguardi la storia del mondo. Mentre la storia ideale eterna è lo sviluppo tipico di ogni comunità e si svolge al suo interno, la filosofia dello spirito hegeliana è lo sviluppo dello Spirito nel suo passare attraverso i popoli. Un popolo è portatore dello Spirito, ne è investito dalla razionalità, ne è però poi abbandonato e la sua vita ideale rinsecchisce mentre continua soltanto la sua vita temporale[34]. Che senso ha per Hegel studiare i Greci del suo tempo? In base alla nuova scienza vichiana, invece, essi costituiscono un oggetto di studio degno come qualsiasi altro, appunto perché lo sviluppo tipico, che sia compiuto, anticipato o ritardato, che ristagni o cominci a decadere, che entri nel ricorso dopo l’acme, avviene all’interno di ogni singolo popolo. La storia è allora presente in ogni dove, in quanto comprensibile e omogenea in ogni tempo. Dice Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della storia: «Certi popoli, prima di attingere questa loro intrinseca finalità [cioè la libertà dell’individuo che vuole lo stato e le leggi], possono aver vissuto lungamente senza organizzazione statale, e anche aver raggiunto così, per certi aspetti, un notevole grado di evoluzione [eine bedeutende Ausbildung nach gewissen Richtungen]. Questa preistoria [Vorgeschichte] però […] non ci riguarda quanto al nostro scopo: può darsi tanto che ad essa abbia fatto seguito una vera storia [eine wirkliche Geschichte], quanto che i popoli non siano affatto pervenuti a formare uno stato […] Anche al giorno d’oggi noi sappiamo che esistono popolazioni le quali a mala pena costituiscono una comunità [Gesellschaft], e tanto meno uno stato, e di cui pure è noto che sussistono da molto tempo. Altre, che per la loro condizione evoluta [gebildeter Zustand] c’interessano necessariamente in modo precipuo, hanno una tradizione che risale oltre la storia della formazione del loro stato: esse hanno quindi avuto molte vicende ancora prima di tale età […] Gli spazi di tempo (possiamo immaginare che siano secoli o millenni) i quali sono trascorsi per i popoli prima che essi abbiano cominciato a scrivere la storia, e che possono essere stati colmi di rivoluzioni, di migrazioni, di mutazioni fra le più violente, sono senza storia oggettiva [objektive Geschichte], perché non offrono alcuna storia soggettiva [subjektive Geschichte], alcuna narrazione [Geschichtserzählung]. Questa storia soggettiva non sarebbe andata perduta, in così lunghi spazi di tempo, solo per opera del caso: è perché di fatto essa non ha potuto sussistere, che noi non ne abbiamo. Solo nello stato, con la consapevolezza delle leggi, si danno azioni chiare, e con esse la chiarezza della coscienza che se ne ha, e che fornisce la capacità e l’esigenza di conservarle in tale forma […] Per la mancanza di tale presupposto [cioè la libertà razionale in sé] necessario per una storiografia [Geschichte] è pure accaduto che si è portata innanzi senza storia tutta quell’opera, così vasta e anzi incommensurabile, per cui le famiglie si sono accresciute a tribù, le tribù a popoli, questo aumento determinando poi un’espansione, che di per sé lascia supporre tante complicazioni, guerre, rovine, decadenze»[35]. Questa antestoria hegeliana coincide sostanzialmente con la non spiritualità, ovvero non razionalità, di un popolo, ma, se si guarda bene, essa è proprio l’oggetto dichiarato della trattazione della Scienza Nuova, che si pone come compito, in base ai nuovi principi in essa scoperti, la conoscenza delle origini della storia, cioè «le cose vere del tempo favoloso delle nazioni, e molto più le già da tutti disperate a sapersi del tempo oscuro, e’n conseguenza le prime vere origini delle cose del tempo storico»[36]. Per Hegel, ciò che Vico si gloria di aver spiegato e trasformato in oggetto di studio scientifico – le origini – è solo l’antefatto non spirituale; il tempo oscuro è in se stesso oscuro e non degno di essere compreso, o forse ancor meglio, non comprensibile[37]. Del resto, il tempo favoloso ha, per Vico, una sua storia soggettiva, che rimanda alla storia oggettiva, di cui nessun popolo è privo, ed è il mito, inteso come vera narratio. È assai singolare dunque che tra due pensatori tra i quali si sono voluti trovare così profondi vincoli ideali esista, quanto all’interesse conoscitivo, una differenza tanto marcata. Tale differenza – che si concentra nell’interesse per le origini o nella sua esclusione – può essere significativa, nella misura in cui separa il lavoro dell’antropologo da quello del filosofo idealista per cui «proprio e degno della considerazione filosofica è soltanto il prendere a trattare la storia là ove la razionalità comincia a entrare nell’esistenza mondana»[38].

A proposito della natura scientifica, e non metafisica, della Scienza Nuova, occorre ricordare il carattere pratico che Vico attribuiva alla sua opera. In virtù del tratto fondamentale che viene assumendo la scienza moderna, quello cioè della previsione dei fenomeni, nella Scienza Nuova prima, Vico ipotizza, come parte costitutiva della nuova disciplina, «un’arte come diagnostica […] la quale, in ultima conseguenza, ne dà il fine principale di questa Scienza di conoscere i segni indubitati dello stato delle nazioni»[39], che implica l’intervento del sapiente nel governo di una nazione. Ciò si esprime attraverso il tema del punto culminante (Žkm®) dello sviluppo di una società e della sua conservazione: «e per sì fatti princìpi ne fosse stabilita una certa Žkm® o sia uno stato di perfezione, dal quale se ne potessero misurare i gradi e gli estremi, per li quali e dentro i quali, come ogni altra cosa mortale, deve essa umanità delle nazioni correre e terminare, onde con iscienza si apprendessero le pratiche come l’umanità di una nazione, surgendo, possa pervenire a tale stato perfetto, e come ella, quinci decadendo, possa di nuovo ridurvisi. Tale stato di perfezione unicamente sarebbe: fermarsi le nazioni in certe massime così dimostrate per ragioni costanti come praticate co’ costumi comuni, sopra le quali la sapienza riposta de’ filosofi dasse la mano e reggesse la sapienza volgare delle nazioni, e, ’n cotal guisa, vi convenissero gli più riputati delle accademie con tutti i sapienti delle repubbliche»[40]. Lo studioso, che ha saputo determinare lo sviluppo tipico, è in grado d’indicare quali condizioni debbano essere mantenute al fine di preservare il momento di acme. Altrimenti, la ruota dello sviluppo tipico delle cose umane potrebbe portare a una prevedibile caduta. Molti motivi si uniscono in questo carattere pratico del conoscere – tra gli altri, il tema platonico del sapiente che governa, quello della conservazione del potere proprio delle teorie della ragion di stato – e, sebbene questa funzione dell’intellettuale venga ridimensionata nella Scienza Nuova seconda –  in cui sarà sviluppato, pessimisticamente, il tema del ricorso e verrà meno il tema dell’Žkm® con la correlata diagnostica – ciò non inficia il carattere scientifico della conoscenza storico-sociale, che, come si è inteso mostrare, studiando la regolarità dei fenomeni, è in grado di prevederli e, in qualche misura, d’intervenire su di essi (conservazione dell’acme) sulla base del suo sapere. Per questo la Scienza Nuova prima poteva proporsi come diagnostica, distinguendosi nettamente rispetto a una concezione quale quella hegeliana, pienamente speculativa, appartenente alla tradizione aristotelica della filosofia contemplativa, in cui, nel celebre passo della Filosofia del diritto, la filosofia, come la nottola di Minerva che vola al tramonto, assume unicamente lo scopo teoretico della descrizione[41], non quello scientifico della previsione, premessa di una possibile trasformazione[42].

Si può affermare così che mentre la necessità hegeliana è quella del concetto, che si afferma nel reale, in Vico «la necessità rimane puramente ipotetica, poiché la determinazione che in certe condizioni debbano succedere certe cose, non ci trasferisce dal regno del possibile al regno del reale […] La ‘storia ideale eterna’, costruita in modo corretto, può assicurare la mutua coerenza dei principi di ricostruzione storica, che sono necessari per una qualsiasi storia scientifica»[43]

Vico è stato criticato perché la storia ideale eterna non si trova mai realmente ‘pura’ nella sua teoreticità e astrazione. Ma ciò accade proprio perché non si tratta di un modello dato a priori, non avendo, in sé, alcuna consistenza ontologica, essendo intrinsecamente mescolato al contenuto della filologia, cioè delle storie delle nazioni, rispetto alle quali funge da principio metodologico, così come la legge fisica non esiste a priori rispetto ai corpi, ma può venir formulata solo attraverso le determinazioni che assume nelle diverse condizioni del mondo fisico. Non vi è pertanto, nella riflessione vichiana, una differenza radicale tra Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften, appunto perché, per lui, esse condividono la stessa impostazione epistemologica fondamentale. Diversa era invece l’opinione di Croce, che lamentava, nella Scienza Nuova, la confusione tra empiria e concetto, tra tempo e idea. Seguiva questa interpretazione Guido De Ruggiero, quando osservava, sempre nella Scienza Nuova, una continua ed indebita mescolanza del certo e del vero: «Una delle difficoltà maggiori della dottrina vichiana sta in questo intrecciarsi dei due opposti temi, senza che i limiti rispettivi siano ben definiti. Se Vico avesse fissato i due concetti come due momenti ideali dello spirito, egli avrebbe potuto facilmente determinare i loro rapporti di distinzione e d’implicazione; ma la tendenza costante del suo pensiero è di tradurre immediatamente le relazioni concettuali in rapporti storici. Ora nella storia non si dà mai un periodo che coincida esattamente con un solo momento ideale della vita dello spirito; in essa si realizza tutto l’uomo, con tutte le sue forme o attività. Perciò essa turba, coi continui sconfinamenti di un’attività in un’altra, il lavoro di esatta determinazione concettuale, e a sua volta riceve turbamento da ogni tentativo di costringerla nei limiti dei puri concetti. La conseguenza è che troppo spesso il Vico oscura la sua filosofia con l’inserzione inopportuna della storia, e falsifica la storia costringendola nel letto di Procuste della filosofia»[44]. Il riferimento filosofico su cui si fonda la critica di De Ruggiero è la crociana dialettica dei distinti. In realtà, Vico non è portatore di nessuna teoria dello spirito e, pertanto, una valutazione di questo tipo se, da un lato, ci dice molto sulla posizione filosofica del commentatore, dall’altro, non illumina per niente quella del commentato, sul quale viene proiettata una griglia concettuale di stampo idealistico, che gli rimane completamente estranea. In particolare, ci si stupisce che la storia ideale eterna non sia data da Vico separata dalle storie reali temporali, il tempo dall’idea, e si vuol fare, sulla scorta di una posizione idealistica, anche del certum, anche di ciò che è nel tempo, un elemento dell’idea. Ma se la storia ideale eterna è immanente, come vuole Croce, essa non è spiritualistica. Il brano di De Ruggiero, del resto, aveva i suoi precisi riferimenti in alcuni passi crociani, tra cui: «storia ideale è anche pel Vico la determinazione empirica dell’ordine in cui si succedono le forme delle civiltà, degli stati, dei linguaggi, degli stili, delle poesie, accade che egli concepisca la serie empirica come identica alla serie ideale e fornita delle virtù di questa; onde la sentenzia tale che debba sempre esattamente riscontrarsi nei fatti, ‘fosse anco che nell’eternità nascessero di tempo in tempo mondi infiniti’; il che è apertamente falso, non essendovi alcuna ragione che si ripetano in perpetuo (col ‘dovette, deve e dovrà’) le empiriche aristocrazie di Grecia o di Roma, e le civiltà sorgano o decadano per l’appunto come sorsero e decaddero quelle antiche. E nel medesimo atto di questo assolutizzamento del corso empirico il corso ideale si vela di un’ombra empirica, perché, reso identico all’altro, riceve il carattere empirico dell’altro, e si temporalizza, da eterno ed extratemporale che era nella concezione iniziale. Si dica il medesimo delle singole forme dello spirito, le quali, come ideali ed extratemporali, sono tutte e sempre in ogni singolo fatto; ma il Vico confondendole coi fatti reali e concreti che la scienza empirica fissa nei suoi schemi, viene, subito dopo averle proposte, ad abbuiarle nella loro ideale forma e distinzione. È vero che il momento della forza non è quello della giustizia; ma il tipo empirico della società barbarica fondata sulla forza, appunto perché è una determinazione rappresentativa e approssimativa, e si riferisce a uno stato di cose concreto e totale, non contiene solamente forza, sì anche giustizia; e, quando quel momento ideale e quel tipo sono scambiati fra loro e presi come identici, da una parte il concetto filosofico della forza s’intorbida di quello di giustizia e, facendosi ibrido e contraddittorio e incoerente, si sforma, dall’altra il tipo empirico della società barbarica viene esagerato e di troppo irrigidito. La confusione dell’elemento filosofico e dell’empirico si può dire manifesta nella ‘dignità’ che definisce la natura delle cose: ‘Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascono le cose’; dove appaiono messi insieme le guise e i tempi, la genesi ideale e la genesi empirica»[45]. Di qui, la proposta di un «generale canone ermeneutico di andare separando per via d’analisi la schietta filosofia che è in lui dall’empiria e dalla storia con le quali è commista e quasi incorporata (e altresì queste da quella)»[46]. Mi sembra utile soffermarsi su tale passaggio, nel quale Croce, lamentando, nella Scienza Nuova, l’indistinzione tra serie ideale e serie empirica, giunge a banalizzare il pensiero vichiano attribuendogli la credenza che «si ripetano in perpetuo (col ‘dovette, deve e dovrà’) le empiriche aristocrazie di Grecia o di Roma, e le civiltà sorgano o decadano per l’appunto come sorsero e decaddero quelle antiche», come se in Vico si trovasse contenuta una teoria fatalistica dell’eterno ritorno, quando l’indistinzione tra serie ideale e serie empirica si è mostrata alla nostra analisi piuttosto come risultato di un’adesione alle indicazioni antimetafisiche della moderna epistemologia galileiana, nella misura in cui la storia ideale eterna, così permeata di un’attitudine scientifica, essendo fondamentalmente tributaria delle storie delle nazioni, non esiste in realtà come serie ideale, ma come sistema di canoni metodologici[47]. Del resto, la celebre degnità LXIV afferma che «L’ordine dell’idee dee procedere secondo l’ordine delle cose»[48], e non viceversa, a confermare il fatto che l’idea è data nel tempo, e non il tempo nell’idea, come vorrebbe ogni idealismo[49]. Quanto alla logica del «dovette, deve e dovrà», essa, anziché indicare un ritorno dell’empirico in quanto tale, esprime piuttosto «un’istanza critica razionalistica assertrice di una necessità interna allo sviluppo lineare dei fenomeni stessi»[50]. È del resto assai significativo che Croce non sappia interpretare adeguatamente la degnità XIV – che reputa confusa perché «appaiono messi insieme le guise e i tempi, la genesi ideale e la genesi empirica» – da noi invece sopra considerata, insieme ad altre analoghe, indicatrice di un metodo genealogico, non essenzialistico e pertanto di difficile trasformazione idealistica. Ancora, per Croce, non appare sempre chiaramente in Vico che le «singole forme dello spirito […] come ideali ed extratemporali, sono tutte e sempre in ogni singolo fatto»[51]. È senz’altro vero che vi è una ragione sepolta già nell’età del senso e della fantasia e che l’umanità – per Croce, lo Spirito – è pienamente e integralmente presente in tutte le epoche, che non si dà quindi mai un’umanità minore, né un processo definibile come ‘umanizzazione’ (e ciò porta a prospettare una lettura antropologica della Scienza Nuova in cui sia accentuata, accanto alla visione diacronica, quella sincronica). Vi è, d’altra parte, un culmine dello sviluppo tipico della storia di un popolo – che Vico caratterizza come età degli uomini, della ragione – ma, anche in esso, per realizzare una pienezza civile ed umana, devono essere presenti le determinazioni del senso e della fantasia, costitutive della barbarie[52]. Infatti, si prospetta «l’incombere sulla ragione del pericolo dell’astrattezza e con questo quello connesso della rinuncia di una sua funzione critica in direzione delle esperienze […] Ma se l’abuso della critica è il prodromo della barbarie della riflessione (colle sue tragiche conseguenze che in ultimo conducono al ricorso della barbarie del senso) ciò significa che l’acmé della storia umana è identificata con quella fase in cui volontariamente sulla base di una scienza acquisita dello svolgimento delle cose, gli uomini volgono, per così dire, la terza età nella direzione della seconda»[53]. È perciò stesso vero che, nella troppo ragionevole società matura, giunta a un altissimo livello di civiltà e già china sulla decadenza, non è contenuta necessariamente l’integrità degli elementi costitutivi dell’umanità, la forza (senso), la fantasia, la ragione, con buona pace di Croce e della sua teoria dello Spirito – secondo cui non è la storia che fa lo Spirito, come rimprovera a Hegel[54], ma è lo Spirito che fa la storia –, che pretende la compresenza armonica in ogni epoca delle categorie[55]. Senso, ragione e fantasia, non essendo categorie dello spirito, sono compresenti solo come aspirazione ad una pienezza ordinata delle facoltà e dei modi di essere e di agire dell’uomo, quale si può dare in un ordinamento civile.

Si può dunque concludere per l’assenza, nella filosofia vichiana, di una duplicità di piani – l’eterno e lo storico, la storia ideale eterna e le storie delle nazioni – tra loro antinomici. Del resto, ciò che guida la storia non è un principio filosofico, la ragione, o teologico, Dio[56]. In Vico il motore della storia è un complesso fenomeno sociale unitario, che può essere ordinato intorno ad un asse fondamentalmente di tipo economico, politico e giuridico. Se è così, s’impone di affrontare la questione della provvidenza vichiana. Il mondo delle nazioni esce «da una mente spesso diversa e alle volte tutta contraria, e sempre superiore ad essi fini particolari ch’essi uomini si avevan proposti; de’ quali fini ristretti fatti mezzi per servire a fini più ampi, gli ha sempre adoperati per conservare l’umana generazione in questa terra»[57]. Questa mente è da intendersi, a nostro parere, non come uno spirito astuto che usa, per affermarsi, una materia che in fin dei conti rimane estranea alla sua azione, ma come un meccanismo interno e spontaneo, un’armonia che trasforma le asimettrie. Ed è in questo modo che risulta comprensibile come l’uomo «non da altri che dalla provvedenza divina deve esser tenuto dentro tali ordini a celebrare con giustizia la famigliare, la civile e finalmente l’umana società»[58] e come «l’uomo in tutte queste circostanze ama principalmente l’utilità propria»[59]. È così che «gli tre vizi che portano a travverso tutto il gener umano»[60], la ferocia, l’avarizia e l’ambizione, si convertono ne «la fortezza, l’opulenza e la sapienza delle repubbliche»[61], cioè nella milizia, nella mercatanzia e nella corte. De Ruggiero ha giustamente notato, a tale proposito: «Così la storia umana, individuale e collettiva, pur traendo l’esordio da esseri degradati dal peccato e ridotti in condizioni quasi ferine, rivela un’immanente razionalità, si serve di quelle stesse forze brute per volgerle a miglior segno»[62]. Però anche in ciò si annida il rischio di fraintendimento spiritualistico: questa razionalità non soltanto è immanente, ma non risponde ai dettami di un altro registro, non è altro dalla sua materia. Se non fosse così, non si capirebbe la mancanza, riconosciuta dallo stesso Croce, di una decisa nozione di progresso in Vico[63], né perché questa razionalità inevitabilmente fallisca nello sforzo di conservazione e risorga la barbarie. La provvidenza è, dunque, il nome teologico che maschera la società come meccanismo spontaneo di regolazione dei rapporti umani, in quanto organismo in equilibrio tra forze centrifughe (antisociali) e forze centripete (conservative dell’ordine umano), mediatore tra anarchia e legge, tra forza e ragione, tra caos e ordine. In quanto medietà, la società non può essere né l’uno né l’altro[64]. Del resto, il problema può anche, certo in modo assai semplificato, essere configurato così: se l’uomo è tal bruto e bestione, quale fu (e quale sempre in certa misura è), come può essere sorta e come può conservarsi la società, che è descritta da Vico come equilibrio tra conflitto e armonia? Come si dà questo equilibrio, questo ordine? Come può l’uomo giungere a volerne la conservazione? La risposta la si trova, per Vico, non sul piano giusnaturalistico di una ragione astratta, ma su un piano processuale, dinamico, sul piano della storia. La provvidenza di Vico non è la provvidenza cristiana, ma un principio di autoregolazione spontanea, come, prima di lui, in La favola delle api o vizi privati, pubblici benefici di de Mandeville e, dopo di lui, nella «mano invisibile» di Adam Smith[65]. La storia può essere oggetto di scienza perché in essa si deve trovare la regola dell’accadere dei fenomeni storici. Essa non esprime però un senso prestabilito, né una direzione. Non può perciò essere intesa in alcun modo come storia cristiana[66]. La provvidenza, peraltro, da un lato, opera soltanto all’interno di un popolo e non si configura come provvidenza universale; dall’altro, presenta caratteri meramente civili. Un corso storico che si compia conduce all’età della ragione. Ma le prime età della ragione sono pagane: la Grecia classica, Roma repubblicana e imperiale. Roma estende il suo dominio, poi decade; è conquistata dai popoli germanici; segue la barbarie ricorsa. Vico definisce così il medioevo, l’età cristiana per eccellenza. È vero che, in quest’opera, si pone il compito di rendere comprensibile, secondo un’ottica che, come indicheremo tra poco, può essere avvicinata a  quella dell’antropologia culturale, la comune natura delle nazioni e, con essa, di chiarire i tempi oscuro e favoloso. Ma, se la provvidenza vichiana avesse carattere teologico o se comunque, come si è sostenuto, la difesa dell’ortodossia vi avesse un certo peso, l’irruzione di Cristo nella storia non potrebbe essere trascurata così. Il silenzio di Vico su quest’aspetto è pesante, tanto più che egli si riferisce spesso all’età di Augusto, l’epoca in cui Cristo era vissuto, ma solo come transizione, tutta interna alla storia romana, dalla repubblica al principato. In quest’età si trova affermata l’idea dell’uguaglianza degli uomini, ma è l’eredità della lotta di classe verificatasi all’interno della società romana almeno a partire dal IV sec. a.C., ovvero dal 339 a.C. con la lex Publilia, con cui i plebisciti divennero leggi. L’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini emerge dalla lotta di classe tra patrizi e plebei e non è il risultato di un annuncio trascendente (idea) che Cristo immette nella storia (tempo). La stessa indicazione della monarchia come forma ultima di governo dell’età degli uomini si fonda sull’autorità del principe come garante della «libertà naturale» sotto la pressione del popolo[67]. Finché invece, col medioevo, ritorna un’età feudale – ritorna, perché Vico vede nella struttura feudale la caratteristica economica delle società eroiche (nel caso di Roma dalla fondazione al 326 a.C., anno della lex Poetelia Papiria, che stabiliva che il debitore insolvente non potesse più diventare schiavo del creditore) – che non riconosce, nel diritto e nella religione – ossia, secondo l’ottica vichiana, nelle strutture costitutive della società – l’uguaglianza degli uomini. Certo, l’Europa è tornata, compiendo il secondo corso, all’età della ragione ed è un Europa cristiana. Vico la contempla come un ordine di monarchie e di repubbliche popolari ben costituito – tale è peraltro anche il giudizio sulle pagane Cina e India[68] – ma che può comunque crollare. Non vi è in Vico l’idea di un progresso cumulativo, del progresso come incremento indefinito. La barbarie ritornata è simile strutturalmente alla prima barbarie – e, allo stesso modo, la ritornata età della ragione lo è alla prima – ma diversa perché ritornata, perché cioè alle sue spalle vi è stata la fioritura della vita civile dell’antichità[69]. Ma la barbarie è sempre pronta a risorgere[70]. La Scienza Nuova descrive la storia trascorsa fino al suo tempo ed è assolutamente priva di teleologie universalistiche o di aperture alla trascendenza che alludano a degli esiti escatologici[71]. Per questa sua autonomia, l’opera vichiana è senz’altro collocabile all’interno dell’operazione di costituzione dello spazio epistemologico della scienza moderna.

La lettura di Vico fin qui condotta si è implicitamente fondata sull’idea per cui il suo carattere e il suo intento precipuo rientrino in un ordine di ricerca che oggi chiamiamo dell’antropologia culturale. Lo stesso sviluppo tipico dipende dalla trattazione antropologica «d’intorno alla comune natura delle nazioni» o, il che è lo stesso, è tutt’uno con essa. Tutti i temi filosofici tradizionali – dalla teoria della conoscenza alla metafisica, fino all’etica, alla politica e all’estetica – non sono oggetto di trattazione specifica, ma sono compresi in un quadro storico-antropologico che li subordina a istanze epistemologiche di tipo sociologico. Ciò naturalmente non è da vedersi come il risultato di una scelta teorica compiuta prescindendo da qualsiasi tradizione culturale. Al contrario, sono gli interessi storico-giuridici e il fecondo legame con la retorica umanistica[72] a condurre alla fondazione di una nuova scienza. Del resto, il Diritto universale può ben venir considerato la prima versione della Scienza Nuova[73]. Vico è uno di quei pensatori che non concedono alla filosofia il primato di sapere autonomo, ma cercano di ritornare, attraverso un metodo genealogico, sulle questioni filosofiche tradizionali, offrendo di esse un diverso inquadramento teorico.

Anche per illustrare questo aspetto, come abbiamo fatto fin da principio, prendiamo la strada maestra del testo vichiano. La filosofia sorge nell’età della ragione, solo allora ne diviene possibile la peculiare attitudine d’indagine. Vico rimprovera i filosofi di mancare di prospettiva storica nella considerazione dello statuto della loro disciplina. La natura della filosofia può essere compresa solo se collocata nel processo che ne ha determinato la genesi; essa può cioè essere compresa solo in quanto oggetto del più ampio dominio dell’antropologia: «Imperciocché i filosofi han meditato sulla natura umana incivilita già dalle religioni e dalle leggi, dalle quali, e non d’altronde, erano essi provenuti filosofi, e non meditarono sulla natura umana, dalla quale eran provenute le religioni e le leggi, in mezzo alle quali provennero essi filosofi»[74]. Il sapere dei filosofi non è in grado di riconoscere la collocazione precisa di teorie e dottrine, che solo apparentemente ricevono chiarimento sul loro terreno, quello dell’argomentazione filosofica tradizionale, ma che, in realtà, trovano la loro prima ragion d’essere nello spazio e nel tempo sociali della loro formazione: «Or, poiché certamente furono prima le leggi, dopo i filosofi, egli è necessario che Socrate, dall’osservare ch’i cittadini ateniesi nel comandare le leggi si andavan ad unire in un’idea conforme d’un’ugual utilità partitamente comune a tutti, cominciò ad abbozzare i generi intelligibili, ovvero gli universali astratti, con l’induzione, ch’è una raccolta di uniformi particolari, che vanno a comporre un genere di ciò nello che quei particolari sono uniformi tra loro. Platone, dal riflettere che’n tali ragunanze pubbliche le menti degli uomini particolari, che son appassionate ciascuna del proprio utile, si conformavano in un’idea spassionata di comune utilità (ch’è quello che dicono: ‘gli uomini partitamente sono portati da’ loro interessi privati, ma in comune vogliono giustizia’) s’alzò a meditare l’idee intelligibili ottime delle menti criate, divise da essi menti criate, le qual’in altri non posson esser che in Dio, e s’innalzò a formare l’eroe filosofico, che comandi con piacere alle passioni»[75]. I «generi intelligibili, ovvero gli universali astratti» – cioè il concetto socratico e l’idea platonica – diventano oggetto della speculazione filosofica in quanto riflesso, sul piano logico, della democrazia sul piano civile; lo stesso metodo dell’induzione rispecchia il convergere, nelle assemblee democratiche, degli interessi privati e dell’interesse pubblico. Ancora: «Quindi Solone fu fatto autore di quel celebre motto ‘Nosce te ipsum’, il quale, per la grande civile utilità ch’aveva arrecato al popolo ateniese, fu iscritto per tutti i luoghi pubblici della città; e poi gli addottrinati il vollero detto per un grande avviso, quanto infatti lo è, d’intorno alle metafisiche ed alle morali cose, e funne tenuto Solone per sappiente di sapienza riposta e fatto principe de’sette saggi di Grecia»[76]. «Conosci te stesso» esprimeva dunque originariamente l’idea di quell’uguaglianza di natura degli uomini che spinse i plebei alla lotta per l’instaurazione di un ordinamento democratico (Solone è inteso infatti da Vico come un universale fantastico rappresentante la lotta dei plebei per la parità giuridica con gli aristocratici e le successive acquisizioni democratiche) e solo in un secondo momento tale motto passò a essere oggetto di riflessione etico-filosofica. Le filosofie sono trattate pertanto da Vico come documenti etnografici, appartenenti ad un determinato passaggio dello sviluppo socioculturale. Le idee e i metodi logico-filosofici, riportati così alla loro origine civile, divengono elementi di un contesto sociale complesso, i cui elementi possono essere compresi solo come sistema[77]. Anche su questo terreno si può misurare la distanza tra Vico ed Hegel: mentre il pensatore napoletano storicizza la filosofia, il filosofo di Stoccarda logicizza la storia[78].

Le storie disciplinari dell’economia, del diritto, della religione, della politica, degli istituti sociali e culturali sono separate per astrazione – i loro oggetti ritagliati – da un unico processo, in cui, per lo studioso, procedono congiuntamente. Si potrebbe dire che Vico fornisca più un quadro dell’unitarietà di questo complesso che dei singoli ambiti disciplinari (con alcune parti più staccate dallo sfondo, come quella giuridico-politica), col risultato che il suo racconto dello sviluppo è assai vivo (anche questo, del resto lo si deve alla coincidenza, che si verifica in parte per ragioni di metodo e di esemplificazione, tra historia rerum gestarum di Roma e storia ideal eterna). Pur essendo palese in Vico l’importanza della storia materiale, intesa come nodo economico-sociale-politico, al lettore della Scienza Nuova non s’impone la nota questione della determinazione della sovrastruttura da parte della struttura e della maniera in cui la prima possa tornare effettualmente sulla seconda[79]. La società intesa come struttura si presenta qui come un unicum dotato di compattezza[80]. Dal 1720 in poi, Vico mette a punto un metodo per lo studio delle società, che si costituisce intorno alle sue componenti giuridiche, storiche e filologiche. Ogni studioso delle società – principalmente qualora, come Vico, si occupi dei loro ‘principi’ – deve fare i conti con la categoria di trasformazione storica. Per Vico essa costituiva una questione fondamentale, a lui già familiare attraverso la determinazione del mutamento degli istituti giuridici e degli altri istituti socioculturali impostasi a partire dall’umanesimo. La storia, e la concezione della temporalità a essa connessa, non si presenta pertanto come una disciplina indipendente, ma si lega intimamente alla definizione degli elementi costitutivi di una società. Sincronia e diacronia sono così da intendersi come due visioni complementari di una stessa analisi, la cui trama unica e unitaria è di principio non riducibile all’una o all’altra istanza. Centrale, nella lettura vichiana delle società antiche – che, per essere l’oggetto principale, come sapienza poetica, della trattazione della Scienza Nuova, possono essere assunte come paradigmatiche – è il motivo del conflitto sociale, che si gioca sul piano economico della proprietà, su quello giuridico dei diritti di possesso, ma anche di quelli civili e politici in generale e che può essere inteso come il motore della storia. Per questo la differenza fondamentale rispetto a Polibio, Machiavelli, Bacone e Campanella – autori, per altro, la cui influenza sul nostro è ampiamente documentata – è, al di là del modello ciclico a tutti comune, nel fatto che, mentre essi si occupano soltanto della successione delle forme di governo, cioè del modello ciclico come modello della vita degli stati – anch’essi tentano di collegare le forme di governo ad altre determinazioni sociali, ma in modo piuttosto ridotto: in Bacone si trova il tema, poi anche vichiano, del rapporto tra il sapere, o i saperi, e la decadenza degli stati; in Campanella il circolo storico è connesso alle leggi astrologiche; in Machiavelli il ciclo è determinato da calamità quali la peste, la fame e le inondazioni – Vico descrive invece l’intero di una civiltà, non soltanto perché si occupa dei differenti ambiti del fare umano – religione, diritto, economia, politica, arte e scienza – ma perché, in base ai principi metodologici che sopra abbiamo riportato, li affronta come forme che nascono socialmente, la cui genesi sociale, cioè, li determina integralmente e perché, al tempo stesso, illustra concretamente quali siano i rapporti tra queste sfere. Vico dà una descrizione delle forze che operano nella società – concepita come equilibrio tra tensioni verso l’ordine e tensioni verso la disgregazione, tra civilizzazione e utilità – intese come un’unità; tali forze sono costitutive della società e non semplicemente conservative del governo. Il processo studiato da Vico non è soltanto il passaggio da una forma di governo ad un altro[81], ma è la storia dello sviluppo della totalità della vita di un popolo, della cultura nel significato sociologico e antropologico del termine. Su questo si può misurare anche la distanza dalla filosofia hobbesiana – che non fu certo senza influenza sul pensiero vichiano – con la sua supremazia del politico[82].

Possiamo vedere in ciò un circolo virtuoso tra storia e struttura: Vico si occupa della società come insieme e perciò stesso si dà la fusione dei lati sincronico e diacronico, in quanto la società rivela una natura essenzialmente dinamica e l’evoluzione socioculturale di un popolo è la sua storia, la quale si caratterizza infine come ciclo[83]. Vico non assume come dato l’uomo astorico, l’uomo astratto del giusnaturalismo – il diritto naturale rimane inesplicato: il diritto, considerato secondo una prospettiva storico-critica, nasce piuttosto dalla e nella religione, come diritto divino – ma medita ab origine, alle condizioni del costituirsi della comunità umana. Così, non è il contratto il fondamento della vita associata, perlomeno non il contratto razionalistico di Hobbes, Pufendorf e Spinoza, ma semmai, il contratto implicito nella formazione degli asili, ovvero la costituzione dei feudi, in seno alle prime comunità agricole.

Vico ha la salda consapevolezza di aver inaugurato una nuova forma di sapere, quando, nella Scienza Nuova prima, afferma con fierezza: «Niuna ancora ve n’ha che avesse meditato sopra certi princìpi dell’umanità delle nazioni dalla quale senza dubbio sono uscite tutte le scienze, tutte le discipline e le arti»[84]. Tali principi dell’umanità delle nazioni sono le costanti culturali o universali della cultura, che, tuttora, per un’antropologia che non si dedichi, all’ombra di una posizione relativistica, a microanalisi etnografiche, costituiscono la questione fondamentale. La comune natura delle nazioni è da Vico stesso definita un «argomento universale», rispetto al quale la sua opera ha tanto valore da meritarsi «l’invidioso titolo di Scienza Nuova», nella misura in cui lo ha trasformato da discorso di costume in discorso scientifico[85].

Del resto, lo sguardo antropologico di Vico è palese nel suo approccio allo studio degli antichi. Egli si occupa dei popoli pagani non tanto da antichista o come chi si interessi delle radici spirituali o culturali della civiltà occidentale (sulla scia della querelle des anciens e des modernes, nella quale peraltro Vico si era inserito in modo assai originale nel De nostri temporis studiorum ratione), ma si riferisce ad essi come ad un’altra cultura. Anche rispetto a ciò Vico è consapevole della necessaria priorità della definizione metodologica della questione: «Per lo intiero stabilimento de’ principi, i quali si sono presi di questa Scienza, ci rimane in questo primo libro di ragionare del metodo che debbe ella usare. Perché, dovendo ella cominciare donde ne incominciò la materia […] e dovendo noi incominciar a ragionarne da che quelli incominciaron a umanamente pensare […] per rinvenire la guisa di tal primo pensiero umano nato nel mondo della gentilità […] dovemmo discendere da queste nostre umane ingentilite nature a quelle affatto fiere ed immani, le quali ci è affatto niegato d’immaginare e solamente a gran pena ci è permesso d’intendere»[86]. E, nella Scienza Nuova prima, sosteneva che «in meditando con i princìpi di questa Scienza, dobbiamo vestire per alquanto, non senza una violentissima forza, una sì fatta natura e, in conseguenza, ridurci in uno stato di somma ignoranza di tutta l’umana e divina erudizione, come se per questa ricerca non vi fussero mai stati per noi né filosofi né filologi. E chi vi vuol profittare, egli in tale stato si dee ridurre, perché, nel meditarvi, non ne sia egli turbato e distolto dalle comuni invecchiate anticipazioni»[87]. Qui Vico applica chiaramente precetti metodologici mutuati da Cartesio e da Bacone[88] ad un nuovo ambito di studi da guadagnare alla scienza. In questo sforzo di collocarsi dentro il modo di pensare della gentilità, si trova la consapevolezza antropologica dell’altro, da comprendere come mondo culturale. Se non ci spogliamo dei nostri abiti mentali di uomini di un’età più raffinata, se non discendiamo «da queste nostre umane ingentilite nature a quelle affatto fiere ed immani», se non abbandoniamo, si potrebbe dire, tutte le anticipazioni culturali, «come se in questa ricerca non vi fussero mai stati per noi né filosofi né filologi», di quella civiltà, che è altra, diversa dalla nostra, non riusciremmo a intuire la concretezza e peculiarità. È opportuno però evitare un malinteso. Se i popoli pagani sono altri rispetto a noi, ciò non conduce il pensiero vichiano né ad esiti relativistici né alla realizzazione di scale evolutive di valori assoluti. Entrambe queste conclusioni disconoscono l’intento scientifico vichiano e introducono surrettiziamente nell’interpretazione istanze teoriche proprie di un’altra temperie culturale. Vico non è da confondersi con chi ha insistito sull’essere completamente altro dell’oggetto dell’antropologia culturale[89]. Certo, l’età del senso e della fantasia esprime una mentalità diversa da quella dell’età della ragione tutta spiegata. Ma la formulazione ultima del principio del verum-factum indica la continuità della storia, l’identità nella differenza, quando afferma che i principi del mondo civile degli antichi si possono ritrovare «dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana»[90]: possiamo studiare gli eroici poeti e anche i giganti che erravano come fiere, perché, pur essendo diversi da noi, tuttavia essi sono presenti in noi, che siamo il risultato di uno sviluppo che li presuppone. Vico sfugge all’insidia costituita dal rapporto noi-loro, attraverso cui l’antropologia occidentale ha cercato di definire il proprio orizzonte di senso a cospetto del suo oggetto esotico (il selvaggio, il primitivo). L’intento scientifico vichiano si radica infatti nella sua epoca e, come abbiamo già avuto modo d’indicare, ha il suo referente epistemologico nella rivoluzione metodologica della scienza del Seicento. La Scienza Nuova studia la «comune natura delle nazioni», il «senso comune» che definisce l’umanità. Gli antichi sono uomini diversi, nella misura in cui in loro si compongono in maniera differente, rispetto a noi, la forte sensibilità e fantasia con la ragione, ma non sono uomini a minor titolo, e soprattutto non sono uomini prelogici o privi di ragione, come mostra l’universale fantastico, che, se non è il concetto (l’universale astratto), ne assolve la medesima funzione logica[91]. E tuttavia non si può disconoscere che vi è uno sviluppo e cioè una crescita nel passaggio alla terza età della storia tipica vichiana; la comparazione degli antichi come fanciulli non ha soltanto una funzione esplicativa o di carattere metodologico. Vi sono allora in Vico entrambi gli aspetti: l’attenzione e lo studio di un mondo culturale altro e la determinazione della relazione evolutiva tra questo e il mondo della «ragione umana tutta spiegata» – questa evoluzione non è però, è bene ricordarlo ancora, l’evoluzione dell’umanità, intesa quindi come storia universale, ma è l’evoluzione di un popolo e va perciò intesa come storia particolare. Non si dà lo spazio di una storia planetaria nella trattazione vichiana, universale in quanto si riferisce alla storia ideale eterna, allo sviluppo tipico che riguarda, in linea di principio, tutti i popoli. È per questo che la storia dei popoli esotici – per esempio, la storia dei nativi americani – è e non è al tempo stesso la storia dei popoli occidentali. Ma, oltre a ciò, un interesse precipuo dell’opera vichiana in quanto opera antropologica sta nella determinazione dei caratteri universali – definiti dalle istituzioni religiose, giuridiche e civili tout-court – che costituiscono le comunità umane in quanto tali. I tentativi di fare di Vico un relativista hanno trascurato dunque di rilevare sia il nesso tra la componente sincronica e quella diacronica della analisi vichiana, sia la centralità che ricopre in essa la scoperta degli universali culturali[92].

Il relativismo, in fin dei conti, in Vico non è presente per lo stesso motivo per cui è assente il suo contrario, ovvero l’etnocentrismo. Vico intende fondare una scienza dell’umanità, ovvero intende definire la società umana in quanto tale, partendo dalla mancata conoscenza scientifica dei tempi oscuro e favoloso della storia occidentale, con l’intento di fornire la «storia ideale delle leggi eterne, sopra le quali corrono i fatti di tutte le nazioni […] se ben fusse (lo che è certamente falso) che dall’eternità di tempo in tempo nascessero mondi infiniti»[93]. Vi è, dunque, uno sviluppo tipico delle società umane, in virtù del quale, per quante diverse culture si possano sviluppare, nella contingenza in cui si dà il particolare della storia, esse si possono tutte comprendere come varianti, nell’universale della legge, che congiunge la guisa e la natura. Questo riferimento a una legge fa sì che le società umane, sviluppatesi nel tempo, non rimangano né possano rimanere irrelate. La legge tiene insieme l’universale e l’individuale: la scienza fa dell’individuale un universale, non sacrificandone la natura (guisa) specifica. Se nella costruzione di una scienza della «comune natura delle nazioni» dotata del carattere dell’universalità è da vedersi l’intento scientifico dell’opera vichiana, va ridimensionata, entro il pensiero di Vico, la contrapposizione tra scienze della natura e scienze umane che, nei termini in cui è stata generalmente presentata, apparteneva ad una polemica filosofica propria di un’altra epoca.

In parte, in queste pagine ci si è proposti di mostrare quanto sia fuorviante, rispetto a una corretta interpretazione dell’opera vichiana, il suo inserimento all’interno di prospettive teoriche che le sono storicamente e concettualmente estranee. Studiare un’opera del passato, d’altro lato, laddove non si intenda fare soltanto vuoto esercizio di acribia filologica, significa farla partecipare di un ambito conoscitivo più ampio, che è quello in cui noi stessi ci collochiamo e che muove il nostro stesso tentativo di sapere storico e filosofico. La validità di un’organica applicazione di un’opera al momento presente è però imprescindibilmente legata ad un’interpretazione di ciò che essa fu rispetto al suo tempo, anche qualora la si designi come precorritrice e inattuale. Per questo riteniamo che la indubbia fecondità del pensiero vichiano possa essere pienamente sostenuta e affermata come dinamica culturale, se se ne è innanzi tutto compreso lo status epistemologico originario, cioè quello che essa si proponeva di assumere al principio del Settecento. Occorre pertanto comprendere in primo luogo il senso del suo sorgere come pensiero. E ciò conformemente al metodo genealogico che lo stesso Vico adotta, secondo cui la natura di un oggetto si trova nella guisa o modo della sua costituzione. È questa stessa natura del pensiero vichiano che una volta storicamente definita può essere criticamente adoperata. Abbiamo così cercato di dare delle indicazioni, che, in questa sede, rimangono certo assai parziali, sull’intento vichiano di fondare una nuova disciplina avvalendosi di fondamentali principi di metodo della scienza seicentesca. In particolare, si è raggiunta la conclusione che l’indagine di Vico sia da intendersi non tanto come filosofia della storia, quanto come ricerca di natura antropologica. La storia è, per Vico, storia sociologica, storia cioè di uno sviluppo, non della filosofia o dello spirito – all’interno di cui, per esempio all’interno del concetto o della coscienza, si troverebbe contenuta ogni altra determinazione, ma appunto in quanto subordinata al suo significato filosofico (la totalità semplice hegeliana di cui parla Althusser[94]) – ma di una civiltà, attraverso la determinazione della genesi sociale dei suoi elementi e dei suoi fenomeni compresi come sistema. Per queste stesse ragioni la nuova scienza non può essere legittimamente trasformata in una filosofia dello spirito, né può essere caratterizzata come una filosofia della storia – essendo peraltro la parte diacronica solo una componente non indipendente di un sapere più complesso – ma può più opportunamente essere detta, così come venne originariamente intesa, una «scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni».


[1] Sarebbe peraltro piuttosto lungo ormai l’elenco degli studiosi che, nei loro lavori, hanno respinto la caratterizzazione crociana del genio isolato ed incompreso, ricollocando l’opera vichiana all’interno del contesto culturale in cui si formò e a cui appartenne. Alcuni di loro saranno comunque menzionati nel corso del presente articolo.

[2] Nel corso di un’analisi intorno alla natura della provvidenza vichiana, Karl Löwith ha scritto: «I principi della provvidenza e della libertà sono entrambi parimenti veri e importanti. Tuttavia è evidente che nella concezione vichiana essi non hanno lo stesso peso. Il semplice fatto ch’egli consideri la provvidenza dimostrabile presuppone che essa diriga con necessità incondizionata ciò che sembra essere prodotto dell’arbitrio e del caso […] concepì il corso della storia […] come un mondo creato dall’uomo, ma al tempo stesso culminante in qualcosa che si avvicina più alla necessità del fato che alla libera scelta. La storia non è soltanto azione libera e decisione, ma è anche e soprattutto accadimento ed evento. Perciò essa non è univoca, ma ambigua. La rappresentazione vichiana di questa dialettica di necessità e libertà nel divenire è efficacissima» (K. Löwith, Weltgeschichte und Heilgeschehen. Zur Kritik der Geschichtsphilosophie, in Sämtliche Schriften, Stuttgart, J.B. Metzlersche Verlagsbuchhandlung, Band 2, 1983, pp. 136-138, trad. it. di F. Tedeschi Negri, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Milano, Il Saggiatore, 19893 (Edizioni di Comunità, 1963),  pp. 147-149.

[3] G.B. Vico, Opere, a cura di A. Battistini, Milano, Mondadori, 1990, p. 552.

[4] Ivi, p. 896.

[5] Cfr. ivi, pp. 446 e 494.

[6] Ivi, p. 519.

[7] Ivi, pp. 519-520.

[8] Ivi, p. 520.

[9] Ibidem. E l’elenco potrebbe continuare. Si vedano in particolare le degnità LIII e XCII.

[10] Ivi, pp. 961-968.

[11] Ivi, p. 500.

[12] Ibidem.

[13] Ivi, p. 537.

[14] Ivi, p. 994. Il passo citato si trova nella Scienza Nuova prima, ma è mantenuto quasi inalterato nell’ultima edizione dell’opera (cfr. ivi, pp. 550-551). Cfr. anche il commento di Battistini: «Vico dimostra di avere assimilato la lezione della moderna epistemologia galileiana, le cui leggi, anziché pretendere di risalire, con un salto nella metafisica, alla causa prima, si contentano di stabilire le norme costanti di relazione tra i fenomeni ovvero le cause seconde» (ivi, p. 1772).

[15] Ivi, p. 504.

[16] Cfr., ad esempio, la ricostruzione etimologica del termine lex (ivi, p. 519).

[17] Ivi p. 431.

[18] G.B. Vico, De antiquissima italorum sapientia in Opere filosofiche, a cura di P. Cristofolini, Firenze, Sansoni, 1971, pp. 80-81.

[19] B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza, 19804 (1911), pp. 219-226.

[20] G.B. Vico, Opere cit., pp. 15-16.

[21] Ivi, p. 44.

[22] Ivi, p. 989. Così commenta Battistini: «mentre dunque i giusnaturalisti ponevano il diritto in una prerogativa immutabile nel tempo perché dettata da una condizione naturale che esclude differenze tra i primordi dell’umanità e gli attuali tempi illuminati, per Vico l’eternità consiste nella costanza di una legge evolutiva che tuttavia, pur passando attraverso le stesse fasi, ammette profonde trasformazioni nel corso del tempo» (ivi, pp. 1766-1767).

[23] Ivi, pp. 501-502.

[24] Ibidem.

[25] Ivi, p. 503.

[26] Ivi, pp. 953-954. Del resto, «la vicenda romana ha valore paradigmatico non per suggestione umanistica, ma perché mostra ‘i tempi primi e gli ultimi’ di una nazione» (G. Giarrizzo, Alle origini della medievistica moderna. Vico, Giannone e Muratori, in Vico, la politica e la storia, Napoli, Guida, 1981, p. 22). Cfr. invece B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico cit., pp. 119 e 121-122.

[27] G.B. Vico, Principj d’una Scienza Nuova, d’intorno alla comune natura delle nazioni, a cura di M. Sanna e F. Tessitore, Napoli, Morano, 1991, § 448 (si tratta della ristampa anastatica dell’edizione del 1730). La prima parte del passo è mantenuta anche nell’edizione del 1744, G.B. Vico, Opere cit., p. 956. Cfr. l’atteggiamento verso l’America dell’abate Ferdinando Galiani, influenzato da Vico e da Machiavelli e quello di un altro intellettuale del Settecento, Gian Rinaldo Carli, che «vichianamente fiducioso nel corso parallelo delle nazioni, dimentica di fatto il selvaggio e rivendica con esuberante dottrina le antiche società americane» (A. Gerbi, La disputa del Nuovo Mondo. Storia di una polemica (1750-1900), Milano-Napoli, Ricciardi, 1955, poi Milano, Adelphi, 2000, pp. 174-182 e pp. 326-328).

[28] «Vico va chercher à surmonter la dualité du monde des idées et du monde des faits, de la nature idéale de l’homme et de la réalité historique, en faisant intervenir un terme médiateur, le temps» (A. Pons, Nature et histoire chez Vico, «Etudes philosophiques» 1 (1961), p. 43).

[29] G.B. Vico, Opere cit., p. 969.

[30] Ivi, p. 543.

[31] A parte il caso della storia ebraica, storia di un popolo vissuto e sviluppatosi separatamente dagli altri popoli. Per una collocazione storica dell’opportunità di difendere una tale posizione, particolarmente per quanto atteneva alla delicata questione dell’età del mondo, cfr. P. Rossi, Le sterminate antichità e nuovi saggi vichiani, Firenze, La Nuova Italia, 1999, pp. 227-253; ma per una disamina delle intricate difficoltà e contraddizioni nelle quali, e all’interno del suo stesso pensiero, Vico, sostenendo la tesi dell’eccezionalità del popolo ebraico, con tutte le sue implicazioni, si avvolgeva, cfr. piuttosto F. Nicolini, La religiosità di Giambattista Vico. Quattro saggi, Bari, Laterza, 1949, in particolare pp. 165-213.

[32] È il caso non solo dell’interpretazione vichiana del significato della legge delle XII Tavole o del «censo ordinato da Servio Tullio», ma della storia romana tutta. Se è vero che, per un lato, Vico assume la storia romana a modello della storia ideale eterna, è anche vero però che di questa scelta fornisce le ragioni empiriche, ovvero le condizioni storiche contingenti che determinarono la storia romana, come dimostrano i passi riportati sopra. Ciò a conferma del fatto che, per il principio metodologico dell’integrazione di filologia e filosofia, non si dà un’aprioristica storia ideale eterna, ma essa può essere solo ravvisata come ratio interna delle singole storie delle nazioni. Si veda, riguardo la storia romana, il giudizio di Riccardo Caporali: «alla storia di Roma spetta comunque un ruolo privilegiato, giacché in Vico essa riveste i caratteri dell’emblematicità: eccezionale in quanto regola, la più vicina ai tempi e alle scadenze del modello ideale; e anzi la più con-facente, determinante per la sua stessa concretizzazione […] per Vico Roma è, insieme, la teoria e la storia» (R. Caporali, Modernità di G.B. Vico, «Il Centauro» 16 (1986), p. 65). Cfr. anche S. Mazzarino, Vico, la storia romana e il «metodo geometrico», «De Homine» 27-28 (1968), pp. 3-16 e P. Piovani, Il debito di Vico verso Roma, «Studi Romani» 17 (1969), pp. 1-17.

[33] G.B. Vico, Opere cit., pp. 956-957.

[34] G.W.F. Hegel, Philosophie der Weltgeschichte, I Hälfte, «Die Vernunft in der Geschichte», in Sämtliche Werke, herausgegeben von G. Lasson, Leipzig, Felix Meiner Verlag, Band VIII, 19303 (1917), pp. 178-200, trad. it. di G. Calogero e C. Fatta, Lezioni sulla filosofia della storia, vol. I, «La razionalità della storia», Firenze, La Nuova Italia, 20012 (1941) pp. 206-234. È a quest’ultima pagina che si trova scritto: «Il Vecchio Mondo è essenzialmente il teatro di ciò ch’è oggetto della nostra considerazione, cioè della storia universale [Weltgeschichte]». Si domandava Lévi-Strauss a proposito della Critica della ragion dialettica di Sartre: «E infatti, che cosa si può dire dei popoli ‘senza storia’, quando si è definito l’uomo in base alla dialettica e la dialettica in base alla storia?» (C. Lévi-Strauss, La pensée sauvage, Paris, Plon, 1962, p. 296, trad. it. di P. Caruso, Il pensiero selvaggio, Milano, Il Saggiatore, 1979, p. 270).

[35] G.W.F. Hegel, Philosophie der Weltgeschichte cit., pp. 143-147, trad. it. cit., pp. 165-169.

[36] G.B. Vico, Opere cit., p. 419.

[37] Nonostante che in esso si sviluppino formazioni culturali quali il linguaggio. Cfr. G.W.F. Hegel, Philosophie der Weltgeschichte cit., pp. 147-148, trad. it. cit., pp. 169-170.

[38] Ivi, pp. 142-143, trad. it. cit., pp. 164-165.

[39] G.B. Vico, Opere cit., pp. 1169-1170.

[40] Ivi, p. 985. Per una descrizione dell’Žkm® «o sia lo stato perfetto delle nazioni», cfr. ivi, pp. 1099-1100. Cfr. anche E. Nuzzo, Vico e l’«Aristotele pratico»: la meditazione sulle forme «civili» nelle «pratiche» della «Scienza Nuova prima», «Bollettino del Centro di Studi Vichiani» 14-15 (1984-1985), pp. 122-

129; per la sua funzione rispetto alla ‘polemica pirronistica’ e alla crisi della ragion di stato della istorica seicentesca, cfr. G. Giarrizzo, Alle origini della medievistica moderna. Vico, Giannone e Muratori cit., pp. 15-25.

[41] G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, in Sämtliche Werke cit., Band VI, 19303 (1911), trad. it. di G. Marini, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio, Bari, Laterza, 19965 (1987), p. 17. A tal proposito, Pietro Piovani ha scritto: «la luce crepuscolare che Hegel cerca è, di fatto, quella del tramonto, mentre a Vico sta a cuore quella dell’alba: il simbolo della filosofia vichiana non è lo hegeliano uccello notturno di Minerva, ma, a rigore, l’aquila mattutina, presunta cercatrice dell’acqua delle fonti, presso cui furono stanziate le prime sedi degli uomini usciti dall’erramento ferino» (P. Piovani, Vico senza Hegel, in A. Corsano et al., Omaggio a Vico, Napoli, Morano, 1968, p. 568). Analogamente, facendo riferimento al passo hegeliano della Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, in cui Hegel contrappone la ghianda e la quercia, in quanto «il primo sorgere» e «l’intero stesso», Piovani osserva come esso «non potrebbe risultare più anti-vichiano: di fronte a una quercia perfetta nella sua frondosa maturità, Vico non si preoccupa tanto della sua raggiunta perfezione, bensì vuole capirne la effettuale natura ricostruendola nel suo sviluppo, a partire, appunto, dalla ghianda. A Hegel, invece, preme il compimento, perfetto nel concetto in cui la conoscenza è realizzata nella sua autentica idealità» (ivi, pp. 568-569). 

[42] È bene notare, si pensi alle critiche di Popper contro lo storicismo, che la previsione che il filosofo può fare non è la profetica descrizione di mondi e avvenimenti futuri, o del destino del mondo, ma è questa diagnostica conservativa che si è detta. Peraltro, ne La miseria dello storicismo, Vico è citato una sola volta, congiuntamente a Platone, Machiavelli, Spengler e Toynbee, autori che, secondo Popper, affermando che la storia si ripete ciclicamente, negano la tesi che il processo evoluzionario sia unico, cadendo in «uno dei tanti esempi di teorie metafisiche apparentemente confermate dai fatti, fatti che, se esaminati più da vicino, si rivelano essere selezionati proprio in base a quella determinata teoria, di cui invece dovrebbero fornire la prova» (K.R. Popper, The poverty of historicism, London, Routledge & Kegan Paul, 1957, pp. 109-111, trad. it. di C. Montaleone, La miseria dello storicismo, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 102-104). Ci troviamo indubbiamente di fronte a un’immagine stereotipata di Vico, conseguenza di una conoscenza superficiale ed indiretta.

[43] L. Pompa, La scienza di Vico, «Bollettino del Centro di Studi Vichiani» 2 (1972), pp. 33-35.

[44] G. De Ruggiero, Da Vico a Kant, Bari, Laterza, 19764 (1940), pp. 44-45.

[45] B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico cit., pp. 44-45. Si veda, peraltro, il riconoscimento a Vico di aver colto – in particolare attraverso la teoria dei corsi e ricorsi – il vero significato, non «cuspidale», ma circolare, della dinamica storico-spirituale che costituisce, per Croce, l’unità del reale, in B. Croce, Indagini su Hegel e chiarimenti filosofici, Bari, Laterza, 1967² (1952), pp. 279-280.

[46] B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico cit., p. 47.

[47] Si veda al riguardo il giudizio di Enzo Paci, che media la critica crociana con l’ammissione del carattere sostanzialmente metodologico della storia ideale eterna: «La legge di comprensione della storia è anche [… ] la categoria operante all’interno della storia stessa. I pericoli di Vico sono determinati dal suo porsi continuamente sul limite di una filosofia della storia, di perdere cioè il contatto tra categoria operante e categoria metodologica, fissando la storicità in schemi dialettici astratti che non coincidono con il metodo di comprensione dialettica della storia […] Non esiste dunque un momento nel quale si pone la filosofia e un momento nel quale tale filosofia viene applicata alla storia, ma la ‘filosofia dello spirito’ non è nulla di diverso dalla sintesi storica e viceversa […] Le categorie che vengono poste in luce dalla filosofia sono dunque le forme secondo le quali si configurano i fatti storici in quanto compresi […] ogni categoria storica è da porre nella sua fenomenologia storica […] Il principio vichiano mi serve per comprendere lo svolgimento storico delle idee e dei fatti, per disegnare insomma una fenomenologia della storia senza identificare la serie ideale con la serie cronologica, ma servendomi della serie ideale come principio di metodo per la storia» (E. Paci, Ingens sylva, Milano, Bompiani, 19942 (1949, Mondadori), pp. 95-96, 163-164 e 166-167).

[48] G.B. Vico, Opere cit., p. 519.

[49] Afferma giustamente A. Robert Caponigri che: «L’idea non è un’essenza eterna; è la legge eterna del presentarsi delle forme concrete nel tempo […] La chiarificazione del concetto della storia ideale eterna richiede prima di tutto che sia disgiunta da ogni forma di eternismo, di qualsiasi provenienza. In tutte le sue forme la caratteristica dell’eternismo è che, cercando gli eterni principi delle cose, esso diviene nichilistico nei riguardi dei loro processi temporali, dissolvendo questi in quelli e annullando tra loro il rapporto che l’esperienza indica. In questo senso Vico è contrario in modo adamantino all’eternismo. La storia ideale eterna non è, per lui, una tecnica per la dissoluzione del processo temporale, per ridurlo ad apparenza e assurdità, ma per determinare la sua costitutiva idealità e necessità. Non è quindi una storia trascendente in alcun senso, ma una storia che emerge nel tempo e che spiega la forma degli eventi temporali». Croce e Gentile vedono in Vico l’eternismo, per questo Croce accusa Vico di confondere l’ordine temporale e quello ideale, ma per Vico essi non sono separabili: «L’unico canone per l’interpretazione di tutta la Scienza Nuova è l’affermazione propria di Vico che questa storia eterna emerge nel tempo. Per Vico, l’intero problema della storia […] riguarda esattamente l’unione di questi processi temporali ed eterni, ideali e logici. Separare questi termini, che è l’effetto dell’eternismo, significa distruggere per Vico la possibilità della storia intelliggibile e della storiografia scientifica […] la temporalità che Croce ambiguamente assegna all’empirico è per Vico una dimensione intrinseca ed inalterabile della struttura formale della Scienza Nuova» (A.R. Caponigri, Time and idea. The theory of history in Giambattista Vico, London, Routledge & Kegan Paul, 1953, pp. 71 e 109-115, trad. it. di G. Gava, Tempo e idea. La teoria della storia in Giambattista Vico, Bologna, Pàtron, 1969, pp. 114 e 172-180).

[50] A. Battistini in G.B. Vico, Opere cit., p. 1796.

[51] Crocianamente, Alfredo Parente trovava un’analogia tra «l’errore platonico della trascendenza delle Idee e l’errore della cronologizzazione delle forme dello spirito che Vico chiamò ‘modificazioni della mente’» e riesponeva così fedelmente il punto di vista crociano: «Giambattista Vico commise un grave errore filosofico, periodizzando la storia secondo un ritmo di successione delle ‘età’ esemplato sulle categorie corrispondenti alle essenziali funzioni onde si esplica la storia del genere umano, ed egli, dopo aver inteso che il senso, la fantasia e il pensiero sono i cardini intorno ai quali si svolge la vita, non intuì l’esigenza della circolarità o simultaneità di quelle forme, cioè la necessità organica  della loro presenza perenne nell’organismo della vita o dello spirito» (A. Parente, Note vichiane: I, Dinamismo e dinamismo dialettico a proposito del «verum et factum»; II, Le «non predeterminabili» modificazioni della mente, «Rivista di Studi Crociani» 7 (1970), fasc. II, p. 161).

[52] «Vico, presentato come colui che ha opposto alla ragione il mondo della fantasia, è poi in realtà colui che ha cercato di relazionare in una struttura razionale il mondo del senso e quello della ragione […] per Vico il modello antropologico risulta unitario nella sua struttura (seppur triplicato nel suo sviluppo dal senso alla fantasia alla ragione)» (N. Badaloni, Introduzione a G.B. Vico, Opere filosofiche cit., p. XLIII).

[53] Ivi, p. XLIX.

[54] Cfr. B. Croce, Saggio sullo Hegel, Bari, Laterza, 19273 (1906), pp. 149-171.

[55] «I primitivi erano prima senso e cioè mere bestie. Non so se si possa dire che queste bestie potevano creare dell’arte, della filosofia e della morale. Esse rappresentano il senso, o, come dice Croce, la forza e quindi il momento dell’utile. Ora se le forme dello spirito sono tutte in ogni singolo fatto bisognerebbe dire che l’uomo bestiale fa dell’arte della filosofia e della morale. Per Vico non è così: l’uomo bestiale è bestiale, è la cosa in sé, la forza, la violenza. E l’uomo è tale in ogni momento della storia nel quale agisce come bestia […] Il principio di Vico ci insegna che la forza per diventare pensiero e giustizia deve esprimersi, deve diventare, prima, linguaggio» (E. Paci, Ingens sylva cit., p. 166). È interessante osservare come Croce produsse un’analoga critica nei confronti del precategoriale de Il mondo magico di Ernesto De Martino. Rispetto al precategoriale di De Martino, per cui l’età magica non condivide le categorie del mondo storico, Croce obiettava che vi era «un unico punto nel quale dissento da lui, che è quello in cui si afferma che le categorie speculative che ora reggono l’interpretazione storica sono correlative all’età della ‘mente tutta spiegata’ o della civiltà o della ‘civiltà occidentale’, ma non si applicano alle età primitive; venendosi così a negare implicitamente la perpetuità delle categorie con lo storicizzarle, laddove storicizzare non si può se non in virtù di quella sorta di aristotelico ‘motore immoto’, che sono le categorie. C’è qui una svista o scambio delle ‘categorie’ coi ‘fatti’ storici, che esse generano e cangiano e svolgono informandoli tutti di sé e rendendoli solo mercé di esse intelligibili; né altrimenti che per la loro perpetuità o costanza il de Martino ha potuto schiarire il fatto storico del magismo […] né le categorie della coscienza, il linguaggio, l’arte, il pensiero, la vita pratica, la vita morale, né l’unità sintetica, che tutte le comprende, sono formazioni storiche, prodotti di epoche dello spirito, ma tutte sono lo spirito stesso che crea la storia […] Donde la riconosciuta vanità delle dissertazioni sull’origine del linguaggio, della religione, del pensiero, della poesia […] Talvolta  anche uomini di genio filosofico peccarono nel rappresentare le forme dello spirito come epoche storiche e il corso della storia come quello in cui lo spirito crea le sue categorie» (in appendice a E. de Martino, Il mondo magico, Torino, Bollati Boringhieri, 19973 (1948, Einaudi), pp. 241, 248 e 249).

[56] E neanche teologico-filosofico. Si pensi alla critica feuerbachiana della filosofia hegeliana e con essa di tutta la filosofia moderna, come teologia immanente. Cfr. L. Feuerbach, Vorläufige Thesen zur Reformation der Philosophie e Grundsätze der Philosophie der Zukunft, rispettivamente in Gesammelte Werke, a cura di W. Schuffenhauer, Berlin, Akademie Verlag, vol. IX, 1970, pp. 243-263 e pp. 264-341, trad. it. di C. Cesa in Scritti filosofici, Bari, Laterza, 1976, pp. 175-198 e pp. 199-274.

[57] G.B. Vico, Opere cit., p. 969.

[58] Ivi, p. 548.

[59] Ibidem.

[60] Ivi, p. 497.

[61] Ibidem.

[62] G. de Ruggiero, Da Vico a Kant cit., p. 43.

[63] B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico cit., pp. 124-125 e 133-134. Cfr. anche Löwith, la cui interpretazione di Vico è peraltro assai influenzata dalla lettura crociana: «Malgrado la sua origine soprannaturale, la provvidenza – quale Vico la intende – agisce tuttavia in modo così ‘naturale’ e ‘semplice’ da intendersi quasi con le leggi sociali dello sviluppo storico. Essa agisce esclusivamente attraverso cause mediate nell’‘iconomia delle cose civili’ […] Nella sua ‘dimostrazione’ della provvidenza non rimane più nulla di quell’operare trascendente e miracoloso che caratterizza la concezione della provvidenza da Agostino a Bossuet […] Non vi è tuttavia un progresso all’infinito verso stadi sempre più civili. Il t¡loû reale di tale progresso sono la decadenza e il tramonto, per cui l’intero corso ricomincia di nuovo da uno stadio barbarico, in un ricorso che è nello stesso tempo un risorgimento […] La ragione per cui Vico non eleva la sua divinità provvidenziale a divinità progressiva sta nella sua concezione dell’immanenza della provvidenza divina nel corso del divenire naturale. Un corso storico naturale di flusso e riflusso non si lascia trascendere da un t¡loû nel senso di ‘miglioramento progressivo’. Ciò è provato indirettamente dal fatto che Vico entra in contraddizione con se stesso quando, verso la fine della sua opera, prende in considerazione la possibilità di un fine ultimo del processo storico. Riflettendo sull’attuale situazione dell’Europa, della Russia e dell’Asia, egli si azzarda a dire che ora una ‘compiuta’ umanità sembra diffondersi tra tutti i popoli […] Incompatibile con questo tentativo di guardare ad un mondo civile cristiano come al compimento di tutta la storia è tuttavia il vero tema della sua opera, secondo il quale la storia non conosce né compimento né soluzione, ma è dominata nel suo processo dalla ricorrenza […] L’intuizione di Vico è perciò più classica che cristiana. Come gli antichi, egli si interessa particolarmente delle origini e degli antichissimi fondamenti, ma non della speranza e della fede in un compimento futuro (K. Löwith, Weltgeschichte und Heilgeschehen. Zur Kritik der Geschichtsphilosophie cit., pp. 135-138, trad. it. cit., pp. 146-158).

[64] «Vico […] considère l’aristocratie comme la forme originaire du gouvernement civil, en ce qu’elle est le régime de la coexistence et de la tension dynamique entre les gentes majores (nobles) et les gentes minores (plébéiens). Nous évitons d’actualiser Vico en l’adaptant à nos mesures, et c’est porquoi nous ne parlons pas de ‘lutte des classes’, expression qui dans l’acception moderne tirée de Marx implique, dans la plupart des cas, la perspective de la victoire définitive de l’une de deux classes ou bien leur ruine commune. A la différence de cette conception, Vico se montre ici bon élève de Machiavelli, pour qui un Etat est d’autant plus libre et florissant que la tension subsiste; la république romaine (repubblica tumultuaria pour Machiavelli) est alors le meilleur exemple d’un Etat où les affrontements des nobles et des plébéiens n’ont eu que des effets positifs» (P. Cristofolini, Vico et l’histoire, Paris, Presses Universitaires de France, 1995, p. 84).

[65] Cfr. M. Goretti, Vico et l’hétérogénèse des fins (Vico et Mandeville), «Les Etudes Philosophiques» 3-4 (1968), pp. 351-359. «Vico peut avoir pensé à Mandeville en écrivant que ‘la vertu publique des Romains Héroïques n’est rien autre que le bon usage fait par la providence de leurs graves, laids et cruels vices particuliers’» (ivi, pp. 353-354). L’autrice osserva come non si possa affermare che Vico abbia letto la Favola delle api, ma certamente ne ebbe conoscenza indiretta, perché, nel 1723, essa suscitò ovunque scandalo e curiosità. Tramiti avrebbero potuto essere, a Napoli, Valletta e Doria, amici di Vico (ivi, p. 355).

[66] Cristofolini nota che quando parla di provvidenza, Vico non cita mai una fonte cristiana. Cita Platone, però il concetto di prónoia non è del tutto platonico, ma stoico. È Plutarco l’autore che Vico ha presente e che, nella lettura di Platone, condotta nel De fato, aggiunge, nelle Leggi e nel Timeo, la parola prónoia, non presente nel testo. Come il demiurgo platonico, la provvidenza vichiana ha una funzione ordinatrice, non creatrice; certo, nel mondo naturale e non nel mondo storico-umano, ma la similitudine resta. Cfr. P. Cristofolini, Vico et l’histoire cit., pp. 86-88. Cfr. anche id., Scienza Nuova. Introduzione alla lettura, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1995, pp. 70-71.

[67] R. Caporali, Vico: la «decadenza» e lo «Stato», «Filosofia politica» 9 (1995), 1, pp. 37-39.

[68] Cfr. G.B. Vico, Opere cit., p. 955.

[69] Non ci sentiremmo, a tale riguardo, di condividere l’opinione del cattolico Carlo Cappello, secondo cui Vico vede nel cristianesimo una conquista definitiva della storia (e in ciò Cappello rileva un segno di una concezione progressiva della storia in Vico). Manca a tale riguardo ciò che, in questo lavoro, ci siamo proposti di mostrare come necessario fondamento delle nostre asserzioni e cioè un indispensabile chiaro riferimento testuale, che, perlomeno, bilanciasse i molti che lo contraddirebbero. Cfr. C. Cappello, La visione della storia in G.B. Vico, Torino, SEI, 1948, pp. 61-62. Un altro studioso cattolico, Emilio Chiocchetti, non sapendosi dar conto del «perché il Vico chiami barbaro il Medioevo, dal momento che la ritornata vita civile fu voluta, anche secondo lui, dalla Provvidenza, perché fosse stabilita fermamente la religione cristiana», ricorre alla teoria del progresso a spirale – anch’essa di ascendenza crociana (cfr. B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico cit., pp. 124-125) – secondo cui «l’umanità è destinata, dalle teorie vichiane, a realizzare l’idea divina in maniera sempre più perfetta e si eleva a Dio con un cammino circolare a spirale» insieme all’altra secondo cui «la barbarie seconda porta nel suo seno il Cristianesimo e perciò segna un progresso enorme sulla barbarie prima, piena di dèi falsi e bugiardi e di religioni crudeli e fantastiche». Ed è così «tra i più solenni errori compiuti nella storia della filosofia l’aver attribuito a Vico l’opinione di un processo ciclico della storia […] In questa fatale successione di ricorrenza di avvenimenti la storia appare senza speranza». Chiocchetti deve concludere quindi per la presenza dell’idea di progresso nel pensiero di Vico, perché: «Senza progresso questo crescente accostarsi delle attività umane all’ideale evangelico è impossibile. Dunque il progresso, nonché possibile, dopo Cristo è necessario» (E. Chiocchetti, La filosofia di Giambattista Vico, Milano, Vita e Pensiero, 1935, pp. 78, 179, 186 e 187). 

[70] «Il passato rimane così sempre incapsulato nel presente e i famosi ‘corsi e ricorsi’ non sono altro, sotto questo profilo, che il segno della conservazione degli stadi precedenti nell’ultimo. Ciò spiega sia la fragilità di ogni conquista civile, sia l’impensabilità, per Vico, di un progresso semplicemente cumulativo, concepito come linea ascendente» (R. Bodei, Filosofia della storia in Filosofia, a cura di Paolo Rossi, Torino, UTET, 1995, vol. I, p. 471).

[71] «L’histoire des nations, une fois commencée, peut revenir sur la barbarie de ces nations elles-mêmes, non pas s’anéantir […] Nous sommes en face d’une philosophie non apocalyptique, d’une immanence historique qui ne regarde pas en dehors d’elle-même» (P. Cristofolini, Vico et l’histoire cit., p. 48). «La prassi può ora basarsi, per Vico, sull’intendimento di quella regolarità e ordine che costituiscono la scienza del mondo storico. E se tale regolarità è presentata col termine provvidenza, essa mantiene un significato naturalistico e stoicizzante (nel senso della tematica di una natura ordinata al suo interno), rispetto a cui la superstizione è solo una fictio motivata da uno stato di necessità […] il tema della provvidenza significa solo la spontaneità del manifestarsi della struttura anche nella sua inconsapevolezza» (N. Badaloni, Introduzione a G.B. Vico, Opere filosofiche cit., pp. XVI e XLI).

[72] «Vico è sì l’erede della critica filologica degli umanisti, come della critica storica di fine Seicento […] La sua nuova arte critica mira alla ricostruzione di processi di lungo periodo decifrabili attraverso i testi» (P. Cristofolini, Vico pagano e barbaro, Pisa, ETS, 2001, p. 100).

[73] Cfr. B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico cit., p. 41, e G. Fassò, I «quattro auttori» del Vico. Saggio sulla genesi della Scienza nuova, Milano, Giuffré, 1949 e Il problema del diritto e l’origine storica della «Scienza nuova» di G. Vico, «Atti della Accademia Pontaniana», 25 (1977), pp. 139-148.

[74] G.B. Vico, Opere cit., p. 990.  Allo stesso modo Lévi-Strauss ne Il pensiero selvaggio: «Per l’etnologo, invece, questa filosofia [il riferimento è a La critica della ragion dialettica di Sartre] rappresenta (come ogni altra) un documento etnologico di prim’ordine, il cui studio è indispensabile se si vuole capire la mitologia del nostro tempo» (C. Lévi-Strauss, La pensée sauvage cit., p. 297, trad. it. cit., p. 271).

[75] G.B. Vico, Opere cit., pp. 927-928.

[76] Ivi, pp. 594-595.

[77] «Bisogna allora credergli quando […] Vico garantisce di avere ‘lavorato un sistema della civiltà, delle repubbliche, delle leggi, della poesia, della istoria e, in una parola, di tutta l’umanità’. Evidentemente, non è un caso che egli parli continuamente di ‘sistema’, assicurando che nella sua opera di antropologo ‘ogni cosa vi consta sì nelle parti come in tutto il complesso del sistema di sì fatti principi’» (A. Battistini, Introduzione a G.B. Vico, Opere cit., p. XVI).

[78] Cfr. P. Piovani, Vico senza Hegel cit., p. 572.

[79] Cfr. le aporetiche nozioni di ultima istanza e di reazione sovrastrutturale – elaborate da Friedrich Engels – che servono per delineare l’esistenza di livelli sovrastrutturali posti a differente distanza dalla struttura, in K. Marx-F. Engels, Werke, Berlin, Dietz Verlag, Band 39, 1968, p. 206 e Band 37, 1967, p. 463, trad. it. di N. Merker in K. Marx-F. Engels, La concezione materialistica della storia, Roma, Editori Riuniti, 1986, pp. 196 e 163.

[80] Cfr. C. Lévi-Strauss, La notion de structure en ethnologie in Anthropologie structurale, Paris, Plon, 1958, pp. 305-306, trad. it. di P. Caruso, Il concetto di struttura in etnologia, in Antropologia Strutturale, Milano, Il Saggiatore, 1990, pp. 311-312 e J. Piaget, Le structuralisme, Paris, Presses Universitaires de France, 1968, pp. 6-7, trad. it. di A. Bonomi, Lo strutturalismo, Milano, Il Saggiatore, 1968, pp. 38-39. Cfr. anche G. Genot, Modello e struttura nel pensiero di Giambattista Vico, «De Homine» 27-28 (1968), pp. 175-184.

[81] Conformemente per esempio al modello di degenerazione tipica dello stato dalla forma perfetta alla tirannia, attraverso le forme timocratica, oligarchica, democratica, dato da Platone nel libro VIII della Repubblica. Cfr. Plat. Rep. 545d-569c e anche Arist. Polit., libro V.

[82] In Vico, peraltro, può senz’altro ritrovarsi con profitto una supremazia del politico. Si veda per esempio la lettura della filosofia vichiana come filosofia dell’auctoritas data da R. Caporali in Modernità di G.B. Vico cit., pp. 58-60. Ma anch’essa appartiene all’ampio contesto antropologico cui si è fatto cenno. Cfr. su quest’ultimo aspetto E. Nuzzo, Vico e l’«Aristotele pratico»: la meditazione sulle forme «civili» nelle «pratiche» della «Scienza Nuova prima» cit., pp. 109-112.

[83] In Vico abbiamo l’unione di quelle due ragioni che, ne il capitolo IX de Il pensiero selvaggio, Lévi-Strauss definisce complementari, la ragione analitica – ossia lo studio della struttura – e la ragione dialettica – ossia la storia, lo sviluppo, il mutamento di una società. Cfr. C. Lévi-Strauss, La pensée sauvage cit., pp. 292-313, trad. it. cit., pp. 267-290. Cfr. anche P. Rossi, Le sterminate antichità e nuovi saggi vichiani cit., pp. XVI-XVII.

[84] G.B. Vico, Opere cit., pp. 984-985. Cfr. A. Risério, A via Vico e outros escritos, São Paulo, Oiti, 1999, pp. 21-67, secondo cui il suo sguardo antropologico porterebbe Vico ad essere, via Michelet, uno dei padri, non riconosciuti, della nouvelle histoire.

[85] G.B. Vico, Opere cit., p. 957.

[86] Ivi, pp. 546-547.

[87] Ivi, p. 1000.

[88] «Secondo un processo di dubbio metodico che proiettava il criterio cartesiano della scepsi metodica alle stesse radici del concetto e della storia della civiltà» (C. Vasoli, Note sul «metodo» e la «struttura» della «Scienza nuova prima», «Bollettino del Centro di Studi Vichiani» 14-15 (1984-1985), p. 32). 

[89] Paradigmatica di questa concezione è la posizione di Lucien Lévy-Bruhl, che però proprio nel designare quella primitiva come mentalità completamente diversa dalla nostra (prelogica, analogica, simbolica, partecipante), si rivela vittima di un pregiudizio etnocentrico che Giuseppe Cocchiara così rilevava: «se da una parte egli isola, come prima cronologico, il mondo primitivo, dall’altra, come è stato più volte osservato, non si avvede che una legge di partecipazione, la quale opererebbe con un principio diverso da quello d’identità, riposa sul presupposto, falso e mal posto, che la sistemazione della natura da parte dell’uomo colto sia assoluta e obiettiva» (G. Cocchiara, Introduzione a L. Lévy-Bruhl, La mentalità primitiva, Torino, Einaudi, 1971, p. XXIII).

[90] G.B. Vico, Opere cit., pp. 541-542.

[91] Cfr. anche E. Leach, Vico and Lévi-Strauss on the origins of humanity, in G. Tagliacozzo (a cura di), Giambattista Vico. An international symposium, Baltimore, The John Hopkins Press, 1969, p. 314, trad. it. di P. Stefani, Le origini dell’umanità in Vico e Lévi-Strauss, in G. Tagliacozzo (a cura di) Giambattista Vico, Galiani, Joyce, Lévi-Strauss, Piaget, Roma, Armando, 1975, p. 107.

[92] È questa la debolezza dell’interpretazione relativistica di Isaiah Berlin. Cfr. I. Berlin, Vico and Herder. Two studies in the history of ideas, London, The Hogarth Press, 1976, trad. it. di A. Verri, Vico ed Herder. Due studi sulla storia delle idee, Roma, Armando, 1978.

[93] G.B. Vico, Opere cit., p. 957.

[94] Cfr. L. Althusser, Est-il simple d’être marxiste en philosophie?, «La Pensée», 183 (1975), pp. 14-16, trad. it. di C. Mancina, Freud e Lacan, Roma, Editori Riuniti, 1981, pp. 143-146.